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Autore: LeAmantiDiBillKaulitz    22/04/2017    0 recensioni
Prendete Chelsea e Alexandria, due migliori amiche particolarmente male assortite: una, rumorosa, casinista, molto oca e morbosamente ossessionata dal cinema, l'altra acida, nervosa, arrabbiata e decisamente pronta a picchiare tutti. Poi aggiungete Bill, antipatico, isterico, viziato ma terribilmente sexy. Mescolate con un'intervista ai Tokio Hotel per il giornalino universitario, con un Tom molto scemo, un Georg molto martire e un Gustav molto affamato. Il piatto è pronto: tra gaffes, incomprensioni, tacchi alti, litigi e romanticismo-fai-da-te, riusciranno le due ragazze a conquistare l'algido cuore del cantante?
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Bill Kaulitz, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Threesome, Triangolo
Capitoli:
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Tutta questa questione sta riducendo il mio status di corazzata assassina a quello di serial killer mediocre. Mentre un tempo la mia furia omicida era indirizzata verso qualsivoglia individuo mi superasse per strada o mi passasse accanto ad una distanza inferiore agli 0,5 metri, ora sembra essersi concentrata su un unico, musicista, sbarbatello e rasta obbiettivo. Che non è Chelsea. Beh, se consideriamo oggettivamente il discorso, anche Chelsea è musicista, è sbarbatella ed è rasta; ma io intendevo dire Capra Kaulitz, detto Quarto Incomodo, chiamato Individuo Da Eliminare, anche conosciuto come Bastardo Idiota Ti Ammazzo.
Solo pochi degli insulti che mi sono appuntata in mente: in mente! Ci rendiamo conto?! Da quando ho smesso di urlare ingiurie liberamente? Da quando un bel faccino da bambola anoressica si prende il permesso di ribaltare archivi e regole della Corazzata? Da quando a un faccino da bambola anoressica è anche solo permesso mettere piede nell’archivio della Corazzata? Ho un reclamo da fare, Signor Me Stesso, Comandante, Signore. Ma il Comandante Me Stesso, Comandante, Signore sembra essere fuggito dalla sedia, che non ha ancora smesso di girare su se stessa. Corazzata disapprova. Il nemico avanza, e noi siamo fermi, senza razzi e senza carburante. Possiamo solo sperare in Dio e darci all’ebbrezza dei brillantini, che sembrano abbondare qua dentro.
La mia fantasia murder si è inoltre molto ridotta. Prendiamo il mio diario di seconda media. Se prima scarabocchiavo cingolati, mortai, bazooka, bombe a mano, frecce esplosive e colate tossiche, perché ora le uniche armi che mi vengono in mente sono dardi-unghie finte e boa di piume rosa per strangolare la gente?
-Porco Flanders, Billy Terry, ti ho chiesto solo di prendermi un cono alla menta, non era poi così difficile evitare di spargerci le tue piume fluo sopra- sputacchio, mentre Piromane 1 trotterella allegramente sul prato distribuendo coni e coppette. Un giorno lo strangolo col suo boa fosforescente. Sì, perché quel coso si illumina al buio, precisamente in una tonalità violetto-azzurrina. Solo il meglio, per i Gemelli Piromani Spiegelmann.
-Oh, sono veramente dispiaciuto tesoro, già, non mi dispiace per niente- strilla Billy, facendo una giravolta e terminandola appollaiandosi graziosamente –per quanto possa essere grazioso un piromane travestito da spogliarellista mezzo tedesco e mezzo irlandese- su un gruppo di soffioni in parte a Tom; facendo svolazzare i piumini tutt’intorno e ovviamente spargendone una buona parte sul mio gelato alla menta. Oh, scusate, volevo dire alla menta e piume sintetiche glow-in-the-dark.
-Puttanella- bofonchio, rinunciando a spiumare il gelato e iniziando a rosicchiare la cialda del cono.
-Allora, allora, non perdiamoci d’animo- esclama a gran voce Tom, ritirando fuori il foglio degli appunti e la penna sporca di sugo. –Comparse scena 2, ci siete?
Madison e Charlotte alzano la mano, con due sorrisoni che vanno da un orecchino di perla all’altro. Dio, che inquietudine.
-Bene, come previsto voi sarete la vecchietta e la nipotina dell’appartamento accanto. Passate mentre i due gangster stanno richiudendo la porta. Si intravedono due magnum e un fucile di precisione sul tavolo; la bambina sporge la testa per curiosare, la nonna scorge le armi e la trascina via in preda al panico. Giusto?
-Giusto- esclamano Inquietudine 1 e Inquietudine 2 in un coro perfettamente inquietante.
-Uhm. Ottimo. Non ci sono altre comparse nella scena 2. Passiamo alla 3…- dopo ore che si attendeva, finalmente Culo Sodo Coi Jeans di Pelle si degna di avvicinarsi al gruppo dei barboni accampati sull’erba, dopo essere stati malamente cacciati dal ristorante perché facevano troppo casino, intenti a mangiare gelato e piume fosforescenti mentre cercano di stendere il copione di un film.
-C’era fila in bagno?- chiede Chelsea, appollaiata accanto a me con un cono triplo all’amarena abbastanza prevedibile che le cola sul top brillantinoso. Ovviamente, Morticia non spreca la sua preziosa voce soave per darci una risposta, e poggia elegantemente il suo culo sodo sulla giacca rubata a Georg –che è talmente impegnato in un’interessante conversazione sulle graminacee a rischio di estinzione che non si accorge di essere rimasto in maniche corte ad una temperatura di 10 C° di notte (sì, perché il gelato si mangia a -10°. Ma il gelato è onnipotente, e va bene sempre; e lo dice una che grazie al gelato è sopravvissuta a varie vicissitudini, quali delusioni familiari, delusioni scolastiche, delusioni amorose, la scomparsa della propria tarantola domestica e la costante presenza di un individuo quale Chelsea. E poi siamo a Mag, in Germania, e il gelato si mangia e basta, non solo perché si conserva bene, ma perché è il gelato, è dolce, qui tutti siamo d’accordo e poi io necessito di zucchero.)-, cento centimetri spaccati di distanza da noi. Fra le dita scheletriche e perfette regge una coppetta minuscola di gelato –incontaminato dalle piume- alla vaniglia, che tutti sanno che non mangerà, perché l’unico compito della breve vita di quella coppetta è fare uno splendido effetto coordinante col colore del colletto merlettato della camicia che esce dalla giacchina in pelle.
-…Chelsea e Tom si incontrano con il datore di lavoro ad un bar alla periferia di Berlino… ovviamente si porteranno dietro le pistole e il registratore. il locale deve ancora essere individuato…- oh, forse ho sbagliato. Per una volta l’unico ruolo del gelato alla vaniglia sembra non essere quello di accostarsi alla camicia, ma anche di stuzzicare i poveri estrogeni delle due zingare qui presenti, tormentando il malcapitato cucchiaino di plastica azzurra con quegli enormi labbroni da negro.
…no, wait. Labbroni da negro? Ma sul serio, Alexandria? È vero che Bill ha le labbra grosse, però “labbroni da negro” è un’espressione che userebbe Chelsea, dopo essere riemersa da una delle sue Maratone Luther King e altri Film sui Diritti degli Afroamericani. Evitiamo di fondere troppo le personalità… che poi, casomai, Bill è negra, non negro. No, no, cioè, volevo dire nero. Ma si può dire “negro”, o “nero”? O devo dire “afroamericano”? E se uno è algero-francese e in America non c’è mai stato? Ommioddio. Ma che diamine… che razza di discorsi. I soldati stanno ufficialmente dando di matto, generale, ci serve uno stock di whiskey, signore.
-…però abbiamo scelto come barista Franzi, della birreria in parte alla Universal. Credo non abbia problemi a darci la sua disponibilità, una comparsa in un futuro successo di Broadway darebbe gran lustro al locale, e lui sembra il genere di persona interessata a questo tipo di cose…- mioddio, Chelsea, tieni il tuo gelato sul tuo davanzale e non sgocciolarmelo addosso, soprattutto smettila di fissarlo perché altrimenti non la smetterà mai, Cristo Signore mi si sta sciogliendo la menta in mano, credo che se mi misurassero la temperatura corporea mi spedirebbero direttamente al “Centro Malati Febbre a 45°”. Adesso gli si è seduta a fianco Charity Rebecca. Iniziano a parlare di quanto Billy Terry e Tom potrebbero star bene in una scena alla Titanic, minchia, dobbiamo fare in modo che questa cosa venga inserita nel film, già, quanto sarebbe figo Billy con l’abito di Rose; e oh, guarda come stanno appiccicati, e Tom non gli bada nemmeno!, wow, secondo me tuo fratello è gay fino al midollo, sta sudando freddo. Cacchio, Billy mi sta azzerando le chance di cavar fuori qualcosa con Tom, cavolo, dobbiamo rimediare a questo problema. Tranquilla tesoro, ci penso io, anche se un po’ mi dispiace, cavolo, guarda che coppietta. Hi hi hi hi. Charity Rebecca ha preso la zuppa inglese, quella roba gialla annegata nell’Alchermes, che è un 25% e lei l’alcol non lo regge a meraviglia. Adesso si sono scambiati le coppette e continuano a sghignazzare. Intanto lui ci fissa, a momenti. È inquietante, e arrapante. Secondo me fra meno di tre minuti sono strafatti tutti e due. Lo fa apposta, che terribile putt…
-Chelsea, mi stai ascoltando?!
-AH? EH? COSA?ROSE?- Chelsea riemerge dallo stato di dormienza ormonale e il laghetto di amarena che si era formato sulle sue tettone pensili cola a cascatella sul top brillantinato. Diciamo che detto così potrebbe sembrare una cosa molto sexy e porca, insomma, se la sua faccia non fosse una brutta replica di Stanlio nei suoi momenti di confusione e i rasta uniti ai rotolini di ciccia lentigginosa non combattessero fianco a fianco nella costante “guerra per difendere la non-attraenza di Chelsea Sienna Spiegelmann e preservarla al grado attrattivo di un broccolo lesso”.
Nel frattempo le due arpie ubriache qui accanto ridacchiano, con la testa all’indietro e il gelato iperalcolico in mano. –Non hai sentito la domanda?! È la quinta volta che ti chiedo con quale inquadratura bisognerebbe introdurre “Accordo al Bar”, scena 3. Se una lenta rotazione dal bancone al tavolo o un primissimo piano del boss- si lagna Tom, agitando il blocco note e tirando uno scappellotto involontario a Billy.
-NON VOGLIO NESSUN PRIMISSIMO PIANO, HO DETTO!- abbaia Cooper Carter, emergendo dalla massa di canne verdi dove si era appostato per mirare le anatre del laghetto con i sassolini senza essere visto.
-Erm, no, no, nessun primo piano…- farfuglia Chelsea, mentre il suo sguardo viola Winx ruota lentamente verso Bill e Charity che, totalmente disinteressati dal film e intenti a commentarsi reciprocamente il colore del lucidalabbra, stanno ondeggiando pericolosamente da destra a sinistra. Credo che abbiano infilato della marijuana nel gelato di nascosto, perché per tutte le palline di zuppa inglese che io abbia mai visto, non ho ricordi di gente finita sbronza a rotolarsi sull’erba ammiccando a due povere persone concentrate a fare qualcosa di molto importante. -…io… io avevo pensato più che altro a… - le prendo la faccia con due mani, da dietro, e gliela rigiro verso Tom, bloccandole il collo con un braccio perché non torni a girarsi verso quelle due macrolesbiche pervertite e ci eviti questa figura magra… diciamo anoressica, da stupratrici seriali con istinti animaleschi. -…ad una prima inquadratura sul barista che passa lo straccio sul bancone. Le voci si sentono comunque in sottofondo, ma vediamo i tre solo quando la telecamera fa una lenta rotazione verso un poster della Coca Cola con la faccia di Marilyn, che è appeso dietro un vetro e il loro tavolo vi si vede riflesso. Solo per poco, poi li inquadriamo normalmente e la scena procede come ti avevo…-  sì, ecco, esatto. Brava, concentrati. Concentrati… non fare caso alle due arpie che si alzano… che si separano… la prima va a spalleggiare suo fratello nel tormentare Tom e l’altra si avvicina pericolosamente… ma tu NON farci caso! …no, no, no, no, nononono porcoddue Chelsea CONCENTRATI SU QUELLO CHE STAI DICENDO.
-Alexandria, tutto ok?- chiede Morticia, che è in piedi poco distante da noi e ci fissa innocentemente con il suo cucchiaino e la sua coppettina alla vaniglia in mano. No, aspetta, diciamo che tutti ci stanno fissando. Anzi, MI stanno fissando, anche Chelsea, perché si vede che come spesso capita mi sono messa a sbraitare ad alta voce quello che stavo –in teoria- solo pensando. Oh, che figura magra, Corazzata.
-Uhm… sì. Cioè…- balbetto. Chelsea mi fissa e non so cosa mi stia comunicando. Qualcosa tipo “ho freddo e voglio andare a casa”. No, aspetta, è “voglio evadere e andare a casa”. No, no, ci sono: “VOGLIO EVADERE DA QUESTA SITUAZIONE TI PREGO INVENTATI QUALCOSA AIUTO”. E aggiunge “ricordati che in teoria hai ancora il ciclo”. Giusto, giusto Spielberg, brava, hai ragione. Piccolo genio. Si vede con chi è cresciuta, la piccola stratega. -…cioè, no, vedete, io dovrei andare in bagno. Uh, argh, sì, certo, mi fa veramente malissimo la pancia, e ugh!, sapete, io e quel periodo del mese abbiamo uno strano rapporto, ehm… guardate, voi andate tranquillamente avanti!... Chelsea muovi il culo. Torniamo subito!...- incespico sulle zeppe trascinandomi questo sacco di lentiggini dietro, schiviamo Bill per un pelo, che fa una piroetta su se stesso e si gira come una foglia al vento, poi si ferma e tutti ci fissano andare via, verso un bagno pubblico piazzato poco lontano dal prato. E mentre tutti, capitanati da Tom, ci guardano perplessi, ecco che Morticia sfodera tutta la sua crudeltà che è come una pozza di petrolio senza fondo, si passa la lingua sulle labbra sporche di vaniglia, ride e ci fa un occhiolino perverso. Poi fa un’altra piroetta e si siede, come un petalo di dalia che si appoggia sull’acqua, e tutti ricominciano a fare quello che stavano facendo, mentre lui continua a fissarci da dietro lo stradannato cucchiaino di plastica azzurra.
*
-Che palle- borbotta per la quintordicesima volta Chelsea.
-Te ne faccio ingoiare un paio se fiati un’altra volta.
-E dove le prenderesti?! Sentiamo?
-Stai tranquilla che te le trovo.
-Spero che nessuno stia ascoltando, perché sei veramente oscena.
-Disse Miss Colata All’Amarena- prendo il plettro, e inizio ad accordare la mia amata, appoggiata in parte al divano. Il rosso della chitarra spicca in mezzo a questo mortorio.
-Ah, se avessimo un basso…- sospira Chess, cambiando argomento, mentre sbacchetta mollemente i piatti, seduta dietro la batteria.
-Io direi di rapire Georg- mormoro, concentrata sul la. La…sol. No. La…la. Ok, ce l’ho fatta.
-Io direi di rapire qualcun altro!
-Evitiamo.
-Ma sì, ti dico. Lo facciamo bere, o gli iniettiamo un sonnifero. Poi lo avvolgiamo in un lenzuolo e lo nascondiamo nell’armadio- dice entusiasta, concludendo con un bel pof  sincronizzato sui due tom.
-Va benissimo. Intanto dimmi dove possiamo trovare un sonnifero abbastanza potente, diciamo… per orsi- farfuglio, col plettro in bocca. La…si. La…diesis. La…ok, la.
-Jack lavora nella forestale, può fornirci qualcosa del genere.
-Jack non lo vediamo dal ballo delle superiori, Chess, quando ti sei ubriacata per sperimentazione e ti abbiamo trovato in bagno, vestita da cheerleader, a fare cose sconce con la ragazza del contrabbassista dell’orchestra jazz.
-Sono passati cinque stramaledetti anni, Alex, e non hai ancora finito di parlarne!- strilla, sbattendo violentemente i poveri piatti. Secondo lei parlare della festa delle superiori è imbarazzante. Invece è terribilmente divertente.
-Esatto, Chess, sono passati cinque anni e quindi Jack non avrà nessun interesse a fornirci un sedativo per orsi.
-Cambiamo discorso. Come siamo arrivate a qui?- protesta, borbottando. -Ah, giusto, dovevamo rapire Georg.
-Giusto, grande pensata. Poi ci trovano con un bassista metallaro di dubbia provenienza imbavagliato nell’armadio, e assieme alle decine di denunce per disturbo della quiete pubblica con musica ad alto volume dopo l’una di notte, hanno il motivo per arrestarci definitivamente e affittare questo buco ad una brava coppietta ortodossa con tanti bei bambini. E a quel punto…
-Non sia mai! Nessun marmocchio può calpestare lo stesso suolo su cui sono rovinata addosso al cantante più figo del mondo!- abbaia, alzandosi in piedi.
-Io intendevo dire che a quel punto non potremo più fargli il filo e tentare di cavarci fuori qualcosa, col cantante più figo del mondo- sogghigno. Ma in effetti ha ragione. Questo squallido pavimento di piastrelle a poco prezzo è segnato. Maledetto dalle suole degli anfibi, e consacrato nella polvere di chi non ha mai usato una scopa; benedetto dai popcorn e assoldato con il sangue delle risse… da pavimento. Delle risse di due coinquiline che lottano per il telecomando, perché una vuole vedere Attack on Titan e l’altra C’era una volta il West; che fanno il tiro alla fune con il jack dell’ultimo paio di cuffie intatte rimaste, che si rincorrono con le più svariate armi per minacciarsi, dai mestoli, agli stivali, ai sacchi di farina. Una volta, mi ricordo, stavo preparando i biscotti. I biscotti al radio, capito, no? Sì, ecco. Stavo preparando i biscotti. Ero concentrata. Stavo dividendo i tuorli delle uova dagli albumi. Avevo un fantastico baffo di farina sul labbro superiore, e indossavo la traversa della nonna di Chelsea, verde erba, con uno gnomo grasso che diceva “buon appetito” in irlandese. Ed ecco che ad un certo punto, arriva qualche, appunto, irlandese, a urlarmi nelle orecchie qualcosa che c’entra con gli Angeli di Victoria Secret, io prendo un mezzo infarto, lancio un urlo belluino e la ciotola piena di albume d’uovo si rovescia sul libro delle ricette di cinquant’anni fa, quello della prozia Ameleitrud, pieno di oscuri segreti di cucina e qualche pozione per fare andar via i brufoli dal naso; le pagine si incollano l’una all’altra, e la sottoscritta inizia a rincorrere Irlandese Coi Tubi Rosa con le uova rimaste nella confezione, gridando tutte le ingiurie possibili, maledicendo l’essere in tutti i nomi del punk e del grunge, tirando uova. È il pavimento degli scontri di sorellanza, dove ci si tirano i capelli e ci si strappano le magliette. Una volta Chelsea mi ha persino tirato un morso perché mi staccassi dai suoi tubi rosa e la smettessi di colpevolizzarla. Era sempre la stessa volta, quella dei biscotti: alla fine abbiamo trovato Billy Terry nascosto sotto il tavolo che se la rideva, e scoperto che era stato lui a schiamazzare facendomi rovesciare le uova (era entrato in casa di nascosto per rubare lo smalto con i glitter che gli avevamo sequestrato due settimane prima perché l’aveva usato per riempire il tubetto dell’eyeleiner. Vi lascio immaginare, giorni passati a strofinarsi gli occhi con l’acetone, porconando). Fatto sta che, vista l’estrema furbizia dei mezzo irlandesi, pari cioè a quella di un quadrifoglio sotto il sole di giugno, invece di andare via come era entrato aveva deciso di farmi un dispetto. La storia si è conclusa con me con un nuovissimo morso su una spalla, giusto accanto alla scritta “A vampire bit me years ago” (tatuaggio pagato come regalo dei miei 16 anni), Chelsea felice di non aver preso tutta la razione di botte per una volta, Billy Terry con le uova nei capelli e il libro della prozia Ameleitrud salvo, ma con una chiazza di uovo perenne.
Ecco perché questo pavimento è sacro. Così come i muri, pieni di crepe e buchi coperti coi poster di Colazione da Tiffany, schizzi di vernice che spacciamo per sangue e macchie di sangue che spacciamo per vernice; e ogni singolo centimetro cubo dello spazio racchiuso da queste quattro noiose mura, che ogni giorno ci danno più noia, ma che sono Casa in ogni caso. Ha, ha, che bel gioco di parole, “casa in ogni caso”.
-Però non vale. Due volte ci abbiamo provato, due volte i stavamo riuscendo e due volte sono venuti a rovinarci la festa- mugugna Chess.
-Ah, di questo devi rendere conto solo ed esclusivamente al tuo fratello dei film, tesoro- visto, che io l’avevo capito da subito che Tom era solo una capra bollita del popolo dei Galli, e avrebbe rappresentato un problema. Ma tu non ascoltarmi, cara, fai di testa tua.
-A proposito del fratello dei film- strilla, per poi saltare a mo’ di fungo di Super Mario giù dallo gabellino. –Volevo farti leggere una cosa- recupera un foglio piegato in due da una piega del divano; poi si siede sul pavimento a gambe incrociate. –Mi è venuta…così. Di getto. Mi piacerebbe trovarle un posto nel film.
-Uhm- grugno. Chelsea parla delle sue scene come fossero persone, come se fossero la sua prole, la sua classe di bambini prodigio con tante belle qualità da mostrare alla società. Smetto di strimpellare, e appoggio il mento sulla chitarra. –Sentiamo.
-U-hum… ok. Allora, ascolta.
La telecamera comincia la ripresa da lontano, su un’enorme spiaggia della Germania settentrionale, una vaga musica anni ’30 che culla delicatamente lo spettatore. È pomeriggio, un pomeriggio silenzioso, solo il mare ad accompagnare una canzone molto Lana Del Rey, forse un po’mosso, il tempo non è soleggiato ma è percepibile il sole che spinge da dietro le nuvole che fan di tutto per non farlo penetrare. L’inquadratura è posteriore, c’è un ragazzo seduto sulla sabbia grigia, i lunghi capelli corvini mossi dal vento leggero, vestito come una meretrice di bassa lega, gli stivali neri laccati accanto a lui, i piedini nudi lambiti dalle dolci onde scure. C’è un granchietto che nuota accanto a lui. Lui è malinconico, lascia la mano giocare con una collanina sottile che lascia bagnare dalle onde. Non piange, ma i suoi occhi sono così rossi e gonfi da fare male. Non sorride, non fa nulla che non sia fissare l’oceano con l’espressione più vuota che ci possa essere, come fosse una bambola abbandonata al suo cupo destino. La telecamera allarga all’indietro, per lasciare spazio alla rada vegetazione frustata dal vento, per mostrare tutti i movimenti di lui che si alza, raccoglie gli stivali, si avvia lungo la battigia. Ogni suo movimento deve essere talmente lento da essere opprimente, come fosse incapace di camminare, il capo è chino, i capelli sono scompigliati dal vento, i piedi inconsciamente accartocciati dal freddo. La telecamera è larga, per inquadrare il tempo che diventa rapidamente più brutto, i turbini del cielo grigio metallizzato proprio degli stati del nord, e come fantasmi dalle nebbie, appaiono due ragazze, così incerte da sembrare solamente giochi visivi. C’è una ragazza bionda che esce fuori dalle sterpaglie, semi nuda, graffiata, cadaverica come solo i fantasmi dei morti in terra sconsacrata lo possono essere. C’è una ragazza con degli strani capelli bianchi e rosa che si trascina stancamente su dalle onde, vestita di stracci, verdognola come spetta agli uomini strappati dal mare, gonfia. La telecamera segue le due ragazze camminare lentamente dietro di lui, si trascinano, eteree eppure terrene, fino a prendersi per mano, una stretta così gelida eppure così forte da essere inquietante. Amore oltre la morte. Continuano a camminare dietro di lui, che si trascina sempre più lentamente sulla sabbia, sino a sedersi di nuovo giù, in ginocchio, come se stesse pregando. Il tempo è così lento da essere snervante, nauseante, così dilatato da fare male alla vista e al cervello, i passi delle ragazze che gli si siedono accanto è straziante. Lui non le guarda, mentre le due gli prendono le mani tra le loro. Non reagisce quando loro si alzano e lo portano verso il mare. La telecamera è larga, la musica è finita, il colore predominante è il grigio perla, l’inquadratura è posteriore, le due ragazze che accompagnano lui al mare, dentro le onde, la telecamera rimane fissa mentre i tre si allontanano, mano nella mano, verso il cuore del Mar Baltico. Scompaiono nell’acqua che li fagocita dolcemente, come fossero i figli da lungo tempo perduti. La telecamera rimane ferma sulla porzione di spiaggia identica a quella dove prima era seduto il ragazzo. Non si muove, mentre il mare pulsa e il grigio invade la scena.
L’orologio scassato appeso al muro fa tic-tac. Lei mi fissa, io rimugino.
-Saremmo noi tre, alla fine del film.
-Boh. Non lo so. Può essere. Magari è un incubo di Bill, preso dai sensi di colpa per averci denunciate- dice lei.
-Oppure una visione del cattivone… sì, beh, quello che interpreta Gustav. Magari è lui stesso a pentirsi di averci… che ne so, fatto ammazzare.
-Forse dopo che Bill si è suicidato per il dolore.
-Esatto. Una cosa di questo genere.
Annuisco. Annuisce pure lei. Ci piace. Scribacchia qualcosa in fondo al foglio, poi salta di nuovo in piedi e torna dietro alla batteria. Infila il foglio piegato in quattro sotto la maglietta, poi riprende la bacchette in mano.
Io sto ancora rimuginando, e non mi accorgo che lei inizia a battere un ritmo costante. Tum-tum-tum-tum…
-Ci sta, secondo te?- chiede, dopo una quindicina di ‘tum’, urlando per sovrastare i tamburi. Dio, fai sempre così. Fai casino con la batteria, ti rendi conto che devi dirmi qualcosa, ma non è che ti fermi, non sia mai!, urli, così ci arrivano tutte le vecchiette del piano di sopra a bussare per farti smettere.
-Ci sta cosa?- urlo, perché se no non mi sente, mentre vado ad aprire la porta per controllare che non ci siano pensionate al di fuori.
-Per la colonna sonora! Ecco, a questo punto dovresti entrare tu- dice, cambiando ritmo. –E qui ci serve un basso- aggiunge, mordicchiandosi il labbro.
-Posso sapere di cosa stai parlando?- urlo, chiudendo la porta, e augurandomi che non venga nessuno.
Poi inizia a guaire, tipo i lupi alla luna piena, ma in una versione più stonata, qualcosa che sembrerebbe una parola.
-Ma stai bene? Stai impazzendo? Oh, lo sapevo, la tv ti ha fuso il cervello- dico tra me e me, per poi accorgermi che la cosa che sta urlando è effettivamente una parola con senso, e cioè…
-RAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAIIIIIIN…- urla e intanto annuisce, sorridendo. La cosa che mi piace di Chelsea, oltre al fatto che subisce i miei cazzotti senza lamentarsi troppo, è che si auto-approva. Non ha troppo bisogno di qualcun altro che le dica che ‘sta facendo bene’, ecco, sì. Sostengo una teoria, ovvero, se Chelsea vivesse da sola nel mondo, non avrebbe grossi problemi: è iperattiva e parla per dieci, si fa domande e si risponde, riesce ad essere il cameraman dietro la cinepresa e anche l’attore protagonista in mezzo al set. Una volta che il suo spettacolo inizia, qualsiasi altro intervento, anche solo un dito che sia di un’altra persona, rovina il senso, è troppa roba sul palcoscenico: lei è talmente presente, talmente esuberante, talmente tutto da riempire anche un deserto, anche la Luna si sentirebbe affollata se Chelsea ci mettesse piede sopra. Chelsea Sienna Spiegelmann ha quella cosa che hanno in pochi, e che non ha nessun altro che io conosca; e ce l’ha in una quantità che basterebbe per diciotto persone e mezzo: mi sento così Johnny Depp a dirlo, lei ha la moltezza. E ne ha molta, troppa, straborda di moltezza come i suoi ridicoli costumi da bagno di qualche taglia in meno strabordano di tette quando andiamo al mare. Ecco, sì, uguale. Chelsea potrebbe popolare una città della grandezza di Mosca, e farla sembrare affollata. E pensandoci, è quasi triste, ma più per noi, tagliati fuori dal suo mega-micro-cosmo, che per lei, che immersaci dentro ci vive benissimo. Almeno, ci vivrebbe benissimo se non fosse Chelsea, se si accontentasse dei milioni di stelle che circolano nella sua testa, se fosse un Leopardi che si isola dietro la sua siepe, un Dante che non osa toccare Beatrice. Ma purtroppo, non ho la fortuna di essere amica né di Leopardi e né di Dante, bensì di una nana irlandese con i tubi rosa, a cui sé stessa non basta, e deve cercare altro, sempre altro e sempre di più, fagocitare gli altri nella sua nebulosa viola e scintillante, trascinare tutto e tutti nel suo megacosmo, perché nonostante l’enorme presenza che è e che costituisce, parlavamo della popolazione di Mosca, esatto, che con lei sola sembrerebbe affollata due volte Tokyo agli occhi degli altri, per lei sarebbe terribilmente vuota. Chelsea è un contrapposto. È un bianconero. È un aforisma incomprensibile perché troppo comprensibile. Si tenderebbe a lasciarla sola nel suo essere strabordante, restare seduti quei tre centimetri fuori dalla sua linea di confine, con il mento tra le mani, ad osservare come bambini, le sue stelle che ribollono ed esplodono, si separano e si fondono. Ma allo stesso tempo, lei cercherebbe in tutti i modi di trascinarci dentro, disperatamente, perché si sentirebbe tremendamente sola. Lei, che sembrerebbe la più grossa delle torri con le più solide delle fondamenta, collasserebbe su sé stessa; e gli altri seduti tre centimetri fuori non se ne accorgerebbero. Vedrebbero solo il microcosmo sparire, così, ad un tratto; ci rimarrebbero male ma poi perderebbero interesse. Ed è per questo che Chelsea non andrebbe mai e poi mai sola sulla Luna, mai e poi mai sola a Mosca: per gli altri sembra incomprensibile, come qualcuno che chiaramente sarebbe fin troppo già da solo, necessiti talmente tanto delle altre persone, di vita, di calore, di approvazione, o disapprovazione, qualunque cosa, pur di far vedere che c’è, anche se in realtà si vede benissimo comunque. Credo non ci abbia mai pensato, e non se ne fosse mai accorta. Forse sono dettagli immensamente astratti a cui penso solo io, al secondo anno della facoltà di filosofia, perché non ho altro da pensare, la notte quando invece di dormire fisso le stelline fluorescenti sul soffitto e gioco con i tubi di Chelsea che mi ronfa addosso, stritolandomi come fanno gli irlandesi. Probabilmente non avrete capito un corno di tutto questo grosso discorso, e quasi sicuramente se dovessi farlo a lei mi manderebbe a quel paese. Per la prima volta nella storia, me lo sento.
-Ti prego, smettila di strillare- scrivo su un foglio che poi le piazzo davanti alla faccia, perché a questo punto anche se urlassi non mi sentirebbe.
Incredibile!, lei smette. Mi fissa addosso i suoi occhi fuori misura.
-Com’era?- chiede, sorridendo. Il mondo collasserà su sé stesso, quando mai dovesse smettere di sorridere per ogni stupidaggine.
-Non era male- commento. Poi riprendo la chitarra. Oh, amata. Ave, mia salvezza. -No, per niente male... Adesso ci attacchiamo le chitarre. Passami il jack dell’amplificatore- lei mi passa il filo. Lo attacco, le casse fanno FIIIIIIIII, i vetri vibrano. -...poi magari faccio uno squillo a Georg e gli chiedo se ci presta un’oretta da bassista- gracchio, non appena è finito il FIIIIIIIIIIIII. Chelsea applaude e inizia a saltellare sullo sgabellino. Mioddio, non ammetterò mai e poi mai quanto mi rincuora quando fa così. Sembra una bambina. –Smettila di bambineggiare. One, two, three, four!
Chelsea ricomincia a sbacchetare. Io conto i battiti, sì, sulle dita, perché così imparo prima. Oh, Astbury, se ci vedesse, credo inizierebbe a sfasciare l’appartamento urlando, per poi rincorrerci con un vetro scheggiato e assassinarci in un vicolo, magari quello qua dietro, vicino al pub, quello dove ci si tira le scazzottate il sabato sera. Oh, diamine, Bill, colpa tua, mi sto afflosciando, è troppo tempo che non faccio una bella rissa come si deve, ad andare a ristorantini chic e prati verdi. Magari quel fantastico vicolo dove ho rotto una gamba, tre dita, qualche incisivo e provocato un trauma cranico fra ragazzi della band di Stenka, dopo che mi aveva piantato. Che ignobile, non è nemmeno andato a vedere come stavano.
-Hot sticky scenes, you know what I mean…- strillo nel microfono di quarta mano, praticamente rubato ai mercatini dell’usato, mentre i ragazzi del club dei nerd tenevano occupato il venditore con le più assurde domande su un televisore degli ’80 non funzionante. E mentalmente recito un Atto di Dolore, fissando implorante i The Cult appesi giusto di fronte a me in parte a Dani California.
*
Sto camminando. Cammino in centro, e supero Sisley, Zara, e Tiffany sulla destra; Guess, Armani, Swarovski sulla sinistra. Il fumo della sigaretta rotola verso l’alto, e le fronde delle palme che sopravvivono chimicamente fanno frush frush. Si può musicare? Sto cercando ispirazione, mi intriga l’idea di qualche traccia bonus per Humanoid. Sapete, quelle cose da vinile-versione-deluxe autografato e placcato in argento, da impacchettare in una bella custodia in cartone lucido con interno di velluto. Magari di un bel blu oltremare.
Mah.
Qualcosa di così raffinato, in bilico verso il pacchiano; qualcosa da vendere ad una ristrettissima elite di ragazze viziate da padri pieni di soldi. Ragazze che passeggiano in centro, e superano Sisley, Zara e Tiffany sulla destra. Che si destreggiano su tacchi mozzafiato, che fumano sigarette sottili e lunghe. Ragazze con gli occhi neri e le unghie con il french. Che muovono le braccia per far tintinnare i braccialetti, che ancheggiano ciondolando la testa, a occhi socchiusi, mentre spiano le altre ragazze constatando che non saranno mai al loro livello, che non sono un problema, che stanno loro cento e cento metri sotto. Ragazze che ascoltano Beethoven nel loro salotto color panna, Lady Gaga nella loro stanza fucsia acceso e i Sex Pistols nel loro seminterrato gocciolante, ragazze con i tacchi color verde acido con inserti rosa, che tirano cazzotti al primo che critica il loro abbigliamento. Che sospirano al vento freddo di Magdeburgo, sognando l’aria calda della California in maggio. Ragazze segnate dalle risse e dalle cerette, dal rifiuto di dieci, cento, mille persone. Che costruiscono la loro scala verso il successo con le ossa delle loro nemiche, e salgono destreggiandosi su decolleté argentate in un concerto di cric-crac. Quelle che vedono le stelle dietro le nuvole, che hanno la pioggia nel cervello; che parlano e parlano e parlano, e ridono perché nessuno starà mai lì ad ascoltare, e ridono e ridono e poi il loro ridere diventa un piangere, e si appigliano le une alle altre in un Munch scadente, di borchie e sogni infranti, che un falsario dipinse un giorno mentre la sua ragazza triste cantava. Le ragazze che sorridono di sorrisi schizzati di sangue, che non si sa da dove venga. Che non possono nascondersi dalla polizia, dopo essere state trovate a imbrattare i muri del Parlamento con citazioni new wave, perché i loro capelli sono troppo vistosi e tutta la gioielleria pesante che hanno addosso luccica al raggio delle torce. Delle ragazze che ci arrivano prima, e decidono di non nascondersi, che alzano le mani, e quando i poliziotti si avvicinano con le manette tirano qualche bel calcio rotante, perché nessuno sbirro di città può nulla contro una zeppa ben preparata. Quelle che si fanno una bella e grassa risata la mattina dopo, quando leggono sul giornale che una pattuglia della polizia è stata trovata ammanettata al cartello dello Stop di fronte ad un Municipio che recitava “I’m a stranger, killing an arab” scritto in verde fluo. Che annegano il giornale di birra scaduta due anni prima e poi gli danno fuoco, buttandolo giù per la finestra, per vedere se prevale l’alcool o l’acqua; e molto probabilmente la fiamma non prenderà, perché si sa che la birra ha due gradi in più delle pesche mature.
Quelle che mandavano a farsi friggere i prof almeno una volta ogni novanta minuti, ma che sono uscite con il massimo dei voti da tutte le scuole, perché queste ragazze sono fottuti geni che vanno avanti ad Aristotele e Coca Cola; che sfogano la depressione su un muro che un tempo era bianco, e la loro pazzia sbriciolando i cuori dei loro amanti, uno dopo l’altro, uno dopo l’altro.
Le ragazze che sono tutto tranne che vere ragazze, perché le vere ragazze hanno due X, e nessuna Y; e si comportano bene, mettono il fondotinta scuro, si vestono bene e guardano tante fiction d’amore, non passano giornate su Kubric e Godard, e non usano ‘troia’ come nomignolo affettivo, e non soffiano come i gatti a chiunque tocchi le loro collezioni di smalti da unghie.
Non perdono tempo a cercare di capire quelli come il sottoscritto, che non sono ragazzi e non sono ragazze, ma che si danno del maschile per comodità (si sa, purtroppo la forma neutra non c’è proprio in tutte le lingue); quelli che sono il peggio del peggio degli ibridi, orribili sotto tutti i punti di vista, tremende bellezze che ammaliano come le sirene, che una volta arrivati lì, si accorgono di non avere nulla da darti, se ne vanno e ti lasciano affondare nell’oceano buio senza tornare a prenderti. Vampiri senza cuore, che cercano disperatamente di recuperarne qualcuno aprendo corpi con le unghie; per poi lasciarsi dietro solo una scia di cadaveri sanguinolenti e nulla di buono. Che conoscono solo eterni ed egiositci sensi di colpa.
Sono tentato di entrare da Dior. Ci sono sempre quelle fantastiche boccette dorate, quelle che sono perennemente uguali da chissà quanto tempo ma che a quanto pare vendono bene, tanto da convincere i manager a spendere sempre più soldi in pubblicità sempre diverse. Non mi ricordo quante ne ho, ma so che la mia sfida per quest’anno era ‘arriva a cinquanta J’adore prima di settembre’. Credo di essere a quaranta, fra pieni e vuoti. Un’ossessione come un’altra, no?
A volte mi sento una meretrice di bassa qualità, che spende i suoi milioni negli J’adore e le sue espressioni facciali in smorfie da modella rabbiosa. Così vuoto. Vorrei che qualche disperato venisse a cantarmi una canzone d’amore sotto il balcone, anche il primo afghano venditore di rose rosse pagato due soldi per strada. Vorrei che qualcuno mi rincorresse per casa, per il giardino e per tutta Mag solo per prendersi un bacio. Sapete, quel tipo di persone che quando sei nel tuo jet privato, comodo comodo e pronto per andare in tour, si piazzano in mezzo alla pista di decollo perché devono assolutamente dirti ancora una volta che “ti amo e mi mancherai. Canta bene, copriti e torna presto”. Ciò che di più romanticamente stupido può esserci sulla Terra.
-Scusi, desidera?- quanto di più insignificante, idiota e incredibilmente sincero. Qualcosa che nemmeno il più strapagato dei compositori potrebbe pensare. Qualcosa da voce stonata e ukulele senza una corda, sotto il sole di mezzogiorno che ti impedisce di guardare in alto, verso la terrazza, perché altrimenti resti mezzo cieco. E quindi, la tua mente calcolatrice da innamorato folle ti suggerisce di andarti a comprare una di quelle maschere che usano gli operai per saldare i tubi, così puoi fissare la tua Bella controsole anche per due ore di fila e non ti farai male. Forse. Ma per la tua Giulietta, che sta sul balcone, questo ed altro, anche a costo di sembrare un vero idiota, un vero idiota da film americano scadente. Un vero idiota innamorato.
-Uno J’adore. Anzi, due. Non li tenete sugli scaffali, ho visto- un vero idiota che mi insegni a lasciar perdere tutta questa robaccia inutile, inutile, inutile, mortalmente inutile. Voglio smetterla di fare regali a me stesso. Voi non immaginate per quanti anni io mi sia andato a comprare i maledetti J’adore, per poi farli impacchettare con carte a cuori e nastri rossi, e farmeli mettere sul comodino da Amelie ogni 14 febbraio.
Oh, non che non riceva regali a San Valentino, anzi. Ma fra tutti gli omaccioni che si destreggiano nel corsivo per farmi un bigliettino decente, magari allegando un fiore, o una collana, credetemi, gli unici vagamente piacevoli erano quei due cartoncini che riuscivano a passare i bodyguard, infilati magari dalle finestre, di nascosto, dai fan.
-Sì, teniamo solo i tester. Ecco a lei. Vuole un pacchetto?- beh, non si dica mai che il mio amato gemellino non sfatichi a San Valentino per il sottoscritto per-sempre-single-dentro. Ogni anno si fa un’ora in macchina di andata e una di ritorno, per andare da  Süßen Geschmack, quella fantastica pasticceria artigianale a chilometri da Magdeburgo, a prendermi una red velvet gigantesca e piena di panna, con le rose di zucchero e le palline argento; così posso rinchiudermi in camera e annegarmi di torta, mentre guardo tutti quegli orridi film da San Valentino che mandano alla tv. Cosa non si fa, per un bellissimo brutto essere ibrido come me, eh?
-Uhm… no.
Ma potrai mai esistere, mio menestrello sottopagato? Comparirai mai alla mia porta, idiota innamorato? Potrò mai vederti, tu, sagoma indistinta, che si sdoppia nella nebbia dell’inverno perenne che strizza questo cuore da dentro? Forse questo si può musicare, è abbastanza in rima, sì, direi di sì. Magari, quando torno, scrivo qualcosa.
Fisso le boccette colorate dietro alla capigliatura ossigenata della cassiera, mentre lei mette due scatolette in una sporta di carta. Ce ne sono per tutti i gusti. Alte e strette, basse e cicciotte, una a forma di farfalla, una che ricorda una moto scassata. Viola, blu, verdi, rosa, anche gialli poco invitanti. Davvero per tutti i gusti.
E mentre fisso le boccette, sarà il mio animo da Regina Rompipalle, ma mi viene un’idea. -Anzi, sì. Ma li faccia recapitare a questo indirizzo- dico, veloce, interrompendo il complicato lavoro di imbustamento della cassiera. Quella probabilmente mi sa guardando male, ma il mio sguardo cade a terra. Il pavimento di questo negozio sembra una volta celeste. Marmo nero, con minuscoli punti luce, bianco, argento. Fashion. Scommetto che l’hanno copiato dallo Swarovski qui davanti, ci metto tutti i miei Pandora che se entro in quel negozio ce l’hanno uguale identico.
La bionda al bancone mi guarda perplessa, mentre scribacchio un indirizzo su un pezzo di carta e le allungo il foglietto. Che c’è, non siete abituati alle richieste complesse? Va’ a cercarti un fattorino e fa’ il tuo lavoro, rifatta dei miei Savage in pelle tacco venti. Le piazzo un cinquantone sotto il naso, e a questo punto sembra aver inteso la mia richiesta. Oh, che scartavetramento di palle. Non si può mai eseguire semplicemente.
Miss Rifatta mi ringrazia e mi saluta, ma io mi allontano senza spiccicare parola. Tesoro, non si offendono le queens. Adesso il tuo negozio è sulla lista dei ‘posti che abbatterò quando avrò preso il controllo del pianeta, per poi piantarci filari di betulle’. E non mi interessa una betulla marcia se il posto non è tuo e sei solo una dipendente del cavolo che domani sarà già stata trasferita e sostituita con un’altra nana rifatta. Mi irriti, come i tuoi profumi scaduti.
Creo una certa distanza fra me e il buco impestato di Miss Rifatta Dior. Mi sono accorto solo adesso che in fin dei conti, a parte questo sigarettone nero, non ho proprio niente in mano. Bisognerebbe rimediare, entrare in qualche negozio, spendere qualche migliaio, comprarsi qualche cosuccia. Magari un bracciale da abbinare con la cintura che mi ha regalato Tom un mese fa. Non l’ho ancora messa, proprio perché progettavo di rimediare un accessorio. Ma magari più tardi, c’è una caffetteria aperta, uno di quei locali eleganti dove fanno il caffè all’italiana; e quando dico che è aperta intendo proprio che porte e finestre sono spalancate, e il viale è inondato di un profumo a cui non sarebbe lecito opporre resistenza.
Quindi al diavolo le mie mani vuote, entro e mi siedo su uno sgabello alto, al bancone. Un bellimbusto abbronzato con la faccia da latin lover (secondo me è italiano pure lui. Woha, non ho ricordi di italiani nel mio letto) si avvicina, e chiede se può portarmi qualcosa. Un espresso, lungo, doppio, concentrato. Grazie. Con lo zucchero. Il bellimbusto fa un accenno di inchino, e se ne va. Incrocio le gambe, appoggio il gomito sul bancone, la catenella della pochette è fredda e pende dal mio braccio. All’improvviso mi rendo conto di come i turbini del fumo della sigaretta, da tenere fra pollice, indice e medio, come le vere signore degli anni ’30, sia immensamente più interessante del fustacchione che mi è appena passato davanti. Sarà un riflesso involontario? Avrò un problema. Crisi da eccesso di ispirazione, ho bisogno di relax, troppo stress, troppe corse, troppe cose tutte insieme. Ho bisogno di una Moon River, e di un caffelatte, dolce, leggero. Di dormire. Di bruciare tutti i miei lucidalabbra, e buttare tutti gli anelli-tirapugni. Ho bisogno di un’isola deserta, e di una coperta rosa da stenderci sopra. Di un giorno di sole e del vento caldo della California, quello che sognano le ragazze che comprerebbero i bonus di Humanoid. Ho bisogno di qualcuno che si sieda dietro di me e mi faccia tantissime treccine, perché farsi acconciare i capelli è rilassante, più di tutte le camomille; e di qualcuno che mi si sieda davanti, e inizi ad elencare tutte le forme che hanno le nuvole nel cielo, per riempire il silenzio.
Non è ancora arrivato il mio caffè. Perciò resto a fissare la mia sigaretta. Una sigaretta lunga, nera, come quella di Audrey Hepburn quando faceva la star di Colazione Da Tiffany. Ecco, io sono Bill Kaulitz, star di Caffè Di Metà Pomeriggio Dal Bellimbusto-in centro a Magdeburgo. Un modo come un altro per far carriera, il cinema è sempre lì per te, quando vuoi. Fatti avanti, e ti spiaccichiamo su uno schermo, et voilà, sei giovane per sempre. Semplice, la vita del personaggio da film. Lui è lì, fa le sue mosse, recita le sue battute, ha il suo happy-ending, sottofondo finale, titoli di coda. E quando ti ritirano fuori, sei pronto per ricominciare daccapo. Bello, facile… mi sento veramente tentato. Chissà se l’amante del capo della STASI sarà all’altezza di Audrey. Oh, questo sta a Chelsea, è lei il cervello della cosa. Forse non è proprio una brutta idea. Ha una bella trama, il nostro film, se tutti fanno per bene quello che devono fare, forse ne ricaveremo qualcosa di buono.
Improvvisamente un raggio di sole filtra dalla vetrina, e mi prende in pieno. Detesto quando succede, perché fa rifrazione sul piercing sul sopracciglio, ed è fastidioso. Però, con tutta questa luce, mi immagino il red carpet. Bill Kaulitz che sfila accanto al fratello, sventolando la manina e sorridendo alle macchine fotografiche. Uhm, no. Bill Kaulitz che sfila, a braccetto di due nane male acconciate e per nulla fotogeniche, una che inciampa sulle sue stesse zeppe e picchia  i giornalisti, l’altra che non sa da che parte guardare e ribolle di felicità mista a panico mentre strattona gli altri due a destra e a sinistra, lanciando urletti entusiasti a destra e manca. Un po’ patetico. Però, ci sta.
Il bellimbusto arriva, con la sua faccia da perverso maniaco e il mio caffè più nero dell’universo. Io mi alzo, raccolgo la pochette e poggio la sigaretta.
-Hei … hei, scusi! Non lo vuole il caffè?- esco dal locale a falcate da cavallo. No, grazie, non mi va più il tuo caffè. Adesso, giuro, vado a comprare un regalo per Tom, uno per Georg, e due panini per Gustav. C’è il sole, e ho voglia di prenderne un po’ prima che tramonti, e poi… uh, mi sento buono.
E a proposito…  faccio marcia indietro, mi affaccio al locale.
-Cambiati la maglietta. È sporca di caffè.

Hey guys!!! Che ne dite di questo capitolo?? Speriamo che questa storia piaccia a voi quanto a noi... lasciateci qualche commentino!!! :))))
Baci!! :******                                                                                                                                                                        The Two Of Us ^^
   
 
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