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Autore: Pedistalite    21/04/2017    3 recensioni
Sam non ricorda bene cosa sia successo quella notte. Vaghi flash, impressioni, paura. Dean, il coltello e la sua ferita. Il sangue che non si fermava. Cosa è successo davvero? E perchè suo fratello ha provato ad uccidersi? Il senso di perdita fa tornare a galla emozioni represse negli anni e Sam è costretto a dover fare i conti con la sua attrazione incestuosa per Dean e le conseguenze del suo gesto. Come affrontano una situazione del genere due fratelli così diversi tra loro e con un rapporto da lungo tempo in crisi? Come cambierà la loro vita normale, in che modo ne risentiranno la loro famiglia semplice e le loro fidanzate?
AU di What is now and what should never be.
Genere: Angst, Dark, Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Dean Winchester, Sam Winchester
Note: AU, Lemon, What if? | Avvertimenti: Incest | Contesto: Seconda stagione
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Promises made for convenience

Aren't necessarily

What we need

Truth is a word

That's lost its meaning



 

I

 

Quando apri gli occhi ti rendi conto che devi aver perso la cognizione del tempo.

Forse dormivi, o riflettevi, o avevi un incubo, o ricordavi. Non è importante.

Ma un attimo prima eri in un prefabbricato in Illinois mentre tuo fratello si accoltellava… Cristo, mentre tuo fratello si trapassava lo stomaco con una lama da dodici, Dean che cazzo hai fatto?... E un attimo dopo sei all’ospedale con una sedia di plastica sotto al sedere e l’odore di disinfettante raggrumato nella gola.

 

La mano della tua fidanzata si insinua tra le tue percezioni, (anche se tutto ciò a cui riesci a pensare è Dean, il suo sangue che non si fermava, le tue mani sulla ferita, i suoi occhi appannati, il suo bisbigliare scomposto: Sammy… Sam, io… la telefonata al 911), ne senti il calore, il contatto, prima di scoprirla sulle tue dita, nel tuo campo visivo. La mano è rosea e affusolata, porta l’anello che tu le hai regalato (perché dovete, no, volete, sposarvi) e Jessica ti stringe il polso affettuosamente. Tu risali fino ai suoi occhi. Dean, pensi, Dean non mi ha mai chiamato Sammy…

 

“Sam?” ti scuote Jessica, un po’ incerta. E forse Dean è fuori dalla sala operatoria a questo punto… Lei sembra turbata, esitante. Sa che tu e tuo fratello non siete in buoni rapporti, capisce il tuo stato d’animo, è ovvio… (Carmen, tua madre in sottofondo non fanno che piangere…) ma non si spiega perché sembri così distante. Tu… tu lo sai. Mantieni un ferreo controllo sulle tue manifestazioni emotive, sembri pacato e razionale, ma dentro di te si agita una tormenta di schegge di ghiaccio che ti si conficcano nell’anima facendola a brandelli.

“Ti va un caffè?” le chiedi, di getto, mettendoti in piedi. Non riconosci la tua voce, non ricordi quando è stata l’ultima volta che hai bevuto qualcosa, che hai mangiato, l’ultima volta che hai detto qualcosa di significativo a tuo fratello. Sbatti le palpebre, rimetti a fuoco. Jess si è alzata, per guardarti meglio, le si corruccia la fronte e i suoi occhi assumono una sfumatura acquamarina, come se volesse trattenere le lacrime, l’isteria, ma si sentisse sull’orlo di un baratro. Scuote la testa, “Vuoi che ti accompagni?”

“No,” rispondi troppo velocemente, “Scusa, ho bisogno di fare due passi, schiarirmi le idee.”

Poggi le labbra sulla sua tempia, è alta la tua ragazza, anche con solo un paio di nike infilate di corsa. Indossa una delle tue felpe con la zip, sembra incredibilmente minuta mentre se la stringe attorno al corpo. E tu pensi che in altro momento potresti eccitarti al pensiero che porta qualcosa di tuo con tanta naturalezza, vorresti strappargliela e annusare sulla sua pelle il tuo odore.

Ma abbandoni quel pensiero e ti chiedi se il caffè sarà amaro come il sapore che senti in bocca.

 

Quando ritorni verso di lei (il caffè sapeva di sangue, era dolciastro e denso, non hai potuto berlo, l’hai rovesciato nel lavandino, quando sei finito a vomitare per lo stress in uno dei bagni destinati al personale autorizzato) Jess sta abbracciando Carmen, e tua madre sta parlando con uno dei chirurghi.

Di colpo ti si ferma il cuore e pensi che ti verrà un infarto (è tutto nero, tutto attorno a te diventa labile, rarefatto, vedi solo la schiena del medico, le lacrime di tua madre e la sua espressione dolente mentre annuisce). Ti volti. Appoggi una mano alla parete. L’odore di disinfettante è ancora più forte e ti ritorna la nausea, ma non hai più nulla da rigettare.

Se tuo fratello è morto, (se è in coma, se non si risveglierà mai più), non sei ancora pronto per saperlo. Forse puoi rimandare il momento bloccando il tempo, rimanendo in eterno appoggiato alla parete, lontano da tua madre, dal medico e dalla sua verità.

Ma non è così che può andare.

 

“Sam…”

Tua madre ti costringe pazientemente a voltarti, il suo volto è segnato, ma sembra in sé quando ti dice: “Tuo fratello è fuori pericolo.”

Chiudi gli occhi.

Respiri. Respiri una seconda volta. Dentro, fuori.

Imponi a te stesso di continuare a respirare. Forse sei appena venuto al mondo. Forse stai per morire. E invece respiri. Ti sforzi. Esisti.

Come se fosse normale.

 

Sai perfettamente perché non riesci a convincerti che il peggio è passato.


***


Doveva essere l’estate del 2000 o giù di lì.

Diciotto anni da poco compiuti e una tale voglia di sbronza da spingerti a rubare le chiavi della macchina dalla tasca della giacca di tuo padre e uno degli infiniti documenti d’identità falsificati di tuo fratello (anche se ormai ha l’età legale per bere, a cosa gli servono?).

Il posto è uno come tanti. Lawrence è una cittadina piccola e i bar sono sempre gli stessi, a meno di non andare a sud, verso l’interstatale e fermarsi a uno di quelli con l’insegna al neon traballante e i camionisti che si fumano una sigaretta nel parcheggio prima della consueta rissa con qualche gang di motociclisti. Di solito quel tipo di locali ha sempre un nome innocuo, come Da Joe, o Alla Taverna, o Barbecue Bill, ma è tutta apparenza. Varcata la soglia ci sono i tavoli verdi dove gli artisti della truffa ripuliscono i malcapitati, le salette fumose in cui si nascondono i giocatori d’azzardo, i banconi di legno perennemente bagnato dove bisogna fare sempre attenzione a non dire una parola di troppo. Ma in quel periodo tu di queste cose non sai niente, sei ingenuo e alto e dritto come una freccia. Appena uscito dai libri di scuola, o dal campo di football.

 

Il Roasted Meat è il locale che avete scelto. Un postaccio della peggior specie che tra qualche anno verrà fatto chiudere da un troppo zelante ispettore della commissione d’igiene.

Ti appoggi allo sgabello con un’anca e chiedi la tua prima birra alla barista. Lei è una brunetta tutta curve dall’aria maliziosa, quando ti serve ti fa l’occhiolino e uno dei tuoi amici ti da una gomitata. Ti sforzi di non abbassare la testa o sentirti imbarazzato perché stasera non ti senti un adolescente paffuto con le mani grassocce, ma Sam. Solo Sam. E ancora non sai se è meglio o peggio. Non ti capaciti. Ma intanto hai preso la giacca di pelle che tuo padre ha regalato a Dean per i suoi diciotto anni e l’hai messa addosso. Se hai inalato l’odore di tuo fratello quando ne hai alzato il bavero e carezzato i contorni con le mani adesso non te lo ricordi più. Ti va un po’ lunga, forse è troppo larga nelle spalle, ma la riempirai bene, un giorno, anche se non sarà mai tua.

Ancora non puoi saperlo, ma quando poi ripenserai a quella notte, a quando tutto è cambiato, ti rammaricherai che sia stata l’unica volta in cui hai potuto indossarla. Penserai che quella giacca è un po’ come Dean: avvolgente e soffocante allo stesso tempo. Se fosse tua non sapresti che fartene, non la porteresti mai perché non fa parte del tuo stile da bravo ragazzo all-american-golden-boy, ma non smetti di desiderare di possederla.

 

Alla fine della serata hai bevuto talmente tanto che ti scoppia la vescica. Non sei del tutto certo che i tuoi amici non abbiano organizzato qualche scherzo alle tue spalle, che magari abbiano scommesso su quanto il piccolo dei Winchester possa bere prima di sentirsi male, ma ti diverti ad accontentarli, a farti passare bottiglia dopo bottiglia, svuotare bicchiere dopo bicchiere, osservando i loro risolini e le loro guance rosse da sotto palpebre socchiuse.

Ti alzi, ondeggi un poco e ti sembra che l’alcol si faccia di nuovo strada prepotentemente su per la gola, ma riesci a tenerlo a bada e ti controlli. Si è fatto tardi. C’è un sacco di gente, spintoni per arrivare ai bagni. Una ragazza ti si butta addosso, è ubriaca fradicia, tu la reggi per non farla cadere, ma non ti viene voglia di sbirciarle dentro il vestito.

 

Nei bagni ti accorgi che la tua immagine nel riflesso dello specchio è doppia (ti accorgi dei rumori di sottofondo oltre il chiacchiericcio), dopo che ti sei liberato ti sciacqui la faccia, metti i polsi sotto l’acqua fredda (non vuoi andartene, non vuoi uscire, quei rumori, vuoi sentirli meglio, vuoi capire…), ti giri, senti una vertigine e un rigurgito, ingoi, ti appoggi alla parete, sei di fronte a uno dei box aperti adesso (non puoi fare a meno di guardare, sei curioso, la testa ti gira, e quei rumori…).

 

Vedi due uomini (non sai cosa hai visto, sei troppo ubriaco).

Uno dei due è inginocchiato, l’altro ha la testa rivolta all’indietro, gli occhi chiusi, mantiene una mano nei capelli del compagno, stringe, tira (l’uomo con gli occhi chiusi se li aprisse potrebbe guardarti, forse sa che sei lì e non gli importa, e lo eccita).

All’improvviso ti viene duro, l’erezione ti riempie i pantaloni e non sai perché ti succede, lo trovi perfino un po’ disgustoso, certamente poco pulito (lo sai perché, vorresti che qualcuno ti facesse provare quella sensazione, vorresti affondare il tuo membro in una bocca calda, sentire la lingua sopra di te…) ti tocchi, ti infili la mano nei boxer e sei ubriaco, e non puoi farne a meno, e pensi a Molly Tomphson e a quelle sue gonne troppo corte (pensi che con un uomo sarebbe diverso, meglio, un uomo che ti mantiene i fianchi con le sue mani ruvide e decide l’inclinazione delle spinte e… oddio… ti minaccia con lo spettro dei denti, perché non ha paura di mordere…).

La sensazione non è diversa da quando ti masturbi nella tua camera o sotto la doccia, ma la consapevolezza che quell’uomo, se solo aprisse gli occhi, potrebbe vederti, amplifica le tue percezioni, la frenesia (vuoi che quell’uomo ti veda, vuoi guardarlo bene mentre fotte la bocca del suo compagno e tu fotti la tua mano). Poi abbassi lo sguardo, non ti sei mai sentito così, non sai perché provi quello che provi (lo sai… lo sai…), il tuo membro sotto le dita è spesso e rosso, ti sembra di non averlo mai avuto così duro, ti sembra che Becky Sundrise non ti abbia mai eccitato così con le sue manine e quella boccuccia a cuore dietro gli spalti dopo una partita (poi abbassi lo sguardo e vedi qualcosa, ma sei ubriaco, non sai cosa hai visto…). Ti coglie una vertigine più forte delle altre, e anche se sei sul punto di venire, ti coglie alla sprovvista un’ondata prepotente di nausea che non sai come trattenere e l’orgasmo si blocca (quello che vedi ti lascia sconvolto, non sei preparato, non te l’aspetti… niente, non hai visto niente, sei troppo ubriaco, non sai quello che vedi…).

Non puoi farne a meno, è genetica, è certezza, è un fatto (si, è così, non l’hai mai saputo, ma l’hai sempre sospettato…)

 

Riconosci la maglietta di Dean, nera con una stampa dei Led Zeppelin, eravate insieme in un negozio dell’usato quando l’ha comprata l’estate scorsa (non è vero, è una maglietta comune, potrebbe essere di chiunque). Riconosci la forma della sua schiena, i suoi capelli castani dalle punte più chiare, stranamente i calzini a righe che gli hai visto infilare quella mattina (non riconosci niente, sei ubriaco, non sai quello che vedi, è impossibile). Soprattutto riconosci i gemiti che gli sfuggono quando ingoia più a fondo e porta le mani sopra i fianchi dell’altro uomo, le sue mani hanno al dito il suo solito anello e al polso il suo braccialetto di caucciù, tu ce l’hai uguale e te lo guardi, perplesso (non puoi riconoscere i suoi gemiti, non li hai mai sentiti, se non quella volta, per sbaglio, lui era con una ragazza, ma pensava che tu dormissi, dormissi…)

L’ondata di nausea ritorna. È Dean. Dean sta facendo un pompino a uno sconosciuto nel bagno di un locale mentre tu ti tocchi l’uccello e lo guardi. È la cosa più disgustosa che potesse capitarti (è la cosa più eccitante che ti sia mai capitata…)

 

L’altro uomo (l’uomo che sta fottendo la bocca di tuo fratello) ti sta guardando. Te ne accorgi all’improvviso. Ti domandi confusamente da quanto lo fa, se il fatto che tu sia lì gli piace, glielo drizza di più del talento di chi lo sta succhiando. Ma ti senti sommergere dalla vergogna. Dean non si deve accorgere di te, non può sapere che l’hai visto, che sei lì (non può sapere che razza di deviato sei, a eccitarti mentre tuo fratello è in ginocchio tra le cosce di qualcun altro).

Non è colpa tua, tu non lo sapevi, non potevi immaginare, e poi non è Dean, non può essere Dean. Vorresti accertartene, forse vorresti che il ragazzo inginocchiato ti vedesse, ti guardasse, si accorgesse che non sei nessuno (ma invece devi scappare da lì, perché i gemiti sono diventati più forti, e tutto sta per finire, e non può vederti, ed è Dean, è Dean).

Per la paura l’erezione ti si affloscia. Non ti fermi nemmeno a lavarti le mani, ma chiudi la cerniera lampo di fretta e te le infili in tasca. Fuori dai bagni c’è talmente tanto fumo che ti lacrimano gli occhi, e la confusione del locale, il chiacchiericcio, la musica di sottofondo, il caldo ti fanno sentire a due passi dal collasso. Quando guardi il bancone e il vostro tavolo non riconosci nessuna faccia. Esci nel parcheggio barcollando su ginocchia inferme e non vedi più le due auto di Rob e Jimmy. Non sei in grado di guidare fino a casa, e sai già che tuo padre darà di matto quando domani mattina si accorgerà che gli hai preso la macchina senza permesso e che non hai dormito nella tua camera, ma non puoi farci niente.

Solo che Dean non può riconoscere l’Impala nel parcheggio, o trovarci dentro il suo fratellino che se la dorme della grossa per smaltire la sbronza e lo shock, quando uscirà dal locale per concludere la serata da qualche altra parte (nel letto di qualcun altro…).

Metti in moto, non sai nemmeno come ti trovi davanti al volante, ma guidi al minimo consentito, con i finestrini spalancati e la radio accesa sulla stazione più rock che riesci a trovare, pregando di non incappare in qualche controllo casuale del dipartimento dello sceriffo.

Sei esausto e ammetti con te stesso che non potrai arrivare a casa. Dopo dieci minuti bestemmi contro quei bastardi dei tuoi amici che se la sono svignata e accosti nella prima piazzola di servizio che trovi. La pompa di benzina è chiusa, ma c’è un piccolo supermercato ancora aperto, da fuori puoi vedere il commesso che ti adocchia e poi ritorna alla sua rivista con aria svogliata. Forse dovresti comprare una bottiglia d’acqua, farti cambiare una banconota e chiamare tuo padre dal telefono a gettoni per pregarlo di venire a prenderti. Ma invece, a tradimento, schizzano nella tua mente alla velocità della luce fotogrammi impazziti, ti immagini al posto dello sconosciuto e pensi che potresti morire (per l’eccitazione, la negazione, la vergogna., l’imbarazzo…) poi ringraziando dio ti addormenti di colpo con una mano sul cavallo dei pantaloni e un pugno chiuso in bocca.

 

Quando ti svegli la mattina dopo, con la bocca impastata e i segni dei denti sul dorso, sei certo che tuo padre ti stia già aspettando con le mani sui fianchi sotto al vostro portico, mentre la mamma proverà a calmarlo con qualche parola gentile.

Sai già che sarà una litigata epica, tu sei su di giri da ieri notte (da quando hai visto…) e tuo padre non ti capisce, stai crescendo troppo in fretta e lui non sa più cosa vuoi o cosa può aspettarsi da te. Dean starà smaltendo i postumi dei bagordi nel suo letto, e resterà beatamente ignaro delle sue responsabilità in questa storia (stava solo godendosi una bella serata sulle ginocchia, ma non era il tuo uccello che teneva in bocca.  E perché poi la cosa ti infastidisce?).

Lo sai e non puoi farci niente.

 

Quel giorno, dopo che tutto finisce (dopo che tuo padre ti confisca il documento falso e ti chiede chi te l’ha dato e Dean arcua un sopracciglio quando tu rimani in silenzio), tiri fuori da sotto il letto gli opuscoli per Stanford. Palo Alto. Tutto sommato la California ti sembra abbastanza lontana.

Si, sei quasi soddisfatto della tua presa di posizione, ma non riesci a sorridere.

 

Eppure quello è il momento in cui decidi che partirai.


***


Il letto d’ospedale è troppo grande, le lenzuola troppo bianche e tuo fratello troppo immobile.

Se non ci fossero le macchine a rassicurarti che è vivo, che dorme, che si riprenderà, ti convinceresti che è una statua. E forse ti sentiresti sollevato.

La tua poltroncina è vicinissima al bordo del letto, sei tentato di sfiorare uno dei suoi polpastrelli per capire se è caldo, se è vivo, se veramente esiste, ma ti trattieni. Ti senti emotivamente troppo destabilizzato per tentare una cosa del genere. Una piccola incrinature e la tua maschera di pacato funzionalismo andrebbe in frantumi.

Lo fissi, perché adesso puoi farlo. Perché Dean è nudo e non si nasconde. Perché non può schermarsi dietro ai suoi manierismi e non può impedirti di memorizzare ogni particolare. Né può venire a saperlo. Passano minuti, forse ore. È notte fonda. Hai dato il cambio a tua madre, hai convinto Jess e Carmen ad accompagnarla a casa e a riposare. Vuoi rimanere da solo con tuo fratello, perché avete tanti di quei conti in sospeso che non sapresti da che parte cominciare a saldarli, chiunque sarebbe di troppo fra di voi in questo momento. E poi, al diavolo Dean, apri quei tuoi fottuti occhi di giada e guardami. Il fatto che lui abbia provato a uccidersi… e che tu non sappia il perché… ti fa impazzire.

 

Quando Dean si sveglia ti accorgi che ha le pupille iniettate di sangue. Non sai cosa significa, se è rilevante, se è sintomatico, se è grave, sai solo che il mondo si rimpicciolisce e si condensa al centro del tuo petto, diventa come un chicco di riso, ma assume il peso specifico dell’intero universo.

 

I tuoi ricordi di quella notte sono piuttosto confusi. Sai per certo di aver sorpreso tuo fratello nel salotto buono della casa della vostra infanzia mentre rubava dell’argenteria, sai che ti ha raccontato una storia abbastanza plausibile sul dovere dei soldi a un allibratore, sai che non hai potuto lasciarlo andare da solo e quando Dean si è voltato per bisbigliare: dì alla mamma che le voglio bene, tu hai fatto la tua scelta e l’hai seguito.

“Perché?” “Perché sei comunque mio fratello.”

 

Non sai precisamente quanto è durato il viaggio in auto fino all’Illinois. Se ci pensi il mal di testa si fa talmente lancinante da sembrare una colata lavica nel tuo teschio. Non riesci a mettere in ordine i pensieri: sai che eri a Lawrence, nel vialetto della casa di tua madre, sai di aver aperto la portiera dell’Impala e sai che Dean ha messo in moto e il buio vi ha inghiottito entrambi. Ma non sai perché tuo fratello era così determinato ad andare laggiù (non sai cosa c’era, cosa lui si aspettava di trovare…). Quella notte il magazzino abbandonato ti sembra un set male allestito di un horror di serie b, hai vaghi flash delle pareti sporche, del caos, dei piccoli rumori che di solito indicano roditori e insetti rosicchiare e strisciare nell’oscurità e d’istinto ti si accappona la pelle. Poi, come una sferzata di cinghia, Dean tira fuori quel coltello… non ricordi precisamente come è successo ma la sensazione ti lascia confuso e tremante.

L’ultima cosa che sai (l’ultimo flash, impresso a fuoco nella tua memoria) è quella lama che spunta fuori dall’addome di Dean, il sangue che in gocce dense e piene gli sgorga dalla bocca.

 

Vorresti gridare, ma ti accorgi della differenza.

Razionalizzi. Questo è il presente (quello è il passato).

Dean è vivo, vivo. Lo guardi per accertartene e il sollievo è talmente prepotente da nausearti.

 

Vorresti chiedergli perché l’ha fatto, ma hai paura di saperlo. Alla fine gli fissi la bocca, è arsa.

“Vuoi qualche cubetto di ghiaccio? Lo puoi succhiare per dissetarti…” La voce ti trema. Fanculo, ti senti le guance in fiamme e anche se tuo fratello è ridotto come uno straccio, la mente ti fa un brutto scherzo e alle tue stesse parole congiura una fantasia disturbante. Scuoti la testa e ti alzi, per mostrarti indaffarato, speri che Dean non colga il tuo imbarazzo, non se ne chieda la ragione… è sempre stato così tra voi, in bilico tra tensione, familiarità, connessione, disgusto e rabbia fin da che riesci a ricordartene. E Dean ha sempre fatto finta di non capire, ha sempre scrollato le spalle e portato a casa una parata di ragazze, per rimandare i suoi incontri di altro genere ai cessi dei bar. Ma per quello che ne sai… magari ti sbagli. Magari quello che hai visto a diciotto anni è rimasto un episodio isolato. Magari te ne sei convinto perché sei malato e disturbato, ma non è vero niente e Dean non si è mai inginocchiato in vita sua di fronte a nessun altro che non sia Cristo in croce, la domenica a messa. Merda, sei proprio fottuto: Dean deve averti detto qualcosa ma tu, perso nel tuo monologo interiore, non hai sentito.

 

“Sam…” insiste tuo fratello. Ha la voce rauca, non sarà riuscito a biascicare nulla di più di qualche parolaccia. “Che succede? Perché…”

Non fa in tempo a finire. Prontamente perde i sensi.

Ti risiedi sulla poltrona perché anche se ti tremano le mani adesso non devi più nasconderlo. Ti passi le dita tra i capelli, sono un groviglio troppo lungo e umido di sudore, inizi a sentirti disgustato di te stesso (ma quella è una impressione a cui sei abituato…)

Prima di cercare di riposare con gli occhi socchiusi, pensi che sarebbe meglio se ci fosse la mamma quando Dean si risveglierà.

 

Ma non sei fortunato.

Devi aver dormito una mezz’ora, ma spalanchi gli occhi di colpo e Dean è lì. Immobile, ma sveglio. La camera sembra improvvisamente troppo piccola, troppo calda. Vorresti alzarti, spalancare una finestra, sottrarti a quell’esame minuzioso (da quanto ti fissava? Perché? Cosa non ti dice con quel suo sguardo? Non può lasciarti in pace per una volta?). Invece annuisci e ti sforzi di sorridere.

“Ehy, come ti senti? Siamo in ospedale Dean, è tutto ok. I medici si sono presi cura di te.”

Tuo fratello non ti sorride. “Perché…” tossisce. Vorresti toccarlo, ma sai che non te lo consentirebbe. “P-perché… ospedale?” ti domanda con una delle espressioni di più onesta confusione che tu gli abbia mai visto.

“Non ti ricordi niente?”

Lui scuote la testa. Magnifico… non volevi essere tu a doverglielo dire.

Pensi che forse dovresti trovare un modo per ingentilire la verità (mentire, accampare una scusa, lasciare che sia qualcun altro a spiegargli…) ma alla fine lo guardi dritto negli occhi (i suoi sono così tersi che sembrano creati con il vetro di una bottiglia) e gli dici:

 

“Hai provato ad ucciderti con una coltellata. Ti hanno salvato per un soffio.”

 

Dean sembra pietrificato. Non sai per quanto tempo rimanete a fissarvi e poi lui inizia a scuotere la testa convulsamente. “No… io… mai…”

Non ricordi di averlo visto allo stesso tempo tanto spaventato e furioso da quando Bobby Lowson ti ha rispedito a casa con il naso rotto, un occhio nero e senza scarpe a dodici anni.

 

“L’hai fatto Dean,” lo fermi, perché non vuoi più ascoltare le sue scuse (è tutta la vita che ve le racconta, e mamma glielo ha sempre permesso) “Lo hai fatto davanti a me.”

E vorresti aggiungere: io ti ho mantenuto le mani sulla ferita, oppure: sento ancora l’odore del tuo sangue, non importa quanto mi lavi, oppure: il gemito che hai esalato quando hai abbandonato indietro la testa lo ricorderò per tutta la vita. Ma alla fine non dici altro.

 

Dean ti guarda come se tu fossi il suo nemico giurato, come se volesse farti del male: “Stronzate. È impossibile,” sibila. Continua a esercitare quel suo potere su di te, immobilizzarti con una parola, con una espressione. E per te è tutto improvvisamente troppo. Lui, la sua intensità, la sua corazza sgretolata da una lama impugnata saldamente e la sua determinazione a escluderti, a non fidarsi.

Sei stanco.

Hai avuto una settimana di merda da quando sei arrivato dalla California per il compleanno della mamma. E hai un esame da preparare. Devi ritornare alla tua vita, sposare la tua ragazza. Riprendere delle sane abitudini. Uscire da quella stanza e cominciare a respirare di nuovo.

 

“L’hai fatto Dean. Come hai potuto? Non hai pensato alla mamma, a Carmen? Vuoi farle morire di crepacuore?” ringhi la domanda con una certa, brutale ferocia. (In realtà vorresti dirgli: come hai potuto? Non hai pensato a me? Perché hai dovuto farlo davanti ai miei occhi? Non hai pensato a ciò che avrei provato io?)

 

Tuo fratello non risponde. Sembra confuso, sperduto, colpevole.

E tu ne hai abbastanza.

Lo guardi un’ultima volta. Non sai quando lo rivedrai così vulnerabile, forse mai più. Forse dovresti insistere, dovresti sforzarti di trovare il coraggio per fargli quella domanda. Vuoi sapere il motivo, vuoi sapere cosa è successo (vuoi sapere se potrebbe rifarlo…).

Vuoi sapere troppe cose e in fondo sei un codardo.

Per tutto il tempo Dean ti fissa (basta. Basta! Non fai che fissarmi senza parole. Che cosa VUOI?) senza una vera espressione.

Getti la spugna. Ti alzi. Cammini. Dal letto alla soglia sono nove passi, ti sembra di percorrerli in un istante. Accosti la porta con lentezza dietro di te, non ti senti capace di un solo gesto violento, perché se ti lasciassi andare alla rabbia non sapresti più da dove ricominciare a rimettere insieme i pezzi, continuare a esibire la tua maschera di composta razionalità.

 

Il corridoio è scarsamente illuminato e valuti confusamente quanto ci rimetterà Dean a riaddormentarsi, quando sarà abbastanza prudente rientrare nella sua stanza, quando arriverà vostra madre o la sua ragazza a permetterti di andartene veramente…  Lo spazio che c’è fra di voi è troppo e non è abbastanza. È frustrante. Stargli vicino ti sembra impossibile, ma stargli lontano ti fa paura.

Vorresti avere il coraggio di gridare maledizione perché l’hai fatto, Dean?

Ma non puoi chiederlo. Sei terrorizzato. Te lo senti nelle viscere.

 

Sei convinto che ti direbbe che è tutta colpa tua.

   
 
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