Un mostro sopra di noi
La luce che illumina il porticato è intensa, tuttavia non abbastanza perché sia pieno giorno. Alzando lo sguardo al cielo, solo un azzurro limpido e un’aria statica.
Il portico è formato da quattro file di colonne, disposte attorno ad una piccola piazza in modo da circoscriverla in un quadrato. Le colonne sorreggono degli archi oltre i quali non c’è nulla: nessun ambiente interno, nessun ambiente esterno, solo pietre e polvere.
Qui non c’è solitudine, qui non c’è compagnia.
Nonostante dei gruppi esigui di ragazzi, fermi in dei punti precisi della piazza, è come essere soli. Tutti sembrano avere la bocca cucita. In compenso, gli sguardi guizzano da un volto all’altro, studiando, ponendo domande.
Qual è il tuo nome? Perché sei qui? Come ci sei arrivato?
Le domande ci rimbalzano addosso, scivolando nel silenzio. Sembra che nessuno voglia rispondere, o che nessuno abbia una risposta.
Io stessa non so che ci faccio qui, né come ci sono arrivata, né perché. Siamo intenti a fissarci, quando qualcuno compare sotto l’arco centrale del porticato. All’inizio è appena un’ombra: cammina lenta, l’andatura decisa e sicura.
Quando la luce la colpisce, l’ombra assume la forma di un ragazzo dall’aspetto trasandato. Il cappuccio di una felpa gli copre il capo e parte del viso, ma tutti sembrano percepire qualcosa di importante, in lui.
Ha l’aria di essere un leader e di esserne perfettamente consapevole, tuttavia non se ne cura. Continua ad avanzare, il capo chino, lo sguardo che scivola sul pavimento lastricato per poi risalire e posarsi con insistenza su ogni singolo ragazzo.
Per un attimo posa i suoi occhi su di me. È solo una frazione di secondo, un istante in cui tutto si ferma. Immagino un sorriso tendergli le labbra. Il ragazzo-ombra distoglie lo sguardo e si volta, ritornando verso l’arco sotto il quale è comparso.
Un borbottio dà voce a un pensiero comune.
Quella porta prima non c’era.
È proprio lì, sotto l’arco, incastrata nella muratura. E il ragazzo-ombra vi si avvicina a passo felpato.
Ci passerete tutti, uno ad uno. Nessuno escluso.
Rabbrividisco, perché quella che sento nella testa non è la voce della mia coscienza. Mi porto le mani alle orecchie in un gesto istintivo. Qualcuno mi imita, ma tutti continuano a fissare il ragazzo-ombra, sempre più vicino alla porta. La sua mano pallida si poggia sulla maniglia, l’abbassa, e la porta si apre.
Dentro, l’oscurità più totale.
Uno per volta.
Non so come sia successo.
Sto percorrendo delle scale, o forse sto camminando su una pianura. Sto volando, o forse immaginando. Se si tratta di un sogno, spero che finisca presto. Perché il ragazzo-ombra non ha fatto nomi, né indicato alcuno di noi. Ma io sono qui, su questa terrazza, dopo averlo seguito oltre quell’oscurità.
Dopo un lento cammino nel buio, il sole è un fendente contro i miei occhi. Mi ritraggo, finisco in ginocchio senza sentire la mia voce lamentarsi per le fitte.
Il ragazzo-ombra è dietro di me, mi poggia una mano sulla spalla, facendo una piccola pressione affinché mi rialzi.
Un contatto. Non mi chiedo cosa voglia dire. Lo sento. Questo ragazzo non è pericoloso, né scontroso. Il suo mutismo ha un perché, e la cosa potrebbe riguardarmi più di quanto non immagini.
Il ragazzo-ombra indica un punto impreciso sulla terrazza, ma non vuole che lo segua. Resto ferma mentre lui si allontana verso un tavolino e prende posto sull’unica sedia presente.
Sul tavolo c’è un puzzle. I pezzi sono sparsi sulla superficie, tutti uguali, tutti completamente bianchi. Continuo a guardarlo.
Lui si volta. Sotto il cappuccio, i suoi occhi dicono qualcosa.
Devo comporre il puzzle.
Mi chiedo se abbia senso. Lui annuisce e si mette al lavoro.
È una cosa più grande di noi. In questo momento, comporre quel puzzle è la sua missione. Comporre qualcosa di incomponibile e insensato, qualcosa di cui non è comprensibile l’inizio o la fine. E il mio compito è restare qui a guardarlo.
È lui che spreca il suo tempo, o forse sono io? Io che resto a guardare, immobile. Io che potrei aiutarlo, se solo volessi. Se solo lui me lo chiedesse.
Il ragazzo-ombra sembra intuire i miei pensieri. Con un cenno del mento, indica il puzzle, poi me.
Non posso donare qualcosa di rotto.
Sorride.
Quel puzzle è la sua vita. E’ a pezzi, perché il ragazzo-ombra ne ha vissute tante. È bianco, perché il ragazzo-ombra vuole mettere a tacere il passato. Lo sta ricomponendo ora, perché vuole che io lo guardi mentre sistema qualcosa di rotto.
E’ luminoso, perché il ragazzo-ombra vuole smettere di restare solo un’ombra.