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Autore: Jade Tisdale    19/04/2017    0 recensioni
Post seconda stagione | Nyssara
È passato un mese dalla sconfitta di Slade, e mentre Starling City cerca di risollevarsi in seguito ai danni subiti, il Team Arrow continua a vigilare sulla città, proteggendola dai numerosi e frequenti pericoli.
Sara, invece, ha fatto ritorno a Nanda Parbat. Ma qualcosa, o meglio, una notizia, potrebbe dare una nuova svolta alla sua vita. E mettere a rischio quella di chi le sta intorno.
*
«La tua ragazza» sussurrò la mora «è questa Nyssa?»
Sara annuì, arrossendo lievemente.
«Dev'essere una persona splendida. Voglio dire, se è ancora con te dopo aver saputo di questa storia, significa che ti ama veramente.»
*
«Credevo di essere perduta per sempre» sussurrò, solleticandole dolcemente la pancia nuda «ma poi sei arrivata tu, e hai sconvolto completamente la mia vita. Tu mi hai ritrovata, Sara. Mi hai ritrovata e mi hai fatta innamorare follemente di te con un semplice sorriso.»
Nyssa intrecciò la propria mano in quella di Sara, rossa in viso.
«E poi» proseguì, con un sussurro «in questo inferno chiamato vita, stringerti la mano è la cosa migliore che mi sia potuta capitare.»
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Nyssa al Ghul, Oliver Queen, Ra's al Ghul, Sarah Lance, Un po' tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Love is the most powerful emotion'
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Capitolo 11: 
We’re like a family

 

 

 

 

Felicity osservava la luna con gli occhi lucidi. Non si era mai resa conto di quanto quella sfera bianca fosse bella, luminosa, e sola. Malgrado fosse circondata da milioni di stelle, non aveva nessuno con cui parlare, con cui sfogarsi. E in quel momento si sentì vicina alla luna più che mai.
«Felicity.»
Quella voce la riportò alla realtà, anche se in quel momento era l’ultima che avrebbe voluto sentire. Tirò su col naso, e continuò a farlo finché non sentì le sue mani calde stringerle le spalle.
«Lo so che è stato un duro colpo, e che probabilmente ti sarà difficile da comprendere. Lo è anche per me, credimi.»
Cosa c’era di così difficile da comprendere? Lui e Sara erano stati a letto insieme perché fino a pochi mesi prima erano una coppia, e nessuno dei due era stato così intelligente da usare precauzioni. O forse le avevano usate, ma qualcosa era andato storto. Cosa credeva, che fosse una bambina? Che non sapesse come nascessero i bambini? A volte si chiedeva perché Oliver la trattasse come un’idiota. Tuttavia, non riuscì a trovare la forza di controbattere.
«Non mi va di tornare dentro. Insomma, so che dovrei parlare con Sara, ma credo di aver bisogno di un po’ di tempo per riflettere. E lo stesso vale per te.»
Il tecnico informatico prese un bel respiro, dopodiché si voltò e dedicò al vigilante uno sguardo serio. «Se avessi scoperto della gravidanza di Sara in tempo… voglio dire, se ne fossi venuto a conoscenza quando ancora si poteva pensare all’aborto, che cosa avresti fatto?»
Oliver, ancora in tuta di Arrow, a quella domanda si paralizzò. «Non lo so, Felicity» ammise, scuotendo appena il capo. «Non ne ho idea, io… non sono pronto a diventare padre. Però…» Si passò una mano tra i capelli, completamente spaesato.
La bionda annuì lentamente, assimilando il significato di quelle parole. Aveva gli occhi gonfi di lacrime.
«Io non…» Le tremava la voce, ma ciò non le impedì di proseguire. «Non credo di potercela fare, Oliver.»
Quest’ultimo corrugò la fronte, confuso. «Cosa intendi dire?»
Felicity deglutì. «Intendo dire che la tua vita è fin troppo incasinata così. Sei Arrow, ma al tempo stesso sei anche uno degli amministratori delegati della Queen Consolidated, e tra poco diventerai padre. È già dura avere tre vite diverse. Se mi ci metto di mezzo anch’io, non farò altre che complicare le cose.»
«Ma io sono Oliver Queen» protestò lui, prendendole le mani tra le sue. «E voglio stare con te, Felicity.»
«No, Oliver» disse lei, ritraendo lentamente le mani. «Tu credi di poter riuscire a gestire le tue varie identità, ma quando il bambino nascerà non ci sarà più spazio per me nella tua vita. Io ti conosco. Non lasceresti mai che Sara se la sbrigasse da sola. D’altronde, sei tu il padre, ed è giusto così. Molto presto dovrai pensare a crescere tuo figlio. E se c’è una cosa che amo di te è proprio il tuo principio di fare sempre la cosa giusta per proteggere le persone che ami.»
«Ti sbagli, Felicity, io faccio un sacco di errori. Ne abbiamo appena avuto l’esempio» esclamò, indicando la porta sul retro del Verdant. Gli tremavano le mani, ma cercò di calmarsi prendendo dei respiri profondi. «Felicity, ascoltami… non posso farcela senza di te. Non sono proprio capace a fare il padre. Il mio non è stato per niente un buon esempio.» Sospirò, guardandola un’ultima volta negli occhi. «Ho bisogno di te ora più che mai.»
Le lacrime iniziarono a rigare lentamente il volto della donna, che ora tratteneva a stento i singhiozzi. «Mi dispiace tanto, ma non è questa la vita che avevo immaginato per noi due» rivelò, deglutendo sommessamente. «Io ti amo, Oliver. E se mi ami anche tu devi lasciarmi andare.»
L’ex miliardario aveva pregato di non dover arrivare a quel punto, ma alla fine Felicity gli aveva dato un ultimatum. Aveva sempre odiato l’idea di dover scegliere tra due persone che amava ‒ era successo lo stesso con Thea e sua madre quando Slade Wilson li aveva rapiti, e pochi anni prima con Sara e Shado ‒, e adesso il pensiero di dover decidere tra la donna che amava e il figlio che Sara portava in grembo lo spaventava a morte.
Tuttavia, Felicity se ne andò prima che lui potesse darle una risposta, lasciandolo solo nel vicolo buio del Verdant.



Laurel si sistemò accanto a Sara sul divano, passandole una mano sui lunghi capelli biondi: se n’erano andate dal Verdant poco più di un’ora prima, ma Sara, nonostante la doccia calda e la tazza di tè che le aveva preparato Nyssa, era ancora molto tesa.
E ora, rannicchiata sul divano con le ginocchia al petto, sembrava una bambina che aveva perso il suo coniglietto di peluche preferito.
«Adesso Oliver mi odierà.»
Laurel dedicò uno sguardo severo alla sorella, facendo una smorfia. «Quello che è successo è anche colpa sua. La prima persona che dovrebbe odiare è sé stesso, non tu.»
Canary si strinse nelle spalle, assumendo un’espressione contrariata. «Ma avrei dovuto dirglielo prima. Se lo avessi fatto, forse le cose sarebbero andate diversamente.»
«Non sarebbe cambiato nulla» soffiò l’avvocato, cercando di mantenere un tono di voce tranquillo. «È ovvio che venire a sapere della tua gravidanza dopo mesi che vi siete lasciati lo abbia sconvolto. Insomma, non dev’essere stata una passeggiata nemmeno per te. Però sono sicura di una cosa: tra lui e Felicity non cambierà nulla. Si amano tanto quanto vi amate tu e Nyssa, e sono più che certa che lei non si lascerà sopraffare da una notizia simile. Andrà tutto bene, vedrai.»
La bionda, malgrado le carezze incessanti della sorella, si mordicchiò il labbro inferiore, a disagio. «Ciò non toglie che non riesco a smettere di pensare a cosa sarebbe successo se gliene avessi parlato subito.»
«Ascolta, non posso dire di sapere come ti senti, ma…» Laurel sospirò appena. «Ormai il passato è passato. Devi pensare al futuro.»
«Onestamente ho solo voglia di farmi una dormita.»
In quel preciso istante, Nyssa fece il suo ingresso nella stanza: era appena uscita dalla doccia e indossava un pigiama rosso a pois bianchi che la faceva sembrare una bambina ‒ motivo per cui la sua amata lo adorava. Si fermò sullo stipite della porta a braccia conserte, dedicando a Sara un lieve sorriso.
La bionda diede un rapido bacio sulla guancia della sorella prima di dileguarsi. «Ci vediamo domani.» Dopodiché superò Nyssa lungo il corridoio senza dire una parola, e Laurel attese che Canary se ne fosse andata prima di ricominciare a parlare.
«Tu lo sapevi» esordì, dirigendosi lentamente verso la mora. «Lo sapevi e non mi hai detto nulla.»
«Non era di certo compito mio metterti al corrente» commentò la figlia del Demonio, col suo solito sguardo imperscrutabile.
«Capisco che in principio noi due non andassimo d’accordo, ma poi sono cambiate molte cose, o sbaglio?»
«Laurel, ho rapito tua madre» le rammentò Nyssa, corrugando la fronte. «Dire che non ci piacevamo è un eufemismo.»
Malgrado quella frecciatina, la castana non si scompose. «Ma poi siamo diventate buone amiche. Perciò pensare che per due mesi mi hai tenuta all’oscuro della condizione di Sara… mi dà sui nervi.»
«Tua sorella è maggiorenne e vaccinata. Non ha più bisogno di qualcuno che le spieghi cosa deve o non deve fare.»
«Lo so, ma… dannazione, è mia sorella!» Malgrado il vano tentativo di mantenere un tono basso per non farsi sentire da Sara, Laurel non riuscì a non enfatizzare quell’ultima frase. «Non importa quanti anni abbia, io mi preoccuperò sempre per lei. Sempre. E tu avresti dovuto mettermi al corrente della sua situazione.»
«Santo cielo, Laurel, fai sul serio? Sara non è malata, è incinta, cazzo! Credi che potessi semplicemente mandarti un messaggino e dirti: “Ciao Laurel, sai che stai per diventare zia? Il padre è il tuo ex fidanzato, ma credo che la cosa non ti stupisca.” Hai idea di quanto sia stato pesante per noi due nascondervi la verità in queste settimane? Non lo abbiamo fatto con piacere, ma era giusto che fosse Sara a fare il primo passo, non io. E se ha voluto attendere così a lungo, ci sarà stato un motivo, non trovi?»
Adesso Laurel stava trattenendo a fatica la sua collera. «Io non sono arrabbiata con lei perché è incinta di Oliver. È vero, Sara ne ha fatti di sbagli, ma alla fine se l’è sempre cavata. E so per certo che avermi vicina la mette a disagio, visti i precedenti» disse, alludendo alla storia del Gambit. «Ma tu… tu sei un’irresponsabile. L’hai lasciata combattere ogni sera nonostante tutto. Hai idea di cosa sarebbe potuto accadere se fosse stata colpita troppo violentemente o se fosse svenuta in situazioni poco convenienti come è successo stasera? Proprio tu, che dici di amarla con tutto il tuo cuore, non avresti dovuto permetterle di mettere a rischio la sua vita e quella del bambino in questo modo.»
Nyssa serrò i pugni e la mascella al tempo stesso, assumendo l’espressione che riservava solamente ai mercenari che la facevano davvero infuriare quando non ascoltavano i suoi ordini. «Tu non sei nessuno per venire qui e mettere in dubbio i miei sentimenti per tua sorella. Se non l’amassi davvero, a quest’ora l’avrei già abbandonata al suo destino. E sai perché non l’ho fatto? Perché so che non mi ha tradita, e perché so di amarla più di ogni altra cosa. La domanda a questo punto è, tu la ami davvero come dici, o sei ancora accecata dalla gelosia?» Un sorriso amaro contornò le labbra dell’Erede del Demonio. «Ma in fondo, cosa te lo chiedo a fare. Non l’hai perdonata nemmeno quando è tornata a casa perché non ti ha chiamata per dirti che era ancora viva. Vuoi saperla una cosa? È colpa mia. Sono stata io a dirle di non farlo, non solo perché in questo modo sarebbe andata contro le regole della Lega, ma anche perché temevo che l’avrei persa per sempre. Sapevo che risentire le voci dei suoi famigliari avrebbe alimentato il suo desiderio di ritornare a casa, e il pensiero di non poterlo fare l’avrebbe solamente distrutta. Quindi sì, Laurel, ho fatto di tutto pur di tenerla lontana dalla sua vecchia vita non solo perché era obbligata a farlo, ma anche perché la amavo e la amo ancora. Mi sarò anche comportata da egoista, ma almeno io le idee chiare sui sentimenti che provo per lei ce le ho avute fin dal principio.»
L’avvocato inspirò profondamente, voltandosi dalla parte opposta rispetto a Nyssa per non farle vedere che era sul punto di scoppiare in lacrime. Non era vero, lei non era più invidiosa o arrabbiata con Sara, ma quei ricordi la facevano comunque sentire in colpa per come l’aveva trattata. Era sua sorella minore e le voleva un bene dell’anima, nonostante il tradimento, nonostante la gravidanza, nonostante tutti gli errori che aveva commesso. Tuttavia, non era riuscita a dimostrarglielo come avrebbe dovuto.
In preda all’imminente pianto, Laurel si avvicinò al divano, afferrò la sua borsa e si diresse a passo spedito fuori dall’appartamento, con la testa china per non incontrare nuovamente lo sguardo furente di Nyssa.



Nonostante ci avesse provato con tutte le sue forze, Sara non era riuscita a chiudere occhio. Aveva continuato a rigirarsi nel letto per quasi un’ora, fino a quando, scocciata, aveva deciso di fare una passeggiata per schiarirsi le idee.
Una volta in piedi, si infilò il cappotto di Nyssa ‒ era talmente lungo che avrebbe sicuramente tenuto nascosto gran parte del suo pigiama ‒ e si diresse rapidamente fuori dall’appartamento.
Giunta in strada, si sedette negli ultimi gradini della scala antincendio, osservando distrattamente il punto in cui fino a non molto tempo prima era parcheggiata l’auto di Laurel. L’aveva sentita litigare con Nyssa, ma non se l’era sentita di intromettersi. Dopotutto, non avrebbe avuto alcun senso schierarsi dalla parte di una delle due: se la sarebbero potuta sbrigare tranquillamente da sole.
Il caldo estivo stava ormai lasciando spazio ai primi venti autunnali, tanto gradevoli quanto fastidiosi: a Starling City non pioveva molto, ma in men che non si dica il sole se ne sarebbe andato, e al suo posto sarebbero arrivati il freddo, la neve e le vacanze natalizie, e a quel punto Sara si sarebbe trovata al termine della gravidanza. Le sembrava ancora troppo strano per essere vero.
Ad un tratto, non poté fare a meno di alzare lo sguardo. Lo aveva sentito arrivare già da un po’, ma aveva preferito non battere ciglio per testare il suo limite di sopportazione. Tuttavia, dopo pochi minuti, Oliver uscì allo scoperto, andandosi a sedere accanto a lei.
Sara si strinse ulteriormente nel cappotto, mentre l’ex miliardario poggiò i gomiti sulle ginocchia e giunse le mani davanti a sé, iniziando a sfregarle in preda a un tic nervoso.
«Mi dispiace» soffiò Sara, rompendo il silenzio.
«Non è colpa tua» protestò il vigilante, scuotendo appena il capo. «È di tutti e due.»
La bionda deglutì, rilassando lentamente le spalle. «Non avrei dovuto tenertelo nascosto così a lungo. Mi sono comportata da vigliacca.»
Oliver spostò lo sguardo altrove, emettendo un lungo e intenso sospiro. «No, hai solo avuto paura. Ne avrebbe avuta anche un qualunque altro essere umano. Se ti può consolare, ho paura anch’io. Sono terrorizzato.»
A quell’ultima frase, Sara notò l’accenno di un sorriso sul suo volto, e si affrettò a ricambiarlo. Probabilmente riderci su non era il modo migliore di affrontare la cosa, ma serviva a sciogliere la tensione fra loro.
«Felicity come l’ha presa?»
A quel punto, Arrow si irrigidì. Fu come se un proiettile lo avesse attraversato da una parte all’altra del torace, perché il dolore che provò fu talmente immenso che dovette prendersi la testa fra le mani per placarlo. Sara, preoccupata, stava per chiedergli cos’avesse, ma Oliver si ricompose all’istante, rispondendo con un altro sospiro.
«Felicity mi ha lasciato.»
Canary corrugò le sopracciglia, sconcertata. «Che cosa?»
«Ha detto che d’ora in avanti dovrò pensare a mio figlio, e che lei sarebbe solo una distrazione nella mia vita.»
«Che assurdità.» Fu tutto ciò che Sara riuscì a dire, perché ora il suo più grande incubo aveva deciso di avverarsi: Felicity e Oliver si erano lasciati a causa sua. Percepì chiaramente lo stomaco contorcersi dalla nausea, e per un attimo pensò che avrebbe vomitato da un momento all’altro; poi Oliver le poggiò con cura una mano sulla schiena, e il mondo sembrò scorrere più lentamente del solito.
«Ehi» sussurrò, facendole una carezza. «Conosco quello sguardo. Non puoi darti la colpa anche di questo.»
«E cosa dovrei fare? È successo tutto per causa mia. Adesso mi odierai.»
«Io non sono arrabbiato con te» spiegò il vigilante, sporgendosi appena nella sua direzione. «Non ce l’ho con nessuno. Abbiamo fatto un errore, ma non per questo dovremo piangerci addosso per il resto della vita.»
«Davvero, Ollie? Ne sei sicuro?» sbottò, alzandosi di scatto in piedi. «Perché a me non sembra che sia stato un errore. Io ricordo perfettamente che le precauzioni sono state utilizzate, perciò non capisco come possa essere successo.»
«Cosa vuoi che ti dica?» Gli si formò un nodo alla gola, ma riuscì comunque a proseguire. «Qualcosa è andato storto. Può capitare. Ma ciò non significa che non saremo in grado di cavarcela.»
Sara incrociò istintivamente le braccia. Indossava un pigiama rosa con dei coniglietti bianchi, e coi capelli spettinati sembrava proprio una bambina capricciosa, ma Oliver non avrebbe mai trovato il coraggio di dirglielo in faccia.
«Quindi non sei arrabbiato con me?» proruppe poco dopo, ammorbidendo il suo sguardo.
«Come potrei?»
L’ex miliardario si alzò in piedi a sua volta, accolse Sara fra le proprie braccia e le baciò il capo. L’unica certezza che avevano era che non sarebbero mai stati soli. Mai.

*

Il cellulare emise quattro squilli, ma dall’altra parte nessuno rispose. Al quinto squillo, Sara decise che avrebbe chiuso la telefonata e che avrebbe richiamato più tardi. Al sesto, però, si sentì un rumore di sottofondo.
«Pronto?»
Quando udì la sua voce, la donna si paralizzò. Malgrado fosse stata lei ad averla chiamata, ora se ne era già pentita, perciò aveva sperato con tutta sé stessa che sua madre fosse già a lezione e che quindi non le avrebbe risposto. Ma a quanto pare il destino aveva deciso che andasse diversamente.
«Tesoro, sei tu? Va tutto bene?»
«Mamma» riuscì solo a dire, col cuore che batteva a mille. Le tremava la voce, ma cercò di darsi un contegno per non scoppiare a piangere come ormai le succedeva ogni giorno per ogni minima stupidaggine. Si schiarì la voce, dopodiché riprese a parlare: «Come stai?»
«Bene. Io sto bene. E tu?»
Sara deglutì, andandosi a sedere sul divano. «Gliel’ho detto.»
Dinah restò in silenzio per alcuni istanti. Sara era sicura che sua madre avrebbe capito senza bisogno di ulteriori parole.
«Veramente? Era ora che sganciassi la bomba!»
“Sganciare la bomba” non era esattamente una frase tipica del vocabolario di Dinah Drake Lance, ma più di una volta la donna aveva tentato di utilizzare il gergo giovanile per comunicare con le figlie in modo più sciolto, soprattutto durante la loro adolescenza, e ancora adesso capitava che le sfuggisse qualche espressione poco colloquiale.
«Sara, che succede?»
La diretta interessata scrollò le spalle, incurante del fatto che la madre non potesse vederla. «È che ho paura di aver rovinato qualcosa di importante.»
La madre lasciò passare qualche altro secondo prima di chiederle: «A cosa ti riferisci, di preciso?»
«A Oliver… e alla sua ragazza.» Prese un respiro profondo prima di continuare. «Quando lei l’ha saputo ha deciso di lasciarlo perché ritiene che una volta nato il bambino non ci sarà spazio per una donna nella vita di Oliver. Ma a me sembra una grandissima sciocchezza.»
«Perché è così» confermò Dinah in tono pacato. «Ascoltami bene, tesoro: i figli sono la gioia più grande che una persona possa avere. Tu e Laurel siete le persone più importanti della mia vita. Quando è successo quel che è successo…» Sebbene fossero passati ormai sette anni, faceva ancora male rievocare quei ricordi. Dire a Sara “quando ti ho creduta morta” non avrebbe di certo impedito alle ferite di riaprirsi, perciò Dinah aveva preferito restare vaga. Ma Sara aveva capito perfettamente a cosa si riferiva. «Io ho quasi smesso di vivere. Ho permesso che la disperazione prendesse il sopravvento su di me. Ho lasciato tuo padre, ho abbandonato tua sorella quando più aveva bisogno di me, e per anni mi sono data malata al lavoro soltanto per evitare di incrociare a lezione studentesse che ti somigliavano o che avevano il tuo stesso nome. Ho ricominciato a vivere solamente quando sei tornata a casa, perché il dolore di averti persa era stato più forte della mia voglia di vivere. Ma tu e Oliver… voi non avete niente di cui preoccuparvi. Per modo di dire, ovviamente» rise, alludendo alla loro professione di vigilanti. Quando aveva scoperto che sua figlia era Canary, non ci aveva messo molto a fare due più due e a capire che Oliver era Arrow. E l’idea che suo nipote avrebbe avuto due genitori come loro la rendeva orgogliosa. «Siete giovani. E in salute. Ed entrambi meritate di avere al vostro fianco una donna che vi ami e che vi sostenga sempre.»
Sara non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma con quella frase sua madre era riuscita a darle il colpo di grazia. Non sarebbe riuscita a trattenere le lacrime ancora per molto.
«Perciò, anche se i tuoi figli saranno il tuo primo pensiero quando ti alzerai la mattina, ricordati che non è peccato condividere un po’ del tuo amore con un’altra persona. Solo… cercate di non esagerare con le smancerie, okay? Sai che i bambini le odiano. Ogni volta che abbracciavo vostro padre tu e Laurel eravate sempre pronte a infiltrarvi nella stretta perché eravate gelose di lui.»
A quel punto, Sara non riuscì a non scoppiare a ridere. Era vero. Fin da bambine, Laurel e Sara avevano sempre avuto un debole per il padre. Probabilmente ciò era portato dal fatto che molto spesso era lui a rimboccare loro le coperte prima di andare a dormire ‒ Dinah doveva dividersi tra la famiglia e il lavoro all’università a chilometri di distanza da casa, perciò molto spesso si addormentava subito dopo aver lavato i piatti ‒, oppure perché Quentin era quello che difficilmente riusciva a dire di no. Questo, ovviamente, fino alla soglia dei sei anni; dopodiché le sue bambine avevano iniziato ad avere i primi fidanzatini e da allora si era indurito parecchio.
Tuttavia, al contrario di Laurel, Sara aveva legato più con la madre che con Quentin. Lei e Dinah erano molto simili, tranne per il fatto che quest’ultima, a differenza della figlia, era sempre stata una persona composta, mentre Sara non aveva mai tentato di nascondere le proprie emozioni. Proprio come stava facendo ora.
«In ogni caso, se quella donna ama davvero Oliver, allora lo perdonerà e tornerà da lui, altrimenti non lo merita. Ricordatelo bene, figlia mia.»
Sara chiuse la telefonata con l’eco delle ultime parole pronunciate da Dinah che le rimbombava nella testa. Era un modo alternativo per farle capire che non era colpa sua, ma di certo non sarebbe bastato per placare il suo senso di colpa.
«Quanto hai sentito?» disse ad un tratto, ruotando appena il capo alla sua destra.
Un attimo dopo, Nyssa le mise una mano sul collo, iniziando a massaggiarglielo delicatamente. «Praticamente tutto.»
Canary chiuse gli occhi, beandosi di quel meritato momento di serenità. «Ieri sera sei venuta a letto tardi.»
L’Erede del Demonio le baciò l’incavo del collo. «Avevo bisogno di riflettere. Ma qualcosa mi dice che nemmeno tu ti sei addormentata subito come speravi.»
A quanto pare, dopo che Laurel se n’era andata, Nyssa si era accorta che Sara non era in casa. O forse lo aveva capito semplicemente perché aveva origliato la sua conversazione con Dinah?
«E adesso che cosa farai?»
Sara sospirò, voltandosi verso di lei per guardarla negli occhi. «Andrò a parlare con Felicity. È il minimo che possa fare.»
«Credi davvero di poter aggiustare la loro relazione?»
La bionda dedicò all’amata un lungo e intenso sguardo, per poi metterle una mano sulla guancia. «Non lo so, Nys[1]. So solo che ci devo provare.»



Alla Queen Consolidated, il lavoro non mancava mai. Soprattutto ora che era riuscito a non perdere il controllo dell’azienda di famiglia, Oliver si era ritrovato a dover lavorare più del solito.
Erano passati pochi secondi dall’inizio della sua pausa quando una donna bionda fece il suo ingresso nell’ufficio. L’ex miliardario l’aveva riconosciuta dalla sua inconfondibile camminata, ma alzò lo sguardo verso di lei solamente quando la porta a vetri si fu chiusa alle sue spalle.
«Come sapevi che mi avresti trovato qui?»
Sara compì qualche passo in avanti, dopodiché rispose con un’alzata di spalle. «Non lo sapevo, ma il Verdant era deserto e ho dedotto che stanotte non sei tornato a casa di Felicity. Ho tirato a indovinare.»
«E a quanto pare hai indovinato» replicò lui, con un sorriso forzato. Era ovvio che la rottura con Felicity l’avesse sconvolto più di quanto avrebbe potuto immaginare, e Sara, nel vederlo in quelle condizioni, si sentì solo peggio.
«In ogni caso, se sei venuta fin qui per vedere come stavo, non devi preoccuparti. Sono più che sicuro che tra me e Felicity le cose si sistemeranno nel giro di pochi giorni.»
Era una menzogna bella e buona, e lo sapevano entrambi. Sara infilò le mani nelle tasche della sua giacca sportiva, mentre Oliver spostò lo sguardo sulle vetrate del palazzo.
«Volevo parlare con lei, ma ho pensato che forse sarebbe stato meglio parlarne prima con te.»
«Non ce n’è bisogno, Sara. Posso gestire questa storia da solo.»
«Ieri notte mi hai detto l’esatto contrario» protestò lei, avvicinandosi ulteriormente al vigilante. Ormai si trovavano a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altro, e le loro voci si erano ridotte ad un misero sussurro. «Te lo ricordi? Ci siamo dentro insieme. E io ho più colpe di te al riguardo. Perciò parlerò con Felicity, che ti piaccia o no.»
Oliver sospirò, scuotendo appena il capo. «Apprezzo il tuo gesto, ma non puoi più fare niente. Stanotte Felicity ha preso un volo diretto per Las Vegas. È tornata da sua madre.»
«E tu non gliel’hai impedito?»
«L’ho scoperto solo questa mattina quando sono arrivato qui. Felicity non si è presentata in ufficio, così ho pensato che avesse deciso di prendersi un giorno di ferie. Poco dopo, però, uno dei suoi colleghi, Curtis Holt, mi ha consegnato una… richiesta di licenziamento.»
«Da parte di Felicity?»
Oliver annuì leggermente, serrando la mascella per non mostrare la sua espressione rattristata.
Quello fu veramente un colpo basso. Sara non avrebbe mai immaginato che Felicity fosse il tipo di persona che si arrendeva di fronte alla prima difficoltà che incontrava. Di certo non si era aspettata la stessa reazione che aveva avuto Nyssa, ma al contempo, aveva anche sperato con tutta sé stessa che Felicity sarebbe stata più forte di fronte a quella notizia. Ma evidentemente si era sbagliata di grosso.
«Andrai da lei?» chiese Sara.
Il vigilante scosse il capo. «No. Se ha bisogno di spazio e di tempo per pensare, glielo darò. Presentarmi ogni mattina alla sua porta con un mazzo di rose per farmi perdonare non è nei miei piani. E in ogni caso, con Felicity non funzionerebbe mai.»



L’edificio che ospitava l’ufficio del procuratore distrettuale era lontano dal Mystery Cafè più di quanto Nyssa avesse immaginato. Si dovette quindi rassegnare all’idea che per questa volta avrebbe dovuto prendere un taxi.
Una volta dentro, chiese a una donna seduta davanti a un computer dove potesse trovare Laurel Lance, e questa le indicò una stanza dall’altra parte dell’androne. Tuttavia, quando l’Erede giunse davanti alla scrivania dell’avvocato, la trovò vuota.
D’istinto decise di voltarsi, pronta ad andarsene, ma prima che potesse farlo si ritrovò davanti la maggiore delle sorelle Lance con una tazza fumante di caffè in una mano e un plico di documenti nell’altra.
«Perché sei qui?» la schernì Laurel, posando in fretta tutto sulla scrivania.
Nyssa prese un respiro profondo. Aveva riflettuto a lungo prima di decidersi a chiarire le cose con Laurel, ma adesso che si trovava davanti a lei era tutto più difficile.
«Mi volevo scusare per quello che ho detto ieri sera. Sono stata inopportuna e scortese. Riconosco anche che non è stato per niente educato da parte mia tirare in ballo quello che è accaduto con Oliver anni fa. D’altronde, non sono fatti miei. Ti chiedo scusa.»
Laurel osservò a lungo la figlia di Ra’s negli occhi nel tentativo di scorgere un segno che le indicasse cosa c’era sotto. Non lo trovò. Nyssa era sincera e, per quanto strano potesse sembrare, era veramente dispiaciuta per il loro litigio.
Anche Laurel la era, ma l’idea di essere la prima a compiere il primo passo non l’aveva minimamente sfiorata. Le parole di Nyssa l’avevano davvero ferita e la sera precedente c’erano volute ore prima che riuscisse ad addormentarsi. Ma in fondo nemmeno lei aveva detto cose carine nei suoi confronti.
«Ti devo delle scuse anch’io. Ho capito che avevi ragione tu. Non spettava a te dirmi della gravidanza di mia sorella, ma a lei. E non avrei mai dovuto mettere in dubbio i tuoi sentimenti per Sara. So bene quanto la ami.»
A quella frase, Nyssa per poco non avvampò. «Io… non so cosa dire.»
«Non preoccuparti. Le buone amiche litigano spesso.»
Nyssa sussultò. «Cosa?» In vita sua l’unica amica che aveva avuto era stata Sara, perciò il pensiero che adesso anche Laurel la considerasse tale le faceva battere il cuore.
L’avvocato le dedicò uno dei suoi migliori sorrisi, per poi piegare leggermente la testa di lato. «Pace fatta?»
La mora annuì con forza, più felice che mai. «Pace fatta.»



Il casinò era molto più grande di come Sara se lo era immaginata. Certo, si trovava pur sempre a Las Vegas, la città simbolo del gioco d’azzardo, ma non riusciva a credere che la madre di Felicity potesse davvero lavorare in un posto simile.
Passò diversi minuti a guardarsi intorno alla ricerca di una donna che somigliasse al tecnico informatico, ma il locale era pieno zeppo di cameriere che portavano cocktail ai tavoli, e di certo stando in mezzo alla folla non sarebbe mai riuscita a trovarla.
Dopo non molto decise di andarsi a sedere a un bancone in attesa che arrivasse un barista. Ne approfittò per controllare gli ultimi messaggi che le aveva inviato Nyssa ‒ una volta scesa dall’aereo si era dedicata alla ricerca di un motel, perciò oltre ad averle detto che era arrivata e che stava bene, Sara non aveva avuto modo di ampliare la conversazione.
Il primo messaggio, inviato quattro ore prima, diceva: Io e Laurel abbiamo chiarito. Tra poco stacco dal lavoro. Se puoi chiamami per l’ora di cena, così ti racconto.
Sara si morse l’interno della guancia. Nel corso della serata avrebbe dovuto controllare i nuovi messaggi più spesso, ma ormai era tardi per rimuginarci sopra. Passò direttamente al secondo messaggio, arrivato alle 20:08: Hai già trovato Felicity?
Un rumore proveniente dal retro del bancone attirò la sua attenzione, ma Sara non alzò minimamente lo sguardo dallo smartphone. Quella mattina Nyssa aveva insistito per accompagnarla a Las Vegas per cercare Felicity, ma Sara le aveva ricordato che quel pomeriggio doveva lavorare e che non poteva permettersi di prendersi dei giorni di riposo a piacimento solo perché Josh si era preso una cotta per lei. A quel punto Nyssa aveva messo su un finto broncio e aveva incrociato le braccia come una bambina.
Infine, Sara lesse il terzo messaggio, spedito pochi minuti prima: Fammi solo sapere come stai. Sto iniziando a preoccuparmi.
Canary intravide una donna bionda spuntare dal nulla davanti a lei, perciò digitò rapidamente la risposta da inoltrare a Nyssa: Tutto okay. Stavo cercando un posto in cui dormire. Ora sono al casinò. Ti richiamo appena posso. Baci xx.
Dopo aver premuto su “Invio”, Sara infilò il telefono in tasca, e a quel punto la barista si rivolse a lei.
«Che cosa ci fa una così bella ragazza tutta sola in un posto come questo?»
Sara decise di stare al gioco. «Sto aspettando qualcuno.»
«Ne dubito.»
«Come fa ad esserne sicura?»
«Perché sei troppo giovane per frequentare i casinò. A meno che tu non sia una spia. E poi non hai staccato gli occhi un momento dal tuo cellulare, quindi o il tuo ragazzo ti ha lasciata e stai cercando vanamente di dimenticarlo affogando il dolore nell’alcol, oppure non me la racconti giusta.»
Di fronte all’astuzia della donna, Sara non riuscì a controbattere. «È vero. Mi ha beccata. Sono qui perché sto cercando una persona.»
«Se è un uomo sexy, credimi, ce ne sono parecchi.»
«A dire il vero sto cercando una persona che lavora qui, Donna Smoak. Lei per caso la conosce?»
A quel punto, la barista si irrigidì. «Chi vuole saperlo?»
«Un’amica di Felicity.»
Sara riuscì a leggere la risposta alla sua domanda negli occhi della donna.
«Felicity non mi aveva detto che aspettava amiche.»
«Infatti volevo farle una sorpresa. Sa, ho pensato che le servisse qualcuno che la consolasse dopo quello che è successo…»
«Ah, io non so niente di questa storia. So solo che mia figlia è piombata in casa mia nel cuore della notte in un mare di lacrime, e sono più che sicura che è stato un ragazzo a ridurla così. Gli uomini sono tutti uguali.» Donna porse un vassoio pieno di cocktail ad una cameriera prima di voltarsi nuovamente verso Sara. «Tu sai cosa le è accaduto, vero? Ho passato tutta la notte a cercare di farle tornare il buon umore per un motivo che nemmeno conosco. Devo sapere il nome di quello stronzo a cui devo dare una bella lezione.»
Quella era davvero la madre biologica di Felicity? Sara aveva i suoi dubbi.
«Mi dispiace, ma non sarei una buona amica se glielo dicessi. Non spetta a me farlo.»
Donna rifletté un istante sulle sue parole prima di annuire. «Hai ragione. Sì, hai proprio ragione, cara. Devo solo avere pazienza.»
«Sono più che sicura che Felicity le racconterà tutto non appena sarà pronta» azzardò Sara, nel tentativo di ammorbidirla il più possibile. «Lei dov’è?»
La madre del tecnico informatico assunse un’espressione indecifrabile, e ci volle un po’ prima che rispondesse alla domanda della presunta amica di sua figlia.«Nel retro. Non mi andava di lasciarla a casa da sola.» Poi posò uno strofinaccio sul bancone e fece segno a Sara di seguirla.



La stanza era illuminata da una lampadina che pendeva dal soffitto. Il pavimento era pieno di scatole di cartone vuote, mentre alla parete erano appesi un calendario e un bersaglio con delle freccette. Stranamente, non vi era un cattivo odore, se non quello di birra e di fumo che ormai aleggiava in tutto il locale.
Quando Sara aprì la porta, Felicity era talmente assorta nella lettura di un eBook nel suo tablet che quasi non si accorse della sua presenza.
Tuttavia, bastò che l’assassina si schiarisse la voce per riportare la bionda alla realtà. Lo sguardo che dedicò a Sara quando la vide fu dapprima stupito, ma poi si trasformò in un’occhiata carica di ira e di risentimento. «Che cosa ci fai tu qui?»
La minore delle sorelle Lance compì qualche passo incerto verso la panca sulla quale era seduto il tecnico informatico. «Dovevo vedere come stavi.»
Prima di rivolgersi nuovamente a Sara, Felicity ripose il tablet nella borsa di pelle situata al suo fianco. «Come hai fatto?» Tuttavia, prima che la bionda potesse rispondere, il tecnico riprese la parola. «No, lascia stare, ho già capito. È stato Curtis, non è così? Gli avevo fatto promettere di non aprire bocca, ma ormai lo conosco fin troppo bene. Basta che gli mostri una pistola giocattolo per far sì che ceda.»
«Non l’ho minacciato per farmi dire dove ti trovavi.» In parte era vero. Ma solo in parte. «Gli ho semplicemente detto che ora più che mai hai bisogno di una spalla su cui piangere.»
«E quella spalla saresti tu?»
Sara ignorò la frecciatina, e subito dopo sì andò a sedere accanto a lei. «So che sei arrabbiata» esordì, poggiando le mani sulle ginocchia. «Ne hai tutto il diritto. Puoi anche odiarmi, se vuoi. Ma Oliver non c’entra nulla. Non è colpa sua se negli ultimi due mesi ho tenuto la bocca chiusa. Se ve lo avessi detto subito, probabilmente tutto questo non sarebbe successo. Perciò, se c’è qualcuno con cui te la devi prendere, quella sono io.»
«Sara, io non ce l’ho con nessuno di voi» replicò Felicity, passandosi una mano sulla fronte.
«Se fosse vero non saresti tornata da tua madre nel giro di poche ore.»
«Ero spaventata. Sono spaventata. Cos’altro avrei potuto fare?»
«Credi davvero che scappare dai problemi sia la scelta migliore da prendere? Non la è affatto. Non solo è da codardi, ma non ti condurrà da nessuna parte. Peggiorerà solo le cose.» Pronunciando quelle parole, Sara si rese conto che era esattamente quello che lei e Nyssa avevano fatto: non appena avevano scoperto della gravidanza, erano fuggite da Nanda Parbat. Ma nel loro caso era diverso: se Ra’s fosse venuto a sapere del bambino, avrebbe ucciso Sara senza pensarci due volte. La loro fuga, a differenza di quella di Felicity, era giustificata dal timore di una morte certa. «Non credi che affrontare i problemi in due sia molto più facile? Oliver ha bisogno di te, Felicity. Adesso più che mai. E se davvero non ce l’hai con lui, allora dovresti prendere il primo aereo per Starling City con me e tornare a casa.»
La donna abbassò lentamente il capo, un velo di malinconia a contornarle gli occhi. «So benissimo che quando è successo quel che è successo voi due stavate ancora insieme. Infatti non ce l’ho con Oliver, né con te.» Prese un respiro profondo, trattenendo a stento le lacrime. «Ce l’ho con me stessa, okay? Perché io non sono coraggiosa come voi. Non ho un arco o una spada che mi protegga. Io e mia madre ce la siamo sempre cavate da sole, perciò il mio primo istinto è stato quello di tornare da lei. Speravo mi potesse aiutare, ma non ho avuto il coraggio di raccontarle quello che è successo. Quando hai annunciato la notizia, mi sono sentita… non lo so. Oliver è una brava persona, e sono sicura che diventerà un bravo padre. E io non solo diventerei la terza incomodo, ma sarei soltanto un peso.»
«Niente di quello che hai appena detto è vero, e lo sai.»
«Invece no. Non possiamo saperlo.»
«Felicity, ti prego.» Canary deglutì appena, puntando i suoi occhi in quelli della bionda. «Lui ti ama.»
Ma Felicity non si mosse. Dopo qualche minuto trascorso in silenzio, Sara fu costretta ad andarsene. Non sapeva se quella conversazione avrebbe avuto un risvolto positivo, ma almeno ci aveva provato. Quello che la fece preoccupare, però, fu pensare alla reazione che avrebbe avuto lei se Nyssa l’avesse abbandonata dopo aver scoperto della gravidanza. Di sicuro ne sarebbe uscita distrutta.

*

Quasi di una settimana dopo, le cose non si erano ancora sistemate. Oliver e Diggle avevano lasciato da parte il resto del Team dicendo che se la sarebbero cavata da soli. D’altronde, dopo aver scoperto della gravidanza di Sara, era logico che Oliver non le avrebbe più permesso di andare sul campo; a Roy invece aveva detto di interpretare quella pausa come un meritato riposo dopo i mesi passati al suo fianco.
In ogni caso, tutti erano sicuri che senza Felicity il Team Arrow si sarebbe sciolto molto presto. Tutti tranne una persona.



Il cellulare di Sara prese a vibrare all’improvviso, facendola sobbalzare sul divano. Chi sarà mai a quest’ora del pomeriggio?, pensò. Tuttavia, ciò non le impedì di afferrare lo smartphone dal tavolino, e successivamente di urlare a squarciagola il nome di Nyssa dopo aver letto il contenuto del messaggio.
Quando la mora la raggiunse in salotto, Sara le porse il cellulare col cuore che batteva a mille. Il messaggio era di Laurel. Diceva: S.O.S. Verdant. Sono in pericolo.



Roy corse giù per le scale dell’Arrow Cave più in fretta che poté. Dopo aver ricevuto quel fatidico messaggio, aveva iniziato a correre a tutta velocità in direzione del Verdant. Per un attimo aveva pure pensato che avrebbe potuto addirittura superare Flash.
Una volta arrivato al pianto inferiore del locale, sul volto di Arsenal si andò a formare uno sguardo confuso. «Che ci fate voi qui?»
Al sentire quella voce, Sara e Nyssa si voltarono. «Roy!» esclamarono all’unisono.
Il ragazzo inarcò un sopracciglio. «Cosa…?»
«Anche tu eri qui con Laurel? Chi vi ha aggrediti?» domandò Sara, passandogli entrambe le mani sul viso per assicurarsi che stesse bene.
«Dov’è andato? Forse siamo ancora in tempo per prenderlo» aggiunse Nyssa, guardandosi attentamente intorno mentre teneva il proprio arco teso.
«Ragazze, non ho idea di cosa stiate parlando» replicò Roy, liberandosi dalla stretta di Sara. «Io sto bene. Era Oliver quello in pericolo. Mi è arrivato un messaggio da parte sua poco fa.»
Nyssa spalancò gli occhi, sconcertata. «Come, prego?»
«Si può sapere cosa sta succedendo qui?» proruppe John, mentre percorreva l’ultimo gradino della scalinata insieme a Oliver.
«Anche voi avete ricevuto quei messaggi?» domandò Canary, iniziando a comprendere quello che stava accadendo.
«Sì, e non è affatto divertente» sbuffò Dig, mostrando il proprio cellulare ai presenti. A lui era arrivato un SMS da parte di Roy.
«Io non ho mai inviato quel messaggio. Non ho nemmeno credito sul cellulare!» si giustificò Arsenal.
«Qualcuno si sta prendendo gioco di noi» affermò Oliver, per poi spiegare che il suo messaggio era stato inviato da Sara.
«Puoi dirlo forte» esclamò Laurel, che sebbene fosse appena arrivata, aveva sentito quasi tutta la conversazione. A lei era toccata la richiesta di aiuto da parte di Diggle, e così il cerchio si chiudeva.
«Qualcuno ci ha condotti tutti qui per un motivo» dichiarò Sara, con un sospiro.
«Sì, ma chi?» domandò Roy, con un’alzata di spalle.
«Ci hanno teso una trappola» confermò Nyssa, lasciando andare lentamente la presa sul proprio arco, ma senza abbassare una guardia.
«Beh, non è andata esattamente così.»
Al sentire quella voce, tutti i presenti si zittirono. Si guardarono intorno con gli occhi sbarrati, increduli che si trattasse realmente di lei. E poi, all’improvviso, Felicity sbucò dal nulla, un grande sorriso stampato sul volto.
«Felicity…» La voce di Oliver si incrinò un istante mentre pronunciava quel nome. Non gli sembrava vero che lei fosse lì davanti a lui.
La donna si mosse lentamente verso il gruppo, ma tutti erano ancora troppo scossi per dire una parola. Oliver fu il primo a rompere la distanza che li separava: la abbracciò con forza, stringendola a sé come se dovesse proteggerla da qualcuno, e lei fece altrettanto, inspirando a pieni polmoni il suo profumo. Gli era mancato tanto in quegli ultimi giorni, e adesso non voleva più lasciarlo andare. Tuttavia, quando Roy si schiarì la voce, i due furono costretti a sciogliere l’abbraccio, ma Felicity rimase comunque stretta ad Arrow.
«È un piacere rivederti, Felicity» disse John, dedicandole un ampio sorriso.
«Lo stesso vale per me, John. Mi siete mancati tutti quanti.»
Il tecnico informatico spostò lo sguardo su ogni membro del Team, e quando incontrò quello di Sara le fece un occhiolino, che la bionda ricambiò con un sorriso a trentadue denti.
Era tornata a casa. E al momento era l’unica cosa che contava.



Dopo essersi fatta una doccia calda e aver riflettuto a lungo su quella giornata, Felicity raggiunse quella che fino a pochi mesi prima era stata la sua camera da letto. Malgrado lei e Oliver vivessero insieme da un bel po’, non si era ancora abituata all’idea che nella notte lui sarebbe sempre stato lì al suo fianco. In quel momento, però, fu davvero felice di vederlo disteso sul materasso con lo sguardo rivolto al soffitto.
«Ti prego, non dirmi che c’è un ragno.»
Quando sentì la sua voce, Oliver spostò l’attenzione su di lei, dedicandole un sorriso imbarazzato. «No, no… non c’è nessun ragno. Stavo solo pensando. Tutto qui.»
Felicity annuì leggermente, per poi accomodarsi di fianco a lui. Gli prese il volto tra le mani, facendo combaciare le loro fronti, dopodiché lo baciò, assaporando ogni istante che si era persa in quella settimana di agonia.
«Perché sei scappata?» sussurrò Oliver, tra un bacio e l’altro.
Felicity rifletté a lungo su quella domanda. Doveva proprio dirglielo? Oppure avrebbe potuto tenerselo per sé e farlo aspettare ancora un po’? Non sapeva esattamente quale sarebbe stata la decisione migliore da prendere, ma alla fine scelse la strada più ovvia. «Perché avevo paura, Oliver.» Sospirò, passandosi distrattamente una mano fra i capelli. Diede così fine alla loro sequenza di baci, ma Oliver sembrò esserne sollevato: in quel modo l’avrebbe potuta guardare negli occhi mentre gli raccontava cosa l’avesse spinta ad andarsene.
«Spiegati meglio» la incitò lui, accarezzandole dolcemente la guancia destra.
Felicity iniziò a sentire gli occhi pizzicare. Non ne aveva mai parlato con nessuno prima d’ora. Era sempre stato il ricordo della sua infanzia più difficile da rievocare, ma se c’era una cosa che aveva compreso durante la conversazione avuta con Sara, era che il primo passo per avere una relazione seria con Oliver fosse raccontargli sempre la verità. «Vedi, io penso che ogni uomo, a un certo punto della sua vita, si ritrovi a dover scegliere tra la propria famiglia e la propria libertà. Insomma, non si possono avere entrambi.»
Oliver annuì piano, intuendo dove volesse arrivare. «Sì, è vero. Più volte mio padre è stato tentato di scegliere la propria libertà, ma alla fine è sempre tornato dalla sua famiglia. L’amore che provava per noi è stato più forte di tutto» rispose, alludendo alla fuga che aveva pianificato insieme a Isabel Rochev.
«Sì, beh, mio padre in realtà ha scelto sé stesso.»
L’arciere sospirò sommessamente. «Non parli mai di lui.»
«Perché fa male.»
Felicity si tolse gli occhiali, poggiandoli lentamente sul comodino. Stava trattenendo le lacrime a fatica, ma non poteva più tirarsi indietro. «Mia madre ha dovuto fare dei sacrifici per crescermi, ed è stata dura per noi due fingere che la nostra fosse una vita normale. Ho cercato di allontanarti perché non volevo che tu facessi lo stesso errore di mio padre. So bene cosa significhi crescere senza un genitore credendo che ti abbia abbandonato perché ti odiava, e non augurerei a nessuno di vivere con un tale fardello.»
Oliver le asciugò una lacrima col pollice prima che potesse raggiungere l’angolo sinistro della sua bocca. «Ehi» sussurrò, avvicinandosi ulteriormente a lei. «Non è mai stata quella la mia intenzione. Quando Sara ce l’ha detto, ho subito capito che mi sarei dovuto prendere la responsabilità delle mie azioni. Non c’è stato un singolo istante in cui abbia pensato di escludere questo bambino dalla mia vita. Però, non volevo nemmeno escludere te.»
Felicity arrossì appena a quelle parole. Aveva avuto diverse relazioni nel corso degli anni, ma prima d’ora non si era mai sentita così al sicuro come accadeva con Oliver. In ogni situazione, persino nei momenti più bui, lui riusciva sempre a trovare il modo di rassicurarla, e quel momento ne era la prova.
«Andrà tutto bene. Te lo prometto» sussurrò, stringendole dolcemente la mano. «Sarò un padre presente e un buon marito. Hai la mia parola.»
Felicity avrebbe voluto aggiungere: “Anche se questo ti obbligasse a rinunciare alla tua carica di vigilante?”, ma sapeva che non era il momento adatto. Ci sarebbe stato tempo per discuterne, più di quanto avrebbe mai potuto immaginare.
«Te l’ho già detto che ti amo?» domandò, accarezzando lievemente i capelli spettinati dell’uomo.
Lui sorrise, con gli occhi che scintillavano. «Sì, almeno un milione di volte, Felicity.»
La donna, sollevata dalle parole di Oliver, si accoccolò sul suo petto, pronta ad addormentarsi. Ma prima che riuscisse a chiudere gli occhi, le parole pronunciate da Arrow le riecheggiarono nella mente. «Aspetta un secondo. Che cosa intendevi dire con “sarò un buon marito”?!»

*

Il giorno seguente, quando Oliver chiese al resto del Team di riunirsi al covo, Sara non ebbe alcun dubbio sul fatto che quella conversazione avrebbe avuto a che fare sulla sua gravidanza. Per tutto il tragitto non smise un istante di tenere la mano destra sulla pancia leggermente delineata. Non sapeva cosa le avrebbe detto Oliver adesso che Felicity era tornata, ma aveva paura.
Quando lei e Nyssa arrivarono, si resero conto che tutti gli altri erano già presenti. Nella stanza sotterranea aleggiava un silenzio inquietante, scandito solamente dal rumore del cuore di Sara, che batteva ad una velocità incredibile.
Poi, dopo qualche istante, fu Felicity a rompere quell’atmosfera pacifica.
«Vi ho fatti riunire qui perché ieri ero troppo emozionata per poter formulare una frase sensata» esordì la donna, sorridendo lievemente. «E poi, ritengo sia giusto riprendere da dove ci eravamo interrotti la scorsa settimana.»
A quel punto, Sara sentì gli sguardi di tutti fissi su di sé. Si strinse nelle spalle, sentendosi a disagio, e non osò proferire parola.
«Se preferisci possiamo parlarne in privato. Soltanto noi quattro» le propose Oliver, lanciando un’occhiata a Nyssa.
Sara, tuttavia, scosse la testa. «No, va bene così.» Si voltò prima in direzione di Laurel, poi verso Nyssa. Quest’ultima la rassicurò con un sorriso, che Canary ricambiò appena.
«So bene che di certo non cerchi la mia approvazione… insomma, sei libera di fare quello che vuoi, è ovvio. Però…» Felicity si sistemò accuratamente gli occhiali sul naso. «Voglio solo farti sapere che hai tutta la mia stima. E il mio appoggio, ovviamente.»
«Credo di non capire» la interruppe Sara, in preda a mille emozioni.
Il tecnico informatico si voltò verso Oliver, che proseguì al posto suo. «Quello che Felicity sta cercando di dirti è che per lei sarebbe un piacere se tu decidessi di renderla partecipe nella vita di… beh, del bambino» spiegò, lievemente imbarazzato.
Sara trattenne il respiro per un istante, incredula che quello che aveva appena udito fosse vero. «È così? Sta dicendo sul serio?» domandò, voltandosi verso Felicity.
Quest’ultima annuì, arrossendo lievemente. «C’è solo un piccolo favore che vorremmo chiedervi» aggiunse, avvicinandosi a Canary di qualche passo. «Per la sua sicurezza, preferiremmo che voi teneste il bambino al di fuori degli affari della Lega.»
A quelle parole, Sara si voltò istintivamente verso Nyssa, che ricambiò lo sguardo amareggiato.
«Vorrei che fosse così semplice.»
«Sara.»
La bionda si voltò verso Oliver, che adesso aveva le braccia incrociate. «Ti prego. Dicci la verità.»
Avrebbe tanto voluto farlo, ma era ancora troppo scossa per poter parlare apertamente di quanto successo. Fortunatamente, fu Nyssa a farlo per lei.
«A Nanda Parbat ci sono delle regole molto severe» esordì l’Erede, incrociando a sua volta le braccia. «Quando una persona decide di unirsi alla Lega, rinuncia automaticamente alla sua vita passata. Si ritrova costretto a dover dimenticare il proprio nome, la propria famiglia, le persone che ha amato. Tutto quanto. Far parte della Lega degli Assassini significa ricominciare da zero.»
«In pratica è una sorta di reset del cervello, giusto?»
Nyssa annuì in direzione di Roy. «Bisogna essere pronti a rinunciare ai propri ricordi per servire Ra’s al Ghul. Ma a Nanda Parbat non esistono solo l’addestramento, le missioni e gli omicidi. Si tratta di una vera e propria città, e come in ogni città le persone possono instaurare relazioni tra loro, arrivando addirittura a sposarsi. Il problema, però, è che il tradimento viene considerato uno dei peccati peggiori.»
«Non capisco. Cosa c’entra il tuo discorso con la gravidanza di Sara? Tuo padre non ha mai accettato la vostra relazione, no?» chiese Laurel, confusa.
Oliver si massaggiò le palpebre, consapevole di dove Nyssa voleva arrivare e terrorizzato all’idea di quello che Ra’s al Ghul avrebbe potuto fare se fosse venuto a sapere di quella gravidanza.
«Sì, è così, ma… è complicato. Solo perché mio padre non accetta il nostro rapporto, non significa che non sia reale. Insomma, se io e Sara nella vita vera ci sposassimo, e lui continuasse a rifiutare quello che c’è tra noi, il nostro matrimonio sarebbe comunque valido, giusto?»
Laurel annuì piano, cercando di seguire il più possibile le parole di Nyssa.
«Ecco, alla Lega le cose non sono poi tanto diverse.»
«Vuoi dire che agli occhi della Lega voi due siete sposate?»
«No, no» rispose la mora, scuotendo la testa. «Voglio dire che come stiamo insieme a Nanda Parbat, stiamo insieme anche a Starling City. Se in questo momento Sara mi tradisse con qualcun altro al di fuori di Nanda Parbat, o io tradissi lei, il tradimento sarebbe valido anche all’interno della Lega. Mi seguite?»
«Credo di sì» intervenne Diggle, preso dalla conversazione. «In poche parole, stai dicendo che se tuo padre scoprisse di Sara, la punirebbe?»
Nyssa annuì ancora, ma questa volta non riuscì a nascondere la malinconia nei suoi occhi. «A Nanda Parbat, il tradimento è punibile solo con la morte.»
Felicity rabbrividì, ma trovò subito sicurezza quando Oliver le strinse la mano.
«A maggior ragione lo farebbe con piacere perché mi odia» sbuffò Sara, che aveva finalmente trovato la forza di unirsi alla conversazione.
«È vero, mio padre è sempre stato contrario alla nostra relazione, e se scoprisse che Sara è incinta andrebbe in capo al mondo pur di ucciderla» aggiunse Nyssa.
«Tutto questo non ha senso» sbottò Arsenal, irritato al pensiero che quell’uomo potesse avere così tanto potere nelle proprie mani. «Come può essere sicuro che si tratti di tradimento?»
«Roy, io sono una donna» rispose cautamente la mora, leggermente divertita all’idea che il ragazzo non avesse capito subito l’antifona. «Il bambino non può essere mio figlio. È logico che si tratti di qualcun altro.»
Diggle scosse la testa. «Ciò non toglie che comunque Sara non ti ha tradita. Non voglio farmi i fatti vostri ragazzi, ma credo che quel che è successo risalga a diverso tempo prima dell’Assedio.»
«È vero, ma stiamo parlando di Ra’s al Ghul» lo interruppe Sara. «Di certo non si interesserà alla tempistica con cui sono avvenuti i fatti.»
Per qualche istante, nella stanza calò il silenzio. Ognuno di loro avrebbe voluto esprimere la propria rabbia, ma sapevano che sarebbe stato tutto inutile. Persino John e Roy, che non avevano alcun legame di sangue o di parentela con Sara, si sentivano coinvolti. D’altronde, erano molto più che una semplice squadra: erano una famiglia. E le famiglie restano sempre unite, sia nei momenti di gioia che nel dolore.
Nyssa, d’altro canto, era una bomba pronta ad esplodere. Se avesse potuto, sarebbe tornata a Nanda Parbat in quel preciso istante e avrebbe ucciso suo padre con le sue stesse mani. Il problema è che era troppo debole. Nonostante gli infiniti tentativi, non era mai riuscita a batterlo in un duello, e di certo non ci sarebbe riuscita ora. E poi, sapeva benissimo che una volta rimesso piede nella Lega sarebbe stata nel mirino di tutti i mercenari. Magari sarebbe anche riuscita a ucciderli tutti, ma alla fine sarebbe stata dura sconfiggere Ra’s.
Ad un tratto, però, il suo cuore prese il sopravvento e iniziò a parlare per lei.
«Mio padre non lo sa e non lo deve sapere.»
Al sentire quelle parole uscire dalla propria bocca, Nyssa si sentì sciocca e infantile. Ma non lo era. In realtà, era solo preoccupata per Sara, e lo compresero tutti. Furono ancora più stupiti nel constatare, per la prima volta da quando la conoscevano, che aveva gli occhi lucidi.
«Il problema è come farà a non saperlo quando vedrà Sara» disse Dig, scambiandosi uno sguardo con Oliver.
«Siamo venute qui proprio per questo motivo. Sapevamo che nasconderci in posti lontani non sarebbe servito a nulla. La Lega ci avrebbe comunque trovate» affermò Canary.
«Ma allora perché venire a Starling City? È il posto più ovvio in cui venire a cercarvi» protestò Roy.
«Esattamente per questo motivo siamo tornate in città. Questo è il primo e l’ultimo posto in cui penserebbero che ci potremmo nascondere. Il che lo rende l’unico luogo in cui siamo certe di restare al sicuro almeno per un po’.»
Nyssa non aveva tutti i torti, ma prima o poi la Lega le avrebbe comunque trovate. E a quel punto che cosa avrebbero fatto?
«L’unica cosa che possiamo fare è tenere gli occhi aperti» propose Arrow, scambiando un’occhiata con Sara. «Quando quelli della Lega verranno a prendervi per riportarvi a Nanda Parbat, noi li affronteremo. E combatteremo fino a quando non riusciremo ad arrivare a un compromesso con Ra’s.»
«È impossibile. Mio padre non accetterà mai una cosa simile» lo schernì la figlia del Demonio.
«Lo so, Nyssa. Ma al momento non possiamo fare altro che sperare che tu ti stia sbagliando.»


 

 

 

[1] Era da secoli che lo volevo scrivere *_*







Ebbene sì, ho fatto fare un cameo a Curtis con 2 stagioni d’anticipo perché lo adoro u.u
Per quanto riguarda il litigio Laurel-Nyssa (andiamo, voglio sapere per chi tifavate), ovviamente non volevo far fare a Laurel la figura della stronza della situazione, anzi, in questa long il mio obiettivo è quello di esplorare il più possibile il suo rapporto con Sara, e quindi la sua parte è quella della sorella amorevole, ma è anche giusto che in certi casi sia un po’ severa, se no qua se non fa la cazzuta lei non ne usciamo più. E il riferimento di Nyssa alla rabbia di Laurel verso Sara perché non le aveva detto di essere viva (2x13 per chi non se lo ricordasse) l’ho voluto scrivere perché ho sottinteso che Sara lo abbia raccontato a Nyssa lol
E dulcis in fondo… parliamo del nostro caro paparino. Era giunto il momento che Sara lo rivelasse, già nello scorso capitolo vi ho lasciati con l’ansia alle stelle e adesso avete visto la sua reazione di fronte alla notizia. Ehh Ollie, tu ti fai i problemi perché stai per diventare padre… se solo sapessi che hai già un altro figlio… xD o forse lo scoprirai? Mah! Chi lo sa. Questo spetta a me deciderlo… ;)

 

P.S. Prima o poi scriverò un missing moment sulla scena in cui Sara si è fatta dare da Curtis l’indirizzo del casinò in cui lavora la madre di Felicity, giuro.

   
 
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