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Autore: nitin    22/04/2017    6 recensioni
Questa Klance si articola in sms, di tanto in tanto interrotti da qualche spiegazione giusto per far capire che, in realtà, c’è un filo logico dietro a questa trashata.
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Cosa diamine era successo, la sera prima…?
31/03
11:04
“Appena puoi, dimmi se ti senti meglio.”
11:04
“Bellissima dichiarazione, comunque. Dovresti fare il poeta.”
11:04
“Adesso vado a dormire. Vedi di non chiedermi di sposarti in questo lasso di tempo.”
Genere: Angst, Comico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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IMPORTANTE: leggete in fondo per le note. ♡
Dico solo: scusate.
Song Thread:
Shakira – Dare: https://www.youtube.com/watch?v=aUxuQ6cxfT0
Deorro – Cayendo: https://www.youtube.com/watch?v=7p3ZbzYYFv0
Christina Aguilera – Candy Man: https://www.youtube.com/watch?v=-ScjucUV8v0
The White Stripes - Seven Nation Army: https://www.youtube.com/watch?v=-m7e7tCn7Bk
 
 
CAPITOLO 15 (pt.2)
 
29/09, Santa Cruz del Norte, Cuba, ore 04:46
 
« Dom, secondo te, se quelli che guardano anime sono otaku… Io sono un otacos? »
« … Cosa? »
« L’hai capita? Per i tacos! »
« I tacos sono un piatto messicano, non cubano. »
« Oh… Hai ragione. »
 
Questa era la situazione dei due fratelli McClain alle cinque meno un quarto del mattino, mentre il maggiore faceva benzina in una specie di scadente autogrill sulla Via Blanca, che collegava il nord di Cuba con la tangenziale di Varadero.
La strada per l’aeroporto Jose Martì era ancora lunga, erano entrambi stanchi, e Lance alternava minuti di sonno a minuti di totale iperattività, durante i quali Dom lo avrebbe volentieri buttato fuori dal finestrino.
Perché sì, Dom era un ragazzo paziente, ma c’era un limite a quante volte una persona potesse ascoltare “Dare” di Shakira (chiaramente la versione in spagnolo) di seguito senza sentire il cervello iniziare a sfrigolare.
Che poi, povero Dom, in quella situazione ci si era messo da solo. Era ovvio che avrebbe preferito essere nel proprio letto a dormire piuttosto che accompagnare quello scandalo vivente del proprio fratellino fino a L’Avana, ma… Ma poi Lance sorrideva, arrossiva, gli parlava di Keith e di tutte le cose che avrebbe voluto fare con lui, e il maggiore si convinceva sempre di più che stesse facendo la cosa giusta.
“Mamà y papà no tienen que saber nada. Nada, Lance, claro?” aveva premurato il fratellino con quelle parole, e il più piccolo lo aveva rassicurato. Ma sarebbe davvero riuscito a mantenere quel segreto? Sospirò.
 
« Senti, ho fame. Vado a prendere delle caramelle, okay? » sussurrò Lance, uscendo dalla macchina senza neppure aspettare la risposta del maggiore (che, peraltro, sarebbe stata un sonoro ‘sì’, perché Dom amava le caramelle).
Si infilò in tasca il portafogli, entrando nel negozietto accanto al distributore di benzina. Fuori era ancora buio, le stelle brillavano nel cielo, ogni cosa era tranquilla, poche erano le macchine che passavano in strada, e ancora meno erano quelle che si fermavano a fare benzina.
Lance, invece, dentro di sé, aveva una tempesta. Era agitato come non lo era mai stato prima, ma se non altro conosceva la fonte della propria ansia.
« Prendo queste. » sussurrò all’uomo al bancone, mostrandogli una manciata di varie caramelle alla fragola e ai frutti rossi, che pagò con gli spiccioli di meno valore. I soldi più grossi se li sarebbe dovuti tenere per girare per Seul.
Prese le caramelle, infilandosele nelle tasche della felpetta rossa, che aveva indossato per colpa della fresca aria mattutina, prima di uscire dal negozio. Dom lo stava già aspettando davanti al volante, con la macchina accesa e rombante, con un gomito fuori dal finestrino, con un paio di occhiaie che gli contornavano le iridi chiare.
« Ti muovi, hermanito? Guarda che parto senza di te. » lo stuzzicò il maggiore, e Lance salì in macchina, porgendogli subito una caramellina.
E Dom, tenendo la caramellina alla ciliegia tra i denti e la lingua, ripartì verso quello stramaledetto aeroporto.
 
 
Mezz’ora dopo erano sul Primer Anillo, la tangenziale che circondava L’Avana, con i finestrini abbassati, gli occhiali scuri e la musica a tutto volume. Il sole era sorto e, nonostante i fratelli McClain non fossero esattamente tipi mattutini, la grande stella sembrava aver infuso in loro la linfa vitale necessaria a farli risvegliare completamente, o almeno fino al loro arrivo all’aeroporto.
Lance teneva una mano sulla spalla del fratello, l’altra fuori dal finestrino, e faceva muovere quest’ultima come un’onda mossa dal vento, come i bambini amavano fare per passare il tempo in macchina. Lui, invece, lo faceva perché era felice, felice da morire, e perché anche lui, come quella mano, stava per spiccare il volo. Verso Keith.
 
« Mira mi amor, quisiera hacerte entender como los besos de tus labios me enloquecen a mí me tienen cayendo… Cayendo, oh, oh! »
 
Così cantavano, insieme, i due fratelli, con tutto il pathos e la tragicità della quale fossero capaci, con le mani l’uno dell’altro usate come microfoni, con Dom che sbandava un po’ con la macchina sulla strada deserta, con Lance che ballava allegro nel sedile accanto a lui.
Erano le cinque e un quarto del mattino, era sveglio da tutta la notte, era in una macchina estremamente scadente e stretta… Eppure, nonostante ciò, Lance sapeva essere sensuale. Sapeva muovere i fianchi, le braccia, il viso, sapeva lanciare occhiate al cielo che avrebbero fatto vergognare persino il sole stesso, con quegli occhi di puro ghiaccio, eppure estremamente caldi. Non lo faceva consapevolmente, non era qualcosa che controllasse: semplicemente, era nato per ballare, per cantare, per muovere i fianchi attorno ad un falò sulla spiaggia.
 
« Bésame la espalda, léntame las curvas de mi cuerpo con tu lengua, si me escuchas no sé qué estoy diciendo, oh, oh… Estoy cayendo, oh, oh!  »
 
Anche Dom, però, non era esattamente male. A dire il vero, beh, era stato lui ad insegnare al fratellino come muoversi.
Dom aveva il viso da adulto, gli occhi dello stesso colore di quelli di Lance, la pelle solo leggermente più chiara… Ma il sangue che scorreva nelle loro vene era lo stesso, ed era caldo. Era sangue latino, era sangue McClain, e ai McClain bastava davvero una buona canzone e qualche caramella alla frutta per essere felici.
Tranne per Lance. Lance era felice soprattutto per i biglietti dell’aereo che aveva posato cautamente all’interno della borsa. Ecco perché era felice.
 
Effettivamente, però, erano parecchio in anticipo. Tra una cosa e l’altra, tra il traffico che si era venuto a formare all’uscita dal Primer Anillo e le soste di Lance che, furbamente, si era fatto venire la tachicardia a furia di cantare, erano arrivati all’aeroporto poco prima delle sei del mattino.
« E adesso che facciamo, per tre ore? » sbuffò Lance, sbattendo la portiera della macchina e prendendo tutte le valigie « Potremmo fare un giro per L’Avana! Sono anni che non ci andiamo! »
« Lancey, con la fortuna che hai, perderesti l’aereo. Stiamo qui e spiegami cos’hai intenzione di fare, una volta arrivato a Se… Su… Sol? »
« Seul! E comunque, mi duole dirlo, ma hai ragione. Andiamo dentro, magari c’è l’aria condizionata. »
E dentro l’aeroporto, dove c’era tutto meno che l’aria condizionata, Lance attese il volo che gli avrebbe cambiato la vita.
 
 
29/09, Seul, Corea del Sud, ore 20:15
 
« Che leggi? » la voce di Shiro, appoggiato allo stipite della porta, era bassa e tranquilla, segnata da un sorriso.
« Joyce. "The Dubliners". » rispose Keith, mostrandogli la copertina del libro, mentre stava seduto a gambe incrociate sul letto, esattamente dove avrebbe dovuto esserci il cuscino.
« Quale racconto? » Shiro gli si avvicinò piano, le mani in tasca, i passi brevi e leggeri, mentre stava attento a farsi strada tra le valigie e i sacchetti pieni di libri e altri vari effetti personali.
« "Eveline". » il moro sussurrò disinteressato, con gli occhi (quel giorno erano di uno scuro colore grigio) che scorrevano orizzontalmente lungo la pagina macchiata da paroline nere.
Keith era assorto. Aveva letto quel racconto almeno una ventina di volte, ma ogni volta era come la prima.
Non amava lo stile di Joyce, anzi, gli sembrava complicato e difficile da seguire... Tuttavia, ormai, gli sembrava di essere diventato amico di quella ragazza, Eveline, la quale, per quanto desiderasse scappare dal mondo in cui viveva, da quel mondo che la faceva sentire triste, bloccata, insoddisfatta, finiva comunque per rimanere lì. Buttava via le sue possibilità di cambiare vita, e rimaneva lì.
Keith si era sempre rivisto in lei. Si era rivisto in quel desiderio di evadere, eppure anche in quella sensazione di essere legato a quel posto infernale da una forza maggiore, che andava oltre le proprie possibilità.
Ma Keith aveva sempre dato torto a Eveline. Perché lei, a differenza propria, aveva avuto la possibilità di scappare da Dublino, ne aveva avuto i mezzi, e li aveva distrutti. Aveva fatto male. Avrebbe dovuto scappare, andare via, andare a Buenos Aires e sposare il ragazzo che amava.
E ora, in quel preciso momento, Keith realizzò completamente, al cento per cento, che Eveline aveva sempre avuto torto.
Perché Keith avrebbe fatto il contrario, lui avrebbe lasciato quel posto e sarebbe scappato, sarebbe andato a Cuba con il ragazzo che amava, e non avrebbe cambiato idea all'ultimo, non avrebbe lasciato che i brutti pensieri lo tenessero inchiodato a quell'inferno.
 
Keith sorrise, leggendo l'ultima riga di quel racconto con tutto il cattivo giudizio possibile raccolto negli occhi, poi chiuse il libro.
« Ci pensi, Shiro? » sussurrò il moro, alzando lo sguardo « Questa è la mia penultima sera, qui. Poi non ci tornerò mai più. »
« Lo so, » rispose il più grande, sedendosi sul bordo del letto dell’amico « e ammetto che mi mancherai. Ma sono terribilmente felice per te. »
« Perché dovrei mancarti? Sarò il tuo coinquilino per una settimana! »
Shirò simulò una risatina. Aveva rischiato di far saltare la copertura a Lance.
« Hai ragione. E non pensare che sarà facile! Io dovrò lavorare, quindi sarai tu la donna di casa! » rise il maggiore, e il moro mise da parte il libro, con un sorriso dipinto sulle labbra.
« Ma se non so neanche cucinare… »
« Ti insegnerò io! Pensi che Lance ti cucinerà tutto, quando sarai a Cuba? »
Keith sorrise, se possibile, ancora di più. Oh… Lance. Anche solo l’idea di mangiare un piatto cucinato da Lance lo faceva elettrizzare, gli faceva aprire lo stomaco, e Keith non era esattamente uno che amava mangiare.
« Beh… Lance ama cucinare, non si sa mai… » sussurrò, scrollando un poco le esili spalle coperte dal tessuto scuro e leggero di una maglietta.
Shiro si morse il labbro inferiore. L’idea che Keith fosse stato capace di farsi del male gli aveva sempre fatto stringere il cuore. Ma ora, vederlo sfoggiare quelle spesse e profonde cicatrici biancastre sulle braccia come se fossero state nulla più che un minimo difetto fisico lo faceva sentire estremamente contento.
Shiro la vedeva così: al mondo, c’erano persone e persone. Certe persone riuscivano a gestire bene i loro problemi, mentre altre, al contrario, non erano in grado di sopportarli più di tanto. Ma tutti, alla fine, dovevano andare avanti, in un modo o nell’altro; e Keith ne era l’esempio lampante.
Orfano, solo, depresso, con il cervello in lotta con se stesso, era riuscito a sopravvivere nonostante tutto, e ora aveva trovato la sua felicità. Aveva trovato la speranza, e nessuno avrebbe potuto portargliela via.
Quella sua speranza era fragile, questo era vero, ma era pur sempre una speranza. Lance gli aveva dato speranza. Shiro stesso gli aveva dato speranza, salvandolo.
Con il tempo, e il maggiore ne era sicuro, Keith sarebbe diventato più forte di se stesso e Lance messi insieme.
 
« Comunque, è ora di cena. Scendi con me? » Shiro si alzò in piedi, porgendo al più piccolo una mano robusta. Cioè, l’unica mano ‘vera’ che avesse, essendo l’altra una protesi di metallo leggero. Aveva perso un braccio quando era ancora un ragazzino, in un brutto incidente. Un’automobile lo aveva preso in pieno, strappando via il suo avambraccio destro, mentre il resto del braccio avevano dovuto amputarglielo. Era sopravvissuto per miracolo.
Keith strinse la sua mano, alzandosi in piedi.
« Andiamo. Ho fame! » esclamò, e Shiro poté davvero confermare che, sì, quel ragazzino stava finalmente guarendo.
 
 
29/09, L’Avana, Cuba, ore 09:51
 
Quei poveri biglietti aerei dovevano avere la nausea, ormai, tanto che Lance se li rigirava tra le dita mentre aspettava il volo.
Quegli stupidissimi biglietti, quegli stupidissimi soldi che aveva pagato per comprarli, quegli stupidissimi lavori che aveva fatto per guadagnare i soldi.
Tutte quelle cose, ora, trovavano un senso. Trovavano un senso nella tachicardia del castano, nei suoi occhi sgranati, nel sorriso nervoso sulle sue labbra. Nella voce al microfono che annunciava l’inizio dell’imbarco.
Lance si alzò in piedi, prese la valigia con una mano e si mise lo zaino sull’altra spalla, presentando il biglietto e il passaporto quando giunse il proprio turno.
Poi, con la mente assente, percorse il lungo corridoio che portava al volo. Davanti a sé c’erano poche persone: piano piano, tutte attraversavano una specie di canale, ed era tutto un po’ claustrofobico, ad essere onesti.
Dalle finestre del corridoio, Lance poteva vedere l’aereo che l’avrebbe portato fino a San Francisco. Cinque ore di volo, e poi sarebbe giunto in California. Dall’altra parte dell’America, in una terra che mai e poi mai avrebbe pensato di vedere.
E l’aereo era… Era enorme. Era almeno due volte più grande persino della casa in cui viveva, quello era certo. Era così alto, così imponente, gli faceva quasi paura.
Ma doveva essere grato a quell’aereo, perché lo avrebbe portato più vicino a Keith.
 
A proposito di Keith.
Lance si sedette al suo posto, vicino al finestrino, anzi, appiccicato al finestrino, perché desiderava tantissimo guardare di sotto, vedere la terra che si allontanava, percepire la distanza farsi più breve.
Ancora non riusciva a credere di averlo fatto. Di essere scappato solo per andare da un ragazzo che, per quanto ne sapeva, poteva anche non esistere. Forse, era ciò di cui aveva sempre avuto bisogno. Aveva provato a se stesso che, con un bel po’ di impegno e una buona motivazione, avrebbe potuto fare di tutto.
Prima di spegnere il telefono, tuttavia, mandò un ultimo messaggio a Keith.
 
“Mio amore, mi dispiace di non poterci essere tra oggi e domani… Devo organizzare ancora troppe cose per il viaggio, e non ho un secondo da perdere!! Sono felice da morire… Comunque, scrivimi appena esci che voglio sapere come ti senti! E anche quando arrivi da Shiro! A presto, Rayo de Sol. ♡”
 
Poi spense il cellulare, infilandolo insieme ai biglietti nello zainetto nero e giallo. Il giallo era dato dal simbolo di Batman ben stampato sul tessuto.
Ma, insomma, era l’unico zaino decente che avesse. E poi, a Lance piacevano i supereroi! Guardava sempre i cartoni, quando era piccolo, e poi correva per la strada con un lenzuolo legato attorno al collo, con un pugno per aria, imitando oggi Superman, oggi Capitan America, oggi Batman, mentre la povera Athalie gli gridava dietro “Lance, stai sporcando tutto il lenzuolo!”.
Lance sorrise a quel pensiero, sorrise pensando alla madre, e sorrise un po’ meno pensando alla faccia che avrebbe fatto quando si sarebbe visto un ragazzo straniero piombare in casa.
“Un passo alla volta, Lance, un passo alla volta”, pensò. Stranamente, quel pensiero prese la voce del padre, roca ma dolce, e sempre composta.
Oh, quanto gli avrebbe gridato addosso, quella voce…
“Un passo alla volta”.
 
Poi, l’aereo partì.
Lance strinse automaticamente le dita attorno ai poggia gomiti, mentre quell’enorme, mostruosa macchina di metallo si staccava dal terreno, partendo in picchiata – o almeno così sembrò al ragazzo – verso l’alto, verso il cielo, facendolo sentire schiacciato contro il sedile, piccolo come una mosca, eppure… Eppure emozionato come non lo era mai stato prima. Il cuore gli tremava nel petto, come se avesse voluto uscirgli dalla bocca; lo stomaco gli vibrava, pieno solo di qualche caramellina; le mani gli sudavano, scivolando sui poggia gomiti in pelle; gli occhi erano lucidi, colmi di lacrime nervose e fredde che non gli avrebbero mai segnato gli zigomi.
E così, schiacciato contro il sedile, Lance iniziò il suo viaggio.
 
 
29/09, San Francisco, California, ore 11:12
 
Quel maledettissimo fuso orario.
Dopo cinque ore di volo, dopo essere partito alle dieci del mattino, era arrivato a San Francisco solo un’ora dopo, sull’orologio. A dire il vero, l’ora sul proprio cellulare segnava le quattordici, e Lance aveva fame, aveva voglia di mangiare qualcosa, ma erano ancora le undici!
Inoltre… La grandezza di quel posto gli fece cambiare idea. Gli fece chiudere lo stomaco. Il “San Francisco International Airport” era enorme. Forse era persino più grande di Santa Marta, anzi, quasi sicuramente. Sembrava una specie di grandissimo hotel di lusso, con tutte quelle vetrate e quelle luci e quelle persone che correvano di qua e di là. Ma Lance aveva tre ore prima del prossimo volo, e aveva tutto il tempo di rilassarsi un po’.
Tirò fuori il squadernino degli appunti, aprendolo su un foglio pieno di numeri, di ore, di vari fusi orari. Aveva fatto una marea di ricerche, in modo da calcolare le ore di arrivo nei vari paesi secondo il fuso orario. E, oh, sarebbe stato terribile.
Sarebbe arrivato a Seoul intorno alle sedici del giorno successivo, il 31 settembre, un giorno prima dell’uscita di Keith dal collegio.
Ringraziò qualsiasi forza motrice governasse il cielo che Shiro si fosse messo a disposizione per ospitarlo a casa, quella notte, altrimenti avrebbe dovuto dormire sotto un ponte. Ed era più che sicuro che avrebbe dormito come un sasso. Un jet lag di tre ore lo aveva massacrato, figurarsi uno di quattordici.
 
Un mare di persone fluiva per il San Francisco International Airport, come un'onda di uno tsunami che prendeva possesso di una spiaggia, implacabile, indifferente a qualsiasi cosa, formata da gocce d'acqua tutte diverse l'una dall'altra.
C'era chi correva verso i vari gates trascinandosi dietro la valigia con un'espressione preoccupata per paura di perdere l'aereo; c'era chi, invece, se la prendeva con calma, tirando i bagagli con un suono delle rotelle sul pavimento un po' più leggero e costante; e infine c'era Lance.
Lance, immobile in mezzo a tutta quella folla, con lo zaino sulle spalle, la valigia nella mano destra, il telefono nella tasca dei pantaloncini stropicciati, la pelle d'oca sulle braccia, e la mano sinistra che tremava, abbandonata lungo il fianco.
Il castano si guardava intorno con gli occhioni azzurri spalancati e disidratati, un po' confuso, ma comunque deciso a non darlo a vedere.
Cercò sui tabelloni il proprio gate, seguì le frecce delle indicazioni come se avesse capito tutto, quando in realtà era terrorizzato dall'idea di sbagliarsi.
 
"Alla peggio finisco in Norvegia. Mi inventerò qualcosa."
 
Questo pensava il ragazzo dai capelli color cioccolato al latte, mordendosi il labbro inferiore, ormai martoriato da numerosi, piccoli, pungenti taglietti.
Le cinque ore d'aereo che erano appena passate gli avevano immesso nel corpo un'euforia pari a quelle delle droghe. Lo avevano spaventato, emozionato, stancato, confuso, sconvolto. E ora nella sua mente c'era un po' di nebbia. Foschia, non nebbia fitta, solo un po' di fumo che, ogni tanto, non lo lasciava pensare decentemente.
Non aveva dormito per nulla, anzi, dopo che l'aereo era decollato, Lance non aveva smesso neppure per un secondo di rimanere appiccicato al sedile, con le iridi blu fisse sul cielo altrettanto blu, al di fuori del finestrino.
"Forse", aveva pensato, "forse dormirò sull'aereo per Seul."
E sarebbe stato meglio per lui, o Keith, dopo averlo visto, avrebbe pensato di essere innamorato di un cadavere.
 
« Sweet, sugar, Candy Man. » canticchiava Lance, facendosi spazio tra le persone.
La radio stava passando "Candy Man" della Aguilera e, oh, il ragazzo amava quella canzone. Tutte le volte che passava alla radio, lui prendeva Athalie tra le braccia, e insieme iniziavano a ballarla con un delizioso swing dei fianchi.
Lance scrollò la testa. Non poteva pensare alla madre in quel momento: si sentiva già abbastanza in colpa. Quindi, deciso e sicuro – o almeno così appariva a chi lo vedeva da fuori –, si avviò verso il gate, seguendo le frecce colorate.
E, una volta al gate, attese. Attese cinque, dieci, venti, trenta minuti, e ogni minuti gli sembrava durare ore. Le gambe gli formicolavano mentre stava seduto sulla poltroncina metallica della sala d’attesa, in mezzo a tante altre persone, tante altre valigie, tante altre vite diverse. Con gli occhi fissi sulle luci a led del soffitto, Lance giocherellava con la cerniera del proprio zaino, tenendola tra i polpastrelli e tirandola di tanto in tanto, in silenzio, con il respiro pesante.
Poi, fu scosso da una voce. Una voce metallica.
 
“I passeggeri del volo delle ore 14:15 diretto a Seul sono pregati di presentarsi al bancone dell’imbarco provvisti di biglietto e passaporto.”
 
Lance scattò in piedi, correndo letteralmente verso il bancone, dove si mise in fila con le mani tremanti, le gambe deboli e il respiro affannoso. Le luci a led biancastre che illuminavano quella stanza facevano ombra sulle linee incavate del suo viso, mentre con gli occhi lucidi di stanchezza, nervosismo e altre miriadi di sensazioni presentava i vari fogli all’uomo in divisa dietro al bancone.
Poi, salì sull’aereo. Salì su quell’enorme macchina meccanica che, in dieci ore, lo avrebbe portato in Corea del Sud, attraversando tutto l’Oceano Pacifico, tutto il Giappone, bucando il cielo e le nuvole.
Si sedette al proprio posto, in silenzio.
… Keith gli mancava. Dio, Keith.
E se fosse successo qualcosa, nel frattempo? Se Shiro l’avesse chiamato? Cosa sarebbe successo? Se avessero avuto un contrattempo?
Perché, insomma, alla fine Shiro aveva deciso di andarlo a prendere all’aeroporto, così da non farlo perdere. Perché Lance non avrebbe potuto usare il telefono in Corea, a meno che non avesse trovato una qualche rete wi-fi, e anche solo l’idea di non poter contattare Shiro lo aveva fatto andare in paranoia. Quindi, per tranquillizzarlo, questo gli aveva promesso che si sarebbe fatto trovare all’aeroporto, che lo avrebbe aspettato lì, e che sarebbero andati a casa sua insieme.
Ma… Se qualcosa lo avesse trattenuto? Se avesse trovato traffico? Se se ne fosse dimenticato? Allora Lance che avrebbe fatto? Avrebbe dovuto aspettarlo? Perché, sì, sapeva come arrivare all’orfanotrofio, ma… Cosa sarebbe accaduto, se si fosse perso?
 
Improvvisamente, l’aria attorno a sé si strinse.
L’aereo decollò, e la pressione iniziò a stringere il corpo e l’anima del ragazzo dai capelli castani. La testa gli girava, mentre teneva le dita strette attorno ai poggia gomiti in plastica del proprio sedile. Il respiro gli si mozzò, e i propri polmoni iniziarono a non riempirsi più a dovere.
Cosa stava accadendo? Perché aveva iniziato a lacrimare?
Da quando si sentiva così… Paranoico? Non gli era mai accaduto. Mai, prima di conoscere Keith. Quindi era quello, il significato di “amore”? Si diventava paranoici, si pensava il peggio, si iniziava a tremare senza riuscire a smettere? O era solo qualcosa che si manifestava quando si amava qualcuno come Keith?
“Qualcuno come Keith”, poi? E quel pensiero da dove veniva fuori?
Perché, sì, era innegabile. Lance aveva dovuto essere estremamente forte, per Keith. Lance aveva fatto di tutto per Keith, e lo aveva fatto con estremo piacere. Aveva represso qualsiasi brutto pensiero, gli era rimasto accanto in ogni momento, nonostante tutto. Lo aveva appoggiato, aiutato, a volte anche salvato, forse, perché Keith non era un ragazzo facile da amare. Era depresso, era malato, e non era colpa sua. Aveva passato una vita orribile, e ora per qualche motivo era Lance a dovergliela migliorare. E a Lance andava bene, perché, diamine, Keith era il ragazzo che amava! Solo… Mai con nessuno si era sentito così.
Mai per nessuno si era sentito così spaventato, così… Paranoico.
Perché quello era l’aggettivo adatto. Lance stava andando in paranoia. Stava avendo un attacco d’ansia, o qualcosa del genere.
Non poteva essere un attacco di panico, perché Keith gli aveva spiegato come funzionavano quelli, e Lance riusciva ancora a controllare ciò che pensava. Riusciva a capire di stare immaginando solo gli scenari peggiori, e sapeva che avrebbe dovuto pensare positivo. Solo… Non ci riusciva.
Quindi rimase con lo sguardo fisso fuori dal finestrino. Gli occhi gli si riempirono di lacrime, ma la testa gli girava troppo, quindi li chiuse. Tutto il proprio corpo tremava come una foglia mentre l’aereo iniziava la sua salita verso le nuvole, il suo percorso verso Seul.
E, con la testa piena di pensieri che sbattevano l’uno contro l’altro cozzando con rumori tremendamente fastidiosi, come vetri infranti e unghie che sfregavano contro un muro di gesso, Lance attese in silenzio, trattenendo le lacrime, pensando positivo, immaginandosi già tra le braccia di Keith. O, quantomeno, tra quelle di Shiro.
Che poi… Chissà che aspetto aveva Shiro. Non aveva mai visto sue foto, ora che ci pensava. Come avrebbe potuto riconoscerlo? Magari lo avrebbe riconosciuto lui? Beh, non sarebbe stato difficile riconoscere un povero, disperso ragazzino cubano sconvolto da un jet lag così violento.
A riconoscere Shiro, ci avrebbe pensato una volta arrivato a Seul. Dieci ore dopo.
 
 
31/09, Seul, Corea del Sud, ore 15:04
 
« Allora, Keith, io esco. Ci vediamo domani, okay? Così ti vengo a prendere. » sussurrò Shiro, con un tono di voce così roco, calmo e pacato che avrebbe potuto convincere chiunque a fare tutto ciò che lui stesso voleva, mentre con una mano si sistemava i bottoncini della camicia bianca sul polso dell’altro braccio.
Keith, nel frattempo, era impegnato a rivedere maniacalmente qualsiasi cosa avesse messo in valigia, a riordinare i libri prima per autore, poi in ordine alfabetico, a piegare le magliette per colore, formando un arcobaleno di colori alquanto spenti che andavano dal nero, al marrone, al verde scuro, al grigio, al bianco.
Perché sì, aveva anche dei vestiti bianchi, ma mica se li metteva. Andava bene lasciarsi andare, indossare qualche t-shirt ogni tanto, entrare a contatto col proprio corpo, ma mai si sarebbe vestito con qualcosa di chiaro. Andava contro i propri principi, contro i propri ideali, contro il proprio essere.
« Perché esci ora? Dove vai? » chiese il moro, alzando distrattamente il viso verso il migliore amico. Spesso Shiro usciva prima dal lavoro, specialmente se non aveva nulla da fare, ma… Ma Shiro aveva da fare, in quel momento. Doveva sostenere i propri scleri e le proprie grida di gioia, emesse a intervalli regolari di dieci o dodici minuti. Diamine, il giorno successivo sarebbe uscito da quell’inferno, aveva bisogno di essere felice con qualcuno!
« Ho un paio di commissioni da fare. » tagliò corto Shiro, esitando tuttavia un poco « Ho ordinato una… Lettiera nuova per il mio gatto, e alle quattro arrivano gli uomini a portarmela, quindi devo essere a casa. »
Keith incurvò un poco le folte sopracciglia scure, guardandolo. E Shiro si sentì morire dentro. Aveva sbagliato qualcosa nell’alibi? Aveva un gatto, vero? Sì, aveva un gatto. E Keith sapeva che Shiro avesse un gatto, quindi non c’era nulla di strano nell’aver ordinato una lettiera, giusto?
« Tch. Tieni più a Korry che a me. » soffiò Keith, con tono naturalmente sarcastico. Non si sarebbe mai arrabbiato con Shiro: quell’uomo avrebbe anche potuto pugnalarlo, e lui probabilmente lo avrebbe ringraziato.
Il maggiore, di nascosto, tirò un sospiro di sollievo.
« Ti voglio bene anche io, Keith. » mormorò, avvicinandoglisi per lasciare una piccola pacca sulla spalla esile del più piccolo « Sono sicuro che troverai conforto anche con il tuo cuscino. Grida e prendilo a pugni quanto vuoi, mh? » scherzò poi, salutandolo con un cenno della mano mentre si voltava di spalle.
« Che stronzo. » sussurrò Keith, solo per sentire da Shiro una rispostina altrettanto sarcastica. D’altronde, era stato lui ad insegnare al più piccolo la grande arte del sarcasmo.
« A domani, Principessa! » e Keith arrossì di colpo. Non avrebbe mai dovuto dire a Shiro i nomignoli con cui Lance lo chiamava.
… Lance. Mancava una settimana, ormai, al suo arrivo.
E, in quella settimana, Keith avrebbe fatto di tutto per migliorarsi, per diventare il ragazzo perfetto per lui. Si sarebbe tagliato i capelli, si sarebbe preso cura di sé, una volta tanto. Perché, ormai, Keith era sicuro che Lance sarebbe venuto. Aveva visto i biglietti dell’aereo, insomma! E… E si sarebbero trovati all’aeroporto, e si sarebbero stretti forte, e Keith gli avrebbe portato un bel mazzo di fiori e lo avrebbe atteso con un sorriso enorme dipinto sulle labbra, solo per mostrargli come Lance lo rendesse. Felice. Felice da fare schifo.
Scrollò la testolina mora. Aveva ancora una settimana per emozionarsi così: ora doveva pensare ad uscire dal collegio.
 
Nel frattempo, Shiro correva verso la macchina. Aveva poco meno di un’ora per arrivare all’aeroporto, ma aveva calcolato i tempi, e ce l’avrebbe fatta.
Doveva solo… Sperare di non incontrare traffico, o Lance avrebbe dovuto aspettarlo, e quel ragazzo non sembrava uno disposto ad aspettare, considerando con che foga aveva comprato i biglietti per la Corea. Così, senza neppure pensarci.
Quale persona faceva una cosa del genere? Diamine, lui e Keith si conoscevano solo da qualche mese, e non si erano neppure mai visti! E Keith era… Era un casino di ragazzo! Mentre Lance, al contrario, era calmo, sereno, tranquillo, sembrava nato per vivere una vita serena e priva di preoccupazioni.
Come avevano fatto a trovarsi? Come avevano fatto ad innamorarsi?
Shiro non capiva.
Insomma… Conosceva Keith. Lo conosceva da tutta la vita, praticamente. Conosceva ogni lato di lui: il suo lato triste, il suo lato depresso, il suo lato distrutto, il suo lato tranquillo… Ma non aveva mai visto il suo lato felice.
Forse anche Lance aveva lati del genere? Forse anche lui aveva nati tristi, complessi, dietro a quelli più felici e sereni?
Forse… Forse non l’avrebbe mai saputo.
L’importante, per Shiro, era che Keith stesse bene. E, oh, se Lance non si fosse fatto vedere, allora Shiro stesso sarebbe partito per Cuba, avrebbe preso quel ragazzino e se lo sarebbe trascinato dietro. A nuoto.
Dare fiducia alle persone, per Shiro, era difficile.
Lavorava in luogo dove la fiducia nel genere umano scendeva parecchio, a dire il vero. Nel vedere tutti quei ragazzi, tutti quei bambini, orfani o abbandonati dai genitori, lasciati a loro stessi, affidati a completi estranei, Shiro non riusciva più a fidarsi di nessuno se non di se stesso. Dava il proprio meglio per renderli contenti, per metterli a loro agio, per salvarli da loro stessi, e c’era sempre riuscito.
E ora… Ora un ragazzo completamente sconosciuto, straniero, lontano, aveva salvato Keith meglio di quanto lui avesse mai fatto.
E lo aveva fatto così, senza neppure accorgersene, con qualche parolina sullo schermo di un cellulare. Come poteva essere possibile? Come aveva fatto?
Shiro, tra sé e sé, scrollò la testa.
Non gli importava: ciò che gli importava era la salute di Keith, di quel ragazzo che ormai considerava un fratello minore, e se Lance fosse stato disposto a rendere quel ragazzo felice allora Shiro glielo avrebbe lasciato fare.
 
« I’m gonna fight ‘em off, a seven nation army couldn’t hold me back. »
Un terribile remix di Seven Nation Army rimbombava nel suv nero di Shiro, che dominava la strada in direzione dell’aeroporto.
Il ragazzo teneva un braccio fuori dal finestrino completamente abbassato, muoveva a ritmo la testa con le labbra arricciate, percependo il ciuffetto bianco accarezzargli la fronte ad ogni movimento.
Shiro non era tipo da remix, a dire il vero. Amava il rock classico, quello anni ’70 e ’80, amava i Guns, gli ACDC, i Maiden, i Sabbath, persino i Motley Crue gli davano qualche bella sensazione. E amava i The White Stripes, in particolare quella canzone. Il remix l’aveva trovato per caso, a dire il vero, come sottofondo di un video su Youtube, e se l’era scaricato.
Con la macchina che quasi tremava per il rimbombo causato dall’aux cord, dai bassi che quasi causavano un terremoto, Shiro parcheggiò direttamente di fronte all’”Aeroporto Internazionale di Seul-Incheon”. Probabilmente era una zona a traffico limitato, ma non poteva permettersi di cercare parcheggio: mise le frecce e si fiondò fuori dall’auto, correndo verso l’entrata dell’aeroporto.
Lesse il tabellone: aveva quindici minuti prima dell’arrivo dell’aereo di Lance, quindi si mise lì davanti, davanti alla porta scorrevole dalla quale usciva chi arrivava in aereo, con le braccia incrociate al petto, la camicia bianca ben stirata lungo il busto, le gambe rette e ferme… E la mano metallica nascosta.
Non vedeva l’ora di vedere lo sguardo di Lance quando l’avrebbe notata.
Conoscendolo, da ciò che Keith gli aveva raccontato di lui, si sarebbe perso ad osservarla. Keith gli aveva detto che a Lance sarebbe piaciuto studiare robotica, ingegneria aerospaziale o cose del genere, e che non aveva avuto abbastanza soldi per farlo, quindi… Quindi Shiro gli avrebbe tranquillamente lasciato analizzare il proprio braccio bionico.
Perché, insomma, era bellissimo avere un braccio bionico.
Era tragico, perché perdere un arto era stato terribile, aveva perso una parte di sé, del proprio corpo, in condizioni peraltro abbastanza tragiche, ma… Ma ormai si era abituato a quel braccio metallico che lo rinfrescava nelle notti più afose.
Era triste pensare che, accanto a sé, ci fosse solo un braccio bionico… Ma Shiro non era un ragazzo da relazioni amorose.
 
In ogni caso, quello non era il momento di pensarci. Mai sarebbe stato il momento di pensarci, a dire il vero… Tuttavia, le porte scorrevoli iniziarono ad aprirsi.
Persone su persone iniziarono ad uscire, tutte insieme, senza ordine, chi in gruppi, chi con qualcuno, chi da solo. Vecchi, adulti, giovani, famiglie con bambini. Persone americane, asiatiche, europee, di qualsiasi continente, di qualsiasi luogo.
Ma nessuna traccia di un ragazzo cubano.
Shiro era lì davanti, sicuro che avrebbe riconosciuto Lance perché, insomma, aveva visto sue foto per mesi e mesi dal telefono di Keith. Capelli castani, pelle abbronzata, espressione dispersa: sarebbe stato facile riconoscerlo.
… Ma non lo vide.
Lance non stava uscendo da quelle porte.
Non ne uscì per uno, cinque, dieci minuti, e Shiro stava iniziando a perdere la pazienza. Ad andare nel panico, più che altro, perché non lo sentiva da quando era partito da Cuba.
Se fosse successo qualcosa al suo aereo? Se si fosse perso? Cos’avrebbe fatto? Come l’avrebbe detto a Keith?
Iniziò a guardarsi intorno freneticamente, chiamò qualche volta il nome di Lance, giusto per essere sicuro di non esserselo perso, ma nulla. Non lo vedeva. Non c’era.
Lance non era uscito da quella porta scorrevole.
 
 
31/09, Seul, Corea del sud, ore 16:18
 
Fondamentalmente, Lance si era perso nell’aeroporto.
Non ci capiva nulla. Sui cartelli c’erano segnetti strani, disegnini, e solo alcune indicazioni erano in inglese. Cercava disperatamente la scritta “exit”, ma ogni volta che la trovava finiva col trovarsi al punto di partenza.
Dov’era? Cos’era successo? Era a Seul, vero? Non era finito all’inferno, vero?
Poi… Poi una luce illuminò la fine del tunnel.
“Exit”, e una grossa porta scorrevole proprio sotto di essa.
Lance si sistemò lo zaino sulle spalle, afferrò la valigia… E iniziò a correre.
 
Fuori dalla porta scorrevole, un ragazzo stava chiamando il proprio nome.
“Lance”, chiamava quel ragazzo, guardandosi intorno agitato nel suo vestito elegante, formale, da lavoro. La voce di quel ragazzo era roca, e Lance la riconobbe, perché l’aveva sentita al telefono. Quello… Quello doveva essere Shiro.
Ora, quella era una maledizione della Corea del Sud, e non poteva essere altrimenti: conosceva due ragazzi coreani, ed entrambi erano belli come dei.
Shiro era alto, molto alto, decisamente più alto di sé, e aveva le spalle che potevano comodamente essere il doppio delle proprie. Aveva un viso ben definito, una mandibola spessa, dei capelli… Strani? ma decisamente belli, perché Lance amava le cose strane.
Il castano, esitante e con il fiato ridotto ad un sospiro, con i bulbi oculari rossi dalla stanchezza e incavati in grosse occhiaie scure, gli si avvicinò, alzando una mano tremante.
« Shi-… Shiro? » sussurrò, chinando appena il viso.
E quel ragazzo si voltò, fissando gli occhi neri come la pece nei propri, di un vago colore grigio-azzurro a causa della mancanza di sonno.
« … Lance? » quella voce pronunciò, mentre Shiro gli si avvicinava lentamente, sollevato, con un ampio sorriso che gli rigava le labbra sottili, che metteva in mostra i denti ben allineati e perfettamente bianchi.
« Io-… Scusa il ritardo, io… Mi sono perso. » confessò Lance, senza ben sapere cosa dire. Ora, Lance era di madrelingua inglese e spagnola. Parlava lo spagnolo facilmente come bere un bicchier d’acqua, e l’inglese lo maneggiava a dir poco perfettamente. Eppure, l’accento che gli venne fuori in quel momento fu un misto tra british, neozelandese e, probabilmente, dialetto del Galles del sud.
Shiro non si trattenne dal ridere, e immediatamente gli porse la mano destra. Quella bionica. Quella che, nella teoria dei fatti, avrebbe dovuto far gridare Lance come un fanboy impazzito.
Ma Lance, semplicemente, lo guardò negli occhi… E scoppiò in lacrime.
 
« Lance-? »
« Shiro! » gridò il castano, fiondandosi tra le braccia del maggiore « Shiro, sono così contento che tu sia qui… Pensé que me perdì… Tenia miedo, Shiro… »
E Shiro, che in lingua spagnola sapeva giusto dire “vamos” e “alè”, lo guardava disperso, confuso, tenendolo comunque tra le robuste braccia.
Lance era… Piccolo. Era davvero piccolo, in confronto a sé. Non piccolo come Keith, perché Keith era davvero pelle e ossa, ma in quel momento quel ragazzo così stanco, tremante, dai capelli castani tutti scompigliati, dagli occhi azzurri rossi di stanchezza, era così… Indifeso. Debole. Perso.
E Shiro era abituato ai ragazzi così.
Quindi lo abbracciò, lo strinse forte, gli accarezzò la schiena, gli baciò persino la tempia, cercando quantomeno di farlo smettere di singhiozzare.
« Lance… Hey, Lance, è tutto a posto, sei qui… Adesso andiamo a casa, mh? Hai bisogno di dormire. » Shiro parlava l’inglese perfettamente, ma onestamente non si aspettava una reazione del genere da parte di Lance. Si aspettava sorrisi, non lacrime; abbracci, non tremori; battute, non singhiozzi. Invece, quel ragazzo a malapena respirava. Quanto stress doveva avere accumulato? Quanta paura doveva avere avuto? E pensare che aveva fatto tutto ciò solo per vedere Keith.
Shiro si sentì rabbrividire. Inaspettatamente, sentì un’ondata enorme di rispetto nei confronti di Lance. Aveva attraversato il mondo per andare a prendere un ragazzo che non aveva neppure mai visto.
Avrebbe voluto avere la sua forza d’animo.
 
Piano piano, Lance riprese a respirare. Gli ci volle almeno un quarto d’ora, a dire il vero, ma riuscì a smettere di singhiozzare, limitandosi semplicemente a lacrimare in silenzio. Sciolse un poco l’abbraccio con il più grande, che invece non si era mosso per nulla, e aveva continuato ad accarezzarlo e a rassicurarlo con la voce più dolce e sicura che Lance avesse mai sentito.
Il castano alzò lo sguardo, incontrando nuovamente i suoi occhi mentre tirava su con il naso arrossato.
« Perdonami, io… D-Davvero non pensavo che… Che sarei riuscito ad arrivare, avevo così tanta paura, e… »
« Lance, sei qui, ora. Ce l’hai fatta. Mi hai allagato la camicia di lacrime, ma ce l’hai fatta. »
Lance sorrise un poco, scusandosi con un piccolo inchino del capo per lo stato in cui aveva ridotto la sua camicia bianca, e… E sgranando gli occhietti azzurri.
« Aspetta, ma… Sei un robot? » soffiò, fissando il braccio di Shiro. E Shiro scoppiò a ridere, alzando la mano bionica.
« Più o meno. Vieni con me, intanto ti racconto. »
 
Neppure il tempo di arrivare alla macchina, che già Shiro aveva elencato al castano, praticamente in estasi dall’emozione, materiali, funzioni e legamenti del proprio braccio bionico. Lance sembrava impazzito: faceva domande su domande, lo ascoltava rapito, toccava le varie componenti di quell’arto con gli occhi rossi tutti luminosi.
Shiro non si trattenne, gli raccontò tutto: l’incidente quando era piccolo, la perdita del braccio a causa dei gravi ematomi e delle tremende fratture, il giorno in cui gli impiantarono quella protesi, l’emozione di poter di nuovo tornare a vivere.
Certo, non come prima, perché quello non era un arto vero. Riusciva a muovere le dita con impulsi nervosi che si trasmettevano lungo le articolazioni metalliche, ma di certo non era come avere un braccio vero.
Salirono in macchina, e Lance, emozionato, si allacciò la cintura. Sentiva il proprio desiderio di studiare robotica crescere sempre di più dentro di sé: immaginare, disegnare, progettare e costruire braccia, gambe, protesi, ma anche altri attrezzi, magari corpi interi, che si muovessero come veri e propri corpi umani. Regalare a Shiro un arto bionico praticamente vero, connesso al cento per cento con la sua mente, solo per ringraziarlo di esserlo andato a prendere, di aver sostenuto il proprio viaggio e le proprie idee. Senza vergogna, gli espresse quel pensiero.
« Ti ci vedo, come ingegnere robotico. » asserì Shiro, annuendo tra sé mentre metteva in moto la macchina – anch’essa oggetto di ammirazione, da parte di Lance, perché una BMW X6 nera aveva pur sempre il suo fascino.
Ammettendolo… Shiro era parecchio ricco. Aveva ereditato parecchio dalla famiglia: il padre dirigeva un’azienda di costruzioni, la madre era un noto avvocato civilista, quindi i soldi non gli erano mai mancati. Inoltre, oltre a lavorare al collegio, Shiro stesso lavorava per un’agenzia pubblicitaria, e fin da sempre aveva avuto parecchio successo.
Raccontò tutte queste cose a Lance, il quale, esausto, lo ascoltava, guardando fuori dal finestrino con aria sperduta.
Gli piaceva ascoltare Shiro, aveva una voce davvero dolce ed era carino sentire la storia della sua vita, ma… Ma Lance aveva davvero altro per la testa. Tipo la mattina successiva. Tipo il proprio incontro con Keith.
 
« Shiro, perdonami la domanda, ma… Puoi mettere un po’ di musica? Sono stravolto, e non voglio addormentarmi, altrimenti il jet lag mi distruggerebbe… » mormorò il castano, un po’ imbarazzato. Shiro era comunque più grande di sé, era un adulto, lavorava, quindi Lance cercava di rivolgerglisi sempre con parecchio rispetto.
« Pensavo non me l’avresto mai chiesto. » fu la risposta del maggiore, mentre attaccava il cavo dell’aux. Oh, Shiro sapeva benissimo come svegliare un ragazzino addormentato. « Conosci gli ACDC? »
« Oh, sì, li ascolta mio fratello. Lui è, tipo, un fan di queste band vecchie, ma io non li ho mai, ecco, ascoltati. Conosco solo qualche canzone. »
« “Highway to Hell”? »
« Oh, quella la amo! »
« Allora, lascia che ti introduca io alle band vecchie. » soffiò il maggiore, premendo play.
 
 
« No stop signs, speed limit, nobody's gonna slow me down! » Shiro cantava con il braccio normale fuori dal finestrino, con quello bionico sul volante, e muoveva il capo in avanti, facendo ciondolare il ciuffo bianco sulla fronte.
« Like a wheel, gonna spin it, nobody's gonna mess me around! » Lance, invece, teneva entrambe le braccia piegate, muoveva i fianchi magri mentre intonava una delle poche canzoni rock che conoscesse a memoria. Colpa di Dom, lui gliele faceva ascoltare fin troppo, quelle canzoni.
« Hey Satan, payin' my dues, playin' in a rockin' band! » si alternavano i versi, usando l’uno la mano dell’altro come microfono, poi tornando ad agitare le braccia fuori dai finestrini abbassati, in giro per le strade di Seul.
« Hey Mama, look at me, I'm on my way to the promised land… » questo verso lo cantò Lance, dedicandolo al cento per cento alla madre. Lei non sapeva nulla… E a Lance, in quel momento, importava meno di zero. Aveva fatto ciò che aveva voluto fare, c’era riuscito senza aiuti e senza rimpianti. Si era fatto il culo, e c’era riuscito. E ora stava davvero andando nella “Terra Promessa”: tra le braccia del ragazzo che amava, a salvarlo, a portarlo via, in direzione delle bianche spiagge di Varadero.
« I’m on the highway to hell! »
Cantarono insieme il castano e il maggiore, muovendosi insieme, uno felice per una ragione l’altro per un’altra, ma entrambe queste ragioni avevano in comune un nome, e quel nome era Keith Kogane.
 
« Te la cavi bene a cantare, McClain! » esclamò Shiro, quaranta minuti e diverse canzoni dopo, mentre scendeva dalla macchina sbattendo la portiera.
« Sì, beh, e tu? Sei fantastico! Anche se è un genere diversissimo da quello che ascolto io… » Lance scese dalla macchina a propria volta, chiudendo con cura la portiera, e correndo immediatamente ad affiancarsi al maggiore.
« Intendi cose tipo… Beyoncé? » Shiro scherzò, alzando un sopracciglio scuro in direzione del castano, che subito si posò una mano sul petto con tono tragico, solenne, come se gli avessero appena insultato la madre.
« Beyoncé è la mia dea. Lei e Shakira mi adotteranno, un giorno. Me l’hanno promesso. » sussurrò il castano, seguendo automaticamente Shiro, che rideva divertito mentre apriva la porta di casa.
Vista da fuori, casa di Shiro era davvero carina: era una villetta bianca, con un porticato che portava all’ingresso attraverso delle scalette, relativamente modesta. Dentro, invece, cambiava completamente. I pavimenti erano quasi tutti in parquet, le stanze erano ampie e grandi, l’arredamento puntava sul bianco e sul nero. Nella sala c’era un divano enorme, scuro, direttamente di fronte ad una grande tv appiccicata al muro. Nella sua innocenza, Lance si mise ad osservare quella casa come se fosse appena entrato in un museo di arte moderna.
« Questo posto è… Fantastico. » soffiò il castano, abituato a vivere in una casa piccola e piena di roba inutile e poco costosa, ad un televisore vecchio di dieci anni e ad un pavimento di piastrelle sfasate e crepate, a spacchi nei muri di cartongesso e a gente che scorrazzava di qua e di là per le stanze strette.
Quella casa in confronto, sembrava il paradiso: pulita, ordinata, vuota, silenziosa.
Molto vuota. Insomma, Shiro non aveva un… Fidanzato, una fidanzata, una moglie? Sarebbe stato scortese chiederglielo? Magari, ecco, avrebbe potuto… Farlo con discrezione. Buttare lì l’argomento.
« Vivi da solo? » mormorò, appendendo educatamente la felpa stropicciata all’appendiabiti accanto all’ingresso. Aveva un po’ di freddo, ora, con i pantaloncini lunghi fino al ginocchio e la t-shirt a coprirlo, ma in casa sua c’era il riscaldamento, quindi presto gli sarebbero passati i brividi.
« Oh, sì. Non… Non ho esattamente tempo per le relazioni, sai. Mi piace stare da solo. » sussurrò Shiro, appendendo la sua elegante giacca nera da lavoro, e facendo al castano cenno di seguirlo. Lance, intanto, era soddisfatto della sua risposta, perché aveva ottenuto senza destare sospetto l’informazione che voleva ottenere. Si sentiva abbastanza fiero, per qualche motivo.
Shiro lo condusse al piano di sopra, salendo dei gradini in legno scuro, e lo portò in una stanza in fondo ad un lungo corridoio. Era una camera parecchio grande, illuminata da un grosso lampadario tondo al centro del soffitto, provvista di un ampio letto dalle lenzuola rosso scuro e di un grosso mobile nero.
« Questa è la stanza degli ospiti. A dire il vero non ho mai avuto ospiti ma, insomma, ora torna utile, no? » soffiò Shiro, quasi divertito da quel pensiero, e Lance sorrise a propria volta, appoggiando a terra la valigia e lo zaino.
Ora… Dire che era sconvolto era dire poco. Era una specie di zombie, quel ragazzo dai capelli castani. Castani, scompigliati e pieni di nodi, nonostante fossero corti. Non dormiva da così tante ore che neppure si ricordava come fosse fatto un letto, a dire il vero, ed era chiaro che fosse a tanto così dall’addormentarsi in piedi.
L’adrenalina e l’euforia avevano fatto la loro parte, ma un essere umano, soprattutto Lance, aveva bisogno di dormire.
« Ascolta, fatti un bel bagno caldo e mettiti comodo, okay? Io intanto ti preparo qualcosa da mangiare, ne avrai bisogno. E non provare ad addormentarti, altrimenti domani ti servirà un carro armato per alzarti dal letto! » mormorò Shiro, con quella voce dolce che avrebbe potuto ammaliare chiunque, allontanandosi dalla stanza per scendere al piano inferiore. E Lance, senza fare obiezioni, seguì i suoi consigli. Aveva bisogno di un bagno come aveva bisogno dell’aria per respirare, a dire il vero.
 
« Allora. Spara. Cosa vuoi sapere di Keith? »
Shiro era appoggiato al bancone della cucina, in piedi, con una gamba flessa e le braccia incrociate davanti all’ampio petto. Guardava Lance dall’alto, mentre questo, seduto al tavolo di fronte a sé, sorseggiava direttamente dalla ciotola una calda, profumata zuppa di verdure.
Il castano posò la ciotolina di ceramica sul piano di legno, pulendosi con il dorso della mano le labbra umide.
« Tutto quello che non so. Com’è dal vivo? Insomma, è davvero così bello? Pensi che riuscirò a farlo stare bene? Gli farà piacere vedermi domani? Qual è il suo colore preferito? Non me lo ricordo, quello… »
« Okay, okay, una cosa per volta! » il maggiore rise, alzando la mano bionica come a dirgli di aspettare, di andarci piano.
Poi, si sedette di fronte a Lance. Un lieve sorriso solcava le sue labbra sottili.
« Sì, Keith è davvero così bello. Lui è l’unico a non vedersi bello. Penso che tutto il collegio lo ami segretamente, a dire il vero, ma lui non è mai stato uno da… Interessi romantici, per così dire. » sussurrò Shiro, sempre a braccia incrociate, sempre con quella meravigliosa voce roca.
Lance lo guardava ammirato, curioso, desideroso di sapere il più possibile su quel ragazzo che avrebbe incontrato l’indomani mattina. Due occhiaie profonde segnavano i suoi zigomi, la stanchezza gli scorreva nelle vene, ma l’euforia di quel pensiero lo scuoteva a tal punto da riuscire a tenerlo sveglio.
Poi, Shiro riprese a parlare.
« Almeno finché non sei arrivato tu. Io… Io non so come tu abbia fatto. Vi siete conosciuti così, per caso, via telefono. All’inizio non sapevate neppure i vostri nomi, ma già i primi giorni lui sembrava diverso. Come assorto, ecco. Stava sempre al telefono, controllava l’ora, non mi ci è voluto molto per capire che ci fosse qualcuno, dall’altra parte di quello schermo. »
Lance aveva il fiato corto mentre ascoltava quelle parole, con la tazza calda tra le mani, mai calda quanto le proprie guance. Stava parlando di sé. Quella persona dall’altro lato dello schermo era Lance… E ora era lì. In silenzio, continuò ad ascoltare il maggiore.
« Tu l’hai cambiato con così tanta facilità. Non dico che tu l’abbia guarito, perché non si guarisce in qualche mese da problemi come i suoi, ma… Gli hai dato un motivo. Con così tanta facilità, con una tale leggerezza. Gli hai dato una ragione per arrivare a questi giorno, a domani, quando uscirà da lì. E l’hai fatto con qualche messaggio, ascoltandolo, parlandogli di te, senza lasciarlo andare. »
Il castano quasi si sentiva in colpa. Sapeva di aver fatto molto per Keith, sapeva di averlo aiutato, e lo aveva sempre fatto con il cuore in mano, ma… Ma Shiro era sempre stato accanto a lui. Non dietro ad un cellulare. Era un tale paradosso.
… Tuttavia, la vita stessa era un paradosso. Fino a qualche mese prima, Lance era un ragazzino eterosessuale, povero, dissoluto e superficiale. Ora era in Corea del Sud, era scappato di casa dopo essersi fatto il culo per tutta l’estate per guadagnare abbastanza soldi, aveva una conoscenza decisamente più profonda della psiche umana, e per di più gli piaceva un ragazzo.
Sì, Lance aveva salvato Keith, ma Keith aveva aiutato Lance. Lo aveva aiutato a crescere, a maturare, a valutare le situazioni, e ora tutta la vita gli sembrava più facile. Dopo aver avuto a che fare, per così dire, con qualcuno come Keith, niente e nessuno avrebbe più potuto buttarlo più giù, o tirarlo più su.
Keith, quel Keith, il Keith sereno e bellissimo di cui si era innamorato, era il ragazzo perfetto per Lance, quel Lance, l’attuale Lance.
Il Lance che aveva capito come girasse il mondo.
« Riuscirò a renderlo felice, Shiro? »
« Sì, » rispose il maggiore « ci riuscirai. Perché non l’avevo mai visto cantare Lady Gaga in maniche corte, prima che tu entrassi nella sua vita. »
E Lance, fiero come mai prima d’ora di quel moro che gli aveva rubato il cuore, non poté trattenersi dal sorridere.
 
La serata finì nel modo seguente.
Lance si addormentò con la testa sul tavolo. La sua ultima parola fu un sussurro: “Domani”. Shiro lo prese in braccio con facilità – quel ragazzino era leggero come una piuma – e lo portò in camera, lo mise a letto e gli rimboccò le coperte. Il castano grugniva, si muoveva, ma non si svegliò.
Shiro si soffermò a guardarlo, dopo averlo messo a letto. Doveva tutto a quel ragazzo. Fino all’ultimo non ci aveva creduto, ma era davvero volato da Cuba a Seul solo per portarsi via Keith. E Shiro lo sapeva, oh, sapeva bene che fosse scappato di casa. Sapeva che dei genitori normali non avrebbero mai lasciato partire un figlio ventunenne così, senza preavviso, verso la Corea.
Ma Lance era lì. E il giorno dopo sarebbe stato il giorno più bello della vita di Keith, grazie a lui. Shiro si chinò, guardandolo dormire, e come un padre che dà la buonanotte al figlio posò le labbra sulla sua fronte tiepida.
« Grazie. » sussurrò, prima di spegnere la luce e di uscire dalla stanza.
 
Lance dormì per dodici ore filate. Senza accorgersene, si era addormentato alle otto di sera, e solo alle otto del mattino successivo i propri occhi, disturbati dalla luce che entrava dalla finestra, che filtrava attraverso le tende bianche della stanza, si degnarono di aprirsi.
« Cazzo. Keith. » sospirò, e fu così che quella giornata iniziò.
Con Lance che, senza neppure avere gli arti completamente svegli, saltava giù dal letto, rovesciando tutte le coperte, e si precipitava giù dalle lignee scale a due a due.
Shiro era sul divano, vestito di tutto punto. Camicia, giacca e cravatta. Le gambe incrociate, un libro sulla coscia, gli occhi sottili puntati su Lance.
« Sono solo le otto. Cosa ci fai già in piedi? »
Lance sbiancò, cercando con gli occhi rossi come mele mature un qualsiasi orologio, e trovandone uno tondo appiccicato al muro. Erano le otto e dodici minuti. Era tardissimo.
« Shiro, maledizione-! Sono già le dieci! Quando esce Keith? O è già uscito? Vado a vestirmi! » strepitò il castano, non riuscendo però a fare altro che girare su se stesso come una trottola impazzita.
Shiro sorrise, si alzò dal divano e gli si avvicinò.
« Esce tra due ore, Lance. Rilassati. »
E Lance si rilassò… Prima di sgranare gli occhi. “Due ore”? Aveva forse detto “due ore”? Nel senso… Centoventi minuti?
« Ma sei impazzito? Devo ancora vestirmi, e voglio comprargli dei fiori! Shiro, devo comprargli un mazzo di rose, capisci? E quanto ci si mette ad arrivare al collegio? Diamine, stai scherzando? »
« Ci si mettono cinque minuti ad arrivare al collegio. Vedi, è dietro l’angolo alla fine di questa strada. » la voce di Shiro era calma, pacata, le sue dita tenevano stretto il libro che stava leggendo, ormai chiuso. E Lance si sedette sulle scale, perché le gambe gli avevano ceduto.
« Mi stai… Mi stai dicendo che sono a cinque minuti di distanza dal ragazzo che amo e non posso vederlo? Che ho dormito a cinque minuti di distanza dal mio Keith? » la voce gli tremava in un misto tra nervoso, frustrato e qualche altro sentimento senza nome. Shiro lo guardò dall’alto, chinando appena la testa.
« Beh, certo. Keith uscirà da lì alle dieci, non c’è modo per te di vederlo prima, quindi- » ma le parole di Shiro vennero interrotte da Lance, il quale, incurante, si scagliò verso la porta. Bastò un braccio del maggiore a bloccarlo.
« Lance, sei in pigiama. Vestiti, mangia qualcosa e andiamo a comprare i fiori per Keith, se proprio ci tieni, ma stai calmo o giuro che ti rimetto a letto. »
« No, Shiro, no, tu non capisci. Non capisci. Fammi uscire, devo andare da lui, io- perché non me l’hai detto prima?! »
« Perché saresti scappato di casa e ti saresti fatto arrestare per violazione di proprietà privata, McClain! » rise Shiro, per nulla adirato. Comprendeva Lance, sapeva che avrebbe reagito così a quella notizia, e sapeva anche che non avrebbe potuto fare nulla per far uscire prima Keith.
« E io cosa dovrei fare, per due ore? Morire dentro? Non mi sento lo stomaco! Shiro, Shiro, mi si sta restringendo lo stomaco. Mi viene da vomitare. Devo vomitare, Shiro, aiutami. » Lance tremava, si alzava, si sedeva nuovamente sulle scale, girava a vuoto per la stanza tremando, agitando le braccia, guardando fuori dalla finestra del salotto, che dava sulla strada.
« Lance. Lance, ascolta me. » Shiro lo prese per le spalle, fissando gli occhi scuri e sottili nei suoi, grandi e del colore del cielo. Lo scrollò un poco, gli accarezzò le braccia, gli sorrise finché lui non smise di tremare.
« Adesso tu prendi i vestiti più belli che hai, anzi, ti presto qualcosa io, e ti fai bello per Keith. Poi andiamo a comprargli tutti i fiori che vuoi. Okay? Devi rilassarti. » sussurrò il maggiore, dolce, comprensivo, con estrema gentilezza « Hai una vita intera da passare con lui. Hai aspettato per mesi e mesi, un paio d’ore non ti uccideranno. »
 
“Un paio d’ore” lo uccisero.
E, alla fine, aveva vomitato per davvero. Non aveva fame, sete, sonno, a dire il vero, potendo, avrebbe persino smesso di respirare. Non voleva aspettare. Non riusciva ad aspettare. Non aveva più scritto a Keith, non gli aveva più scritto neppure un messaggio, gli aveva detto che non ci sarebbe stato in quei giorni, ma si sentiva in colpa. E se si fosse arrabbiato? Se ci fosse rimasto male?
Lo stomaco gli si strinse mentre si guardava allo specchio della propria camera. Quello che lo guardava, il ragazzo riflesso nello specchio, era un Lance mai visto prima. Era un Lance in jeans scuri e camicia nera, che indossava lucide scarpe eleganti, con i capelli ben sistemati, con un mazzo di rose bianche tra le mani. Era il Lance pronto ad incontrare Keith.
« Quando sei pronto. » Shiro lo guardava dallo stipite della porta, appoggiato con la schiena ad esso, e Lance, lievemente, annuì.
« Sono pronto. » sussurrò. Mancavano quindici minuti alle dieci.
Uscirono di casa in silenzio. Shiro era emozionato, ma sapeva come non darlo a vedere. Lance, invece, sudava freddo. Camminava tutto rigido, non abituato a quegli abiti eleganti, e continuava a rischiare di pungersi con le spine del mazzo di rose. Rose bianche. Le rose di cui lui e Keith erano tanto innamorati. Le rose che Lance aveva piantato in giardino, nella sua casetta di Varadero, quando ancora mai avrebbe potuto pensare che, qualche mese dopo, sarebbe volato fino in Corea.
La vita gli passò davanti agli occhi, durante quel tragitto. Letteralmente. Vide la propria famiglia davanti a sé, sentì la mano di Dom sulla propria spalla, il debole abbraccio di Lucil, la vocina acuta di Adrian, gli sguardi dolci dei propri genitori. Percepì la presenza di Hunk e Pidge che lo incoraggiavano ad andare avanti, a prendere Keith e a portarlo via.
Tutte mere illusioni. Forse solo Dom era dalla propria parte, anzi, forse neppure lui. Pidge e Hunk erano sempre stati scettici riguardo al proprio desiderio di andare a prendere Keith, i propri genitori, oh, a loro non voleva neppure pensare, mentre i propri fratellini… Erano troppo piccoli per capire.
Forse anche Lance era troppo piccolo. Ma ormai era troppo tardi per tornare indietro.
E non sarebbe tornato indietro neppure sotto tortura.
 
Stava accadendo. Sei mesi dopo il loro primo messaggio, Lance era lì. Solo sei mesi.
Chiunque avrebbe potuto dire “sei mesi non bastano”. Avrebbero anche avuto ragione: sei mesi, nella vita di un ventunenne, erano pochi. Erano un istante. Erano un nulla, sarebbero potuti volare in un attimo.
Il punto era che a Lance non importava. Perché non era questione di tempo, non era questione di età. Era questione della persona che gli aveva fatto realizzare tutto ciò.
Tutti parlavano sempre di coloro che stavano male, ma poche volte si leggeva in giro di coloro che stavano accanto a chi stava male.
Quelle persone, quelle che sopportavano e supportavano, quelle che, nonostante tutto, erano lì. Perché Lance, nonostante tutto, era lì. Nonostante le paranoie di Keith, le sue grida, i suoi dolori, nonostante il casino che c’era nella sua testa, Lance gli era rimasto accanto. E lo aveva fatto con tutto il piacere del mondo. Perché Lance si sentiva fortunato, si sentiva soddisfatto quando riusciva a far sorridere Keith, quando il ragazzo che amava stava male e lui riusciva a tirarlo su di morale. Aveva imparato così tanto, grazie a lui. Aveva imparato a crescere, a maturare, a non sottovalutare niente e nessuno, ad aprire gli occhi su ciò che era veramente il mondo.
Doveva a Keith la vita tanto quanto Keith la doveva a lui.
E, oh, lo avrebbe fatto stare bene. Lo avrebbe ringraziato. Non avrebbe fatto finire male quella storia, non avrebbe lasciato che tutti quei mesi, tutti quei pianti, tutti quei messaggi andassero sprecati. “Fanculo la distanza”, pensò, “e fanculo i soldi, perché io sono qui”.
 
Ed era lì.
Era davanti ad un edificio grande, antico, con i muri esterni dipinti in colori scuri, che andavano dal grigio al nero. Era… Triste. Era il luogo più triste che avesse mai visto. Lance, abituato com’era alle palme, alle spiagge, al sole, detestava quel colore scuro.
Prima dell’ingresso, prima del grande, ampio portone in vetro, una ringhiera interrotta da un cancello con un’ampia insegna portava il nome di quell’orfanotrofio, ma le lettere erano strane, e Lance non capiva cosa ci fosse scritto. Probabilmente era solo il nome dell’orfanotrofio. E non gli importava.
Ciò che gli importava era il ragazzo che, dietro a quella porta, aspettava che Shiro lo andasse a prendere.
« Aspettami qui. Vado a prenderlo. » sussurrò il maggiore, e Lance, di scatto, gli afferrò un polso. Gli si avvicinò piano, lentamente, avvolgendo le calde, toniche braccia attorno al suo ampio busto.
« Grazie. Grazie per aver creduto in me. Grazie per avermi aiutato. » sussurrò Lance, con la voce spezzata « Ora portalo da me. »
E Shiro entrò nell’orfanotrofio, con un sorriso dipinto sul volto… E con gli occhi lucidi di calde lacrime.
 
 
01/10, Seul, Corea del Sud, ore 09:56
 
Nella propria stanza ormai vuota, Keith era seduto sul letto, e lasciava ciondolare le gambe, lasciando che le suole delle scarpe sfregassero contro il pavimento.
Le valigie pronte, le mani giunte sulle ginocchia, lo sguardo fisso davanti a sé.
Una felpa grigia gli copriva il busto, un paio di pantaloni neri gli fasciavano le cosce magre. Un paio di denti bianchi mordevano le labbra che li ricoprivano.
La sua mente era vuota. Aveva aspettato quel giorno per diciotto anni, e ora non sapeva più cosa provare. Confusione, gioia, malinconia, stanchezza. Se non altro, non era panico.
Knock knock, qualcuno bussò.
« Entra. » soffiò il moro con voce flebile, e Shiro aprì la porta. Keith voltò il viso, solo il viso, e lo guardò. Lo guardò in maniera vaga, vuota, confusa.
« Quindi… Il giorno è arrivato. » sussurrò, guardando il maggiore che, con quel dolce sorriso sulle labbra, lo guardava annuendo.
Keith si alzò dal letto, muovendo qualche lento passo verso le valigie, e prendendo le due borse più leggere. Shiro pensò al resto: il suo braccio bionico non era esattamente delicato, e i muscoli nella spalla li aveva ancora.
« Keith, se vuoi qualche minuto… »
« Portami via da qui. » la risposta del moro arrivò secca alle orecchie del maggiore, e lo fece sorridere. Fuori dalla porta, il direttore del collegio lo attendeva insieme allo psichiatra che lo aveva sempre seguito.
Il direttore era un uomo anziano, con il viso ornato da orribili baffi bianchi all’insù, troppo grasso, ma sempre ben vestito. Forse per mantenere quel minimo di dignità che gli rimaneva, pensava Keith.
« Allora, Kogane. Il tuo primo giorno nel mondo reale. » l’aspra voce del direttore fece arricciare le labbra di Keith, che annuì. Firmò quello che c’era da firmare, prese i fogli che c’erano da prendere, e non si scomodò a salutare, prima di iniziare a scendere le scale dell’orfanotrofio, quelle che portavano all’ingresso.
Le avrebbe percorse per l’ultima volta. Poi, mai più. Mai più avrebbe varcato la soglia di quel luogo. Mai più avrebbe rivisto quelle facce. Mai più avrebbe anche solo osato pensare a quell’inferno.
Perché ora aveva Shiro. E, una settimana dopo, avrebbe avuto Lance.
 
« Keith! Keith, hey. Rallenta. » Shiro lo rincorse giù per le scale, con la borsa più pesante retta dalla mano ‘normale’, e con quella più leggera a tracolla sull’altra spalla.
« Non rallento. Portami via da qui, Shiro. Solo allora sarò felice. » la voce di Keith tremava, i suoi occhi erano fissi sulla porta di uscita del collegio, ma Shiro gli prese un polso.
« C’è una cosa che devo dirti, prima. » Keith lo guardò confuso, interdetto, e corrugò le sopracciglia scure. Ma Shiro stava sorridendo. Sì, lui sorrideva sempre, ma questo voleva dire che ciò che stava per dirgli non sarebbe stata una brutta notizia.
Shiro posò le borse a terra, proprio dietro la porta d’ingresso. Si avvicinò a quel ragazzo, al ragazzo che aveva accudito per tutti quegli anni, al proprio fratello. Lo guardò negli occhi, mentre una mano gli si posava sulla spalla. Poi, schiuse le labbra.
« Buon compleanno. » sussurrò, e Keith distolse lo sguardo. Lo posò sulla porta di vetro dell’uscita, e lo sguardo attraversò la vetrata, percorse le scalette, il cortile, il cancello, il marciapiede appena fuori, la strada.
La figura che lo stava guardando.
 
Sbatté le ciglia, le lunghe ciglia scure che coprivano quegli occhi tendenti al violaceo, ma la figura non svanì. Stava in piedi davanti al cancello, come una statua, come una cera, con quella postura rigida e quel mazzo di rose in mano.
Keith lasciò cadere le borse, incurante, e in silenzio aprì la porta del collegio per l’ultima volta. Ma non fece caso al fatto che fosse l’ultima volta. Onestamente, tutto il mondo si era silenziato. Il proprio passato svanì, e anche solo l’idea di futuro si cancellò dalla propria mente. Solo il presente gli pareva plausibile.
Il cancello, quel grande cancello in ferro dipinto di un verde parecchio scuro, era aperto. E la figura era ancora lì.
Keith la fissava, mentre piano piano, passo dopo passo, in silenzio, scendeva i cinque scalini che lo separavano dal cortile.
Vedeva i fiori. Vedeva le rose. Le rose bianche.
E fu in quel momento che capì.
 
Alzò lo sguardo, e vide quel viso. Lo avrebbe riconosciuto dovunque, in mezzo ad una folla di migliaia, no, miliardi di persone.
Quegli occhi azzurro cielo, quella pelle color caramello, quelle labbra così sottili.
Ma… Quegli occhi. Quegli occhi lo stavano guardando, e la propria testa iniziò a girare vorticosamente.
Keith non capiva. Non capiva perché non era possibile. Quello non poteva essere lui. Lui sarebbe arrivato una settimana dopo. Lui non poteva essere lì, con un mazzo di rose in mano, davanti al proprio collegio.
… Ma lui era lì. Lance era lì. Quello era Lance.
 
« Lance. » la voce del moro era debole. Non era una voce, era un soffio. Mosse un passo, poi un altro, poi un altro ancora, e Lance era ancora lì. Lance era lì davanti a sé. Aveva gli occhi rossi, era immobile, ma stava lacrimando. Stava tremando, cercava di non scomporsi, ma non ci riusciva.
Anche lui mosse un passo.
« Keith. » soffiò, ma Keith poté semplicemente vedere le sue labbra muoversi. Non lo sentì, ma sapeva di aver letto, sulla sua bocca, il proprio nome.
Scrollò la testa: nulla, Lance era ancora lì. Gli si stava avvicinando, e lui si stava avvicinando a Lance.
Il castano varcò la soglia del cancello, mosse passi leggeri attraverso il cortile, e Keith fece lo stesso. Passi sempre più veloci, sempre più decisi, finché non furono l’uno davanti all’altro.
Occhi grigi in occhi azzurri. Viso contro viso, busto contro busto, divisi solo da un mazzo di fiori. Le guance di entrambi rosse, gonfie, umide.
Lance sbatté le ciglia, alzando le mani, porgendogli le rose. La voce uscì spezzata dalle proprie labbra, ma stava cercando di non perdere i sensi.
 
« … Sorpresa. » soffiò, e Keith prese i fiori. Li prese e, con estrema, delicata cura, li posò a terra.
Solo dopo, solo quando fu sicuro di non rovinarli, fissò di nuovo gli occhi in quelli di Lance, e così accadde.
Scoppiò a piangere, e furono le lacrime più piacevoli che gli avessero mai solcato le guance. Tutto accadde nel giro di un minimo istante. Le braccia del moro si flessero, le sue mani si premettero contro il petto di Lance, e spessi singhiozzi presero a scuotergli il corpo, ormai preso da spasmi incontrollabili. Gli spasmi più belli al mondo. Perché Lance non attese: lo avvolse tra le braccia, lo strinse con tutta la forza che aveva in corpo, con le lacrime che gli colavano sulle guance, sulle labbra sul collo, e insieme a Keith crollò in ginocchio. Le loro gambe cedettero insieme, e si trovarono per terra, inginocchiati l’uno davanti all’altro, stretti l’uno tra le braccia dell’altro, ma neppure le ginocchia ressero. Cedettero, e si sedettero, si sdraiarono sui ciottoli del cortile, senza riuscire a respirare, con i polmoni compressi, i volti completamente bagnati, mentre singhiozzi spezzati uscivano dalle loro labbra.
Fu Lance il primo a parlare, con una forza che neppure credeva di avere.
« Keith, sono qui. Sono qui. » soffiava tra i singhiozzi, le mani tra i capelli corvini del ragazzo che amava, sulla sua schiena, sui suoi fianchi, ovunque. Keith piangeva, piangeva e sorrideva, bagnava la camicia nera del castano di lacrime, la tirava tra le dita, la sgualciva, la strattonava.
« Lance, » chiamava « Lance, Lance… » e Lance lo accarezzava, sdraiato su quei ciottoli polverosi, davanti a quell’edificio che, ormai, non era altro che un ricordo passato. Keith lo guardava, poi piangeva, cercava di rialzarsi e crollava di nuovo, e rimasero così per due, cinque, dieci minuti, nessuno dei due avrebbe saputo dirlo.
Solo la voce di Shiro riuscì a riportarli in loro stessi.
« Sembrate due topi. Vi prego, alzatevi da lì. »
Colti da tremiti e spasmi, e senza lasciarsi un attimo, riuscirono a rialzarsi. Le gambe deboli, i vestiti sporchi di polvere e terra, i visi completamente deformati dalle lacrime. L’uno tra le braccia dell’altro. Dopo tutti quei mesi, dopo tutti quei giorni.
« Che- Che cazzo… Che cosa ci fai qui, io pensavo… Pensavo… Lance… » Keith faticava a parlare, respirava male, ma sorrideva. Sorrideva così tanto che sembrava ci fossero due soli, ora, ad illuminare quella giornata.
« Io… Volevo farti una sorpresa, e- ecco… » anche Lance ansimava, mentre parlava. Le dita arpionate alle spalle di Keith, gli occhi che esploravano il suo viso, il suo collo, il suo corpo esile e minuto, tutto di lui.
« Io vi aspetto a casa mia. Prendetevi il vostro tempo, non voglio saperne nulla. » Shiro li liquidò, naturalmente con il solito sorriso sul volto. Aveva visto Keith felice, quindi la sua missione era completa. Uscì dal cancello, svanendo dietro l’angolo, mentre i due, con le guance dolenti dai sorrisi, si guardavano negli occhi.
« Sei… Sei qui. » Keith non riusciva, non voleva staccarsi da lui. Gli stava stretto al corpo come se ne fosse andato della sua vita, lo guardava con gli occhi colmi dei sentimenti più forti al mondo, che andavano oltre l’amore, oltre la gratitudine.
« Sono qui. E… Scusa se non ti ho scritto. Ora che ci penso- »
 
Non finì mai quella frase.
Le labbra di Keith erano sulle proprie, e non vi si sarebbero staccate per minuti interi. Si baciarono a lungo, corpo contro corpo, bocca contro bocca, prima più piano, poi con tutto il desiderio che si erano tenuti dentro per tutti quei mesi. Fu denti contro denti, lingua contro lingua, labbra contro labbra, l’uno con le mani sull’altro, tra i capelli dell’altro, sulla schiena dell’altro. E il mondo svanì. Non c’era nulla intorno a loro. Erano nel vuoto, in una bolla fatta di tutta quell’attesa, tutta quell’angoscia, tutto ciò che avevano sempre provato. E quella bolla esplose.
« Sono qui, amore mio. »
Solo allora uscirono dal cancello, e Lance lo baciò ancora. Ma non poteva più vedere l’orfanotrofio: il dito medio di Keith lo copriva fin troppo bene.
Quello era il definitivo addio al proprio passato, era la fine della propria vita precedente, l’inizio di una vita nuova. Una vita con Lance. Una vita lontano dal mondo, dalla quale niente e nessuno avrebbe potuto portarlo via.
« Prendi le valigie. Ti porto a Cuba. »
 
Non si lasciarono neppure per un secondo. Con i fiori in una mano e una valigia nell’altra, Keith rimase comunque stretto al corpo di Lance, del ragazzo che amava, ora più che mai. Quello non era un sogno. Keith ne aveva letti di libri, e quello non era un libro, bensì la realtà. Era il proprio lieto fine. Era l’unica medicina in grado di curare i propri problemi. Quelle labbra, quegli occhi, quelle mani, quella voce: quello era tutto ciò di cui aveva sempre avuto bisogno.
Un mondo nuovo, una vita nuova, una persona nuova.
Un futuro tutto da scoprire, un cervello da sistemare piano piano, con il suo aiuto. Migliaia e migliaia di CD di Beyoncé, Shakira, chiunque Lance volesse, da ascoltare nella sua camera da letto, prima di andare a dormire. Mattina dopo mattina, sera dopo sera, perché quelle migliaia di chilometri che li avevano sempre divisi erano stati annientati. Erano stati annientati da Lance, un ragazzo che non aveva mai saputo fare altro se non compilare inventari e suonare la chitarra.
C’era riuscito, Lance. E c’era riuscito anche Keith. E, a casa di Shiro, due biglietti aerei per Cuba li aspettavano posati sul letto.
Su quell’aereo, poi, ci salirono eccome. Ridendo, piangendo, stringendosi l’uno all’altro, confusi, increduli, ma felici nel vero senso della parola. Non sereni, non contenti: felici.
Sui sedili dell’aereo, tra i loro corpi abbracciati, proprio nel mezzo, il mazzo di rose bianche illuminava entrambi, catturava i loro sguardi, li faceva sorridere.
Parlavano a malapena, tremavano, più che altro, ma avrebbero avuto una vita intera per parlare, per regalarsi fiori, per essere felici.
 
Perché si erano cercati, si erano voluti, e si erano trovati.
 
 
 
NOTE FINALI:
Per prima cosa, mi scuso davvero per il ritardo. Tenevo troppo a questo capitolo, so che è venuta fuori una cosa colossale, quindi mi ci è voluto tempo.
E… Niente. Non so che dire. Ho amato scrivere questa storia, anche se ora che la rileggo so che avrei potuto scriverla molto meglio, ma considerando che era iniziata come una cosa da nulla sono piuttosto soddisfatta.
Vi ringrazio per aver letto questa… Cosa.
Non escludo un sequel, giusto per raccontare cosa accadrà a Lance e Keith una volta arrivati a Cuba, ma prima… Prima, oh, mi dedicherò a qualcosa di smut. Spero mi seguirete anche allora! ♡
Ringraziamenti:
Ringrazio ancora Marika, la mia preziosa geme, per essere la mia musa ispiratrice.
Ringrazio le persone che mi hanno resa ciò che sono, grazie alle quali ho potuto immedesimarmi così tanto in Lance.
Ringrazio la mia vita, per quanto strana e, a volte, odiata, per avermi fatto capire che ciò che non uccide, fortifica.
E ringrazio Lance. Perché lui ce l’ha fatta.
 
E infine ringrazio voi, che avete letto, seguito, messo tra i preferiti e recensito questa storia. Spero davvero che vi sia piaciuta, e spero anche che lascerete qualche commento per farmi sapere cosa pensate di questo finale.
Un bacio, e alla prossima storia.
   
 
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