Disclaimer: i personaggi sono © di Jun Mochizuki.
Le frasi italiane in corsivo
(escluso il finale) sono la traduzione della canzone “Birdcage” di Gackt.
Le parti in grassetto
(escluso l’inizio e la fine) sono © del manga.
Il corsivo inglese è una
frase della canzone “Goodbye, Yesterday”, ending dell’anime Romeo X Juliet.
Note: tralasciando il fatto che il titolo è stato un parto,
finalmente mi tolgo questo sassolino dalla scarpa di fare una oneshot su Jack.
Che poi ci abbia messo di
mezzo almeno altri 4 personaggi è un dettaglio.
Preciso che tutto quello che
riguarda i ricordi presenti nella shot è una mia invenzione, dunque essi non
costituiscono spoiler.
Ringraziamenti: a Raven (Yoko891) per il betaggio e l’aiuto sul titolo
(la nostra empatia è sempre più inquietante XD) <3
A Doremichan per aver
letto e commentato “Wanna play?” (penso che mi ci vorrà ancora un po’ per
abituarmi a scrivere di Vincent, ma sono contenta che questo mio primo
tentativo ti sia piaciuto ^^)
I
want you to see (the worst of me)
Picchiettava con il piede sul
pavimento in legno, piuttosto velocemente, rendendo il rumore abbastanza
irritante salvo per le persone con un certo autocontrollo.
Tutto il nervosismo del
momento lo stava scaricando in quell'unico gesto e movimento, quindi dal suo
personale punto di vista ci mancava solo che qualcuno si azzardasse a dirle
qualcosa in merito.
D'altra parte, questo rischio
era lontano dal divenire reale: divideva la stanza soltanto con Sharon e quella
tipa sembrava per la maggior parte delle volte imperturbabile. Fino a quel
momento si era limitata a rimanere seduta composta come si conveniva ad una
ragazza abituata a vivere in un certo ambiente, le mani per lo più in grembo o
a tenere elegantemente la tazza di thé ora posata sul tavolino che le separava.
Con le braccia incrociate al
petto, Alice alternava lo sguardo nervoso tra lei e la porta chiusa oltre la
quale quel dannatissimo pagliaccio di Break era sparito da ormai un buon quarto
d'ora.
Quanto cavolo ci mettevano
lui e il vecchiaccio - altresì conosciuto come Oscar Bezarius - ad uscirne?!
«Alice, si tratta soltanto di
febbre.» la tranquillizzò Sharon con tono pacato. Vero, era alta e durava da un
paio di giorni, ma tutto sommato, osservando la situazione con freddezza e
razionalità, non c'era ancora di che preoccuparsi.
Qualche giorno di febbre alta
poteva capitare, dopotutto.
«Chi ti ha chiesto niente.»
borbottò, fissandola di sottecchi.
La bionda le sorrise con la
stessa pacatezza di poco prima: «Ti ho vista preoccupata e ho pensato fosse il
caso di tranquillizzarti.» rivelò.
Alice assunse la solita aria
strafottente mista ad una sufficienza ostentata: «Figurarsi! E' solo seccante
dovermi adeguare a tutte le debolezze di voi umani!» ribatté a tono, voltando
poi stizzita il viso dall'altra parte e suscitando in Sharon una risata leggera
e divertita.
L’altra scostò la mano
portata a coprire educatamente la bocca, per replicare.
«Oh, meglio così allora. Non
è facile tranquillizzare le persone in casi come questi, quindi meglio averne
una sola di cui occuparsi, piuttosto che due.» commentò, accennando appena con
il capo alla porta.
Alice sbuffò: «Tsk, non
paragonarmi a testa d'alga!» esclamò indignata, quasi.
Sharon ridacchiò mentre la
porta si apriva e Break ed il signor Oscar ne uscivano; l'aria perennemente
divertita uno, e tranquilla e distesa l'altro.
Si richiusero la porta alle
spalle e, rendendosi conto dal fare innervosito che Alice non avrebbe mai
chiesto nulla, Sharon lo fece per lei: «Oz-sama è migliorato, Break?» domandò
la bionda.
L'altro, smettendo di
giochicchiare con Emily, ridacchiò: «Il medico ha detto al piccolo Gilbert
qualcosa, ma lui è antipatico e non ha voluto dirmela.» rivelò con quel suo
inquietante modo di parlare come un bambino offeso.
Sharon sospirò quasi
all'unisono con Oscar, al quale rivolse lo sguardo in una tacita ripetizione
della domanda.
«Si tratta probabilmente di
una febbre dovuta allo stress fisico. Di conseguenza, con il riposo dovrebbe
pian piano scendere.» spiegò brevemente: «Gilbert ha preferito rimanere.»
aggiunse.
Sharon sorrise: «Non avevo
dubbi, era così agitato che supponevo non avrebbe lasciato il fianco di
Oz-sama.» commentò con naturalezza.
Oscar sospirò, portando una
mano fra i capelli, a grattare distrattamente la testa con fare stanco: «Ma
anche troppa preoccupazione non va bene. Fortunatamente so che Break lo ha
obbligato a riposare. Non permettetegli di perdere il sonno per vegliare mio
nipote, per favore.» si raccomandò, il fare paterno.
Sharon annuì semplicemente,
mentre Break ridacchiava.
«Non si può certo essere così
stupidi, è troppo persino per Raven.» commentò Alice, visibilmente meno nervosa
dopo il resoconto di Oscar.
Questi sorrise, una punta di
divertimento nel rivolgerle un occhiolino complice: «Gilbert è capace di tutto,
se si tratta di Oz.» disse semplicemente.
Si voltò quindi per
rivolgersi a Sharon, mentre Alice osservava la porta chiusa colpita dalle
parole dell'uomo, malgrado lo nascondesse, chiaramente.
Schioccò le labbra con
stizza; chissà perché gli esseri umani erano sempre così stupidi.
Quasi non si muoveva, lo
sguardo dorato fisso sulla figura di Oz sdraiato sotto le coperte del letto a
baldacchino. Lo osservava come se dovesse imprimersi nella propria mente la sua
figura un istante prima che questa potesse scomparire, neanche stesse per
tornare in quell’Abisso che glielo aveva portato via già una volta.
Il respiro del più giovane
era leggermente velocizzato, le guance appena arrossate a causa dell’alta
temperatura che lo aveva ridotto a letto da ormai quasi due giorni, senza mai
dargli un attimo di tregua.
Inizialmente era stato tutto
decisamente allarmante: senza il minimo preavviso, il minimo sintomo, mentre
camminavano al mercato, Oz aveva mugugnato in segno di disapprovazione
strizzando appena gli occhi.
Raven si era voltato verso di
lui appena in tempo per vederlo sbiancare e svenire, evitandogli per il rotto
della cuffia un improvviso contatto ravvicinato con la strada.
I mercanti più vicini si
erano avvicinati per chiedere se stesse bene o cosa fosse successo e, nel
momento in cui anche scuotendolo il suo giovane signore non si era ripreso,
Raven aveva mollato tutto lì, senza nemmeno darsi pena di dire ad Alice qualcosa
più di un: «Muoviamoci.» sibilato a denti stretti.
Aveva preso quindi Oz di peso
ed erano tornati indietro. Quando Break aveva chiamato il medico, il più
piccolo aveva già una temperatura troppo alta perché Raven potesse anche solo
pensare di non farsi prendere dal panico.
Il dottore, un uomo sulla
cinquantina assolutamente non responsabile delle condizioni in cui versava Oz,
gli era parso troppo lento nei suoi gesti di controllo, troppo approssimativo
sulla salute del suo giovane signore per non innervosirlo al punto tale da
costringere Break a mandarlo fuori dalla stanza.
Cosa che, in ogni caso, non
era riuscito ad ottenere: il compromesso era stato tenere Raven in un angolo,
lontano dal letto, per tutta la durata della visita.
Il responso era stato quantomeno
tranquillizzante: a detta del medico si trattava di uno stress fisico eccessivo
che aveva causato quel brusco aumento di temperatura. Aveva consigliato riposo
assoluto e prescritto medicinali per una qualsiasi febbre, il che lasciava
supporre che la situazione non fosse grave quanto era sembrata inizialmente.
Da allora, Raven non si era
mosso dalla stanza di Oz, tollerando appena l’intrufolarsi di Break la sera
prima per obbligarlo a mangiare e dormire in maniera decente e lontano da lì.
Seppur riluttante, l’altro
non aveva avuto scelta.
Ora lo osservava, prendendo
ad intervalli più o meno regolari il panno bagnato che rinfrescava la fronte
del biondo per immergerlo nell’acqua fresca della bacinella posta sul comodino
e, meccanicamente, posarlo nuovamente sulla fronte di Oz.
Gesti identici, distanziati
da un intervallo di tempo che mutava di ben poco – un secondo in più, due
secondi in meno – che in qualche modo rendevano meno pressante l’ansia e la
rabbia.
Non era un mistero, cosa
implicasse “l’eccessivo stress fisico”.
Non era così stupido e non
riteneva tali né Break, né Sharon; era palese che fosse a causa di quella
lancetta che aveva cominciato a segnare il tempo, con lentezza quasi crudele.
Quel tempo limite, quello che
mancava prima che l’Abisso glielo portasse via di nuovo.
Indurì appena lo sguardo: Oz
aveva ragione. Erano passati dieci anni, ma in cosa era cambiato?
Era ancora quel ragazzino
codardo e impotente, che di nuovo avrebbe guardato quel mostro portar via la
persona che amava di più.
Senza fare nulla.
Nemmeno stavolta.
***
Nella luce, vidi i miei ricordi di gioventù.
Erano ancora troppo lontani per me,
disgustosi come sono io ora.
Non sono chi credete io sia.
Aprì gli occhi, infastidito
appena dalla luce della stanza.
Si sentiva spossato e
pesante, in qualche modo, e ricordava ben poco di come fosse finito lì.
La sua mente non faceva un
maggiore sforzo che riportargli qualche immagine confusa del mercato e della
figura di Gilbert che camminava davanti a lui.
Immagine fastidiosamente
sempre più sfocata, avvertendo la sensazione di un giramento di testa dopo il
quale il buio inghiottiva qualsiasi altro eventuale ricordo.
Probabilmente aveva perso i
sensi.
«È una cosa normale. Accade
perché il tuo tempo sta diminuendo.» sentì pronunciare poco lontano, alle
proprie spalle. Voltandosi istintivamente, non poté nascondere un’espressione
stupita nel riconoscere il primo luogo intravisto nei ricordi di Alice. Quella
stanza circolare piena di giocattoli grotteschi, dove una Alice vestita di
bianco lo aveva certamente scambiato per qualcun altro.
Riconobbe quella tenda appena
scostata, che sembrava voler invitare e celare al tempo stesso.
E vi riconobbe la sagoma che
vi era nascosta, la voce che aveva pronunciato quelle parole: si ritrovò a pronunciarne
il nome inconsciamente.
«…Jack?» bisbigliò appena, ma
quel luogo sembrava incapace di mantenere segreti sussurrati per non essere
uditi da altri.
Quasi poté immaginarlo
sorridere quando parlò di nuovo: «Questo è un incontro singolare, fra noi, vero
Oz?» gli sentì chiedere, mentre si scostava da dietro la tenda, avvicinandosi a
lui e lasciando che tutta la sua figura fosse riconoscibile.
Oz non comprese il
significato di quella frase: non erano singolari tutti i loro incontri, anche
solo per il semplice divario di tempo in cui si collocavano le loro esistenze?
Vide Jack sorridere, e di
nuovo ebbe quella sensazione di poter essere letto come un libro aperto
dall’altro. Gli dava in qualche modo fastidio, e in un altrettanto strano modo
quasi lo rassicurava, forse.
«Intendo dire che non ci
siamo mai incontrati in sogno, se la mia memoria da vecchietto non mi inganna,
giusto?» chiarì meglio.
Oz annuì, sorridendo
istintivamente, senza forzature a cui spesso ricorreva.
«Come mai stavolta ci
incontriamo in questo modo?» indagò, osservandolo. Notò Jack fargli cenno di
accomodarsi su un divanetto che poco prima non aveva visto. O almeno credeva.
«Non stai tanto bene, temo.»
rivelò, nel tono una certa dolcezza, come a volerlo rassicurare: «Gilbert è
piuttosto preoccupato per te.» aggiunse.
Oz, che si era seduto, spostò
appena lo sguardo, scrollando le spalle: «Aaah, tipico di Gil. Lui si preoccupa
davvero troppo.» sospirò, come se fosse ormai abituato.
Jack lo osservò, in piedi di
fronte a lui: «Credo che questa volta sia un po’ diverso. E ad ogni modo,
curati ugualmente di lui quando ti sveglierai.» si raccomandò, stupendo un poco
l’altro a dir la verità.
I consigli di Jack gli
suonavano strani.
«Sembra che io non abbia più
tanto tempo e che tu mi stia consigliando di approfittare degli ultimi
momenti.» gli fece notare, con quel sorriso in quel momento fuori luogo, ed
un’istintiva nota di incredulità, seppur lieve.
Forse era normale: un
quindicenne difficilmente pensa a quando morirà.
E un quindicenne come Oz probabilmente
era un soggetto ancor più complesso di un normale coetaneo.
Jack socchiuse gli occhi con
aria tranquilla, riaprendoli per osservare l’altro.
Tese una mano verso di lui:
«Vieni. C’è una cosa che voglio mostrarti.» disse, aspettando fiducioso che il
più piccolo prendesse la sua mano lasciandosi guidare da lui.
«È oscura, e potrebbe
spaventarti. Potresti sentirti male, e provare un po’ di disgusto. Potresti
aver voglia di piangere, e provare paura. Ma non preoccuparti. Non lascerò
andare la tua mano fino al tuo risveglio.» lo redarguì, rassicurandolo al tempo
stesso.
Sembrava l’eroe
dell’introduzione di una fiaba dalle tinte fosche, di quelle che “favole” non
sono e che i bambini non dovrebbero ascoltare.
Gli strinse la mano,
alzandosi: «È un posto così brutto?» domandò.
L’altro sorrise fino a
condurlo dietro quella tenda oltre la quale a volte si era nascosto, ed altre
ancora era scomparso come un’illusione.
«Non proprio. È soltanto il
passato.»
Aveva impiegato qualche
istante perché gli occhi si abituassero alla luce di quel posto.
La penombra che aveva
nascosto il viso di Jack dal loro primo incontro gli aveva lasciato supporre
che, oltre quella tenda, fosse piuttosto buio.
E invece, dopo pochi passi,
si erano ritrovati entrambi in quel giardino visto la seconda volta che, con
Gilbert, erano incappati in un ricordo di Alice.
L’assenza di alberi lasciava
che la luce del sole – un’illusione, un ricordo, eppure sentiva il calore dei
raggi su di sé – illuminasse completamente quel luogo sconosciuto e familiare
allo stesso tempo.
Istintivamente portò lo
sguardo in direzione del punto in cui l’ultima volta aveva visto proprio Jack.
…e lo ritrovò lì.
Spostò lo sguardo su Jack al
suo fianco, sentendo ancora la sua mano tenere la propria come promesso; non
poté evitare un’espressione confusa, mentre l’altro sorrideva.
«Quello è il me stesso di una
volta.» spiegò con pacatezza, mentre Oz annuiva impercettibilmente e riportava
lo sguardo in quel punto.
Quel Jack si chinava verso
una delle siepi e… ci si era appena infilato con tutta la testa!
«Ma…» fece per dire qualcosa
che lo vide uscirne di nuovo, i capelli immancabilmente scompigliati e coperti
di foglie e un paio di rametti, il viso con qualche graffietto leggero.
L’espressione che gli vide ad
Oz ricordò quella di un bambino, mentre quel Jack che osservavano entrambi
tirava fuori dalla siepe anche le braccia e le mani, e fra esse un gattino
nero.
Lo vide ridacchiare,
pulendolo dalle foglie.
Il Jack al suo fianco
ridacchiò quasi ad imitazione dell’altro: «Quel gattino che vedi è Cheshire.»
gli rivelò.
Oz, pur tornando ad osservare
quella scena, si chiese cosa ci fosse di spaventoso in Cheshire in quello
stato.
Non poté indagare oltre, però,
che lo scenario di fronte a lui scompariva, lentamente, come le parole di un
libro che col passare del tempo sbiadiscono fino a risultare illeggibili.
Eppure, al tempo stesso,
nuovi colori e un nuovo scenario apparivano al loro posto.
«Cambia sempre in questo
modo. Si tratta solo di farci l’abitudine.» lo rassicurò Jack con tono
tranquillo.
Oz lo osservò, chiedendosi se
fosse il caso o meno di fare quella domanda.
Alla fine, fu più forte di
lui: «Sono ricordi… molto vecchi?» domandò, non sapendo esprimere meglio il
pensiero che aveva in testa.
Jack annuì, lo sguardo sul se
stesso che lentamente si delineava sempre più marcatamente davanti a loro.
«Sono ricordi molto lontani.
Sono quelli che precedono due tragedie. Quale fu la più drammatica… non so
dirlo ancora oggi.» replicò.
Ed Oz si chiese se parlasse
della tragedia per la quale Jack Bezarius era un eroe.
Nell'oscurità,
ho chiamato il tuo nome ancora e ancora
Nel tempo infinito,
non c'è
nessuno tranne te.
Io…
Portò lo sguardo di fronte
allo scenario finalmente completo, notando che non vi era nessuno.
Non era più il giardino di
prima, ma pur sempre uno spazio verde. Era però palese che non si trattasse di
una tenuta curata: l’erba era appena alta, e gli alberi molto meno frequenti.
«Che posto è?» gli venne
spontaneo chiedere, cercando qualche elemento familiare che non trovò, com’era
immaginabile.
«Un luogo in cui stavo spesso
da ragazzo.» ammise con tono divertito quando pronunciò quell’ultima parola:
«Si tratta di uno spazio verde mai toccato dall’opera umana. Non era molto
distante dalla tenuta dei Baskerville.» spiegò.
Oz fu sorpreso: non sapeva
che i Bezarius una volta fossero in rapporti tali con i Baskerville da visitare
la tenuta e i posti che la circondavano.
Probabilmente Jack fu abile
abbastanza da riconoscere quello stupore: «Lo so, è un po’ strano per te. La
storia è stata un’insegnante poco… obiettiva, possiamo dire.» disse, in parte
criptico.
Allungò la mano che non
teneva quella di Oz, indicando davanti a sé, uno degli alberi più vicini.
«Osserva. Inizia un racconto
che voglio mostrarti.» mormorò piano, come per non disturbare nessuno – quel
nessuno che non esisteva nemmeno.
Oz fissò davanti a sé, e
nuovamente un Jack appartenente ai ricordi apparve davanti a lui.
Lo vide correre, sebbene non
troppo veloce, guardandosi intorno alla ricerca di qualcosa o qualcuno che
sembrò individuare proprio in quell’albero vicino.
Si avvicinò più piano e
silenziosamente, poggiando le mani sul tronco e affacciandosi quindi
lateralmente; Oz intravide qualcun altro, ma da quell’angolazione vederlo
perfettamente in viso era piuttosto difficile.
«Ti ho trovato, ti ho trovato
Glen!» sentì canticchiare a quel Jack, il sorriso contento sulle labbra. Non
poté vedere l'espressione della persona chiamata Glen, ma colse la risposta.
Era una voce profonda e
apparentemente affiancabile ad una figura austera, appartenente probabilmente
ad una persona piuttosto seria, o rigida.
Il tono, tuttavia, non
sembrava seccato dalla presenza del biondo: «Come mai tanto entusiasmo?» gli
sentì domandare, mentre il Jack che gli si era rivolto si sedeva sull'erba,
senza curarsi di stare attento ai vestiti e a non sgualcirli, stiracchiandosi
prima di poggiare la schiena al tronco dell'albero.
«Perché ti stavo cercando!»
esclamò con ovvietà nel tono di voce. Oz, dalla sua posizione, lo vide
sporgersi appena verso Glen.
«Sarei comunque rientrato,
sapevo della tua visita. Non sono scortese al punto da far attendere un ospite
che io stesso ho invitato.» gli fece notare con una certa razionalità nel modo
di esprimersi.
Jack ridacchiò, rilassandosi
contro l'albero, una mano portata a giocherellare con l'erba: «Significa che
sei contento di vedermi?» chiese, estrapolando dalla frase dell'altro un
concetto tutto suo, che però Glen non negò.
Oz alzò lo sguardo su Jack,
al proprio fianco, il quale ricambiò l'occhiata: «Cosa vuoi chiedermi?» gli
domandò, intuendo qualcosa, forse.
«Eravate amici?» chiese, non
sapendo bene fino a che punto potesse fare domande senza rischiare di sfiorare
una parte del cuore di Jack che fosse troppo fragile.
Ma lui sorrise,
semplicemente: «Non un amico qualunque. Il mio migliore amico.» lo corresse,
nel tono quella nota dolce che viene istintiva nel parlare delle persone a cui
si tiene.
Non chiese altro, Oz,
distratto dalla voce appena più alta del Jack dei ricordi che attirò la sua
attenzione: «Glen, non sarai troppo asociale?» stava prendendo in giro l'altro,
ora entrambi in piedi.
In quel modo, Oz riuscì a
vedere Glen andare a scompigliare in maniera piuttosto moderata i capelli di
Jack, in un gesto forse meno enfatico di com'era solitamente, ma indubbiamente
dalla sfumatura quasi fraterna.
Gli venne da sorridere,
mentre lo scenario sbiadiva piano in quello che, seppur con qualche istante di
ritardo, già iniziava a riconoscere come la fine di un ricordo e l'imminente
inizio di un altro.
Oz si chiese quanti e quali
ricordi Jack volesse mostrargli.
Ma, anche quella volta, il
più grande lo anticipò in qualche modo: «Devo scusarmi con te, Oz.» gli sentì
dire, ritrovandosi nuovamente ed immancabilmente confuso dalle sue parole.
«Perché?» fu l'ovvia
richiesta, mentre qualche nuova sagoma si formava.
«Vorrei scusarmi perché anche
se dopo avrà un senso, i miei ricordi sono estremamente banali e monotoni,
temo.» ammise, con un sorriso leggero di scuse.
Oz scosse la testa, ma prima
che potesse parlare riconobbe in quel nuovo ricordo ancora non del tutto
formato la figura di quel Glen, il viso nuovamente poco visibile.
«I miei ricordi sono pregni
quasi unicamente di una sola persona. Per questo temo di annoiarti, ma tu porta
pazienza, se puoi.»
Ho strappato via un singolo,
umido petalo da un'ortensia.
Galleggia in una pozzanghera,
e mi ricordo di te.
...ho ucciso il mio migliore amico.
Aumentò il passo,
perennemente di fretta e questa volta probabilmente anche in ritardo.
Avanzava per un corridoio, un
mazzo di fiori stretto forse un po' troppo nella sinistra, sfrecciando accanto
ai servitori e salutandoli distrattamente con un cenno o un sorriso.
Si fermò solo in prossimità
di una porta come tante che aveva passato in quello stesso corridoio.
Tentò di regolarizzare il
respiro eliminando il leggero fiatone venutogli nell'avanzare così
frettolosamente.
Infine, bussò educatamente un
paio di volte, aspettando il permesso dell'occupante della stanza prima di
aprire e fiondarsi dentro.
Oz si lasciò guidare da Jack
in quella stessa stanza, scombussolato dall'aver attraversato la porta anche
quando il Jack di quel ricordo gliel'aveva appena chiusa in faccia.
«Glen! Stai bene?» sentì
chiedere al biondo, una palese sfumatura preoccupata nel tono di voce mentre
avanzava verso il letto a baldacchino nella stanza.
Coperto da lenzuola candide
ed una coperta, una camicia bianca appena sbottonata, Glen Baskerville era voltato
a guardare fuori dalla finestra.
«Sto bene. E' solo una
caduta, non facciamone una tragedia.» replicò, appena seccato.
Vide Jack guardarlo con
espressione dispiaciuta, stringendo appena i fiori: «Scusami.» mormorò, un
sorriso dispiaciuto ad incurvargli le labbra.
«Mi avevano detto che non
volevi vedere nessuno, è solo che... non riuscivo a calmarmi, se non ti vedevo
e non mi accertavo che stessi bene davvero.» concluse.
Oz non ne era sicuro, ma gli
parve di scorgere Glen sospirare, facendo poi cenno a Jack di prendere posto
sulla sedia poco distante dal letto.
Approfittò di quella
"pausa" per guardare il Jack al proprio fianco: «Siete... eravate
diversi.» si corresse, riferendosi al carattere.
Vide Jack ridacchiare piano,
sommessamente: «Moltissimo. E proprio per questo, probabilmente, così legati.
Non credi anche tu?» gli chiese, osservandolo per qualche istante con sguardo
complice, prima di spostare nuovamente le iridi chiare sulla scena di fronte a
loro.
Oz lo imitò, ritrovando il
Jack del ricordo seduto accanto al letto di Glen.
«Io... ti avevo portato dei
fiori, ecco. Sono di alcune ortensie che a casa Bezarius stanno crescendo
meravigliosamente. Per questo ho fatto tardi. Il giardiniere proprio non voleva
saperne di tagliarne qualcuna, e allora...» sentì spiegare, ma ebbe
l'impressione che quel Jack stesse più che altro blaterando a disagio per non
sapere cosa dire all'amico che era parso di evidente malumore.
«Glen, a volte» sentì dire al
Jack al proprio fianco: «era difficile da capire. Non sapevi come prenderlo,
era difficile anche per me che ero il suo migliore amico. Ma sempre... sempre
lui sapeva come fartelo capire.» rivelò, con affetto nel pronunciare quelle
parole.
Oz alternò lo sguardo fra i
due Jack per essere certo di non perdere nulla di quel che dicevano.
«Cosa?» domandò, in maniera
nuovamente scontata, forse.
«Che gradiva la tua presenza
al suo fianco.» disse mentre Oz, un attimo dopo e per pura fortuna, ascoltava
le parole di Glen rispecchiare quella risposta data con naturalezza.
«Solo perché non voglio
vedere nessuno,» gli sentì pronunciare verso un Jack preoccupato probabilmente
di essere scacciato: «non significa che non abbia piacere di vedere te.»
concluse.
Ed Oz non poté fare a meno di
notare, per quanto non conoscesse affatto quel tipo, che riservava a Jack un
riguardo palpabile proprio attraverso quelle parole.
Parole che non erano casuali
come potevano sembrare, ma erano scelte con la stessa cura con cui manteneva
una cortesia così speciale verso il biondo.
Erano parole che sembravano
sussurrare con gentilezza che Jack, per lui, non era "nessuno".
Abbassò lo sguardo, per un
attimo sentendosi quasi fuori luogo, come se non fosse giusto che lui
osservasse quel ricordo.
Sentì una mano posarsi sulla
propria testa e fu consapevole del fatto che era senz'altro del Jack al suo
fianco: «Far sentire le persone a cui teniamo importanti, non è facile come
sembra. A volte, dire a qualcuno che lo amiamo dal profondo del cuore non è
sufficiente. E per molte persone pronunciare una frase simile è quasi
impossibile. Ma non vuol dire che non ci amano, non pensi?» osservò con
gentilezza, posando lo sguardo sul più piccolo e ritirando la mano.
Oz annuì, anche se la figura
di suo padre per un istante gli sibilava con voce affilata e crudele che in
alcun modo, nessuno mai avrebbe potuto amarlo nel modo a cui accennava Jack.
«Oh, sta cambiando di nuovo.»
sentì dire al più grande, ritrovandosi ad osservarlo di nuovo.
«Sai Oz, osservando il Glen
di quel ricordo pensavo...» iniziò, lasciando per un attimo in sospeso, il
tempo di portare lo sguardo su Oz con un sorriso cortese ma in qualche modo
enigmatico, tipico di chi chiede qualcosa che già sa o ha già capito: «...non
somiglia a Gilbert, forse?»
Dal gentile cielo piangente,
sento anche la tua voce.
Ho riso attraverso le lacrime raccolte,
ma non sono riuscito a vedere nulla.
Per favore...
Non aveva risposto a quella
domanda.
In realtà, in qualche modo –
abbastanza contorto, probabilmente – poteva anche esserci quella somiglianza
indicatagli da Jack.
Se poi pensava alle sue
parole – E per molte persone pronunciare una frase simile è quasi
impossibile. Ma non vuol dire che non ci amano, non pensi? – Gilbert
sembrava collimare con quella descrizione in maniera così esatta, che Oz si
chiedeva… cosa c’era dopo?
Se Gilbert era simile a Glen,
se Jack veniva scambiato per lui, cosa c’era sotto?
Perché Jack gli mostrava
eventi di un passato che non lo riguardava? Gli indicava un errore.
Forse gli suggeriva dove non
sbagliare.
Forse gli stava…
«Padron Jack, è tutto a
posto?» sentì chiedere ad un servitore del nuovo ricordo formatosi di fronte a
loro, mentre il Jack chiuso in una stanza sottolineava che era tutto regolare e
di andare pure, mentre quello al suo fianco lo tirava appena, guidandolo verso
quella porta che per loro non era un ostacolo.
E lo oltrepassarono, da un
corridoio ad una stanza; uno spazio piuttosto grande eppure in quel momento
quasi anonimo malgrado si trattasse palesemente di una camera da letto.
Un Jack vicino alla finestra che
ad Oz parve, per un attimo, un completo estraneo.
«Non preoccuparti. Va tutto
bene.» gli sussurrò rassicurante il biondo al suo fianco, ma guardando quello
seduto accanto alla finestra, il cui sguardo vagava senza una meta precisa
fuori da lì, ad Oz non parve affatto così.
Era uno sguardo che aveva già
visto.
Apparteneva al suo passato e
non lo avrebbe mai scordato: ad esso erano legati i due ricordi più dolorosi
che aveva; il rifiuto di un padre amato e il pianto di un amico che avresti
voluto proteggere.
«Padron Jack, siete sicuro?»
sentì nuovamente chiedere al servitore, probabilmente rimasto fuori dalla porta
malgrado la prima rassicurazione del suo signore.
Vide il Jack alla finestra
osservare la pioggia fuori da essa stancamente, sospirando e alzandosi.
Si avvicinò alla porta,
socchiudendola un poco e sorridendo un attimo prima di risultare visibile al
servitore attraverso quel piccolo spazio: «Sì, davvero, sto bene. Vi prego, non
preoccupatevi per me. Avvisereste mio padre che sono piuttosto stanco? Non
credo di poter cenare con lui, ma domani certamente non mancherò.» assicurò, il
sorriso leggero lì, sulle labbra.
Ci fu uno scambio minimo a
seguito del quale Oz lo vide richiudere la porta, premurandosi di girare la
chiave nella serratura, facendola scattare e assicurandosi quindi la solitudine
che a lui era parso ovvio ricercasse.
L'attimo dopo, mentre notava
quasi distrattamente che il Jack al suo fianco ancora gli teneva la mano - il
peggio stava arrivando? O era ancora più avanti? - vide l'altro tornare sui
propri passi, sfiorando con una mano la scrivania a metà strada fra la porta e
la finestra.
Si fermò, osservando la
superficie lignea, chiara; Oz lo vide.
Lo stesso orologio che si
trovava nella sua tasca sinistra.
Quello che ora Jack faceva
scattare, e aprire, e la melodia partiva come una ninna nanna di tristezza che
sussurra dolcemente che indietro non si può tornare.
«Cosa...?» fece per chiedere,
voltandosi lateralmente a guardare Jack al suo fianco; lui gli sorrise, un
sorriso mesto che non sapeva di felicità o di una nostalgia dolce, di quelle
che si provano per i bei ricordi.
Sapeva di rimpianto e senso
di colpa, e Oz si chiese se per caso Jack ora non sarebbe scomparso, in
frantumi come lo scenario di uno dei primissimi ricordi di Alice, come uno
specchio che si rompe in mille pezzi.
Si rivolse a lui, chinando
appena il capo, lasciando che la frangia bionda coprisse per la prima volta
parzialmente il suo sguardo.
«Questo è... l'orrore
dell'anima di Jack Bezarius.» gli sentì pronunciare, mentre un rumore di
qualcosa di fragile che si frantuma gli arrivava all'orecchio.
E nella fretta di tornare a
guardare lo scenario, e di scostare lo sguardo da Jack al suo fianco, Oz non
avrebbe saputo dire se quel rumore provenisse dalla brocca di vetro che nel
ricordo era stata fatta cadere, o se si trattasse del cuore di Jack.
Vide il più grande, quello
del ricordo, chinarsi vicino al comodino, alla destra del letto.
Allungò una mano a
raccogliere i pezzi di vetro, la moquette rossa bagnata dall'acqua rovesciatasi
un attimo dopo la rottura della brocca.
Gesti meccanici e un taglio
procurato in maniera così banale da sembrare la scontata scena di un libro.
Gocce di sangue
irriconoscibili sulla moquette di quel colore.
E gocce di acqua salata che
non sono pioggia.
Se è un racconto, se è solo
l'ennesimo atto di uno spettacolo, prestate attenzione signori; l'eroe,
inevitabilmente, inizia la sua decadenza.
Senza più le virtù che lo
rendono un falso Dio, solo nella stanza che mantiene ogni suo segreto, ora si
svela a voi dando prova del peggio di sé.
Compatitelo, giudicatelo, ma
non perdonatelo; gli eroi che si macchiano del peccato non vogliono il perdono.
Loro desiderano... soltanto
la morte.
«Se solo... se solo fossi
morto io al suo posto! Se soltanto io non fossi mai nato!» lo sentì gridare,
quasi tuonare in quella stanza avvolta nel silenzio, mentre la sua voce - non
era una voce quella, era solo disperazione senza un vero e proprio nome -
copriva quella melodia che pareva ormai scomparsa.
Ed Oz comprese.
Jack Bezarius non era un
eroe; era soltanto una persona terribilmente triste.
Non posso tornare mai più a quel tempo,
quando stavamo ridendo.
...per favore, non chiamatemi "eroe".
Oz rimase in silenzio, lo
sguardo che si rifiutava quasi di spostarsi dalla figura di Jack.
E per una volta, non era
Gilbert a scambiare il più grande per Oz; proprio quest’ultimo lo guardava da
lontano, senza essere visto e si disse che si somigliavano.
Non erano i capelli biondi
che differivano solo in lunghezza, né gli occhi verdi – così uguali, anche se i
suoi non erano umidi.
Oz osservava un Jack
inginocchiato a terra e si rendeva conto che erano così simili, nell’inutile ed
umiliante tentativo di non piangere e nell’altrettanto vergognoso desiderio di
farlo, fino a che non saranno senza forze.
Osservava l’eroe che aveva
fatto dei Bezarius una famiglia importante, e si chiedeva se non fosse un
malinteso, un errore; si chiedeva se era giusto.
Lui che del giusto e dello
sbagliato non si era mai preoccupato, proprio Oz Bezarius che commetteva un
peccato solo vivendo e malgrado questo non si dava la pena di pensare di
morire, si chiedeva se tutto quello non fosse terribilmente sbagliato.
Si chiedeva se… non si
sarebbe ripetuto ancora.
Forse, Jack non gli mostrava
il passato.
Forse gli stava mostrando un
futuro destinato a ripetersi.
«Ridammelo! Ridammi indietro
il mio migliore amico! Ridammi Glen!» lo sentì urlare, mentre una forza strana
e invisibile, che non sapeva cosa fosse, lo spingeva indietro e indietro, e
pesava sulle spalle e sullo stomaco come un macigno.
Jack era così disperato, che
Oz si ritrovò a pensare che sarebbe anche potuto morire, soltanto ascoltando
tutto quel dolore.
Sentì una mano posarsi sulla
propria spalla e, atterrito, spostò gli occhi chiari sul Jack al suo fianco.
Ne notò il sorriso, di quelli
così semplici e così inadatti. Ne notò lo sguardo, su di sé, che lo osservava
con quella che sembrava compassione e che, tuttavia, poteva essere semplice
preoccupazione.
Oz non era in grado di
capirlo.
«Mi dispiace.» fu l’unica
cosa che sentì dire a Jack.
Scuse più affilate di una
spada e un tono gentile che ferisce molto più di un sibilo tagliente
pronunciato con disgusto.
Disperazione alle tue spalle
e braccia che con gentilezza ti circondano in un abbraccio.
Confusione.
E la voce che ti sussurra che
andrà tutto bene: «Le mie verità… quanto l’anima di Jack Bezarius sia macchiata
e sporca… non farne parola. È il segreto che io condivido unicamente con te.»
lo sentì bisbigliare, mentre una mano gli accarezzava piano la testa, con fare
rassicurante.
Perché glielo aveva mostrato,
sapendo di cosa si trattava?
«Perché… dovevi mostrarmelo?»
mormorò piano, ogni singola parola più pesante del piombo, così pesante che
rendeva difficile anche respirare.
«Perché dovevi imparare.»
sentì bisbigliare di rimando: «Impara, Oz. Impara che il tempo è uno soltanto e
non torna più indietro.»
***
Bagnò nuovamente il panno
nell’acqua fredda, strizzandolo e poggiandolo poi con attenzione sulla fronte
di Oz.
Il respiro sia era
velocizzato in alcuni frangenti e aveva mugugnato qualcosa di strano ed
incomprensibile negli ultimi minuti.
Classico delirio da febbre.
Meno classico – ma
altrettanto ovvio – attacco di panico silenzioso di Gilbert.
Picchiettava il piede
impazientemente, per terra, dandosi quasi fastidio da solo; e allora si alzava
dalla sedia, prendeva a passeggiare per la stanza, le orecchie tese senza
accorgersene, gli occhi che saettavano impazienti su Oz.
Un minimo movimento diverso,
un intervallo maggiore fra i respiri e lui era lì, veloce, di nuovo seduto su
quella stupida sedia che tanto si addiceva al suo altrettanto stupido
comportamento.
«Patetico.» sentì provenire
dalla porta, voltandosi ad osservare Alice, poggiata contro la superficie
lignea, le braccia incrociate al petto e l’aria di arrogante superiorità
dipinta in viso.
Lo guardava quasi con
scherno, gli sembrava di sfiorare quel suo sentimento.
Sempre, sempre rivolto a lui.
Lui che per lei era un
moccioso stupido, e geloso, e iperprotettivo senza un reale motivo valido – ma
che ne capiva lei, di quanto era importante tutto quello?
Lei che per lui era una
ragazzina – no, era una cosa – viziata e insopportabile, e così
arrogante da far saltare i nervi.
E lo dava a vedere, lo
lasciava capire, ma ad Alice non sembrava interessare – che ne sapeva lui, di
che significava “vivere” nell’Abisso per tutto quel tempo e non avere nulla di
importante per te?
La guardava con mal
sopportazione, con ironia e lei coglieva quel sentimento e indietro gli
rimandava la muta risposta che se ne fregava, di quello che pensava.
Se ne fregava, di quello
sguardo – sempre, sempre rivolto ad Oz.
«Nessuno ha chiesto di te,
baka usagi.» replicò, tornando con lo sguardo sul biondo.
«Non ho certo bisogno che tu
chieda di me, stupida testa d’alga.» ribatté per tutta risposta, una nota
stizzita.
Vide Gilbert – anzi, Raven,
perché di chi fosse prima non gli interessava nulla – voltarsi nuovamente verso
di lei.
Se il cuore di Raven non
fosse stato fermo al passato, non si fosse congelato fino al ritorno di Oz
senza crescere mai, probabilmente non avrebbe detto nulla.
Se Alice fosse stata in grado
di capire che la preoccupazione per un amico rende irragionevoli, probabilmente
avrebbe compreso che era il caso di non tirare la corda per quell’unica volta.
Ma Raven, è ancora il Gilbert
bambino di tanto tempo fa.
Ed Alice non ha avuto nessuno
ad insegnargli che la rabbia e la frustrazione rendono crudeli anche le persone
migliori del mondo.
«E poi Oz è il mio servitore,
entro nella sua stanza quando mi pa…» iniziò, ma il finale della frase fu
coperto dal rumore di una sedia che cade a terra e cozza contro il pavimento.
La pazienza di Gilbert ha i
suoi limiti.
Quando li oltrepassa, anche
lui è crudele: «Esci da qui.» le sibila contro; non è quel modo scherzoso del
tutto personale che hanno di convivere.
È molto più simile ad una
minaccia: «Oz non è il tuo servo e ti ho già detto di non parlare a quel modo
di lui. Esci da questa stanza.» ripete, ma è la calma apparente, la falsa
cordialità.
«Chi ti credi di essere,
ragazzino?!» sbotta Alice, perché è indispettita e innervosita – non lo
ammetterà mai, ma è preoccupata.
Gilbert era più vicino, ogni
passo di più.
Pugno sulla porta, così poco
distante dal viso e occhi che fissano senza esitazione, perché non hanno certo
paura di un misero umano.
«Di chi credi sia la colpa,
eh?» lo pronuncia così vicino a lei che lo potrebbe sussurrare e sarebbe
comunque udibile: «Se sei ancora qui, è perché è desiderio del mio padrone che
tu ci sia. Non abbiamo alcun bisogno di te. Se tu morissi Oz sarebbe libero, se
tu non sei nell’Abisso è solo perché lui non vuole che tu finisca
nuovamente lì.» sibila, ed è volutamente crudele, volutamente cattivo.
Sarebbe così facile salvare
Oz, eppure… eppure per colpa di una Catena…
«Non trattarmi alla stregua
di un oggetto, stupido essere umano!» gli sbotta contro Alice, mollandogli un
calcio che lo prende solamente di striscio.
Raven sorride.
Sorride in un modo che con
Gilbert non ha nulla a che fare. Un modo che Oz non gli riconoscerebbe, se lo
vedesse.
Ma Oz dorme, e Gilbert anche
– proprio lì, da qualche parte nel cuore di Raven.
Quello è lo scherno che gli
rivolge Alice.
In un pessimo esempio di
ruoli ribaltati: «Ah no?» la incalza con ironia.
«E allora cosa sei?
Non ti rivolgi tu per prima a noi come esseri umani? Tu sei diversa, ma non sei
un oggetto?» provoca, e provoca e Alice si ripromette di picchiarlo e fargliela
pagare.
Raven si avvicina, apre la
porta.
Un falso inchino per la
signorina Alice, che è cortesemente invitata ad abbandonare la stanza.
Con la coda dell’occhio
entrambi hanno visto Oz agitarsi nel sonno.
Fa per uscire, oltrepassa la
soglia mentre Raven da perfetto gentiluomo le chiude la porta alle spalle.
Socchiude.
Bisbiglia.
«Le Catene sono mostri
che vivono e muoiono nell’Abisso.» sibila.
E la porta si chiude.
Is it okay for me to cry just
a little?
Osservò Oz muoversi appena,
nel letto.
Riconobbe i movimenti e i
mugolii classici del risveglio, per poi vedere le iridi verdi osservare
confusamente la stanza e infine posarsi su di sé.
Incurvò le labbra in un
sorriso leggero e sollevato: «Young Master…?» chiamò in un mormorio, per non
infastidire il risveglio dell’altro che pareva già abbastanza confuso.
Il biondo batté un paio di
volte le palpebre, mettendolo a fuoco probabilmente: «Gill…» mormorò in
risposta, come a prenderne coscienza.
I minuti che erano seguiti a
quell’unica parola erano stati strani, incomprensibili per lui.
Oz aveva dapprima portato una
mano alla tempia, il che aveva lasciato supporre al più grande che la febbre
avesse portato anche un forte mal di testa con sé.
Ma quella mano era scesa
quasi subito e Oz aveva chinato lo sguardo, lasciando che la frangia lo
coprisse interamente alla vista di Gilbert.
Malgrado lo avesse chiamato
un paio di volte, non aveva risposto.
Ed ora, quel sorriso così
strano, quasi sconosciuto – e così identico a quel giorno in cui suo padre lo
aveva rifiutato, che Gilbert per un attimo aveva avuto l’istinto di fuggire
via.
«Gill, facciamo un gioco,
vuoi?» chiese così, senza un filo logico e senza un motivo.
Lo osservò perplesso, senza
capire.
«È un gioco difficile, perciò
mi raccomando, non perdere come al tuo solito.» si raccomandò, nel tono quella
sfumatura di presa in giro che gli rivolgeva sempre tanto tempo prima e che ora
ne era la copia mal riuscita.
«Oz…» lo chiamò, ancora
confuso, seduto lì sul bordo del letto con l’altro che non dava segno di
sentirlo.
Lo vide muovere un braccio,
serrare la mano attorno al suo polso.
E comprese che il filo
invisibile del cuore di Oz era stato spezzato di nuovo.
Si sporse verso di lui, ma
ritrovarselo addosso era stato un solo movimento di cui non si era reso conto.
«Non devi dire a nessuno… a
nessuno di quello che vedrai finché sarai qui dentro!» sbottò, la voce rotta
che una sola ed unica volta gli aveva sentito.
«Ma…» fece preoccupato,
sentendosi colpire da un pugno troppo debole perché potesse anche solo sembrare
tale.
«Non devi dirlo! Non devi
dire… non devi dire a nessuno…!» continuava a ripetere.
Gilbert tacque, limitandosi
ad un abbraccio goffo.
Non era più importante
nemmeno quali parole avesse rivolto ad Alice.
Quanto fosse stato miserabile
e crudele, o disgustoso, adesso non era nulla di così importante.
C’era solo un gioco a cui
prendere parte e qualcuno che piangeva.
Io ti mostrerò il mio più grande segreto:
piangerò davanti a te,
fino a che non avrò nemmeno più la forza di respirare.
Tu mi osserverai in silenzio, senza chiedere cos’ho.
Mi dirai che va tutto bene, anche se è una bugia.
Continuerò a ripetermi che è solo un sogno.
Che non sono Jack.
Che non sei Glen.
Non dire a nessuno che mi hai visto piangere, però;
perderesti la partita.
Va bene, se piango solo per un po’?