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Autore: Adeia Di Elferas    22/04/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Vincenzo Naldi e Nicolò Rondanini condussero i loro quattrocento fanti davanti alla rocca di Ravaldino, facendoli sfilare come in parata davanti allo sguardo severo della Contessa Sforza Riario, che per l'occasione si era messa sulle merlature, in modo da passare in rassegna le truppe appena giunte da Faenza e già dirette a Cusercoli in sostegno ai suoi.

I due comandanti mandati da Astorre Manfredi – o meglio, da Niccolò Castagnino – avevano fatto sì che i loro soldati indossassero armature lucenti e portassero in vista armi ben lucidate e affilate.

Quella era un'azione di sostegno, ma il tutore del signore di Faenza aveva tenuto a precisare coi suoi comandanti che quella doveva essere anche uno sfoggio di forza.

La Tigre aveva voluto il loro aiuto, e loro, in riguardo a tutto quello che la donna aveva osato ricordare per lettera, erano stati pronti a fornirlo. Tuttavia, era buona cosa che lei si imprimesse bene in testa che Faenza, per quanto dai confini ormai ristretti, rimaneva un bacino di soldati scelti da non trascurare.

Caterina guardò con attenzione i quattrocento fanti, che riverberavano con una leggera opalescenza sotto la luce irreale filtrata dalle spesse nubi di quel finale di novembre.

Non le sfuggì lo sguardo quasi di sfida che uno dei due comandanti le aveva lanciato, nel passare proprio sotto la porta della rocca. Se le sue spie le avevano fatto un buon quadro dell'esercito faentino e dei suoi caporioni, quello, dato il suo atteggiamento arrogante e la sua postura tronfia, non poteva che essere Vincenzo Naldi.

La Contessa attese con pazienza che finisse il siparietto e restò immobile tra le merlature anche quando sfilarono sotto di lei i carretti che portavano le vettovaglie.

Non era stato troppo semplice convincere il Consiglio degli Anziani di stanziare altre risorse per l'esercito – soprattutto in virtù del fatto che tutti si erano attesi un contributo in termini di cibo anche da Faenza, restandone delusi – ma quando Caterina aveva calcato la mano sul fatto che i soldati di Forlì erano i figli, i padri, i fratelli, i mariti e i nipoti di chi era rimasto in città, tutti si erano ammorbiditi e avevano votato a favore.

Sapendo di dover rispondere il prima possibile a Guglielmo Altodesco, che le aveva scritto un papiro infinito sulle difficoltà riscontrate nel trattare con Pandolfo Malatesta, la Contessa lasciò i camminamenti appena l'ultimo carretto cigolante sparì dalla sua vista, imboccando la strada per Cusercoli, e fece per andare nello studiolo del castellano.

Mentre attraversava il primo cortiletto, però, la sua attenzione venne catturata da una voce sottile e infantile che stava imparando a conoscere.

Si trattava di Bernardino. Era alle calcagna di uno dei soldati e portava tra le piccole braccia un paio di elmi, forse fin troppo pesanti per i suoi cinque anni compiuti da poco.

“Vedi che se fai quello che dico – stava dicendo l'uomo, precedendolo, ma voltandosi di continuo per controllare che gli stesse dietro – ti irrobustirai e diventerai un grande cavaliere.”

Il piccolo, i cui capelli erano stati sistemati alla maniera degli scudieri, sorrideva e, arrancando un po', faceva eco: “Sì, sarò un grande cavaliere! Come mio padre!”

“Oh, buongiorno, mia signora.” fece il soldato, quando si accorse di Caterina.

Anche il bambino sollevò gli occhi verso di lei e per poco non fece scivolare uno degli elmi, ma poi riuscì a ritrovare l'equilibrio e salutò: “Buongiorno, madre.”

La Tigre fece un mezzo sorriso un po' stentato, scrutando nello sguardo del figlio l'incosciente entusiasmo della sua età. Era stata una buona idea, fargli cominciare subito l'addestramento. Le sue giornate erano troppo piene per permettergli di pensare troppo alla morte del padre, o alla perdita della famiglia che l'aveva cresciuto in seno fino a pochi mesi prima.

Facendolo correre da mattino a sera a destra e a sinistra, portando armi e finimenti, il bambino stava dimenticando la paura dei primi giorni passati alla rocca e, arrivata la sera, si addormentava subito, troppo sfinito per mettersi a pensare o ricordare.

“Mi raccomando, fai quello che ti dicono e impara bene il tuo mestiere.” ricambiò il saluto Caterina, non riuscendo a dire nulla di più affettuoso.

Bernardino sorrise, con lo stesso candore con cui aveva sorriso mille volte suo padre prima di lui, e, dopo che la Contessa ebbe permesso con un piccolo movimento del capo al soldato di tornare alle sue occupazioni, ricominciò a seguire l'insegnante di quel giorno.

La Contessa lo scrutò con la coda dell'occhio finché non lo vide sparire verso il secondo cortile e solo allora, dopo un lungo sospiro, rientro nelle viscere della rocca per adempire a uno dei suoi tanti compiti.

 

“Non sono d'accordo con quello che vuoi fare.” scosse la testa Semiramide, sistemandosi sul triclinio, troppo stanca per stare ancora in piedi.

Aveva gli occhi pesti, il naso arrossato e le labbra curve verso il basso, come sempre, da quando era morto Averardo. Portava il lutto stretto e in mano teneva un pezzo di stoffa su cui sosteneva di poter sentire l'odore del figlio perduto, anche se, a furia di annusarlo, i servi si erano detti che il sentore, anche se all'inizio forse presente, doveva essersi consumato già tutto.

“Perché?” chiese Lorenzo Medici, incrociando le braccia sul petto e mettendosi a guardare ostinatamente fuori dalla finestra: “Michelangelo ha bisogno di un committente, io ho bisogno di soldi per fare pressioni sulla Signoria. A questo modo ci si aggiusta entrambi.”

Semiramide strinse il morso e inclinò il capo, portandosi una mano guantata di nero fino alla tempia: “Hai da sempre occhio per gli affari, ma questa è una truffa.”

Il Popolano perse la pazienza e sbuffò: “Il San Giovannino che gli farò dipingere glielo pagherò bene! Se il giochetto con il Cupido dormiente non dovesse riuscirmi, il maestro Buonarroti verrebbe comunque pagato, mentre io, con tutto il travaglio che ci farò dietro, non ci guadagnerei niente. Non puoi parlare di truffa! Se fosse una truffa, non rischierei di perdere l'investimento iniziale!”

“Spero che finisca davvero così.” sentenziò Semiramide.

Lorenzo, innervosito dall'ostilità della moglie e dal clima umido e collerico che quel giorno gravava su Firenze, non si trattenne più e sbottò: “Quello che faccio, lo faccio per la nostra famiglia e dovresti essermi grata, non darmi contro!”

Mentre la donna stava per ribattere, dalla porta fece capolino Giovanni. L'uomo colse subito la tensione che saettava tra Lorenzo e Semiramide, ma ormai non poteva più ritirarsi facendo finta di nulla.

“Tu lo sai cosa vuole fare tuo fratello?” chiese la donna, alzandosi dal triclinio e andando vicino al cognato, quasi a sincerarsi anche fisicamente di avere il suo appoggio.

Il Popolano più giovane fece segno di no, mentre il fratello soffiava con rabbia e alzava gli occhi al soffitto affrescato.

“Vuole commissionare un quadro a Michelangelo e poi lo vuole sotterrare, lo vuole trattare, come dice lui, non chiedermi come, perché non ne ho idea, e poi vuole rivenderlo a un Cardinale romano appassionato di arte antica, strappandogli un prezzo esorbitante.” spiegò tutto d'un fiato Semiramide.

Giovanni guardò la cognata per qualche istante, poi, corrucciato, si rivolse a Lorenzo: “Vuoi anticare il quadro?”

“Sì.” annuì il Popolano più anziano, voltandosi di scatto: “Chiederò a Michelangelo di fare una crosta, non voglio mica che sia il suo miglior capolavoro... Mi basta una cosuccia da due soldi, né più né meno. E poi lo patino come se fosse antico e mi arricchisco un po' alle spalle di un povero mentecatto.”

“Chi sarebbe l'acquirente?” chiese Giovanni, abbastanza accattivato dall'idea.

Semiramide, contrariata per l'atteggiamento del cognato, che pareva essere in linea con Lorenzo, lasciò la stanza con qualche borbottio misto a imprecazioni, lo straccetto che portava l'odore di suo figlio stretto in pugno.

Il Popolano più giovane dedicò un'occhiata addolorata alla donna, ma poi tornò a concentrarsi sul fratello, che, altrettanto sconfortato per la reazione di Semiramide, rispose: “Il mentecatto in questione è il Cardinale Raffaele Sansoni Riario.”

Giovanni sollevò le sopracciglia, colpito: “Accidenti. Quello di soldi ne ha. Sei sicuro che sia interessato?”

Lorenzo, che cominciava a sbollire, prese il calice di vino che aveva abbandonato sul tavolo prima di iniziare il sordo scontro con la moglie, e bevve un sorso: “Sono in contatto con un mercante d'arte antica, un certo Baldassarre, che viene da Milano. Sostiene che il Cardinale sia un suo cliente abituale e che sia in cerca spasmodica di un quadro antico che abbia come soggetto Cupido o dei putti. Perché non dovrei accontentarlo?”

“E quanto vorresti chiedergli?” si informò Giovanni.

“Dipende da quanto sarà bello il quadro e accurata la patinatura.” disse con prontezza Lorenzo.

“E Buonarroti che ci guadagna?” fu la spontanea domanda del fratello minore.

Il Popolano maggiore sollevò una spalla e disse, con una durezza prima a lui del tutto estranea, ma che negli ultimi tempi di quando in quando lo prendeva: “Ci guadagna abbastanza da mangiare e bere a volontà. Bada bene, gli ho chiesto di non spenderci dietro troppo tempo, quindi che si accontenti di quello che gli darò.”

Giovanni si morse le labbra carnose e poi appoggiò una mano sul fianco. Il suo abito di raso azzurro si sollevò e si abbassò un paio di volte con i suoi respiri profondi, ma alla fine gli occhi chiari si accesero di risoluzione.

“Non è una cattiva idea. Non molto leale, ma conoscendo Michelangelo, se gli dicessi che intendi fare, si farebbe pagare anche troppo.” disse il Popolano più giovane.

“Almeno tu sei dalla mia parte, fratello.” sorrise Lorenzo, dando all'altro un colpo alla spalla.

Giovanni, in realtà ancora non del tutto convinto della validità di quell'affare, annuì e ricambiò la pacca: “Ma cerca di far tornare dalla tua parte anche tua moglie.”

Lorenzo allargò le braccia: “Hai ragione, altrimenti come farò, quando sarai partito per la Romagna?”

“C'è ancora tempo, no?” si schermì l'altro, che, più ci pensava, più si sentiva strano all'idea di partire e separarsi dal fratello: “Non si è ancora votato. Non sappiamo nemmeno se la Sforza accetterà l'arrivo di nuovi ambasciatori, ora che alla sua corte non ce ne sono più, perché son scappati tutti. Nemmeno Milano ha ancora osato mandargliene uno... Quindi ci penseremo quando sarà il momento giusto.”

 

Pandolfo Malatesta non aveva più alcuna voglia di sorridere, nemmeno per schernire il suo pedante ospite: “Dunque è questo che dice la vostra signora?” chiese, fissando Altodesco con due occhi fatti di ghiaccio.

Guglielmo chinò il capo e confermò: “Sì. E mi dice che dovete decidere in fretta.”

Il signore di Rimini, seduto scompostamente sulla panca da giardino, si massaggiò la fronte. Non gli piaceva stare all'aperto. Si sentiva osservato e temeva che dietro a ogni pianta o cespuglio potessero esserci spie o sicari nascosti lì apposta per lui.

Quel giorno, però, sua moglie Violante era stata particolarmente fastidiosa, fin dal mattino, e lo aveva seguito come un'ombra. Lo aveva fatto con un'assidutità che, se non fosse stato per la sua abissale stupidità, si sarebbe potuto pensare che si comportava a quel modo per adempire a un preciso ordino impartitole da chissà chi.

Per sfuggirle, Pandolfo era stato ben felice di assecondare la richiesta di Altodesco, che gli aveva proposto di andare a discutere nel parco.

Quella donna, una Bentivoglio fino al midollo, a volte sembrava animata dal puro spirito di farlo innervosire. Non doveva sorprendersi, se, malgrado i profusi sforzi di Pandolfo, non avevano ancora concepito un erede. Probabilmente nessun bambino avrebbe voluto avere una donna così petulante come madre.

Altodesco, che stava seguendo alla lettera le indicazioni della Contessa, si strinse un po' di più nel mantello pesante che aveva scelto per contrastare il freddo pungente, e indugiò con lo sguardo sugli alberi, le cui fronde si muovevano lente assieme al vento che profumava d'inverno.

“Il fratello più vecchio, Guido Gottifredi – fece Pandolfaccio, reprimendo un brivido quando un refolo d'aria gelata gli baciò il collo – siamo sicuri che sia un inetto come pensa lei?”

Guglielmo gonfiò il petto e assicurò: “Sì, non ci sono dubbi. La mia signora non sbaglia mai su certe cose. Sarebbe un cuscinetto ideale. Dare Cusercoli a lui sarebbe come non darla a nessuno e tenerla in comune.”

Il Pandolfaccio incagnì il viso e soffiò come un toro: “Non mi piacciono le cose in comune.”

L'ambasciatore forlivese abbozzò un sorrisetto scaltro: “Se lascerete prendere la città alla mia signora, lei la terrà per sé lo stretto indispensabile per i suoi scopi e poi, quando la passerà a Gottifredi, potrete tornare a influenzare Cusercoli e dintorni come preferite, ma almeno non incorrerete nelle ire del papa.”

“Le ire del papa...” fece eco Malatesta, scattando in piedi e facendo imperiosamente segno ad Altodesco di seguirlo: “Come se a quel diavolo interessasse qualcosa di quello che sta succedendo qui da noi.”

“Gli interessa, invece.” lo contraddisse Guglielmo, sopprimendo la propria sorpresa nell'accorgersi che la sua signora aveva previsto anche quella perplessità di Pandolfo: “E si sta trattenendo dall'intervenire solo perché vuole darvi la possibilità di ravvedervi. Non credo che vogliate farvi sollevare dal dominio di Rimini, vero?”

Pandolfaccio si voltò tanto di scatto che Altodesco sentì il sangue andare in acqua quando si vide dinnanzi i suoi occhi infuriati e il naso affilato e fremente: “Nessuno mi può sollevare da Rimini!”

“E allora accettate la proposta della mia signora.” fece subito l'ambasciatore, approfittando della crisi nervosa del suo avversario.

Malatesta si sforzò di calmarsi e si risolse a dire, mentre i suoi passi svelti rimbombavano sulla terra nuda e secca, diretti al palazzo, in cerca di un riparo dal freddo: “Dite alla vostra signora che avrà quello che vuole.”

 

Tiberti e Cicognani si erano coordinati con Rondanini e Naldi, circondando Cusercoli in una morsa che l'avrebbe stritolata.

I soldati faentini, quelli imolesi e i tre passavolanti avevano dato ai generali forlivesi una nuova spinta e quella volta erano certi di poter prendere la città in meno di mezza giornata.

Quelli di Meldola già si erano lasciati spaventare da quel dispiegamento di forze e non si erano più visti. Probabilmente erano restrocessi e si erano dati alla fuga. Magari stavano già tornando nelle loro case, chiedendosi che mai li avesse portati a prendere parte a una guerra non loro.

Achille stava per dare l'ordine di attacco, quando dalla rocca si alzò una bandiera bianca, seguita, a poca distanza di tempo, da una serie di soldati che si presentarono fuori con le braccia alzate e disarmati.

“Che diamine...” sussurrò tra sé Tiberti, mentre il braccio, già alzato per comandare il primo assalto, restava a mezz'aria.

“Ci arrendiamo!” urlarono tutti, creando un coro sconnesso e cacofonico: “Ci arrendiamo!”

“Ma che significa?” chiese Naldi, che aveva portato il proprio stallone da guerra accanto al baio di Tiberti.

L'altro scosse la testa, ma qualcosa gli diceva che quella resa era stata in qualche modo comprata.

Avevano trovato troppe resistenze, fino a quel punto, per vedersi poi cedere la rocca e la città di punto in bianco, con una tale remissività.

Poteva giocarsi un occhio che la Tigre fosse l'artefice di quell'improvviso risvolto. Per carità, si trattava di un grande sollievo, dato che per prendere Cusercoli avevano già avuto ammanchi considerevoli in termini di uomini e sostanze, ma era lo stesso avvilente, per un soldato tuto d'un pezzoo come lui.

Che la città fosse stata comprata coi soldi o coi favori, faceva poca differenza. Per Achille l'unico modo davvero onorevole per conquistare qualcosa era il sangue.

Tuttavia, per non sfigurare di fronte al faentino, decise di dare una lettura ufficiale molto diversa a tutta la questione: “Ovviamente, quando hanno visto le bocche da fuoco che la nostra signora ci ha fornito, hanno preferito arrendersi, pur di non morire fatti a pezzi.” e, osservando per un istante il cielo dello stesso colore di una perla di fiume, diede di speroni al suo cavallo e chiamò a sé Cicognani, affinché andasse con lui alla rocca per prenderne possesso in modo definitivo.

 

“Temo che quelli di Meldola non si accontenteranno così facilmente.” nelle parole di Luffo Numai c'era qualcosa di più che il vago sospetto.

La Contessa ascoltava in silenzio, lasciando che fossero Mongardini e Cesare Feo a controbattere al suo fidato Consigliere. Nella stanza c'era anche l'Oliva, ma restava muto, esattamente come la sua signora.

Caterina si rendeva conto di quanto la presa di Cusercoli avesse indisposto i meldolesi, loro acerrimi nemici, ma non aveva più voglia di discuterne.

Il Gottifredi più giovane, l'unico tra i due fratelli che potesse in qualche modo impensierirla, era stato fregato alla grande da Pandolfo Malatesta, che gli aveva promesso di tutto e di più a patto che facesse lasciare la città in mano ai forlivesi. A Caterina non importava che ne sarebbe stato di quel signorotto arrogante. Che il Malatesta lo uccidesse pure, per quello che le riguardava. L'importante era che ora la città era sua e che Tiberti e Cicognani potevano prendere quello che serviva loro e continuare la campagna.

L'accordo sottobanco con il signore di Rimini sarebbe stato rispettato a tempo debito e, con lo spirito servizievole e strisciante di Guido Gottifredi, sarebbe stato semplice per lei tenere quella zona sotto la sua influenza anche dopo averlo fatto diventare castellano della rocca di Cusercoli.

Una questione a parte erano gli irragionevoli meldolesi. Quelli avevano preso parte alla guerra solo per vendetta personale e Pandolfo si era ben guardato dal fare qualcosa per farli calmare.

Appena Tiberti aveva mosso i suoi da Cusercoli, per avanzare, i meldolesi avevano lasciato la zona e le spie della Contessa l'avevano informata del fatto che quei soldati improvvisati si stavano preparando ad attaccare.

Il primo obiettivo era parso essere Castelnuovo, ma quasi subito si era subodorato che invece quelli volessero attaccare Faenza e da lì prendere Forlì.

“Un topo che vuole fare arrosto il gatto.” aveva commentato tra sé Caterina, quando i suoi delatori le avevano spiegato i piani dei meldolesi.

La rete capillare di spie che la Tigre aveva disseminato in giro per le sue terre, e non solo, nel corso degli anni finalmente le serviva a qualcosa. Anche se i suoi delatori non erano stati in grado di metterla sufficientemente in guardia circa i pericoli che correva in casa propria per colpa di suo figlio Ottaviano, almeno si stavano dimostrando efficienti fuori dai confini cittadini.

“Perché Tiberti deve marciare sulle terre del Conte di Sogliano?” chiese il castellano Cesare Feo, guardando ora Numai, ora la Contessa.

Caterina, che era stata portata dai suoi pensieri raminghi all'immagine vivida di suo figlio Ottaviano che la fissava con sdegno e sfida poco prima di essere messo in isolamento – la stessa immagine che la tormentava ogni sera, prima di prendere sonno e cadere negli incubi in cui uccideva di nuovo Ludovico Marcobelli e tanti altri dopo di lui – ritornò di colpo presente a se stessa, nel sentire il nome del Conte Carlo di Sogliano.

“Lo so io, il perché.” ribatté, senza dare modo al suo castellano di aggiungere altre domande o fare commenti.

Mongardini, che era forse l'unico a sapere il vero motivo del risentimento della sua signora nei confronti di quell'uomo, sollevò l'angolo della bocca e la guardò in tralice.

Caterina fu abbastanza infastidita da quello sguardo e così decise di chiudere in fretta il conciliabolo, rendendosi conto di sapere già cosa ordinare ai suoi: “Scrivete a Tiberti – disse, rivolgendosi a Numai – e ditegli di tornare subito qui, per difenderci dai meldolesi, che vogliono approfittare del fatto che Forlì al momento è quasi del tutto sguarnita di uomini.”

Il Consigliere fece un inchino e chiese se fosse il caso di richiamare anche gli uomini di stanza a Castelnuovo, ma la Tigre rispose di no, con suo grande scorno, dato che Numai avrebbe voluto il parente Francesco al sicuro e non in una città a rischio d'assedio.

“Voi – continuò Caterina rivolgendosi a Cesare Feo – fate in modo che tutte le reclute vengano ben pagate. Un esercito ben retribuito, è un esercito che combatte più volentieri. Mentre voi – fece all'Oliva – dite alle nostre spie di intensificare le ricerche nella zona di Faenza.”

Quando restò sola con Mongardini, la donna lo guardò di sottinsù e gli intimò, ricordandosi il modo insinuante con cui l'aveva fissata poco prima, quando si era parlato del Conte di Sogliano: “E voi imparate a tenere le cose per voi.”

“Ma io non ho detto nulla.” fece notare l'uomo, mostrando i piccoli denti con un sorriso che voleva sembrare innocente.

Caterina, che si era accorta della presenza del Capitano quando una delle spie le aveva riferito delle voci sul Conte Carlo, sollevò l'indice e glielo appoggiò con forza al petto, all'altezza del cuore, minacciosa: “A volte non servono parole per rivelare cose che dovrebbero restare taciute.”

“Ho capito.” disse Mongardini, abbandonando subito ogni desiderio di ilarità.

La Tigre gli fece segno di andarsene e l'uomo obbedì.

Quando restò sola nello studiolo del castellano, la Contessa si permise di cedere per un momento alla stanchezza. Si lasciò cadere sulla poltroncina che mille volte aveva accolto Giacomo e si fece cullare dalla sua imbottitura, quasi illudendosi di sentirvi il calore di suo marito.

Mongardini era un soldato molto valido, ma era come un lupo non addomesticato. Andava ammaestrato e tenuto a bada con attenzione e, se necessario, con la forza. Doveva capire quando gli era permesso abbaiare e quando no, quando mordere e quando scodinzolare.

Quello che aveva sentito dire su Carlo di Sogliano, per Caterina era estremamente personale. La spia di quelle zone le aveva riferito di persona che quel Conte sparlava di lei, dipingendola come una meretrice affamata e impenitente, sempre in cerca di carne fresca, del tutto impassibile davanti alla morte del povero Giacomo Feo.

Caterina aveva sofferto molto nel sentire dire quelle cose, soprattutto perché in parte si sentiva colpevole. Per il momento era riuscita a tenere tutto sotto il suo controllo, scegliendo in modo accorto i suoi amanti ed era anche stata fortunata. Per quanto, infatti, potesse stare attenta, il rischio di restare incinta o di trovarsi tra le braccia di un uomo pronto a ricattarla o infangarla in qualche modo esisteva. Credeva fermamente che fosse un vero colpo di buona sorte che per il momento dalle sue stanze fossero passati solo uomini discreti e poco inclini a vantarsi con amici e conoscenti di una simile conquista.

Inoltre, quando aveva udito le chiacchiere infami messe in giro dal Conte di Sogliano, le erano tornate alle mente le parole di Ferrandino d'Aragona, che l'aveva dileggiata dicendo che, se Giacomo fosse morto, lei avrebbe subito trovato qualcun altro per scaldarle il letto.

Però, che un signor nessuno come il Conte di Sogliano si permettesse di dire certe cose, senza averne nemmeno le prove, era davvero troppo. Per punirlo, la Tigre aveva aggiunto le sue terre a quelle che intendeva mettere a ferro e fuoco.

Mongardini, che aveva sentito delle dicerie riportate dalla spia, si era comportato in modo insolente, guardandola a quel modo. Nessuno doveva permettersi di dire, o anche solo di pensare, che la Contessa stesse agendo in ambito estero solo per motivi personali. Nemmeno quando era vero.

Con uno sbuffo, Caterina si prese la testa tra le mani e dopo pochi istanti dovette lasciare la poltrona, perché il ricordo di Giacomo era tornato con troppa prepotenza e l'aveva invasa come il vento gelido che sferzava quel pomeriggio su Forlì.

Senza voler più vedere nessuno fino a sera, la Tigre si ritirò nelle sue stanze e, troppo adirata con sé stessa per il desiderio di un certo tipo compagnia, si concesse una buona quantità di vino e si perse nei meandri della sua mente fino a tarda notte.

 
   
 
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