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Autore: Zughy    18/04/2017    0 recensioni
La lingua ci mise un po’ a ricordare il sapore del terriccio, ancor di più invece quello dell’asfalto. Sapeva di quelle buste di plastica che avvolgevano gli inserti nelle edicole, quelli che ti permettevano di costruire il tuo robot personale, il tuo kit da cucina o collezionare fiori di tutto il mondo
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non ricordai molto, solo un fischio e i tuoi fiori per terra. Li potevo vedere, lì, con la coda dell’occhio riversi sull’asfalto. Non capivo dove mi trovavo, perché il sole picchiava forte o perché non mi ero risvegliato nel mio letto. Di non trovarti al mio fianco, a quello sì, già mi ero abituato. Mi chiesi se tu ne sapessi qualcosa.
Nella bocca potevo sentire i granelli di terra, cercando con la lingua di scoppiarne il più possibile. Ricordavano quelle barrette al mais, ma sui denti stridevano come gocce di limone. Li digrignavo per vedere se ero ancora in grado di muovermi, illuso di essermi addormentato durante il pasto. La lingua ci mise un po’ a ricordare il sapore del terriccio, ancor di più invece quello dell’asfalto. Sapeva di quelle buste di plastica che avvolgevano gli inserti nelle edicole, quelli che ti permettevano di costruire il tuo robot personale, il tuo kit da cucina o collezionare fiori di tutto il mondo. Lo smog, il catrame, le sostanze chimiche: era tutto lì, nell’asfalto. E i tuoi fiori, i tuoi fiori li vedevo fargli compagnia. Soffrii al pensiero.

Volevo allungare le mani per metterli al riparo, ma il fischiare mi annebbiava i pensieri. Partiva da non so dove, se dalla testa o dalle orecchie; mi avvolgeva il cranio, facendo vibrare la vista. Provai ad aspettare. Chiusi gli occhi. E poi, poi arrivarono le macchine: le sentivo in ritmi regolari, attimi caduci come ambulanze al riversarsi per le strade. Sirene sfuggenti, pronte a schiudersi e decedere in quell’aparecchio elettronico nell’orecchio di cui mai ci avevo capito molto. Mi bastavano i tuoi sguardi, i volti dei figli, le smorfie dei bambini, per capire come si sentissero le persone. E certo, mi sarebbe mancato sentire la tua voce, ma era da anni che questo non era più possibile. Ecco, il cinguettio degli uccellini: forse l’avrei barattato solo per quello.
“Signore, sta bene?”
Una voce, mischiata alle sirene. Provai a riaprire gli occhi, ma la testa non ne voleva sapere di girarsi. L’unica cosa che riuscivo a vedere erano persone in lontananza tra lo sfarfallare delle ruote. Andavano come se niente fosse, probabilmente neanche mi vedevano. Il sole era fastidioso e le macchine rimanevano troppo poco per ripararmi da esso. Sembrava di percorrere una galleria, ma ricordavo bene di non esserne più in grado. Né tantomeno erano disposti a portarmi in vacanza.
“Aiutatelo, poverino, io non so come prenderlo.”
Era la voce di una donna: aveva paura. Che fossi stato ferito? Mi mancasse un braccio? Difficile da capire quando l’unica cosa certa era il sapore di petrolio cosparso sui denti.
Sentii due, forse quattro, braccia afferrarmi per tirarmi in piedi. A metà dell’opera un’altra mano si aggiunse a cingermi il petto come un vecchio rottame agganciato da un carroattrezzi. Il fischiare quasi parve il rumore della spia per le operazioni di traino o retromarcia.
“Cos’è successo signora?” le chiesero. Avrei voluto chiederglielo io.
“Passavo di qua e quando l’ho visto inciampare, mi sono accostata.”

Ero… inciampato. Le voci rimasero in una bolla, forse l’apparecchio si era danneggiato. Mi guardai attorno stordito, volli reagire, ringraziare chi mi aveva soccorso, ma… guardai giù. Mi accorsi che non v’erano buche. Ero caduto così, come un idiota, perché così le mie gambe avevano deciso. Immaginai la scena e non riuscii a dire una parola. Mi... faceva male apparire così davanti ai tuoi occhi, l’uomo che un tempo era solito portarti in spalla per miglia ora neanche in grado di mettere bene un piede davanti all’altro. Non era patetico? So che avevi visto tutto da lassù e il non riconoscermi più in quel ritratto che ero stato per te era… molto più denigrante dei bambini di quella donna, persi nel deridermi dietro a un finestrino. “Visto che idiota?” li sentivo sghignazzare. Ogni domenica eri costretta a vedere questo sacco di carni grevi farsi strada fino al cimitero e, sai, proprio perché mi vergognavo, ero solito passare sotto più portici possibili. Così, da lì in alto, tu non mi avresti visto versare le lacrime. Poterti illudere con un sorriso ogniqualvolta sbucavo dagli edifici di questo paesino che andava tutto bene e che queste dalie, il tuo fiore preferito, sarebbero giunte a decorare uno stupido pezzo di pietra. Eppure, oggi… oggi mi hai visto per ciò che realmente sono: un frutto degli anni più duri, dove percorrere queste strade senza di te non ha mai aiutato. Immagino di percorrerle con te, ma l’unico incontro concessoci è quello davanti un epitaffio o quello che i nostri nipoti ogni tanto tirano fuori alla domanda: “Com’era la nonna?” E poi, sentirmi dire da nostra figlia: “Lasciate stare il nonno che è stanco”, come se soffrissi di qualche demenza acuta o non fossi in grado di aprir bocca se non per sbavare. Sembra che queste rughe scandiscano il tempo ergendo barriere che sanno di muffa. Spero tu abbia perso le tue, lassù. Così, ti tratteranno con più riguardo.
Ma non preoccuarti, nel frattempo ci penserò io, come ho sempre fatto.

 
   
 
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