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Autore: lightvmischief    23/04/2017    1 recensioni
Una ragazza.
Un gruppo.
La sopravvivenza e la libertà.
Le minacce e i pericoli della città, delle persone vive e dei morti.
Prova a sopravvivere.
Genere: Azione, Drammatico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
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CAPITOLO 7

KAYLA
 

Devo aver preso una botta alla testa, di nuovo: la sento pulsare. Mi accorgo che ho gli occhi chiusi e che appena li apro vedo tutto quanto sfocato.

«Jordan, usciamo a fare un giro. Controlliamo se c’è qualcuno di vivo là fuori» Sento dire, mentre cerco di mettermi a sedere, appoggiando la schiena alla colonna alla quale sono ancora legate le mie mani.

Ho i muscoli intorpiditi. Mi fa male il fianco destro, sento un dolore pungente ogni volta che respiro. Ho la bocca asciutta e sento il sapore del sangue.

Sento freddo. Mi hanno tolto la camicia e non sento più il coltello alla vita, devono aver preso anche quello.

Vedo la porta chiudersi dietro alle spalle delle due donne; Jordan si accorge che mi sono svegliata.

«Buongiorno, uccellino smarrito! Non siamo più così coraggiose ora, eh?» dice, facendo gesti teatrali con le braccia, enfatizzando il buongiorno.

Vorrei poter mandarlo al diavolo, ma l’unica cosa che riesco a fare è guardarlo dolorante.

«Hai perso la voce?» continua, questa volta abbassandosi alla mia altezza e piegando la testa di lato, aspettando una mia risposta.

«Lo prendo come un sì» Si alza e prende a camminare per la stanza.

Per quanto questa storia dovrà andare avanti? Mi lasceranno a morire qui, una volta scoperto che il gruppo di Travis non verrà mai a cercarmi. Spero solo che succeda presto.

Sobbalzo quando sento il rumore assordante di due spari, che inizia a rimbombarmi nella testa assieme al dolore.

«Non azzardare a muoverti» mi avverte minaccioso Jordan, avvicinandosi poi alla porta.

Vorrei. Vorrei veramente riuscire a muovermi, lo vorrei con tutto il mio cuore. Ma in questo momento non è il volere ciò che sarebbe utile. In questo momento è un dovere. Devo alzarmi.

Devo raccogliere tutte le poche energie che mi sono rimaste, ignorare il dolore che mi percuote tutto il corpo e la fame e la sete che mi annebbiano la vista.

Devo alzarmi.

Appoggio le mani affianco alle mie gambe – ora libere dalle corde che le legavano dietro alla colonna -, piego le ginocchia e faccio appoggiare saldamente i piedi sul pavimento.

La porta si spalanca.

Jordan indietreggia velocemente e poi impugna la sua arma alta all’altezza della spalla con entrambe le mani.

«Bello il teatrino del ‘non li conosco’, Kayla. Peccato che non ci abbia mai creduto nessuno» dice sarcastico Jordan, voltando solo il suo volto verso di me.

«Ciao Tracey! Come sta Travis? Si è già ripreso dalla morte della sorella? Che brava donna che era, mi dispiace così tanto…» continua, riferendosi a una donna, con fare prepotente e derisorio.

«Lasciala andare» interviene una voce maschile.

Cerco di mettere a fuoco la vista e riconosco il ragazzo che ha appena parlato: è Wayne.

Che diavolo stanno facendo?

«Oh, suvvia! Lo sai che le regole le decido io qua, ragazzino» dice Jordan, abbassando la pistola e tenendola in una sola mano.

È molto sicuro di ciò che sta facendo; nonostante di fronte a lui ci siano ben cinque persone armate, non si protegge.

Deve avere molto potere su di loro per fare una cosa del genere. Non voglio immaginare cosa possa aver fatto per averlo ottenuto.

«È una ragazza così dolce e collaborativa, non è così, Kayla?» continua, avvicinandosi, di nuovo, a me.

Mi alza il mento con la canna della pistola. È fredda, così come lo è il mio sangue.

«Oh, avanti! Non penserai mica che ti voglia uccidere, adesso!» dice, ridendo.

Toglie la pistola dalla mia faccia e la butta a terra.

«Ti ho tenuta viva fino ad adesso! E dire che avreste potuto fare molto più in fretta ad arriva-»

«Basta con le chiacchere» dice secco quello che mi sembra essere Calum.

Punta la pistola alla sua spalla destra e preme velocemente, quasi impazientemente, il grilletto.

Jordan lancia un urlo di dolore e barcolla all’indietro, premendo sulla spalla.

Subito dopo, parte un altro proiettile che gli si pianta nella coscia sinistra, facendolo cadere definitivamente a terra.

La donna lancia la sua pistola lontano da lui, facendola arrivare alla mia coscia.

Jordan cerca di tirarsi a sedere mentre impreca, stringendo sia la spalla che la gamba.

Io cerco di mettermi in piedi, di nuovo. Afferro la pistola al mio fianco e spingo con tutta la forza che ho in corpo, ma le braccia di Wayne arrivano in mio soccorso e fanno il lavoro che avrei dovuto fare io.

«Non toccarmi» dico, tossendo, mentre mi tiene in piedi.

Le mie gambe non riescono a reggersi da sole, ma nonostante questo non voglio il suo aiuto. Dopo tutto, se ora ero in questa situazione era anche colpa loro.

«Non riesci a reggerti in piedi» appura, non lasciandomi andare.

«Potresti almeno ringraziarci, ti abbiamo salvato il culo» dice Calum, ripetendo ciò che avevo detto poco prima di andarmene, prendendomi in giro con una voce effeminata.

Se potessi lo prenderei a calci.

Nel frattempo vengo trascinata fuori dal magazzino da Wayne, che si chiude la porta dietro le spalle, ignorando totalmente l’ultima minaccia e imprecazione di Jordan.

Uscendo, scopro presto che gli spari precedenti hanno attirato una quindicina di zombie circa.

«Ehi, appoggiati al muro» dice Wayne, lasciando la presa sul mio fianco.

Li vedo indaffarati con le loro pistole e vorrei urlargli che in questo modo ne attireranno altri, ma non mi sembrano nemmeno nella situazione di poterli uccidere tutti.

Cerco di stare in piedi da sola, non prendendo in considerazione il consiglio di Wayne.

Alzo la pistola e cerco di mirare a uno degli zombie più lontano dal gruppo: non vorrei sbagliare mira e uccidere qualcun altro al suo posto.

Lo sparo va a vuoto. Cerco di ricaricare l’arma, ma mi sento cedere le gambe.

«Ehi! Non puoi fare niente. Evita di fare altri casini e mettiti contro quel cazzo di muro!» mi intima furiosamente Calum.

Stavo solo cercando di aiutarti, idiota, penso e mi arrendo all’idea che non sono in grado di fare niente ora.

Lo odio. Odio essere in una situazione di impotenza. Odio essere finita in questa di situazione. Vorrei fosse andata diversamente, ma non posso cambiare il corso dei fatti. E non posso far altro che accettare la situazione.

Mi appoggio al muro e utilizzo tutte le forze che ho nel corpo per tenermi in piedi e non scivolare a terra.

Nonostante il dovere che mi sono imposta, le mie gambe cominciano a cedere lentamente mentre sento il rumore degli spari arrivare ovattato alle mie orecchie e la mia vista si annebbia, fino a che non mi ritrovo per terra e tutto ciò che vedo è il buio.

***

«Jordan è morto?»

«Noi crediamo di sì. Gli abbiamo sparato due volte, anche se fosse riuscito a uscire da quel magazzino, non credo sia andato molto lontano. Quindi, sì, è morto.»

Apro lentamente gli occhi e la prima cosa che vedo sono quei fastidiosi puntini bianchi e neri che mi ostacolano dal vedere ciò che mi circonda.

Ho sentito le voci, ma non riesco a capire a chi appartengono e, più importante, non riesco a capire dove sono.

Ricordo di aver perso i sensi e ricordo il cemento freddo contro la schiena e le gambe, niente di più.

Mi passo le mani sugli occhi, sfregandoli, cercando di capire qualcosa e mi tiro su a sedere, cosa che mi fa girare la testa violentemente e devo appoggiarmi con la schiena al muro per attenuare la sensazione.

«Ragazzi, è sveglia.» Sento la voce lontana, ma credo che sia più vicina di quanto io pensi.

«Ehi.» Riconosco essere la voce di una ragazza. Stringo gli occhi e la metto a fuoco: i suoi capelli sono biondi e le arrivano appena sopra le spalle, il suo viso è ora caratterizzato da un sorriso gentile. La riconosco come Mali, la sorella di Calum.

«Tutto bene?» mi chiede, appoggiando delicatamente una mano sulla mia spalla.

«Credo-credo di sì» dico, la mia voce risulta roca a causa della gola secca.

«Tieni, bevi un po’» Mi porge una bottiglietta d’acqua e gliela prendo subito dalle mani, sorseggiando velocemente.

«Ti hanno conciata male, eh?» dice e fa passare il suo sguardo su tutta la mia faccia.

«Kayla» Volgo lo sguardo dietro le sue spalle e noto Wayne avvicinarsi.

«Mali, ti vuole Travis» le dice, lei mi stringe delicatamente la spalla e poi si alza e si allontana.

So di essere al loro accampamento, ma non capisco in che parte. Mi guardo intorno: sono seduta su una brandina, alla mia destra c’è una sedia e alla mia sinistra il muro.

«Va un po’ meglio?» mi chiede dopo avermi fissato per qualche istante.

Annuisco debolmente. Mi porto una mano alla base del collo e sento qualcosa di secco, probabilmente è sangue.

«A quello ci pensiamo dopo» dice, indicandomi il collo.

«Mi dispiace per ciò che è successo. No so nemmeno come sia arrivato a te» continua poi, parlando più a se stesso che a me.

«Aveva seguito me e Calum» dico flebilmente. Non capisco nemmeno perché mi sia andata via la voce.

«Me l’ha detto lui» gli spiego subito dopo, dato che mi stava guardando confuso.

Tossisco e sento il dolore percorrermi tutto il corpo e emetto un gemito involontario.

Subito Wayne porta una mano sulla mia gamba, quasi di conforto. La sposto e la sua mano ricade sulle lenzuola.

«Da cosa ti stai proteggendo?» mi chiede, guardando prima la sua mano e poi me.

«Di cosa stai parlando?» chiedo confusa. Non è forse ovvio?

«Ti comporti in modo scontroso, pungente e chiuso. Hai paura di qualcosa e vuoi proteggerti. Da cosa? E, no, non sto alludendo agli zombi là fuori»

«Sono fatta così e basta.» Sto mentendo. Lo so benissimo e lo sa anche lui.

«Capisco, non ne vuoi parlare. Aspetterò che sia tu a prendere iniziativa.»

Seguono attimi di silenzio.

«Come hai fatto a capire che non avevo un gruppo?» Mi guarda un po’ confuso, quasi si fosse dimenticato del giorno in cui c’eravamo incontrati su quel tetto.

«Di solito, quando si fa parte di un gruppo, si esce sempre in due o tre… Tu eri sola.»

«Lo eri anche tu» appuro e mi sistemo meglio sul letto, provocando altre fitte di dolore per tutto il mio corpo.

«Sì, è vero. È morto due giorni prima che ti incontrassi» dice e sposta lo sguardo dietro di lui, verso la porta, come per controllare che nessuno lo sentisse.

«Come si chiamava?» gli chiedo, spostando lo sguardo alle mie mani incrociate tra di loro.

«Beck.»

«Mi dispiace.» Di nuovo, la conversazione cade e la stanza ritorna nel silenzio completo.

Voglio alzarmi dal letto. Ho le gambe indolenzite e sento il bisogno di muovermi. Provo a muovermi lentamente, ignorando il dolore continuo.

«Aspetta, ti aiuto io» Questa volta lascio che mi tocchi e, lentamente, riesco a mettermi in piedi con il suo aiuto.

«Da quanto tempo sei da sola?» mi chiede, mentre usciamo dalla stanza.

Se non mi stesse tenendo per la vita, sarei di nuovo a terra. Sono debole, più di quanto ricordo di esserlo mai stata. Se non fosse arrivato nessuno, sarei morta dalla debolezza. Forse è ora di aggiungermi a un gruppo e forse proprio questo gruppo.

«Da quando tutto è iniziato.»

«Perché?»

Passiamo per un corridoio ed entriamo nella palestra: ci sono persone dappertutto.

«Perché odio dipendere da qualcuno e non voglio che qualcuno dipenda da me. Non sono esattamente una delle persone più adatte da seguire» dico e subito mi vengono in mente mia sorella e mio fratello.

Se loro fossero stati con me, quel giorno in quella casa, sarebbero stati presi anche loro e ora sarebbero in queste condizioni. Non avrei potuto sopportarlo, sapendo che la colpa sarebbe stata solo mia.

«Quanti anni hai?» mi interroga, mentre ci avviciniamo ad un gruppo di persone delle quali riesco a riconoscere solo Mali.

«Venti» rispondo, facendogli cenno di fermarsi per qualche istante.

Ho bisogno di riprendere fiato.

«Sei quella più giovane tra di loro» ribatte, indicando il gruppetto davanti a noi.

«Quanti anni avete?» chiedo curiosa, non devono avere molti anni in più di me.

«Io ne ho ventitré, Calum e Lynton ventuno, Blaine ventidue, Mali venticinque e Travis quarantasei» elenca.

Quando sentono i loro nomi si girano e mi guardano un po’ sconvolti.

«Ciao, Kayla. Sono Travis, il capogruppo, per così dire. Spero che ti troverai bene tra di noi» dice l’uomo, porgendomi una mano che stringo debolmente.

Sorrido flebilmente e Travis ricambia. È gentile.

«So che, prima che tutto questo succedesse, hai salvato dai Vaganti Wayne e Calum e poi hai collaborato per portare qui delle provviste, per questo te ne siamo grati» dice e poi lancia un’occhiataccia a Calum.

«Certo, se qualcuno avesse messo da parte il suo orgoglio un po’ prima, avremmo fatto molto più in fretta e tu non saresti conciata in quel modo» sentenzia.

Calum serra la mascella nervoso. Mi guarda per qualche secondo e poi distoglie lo sguardo.

«Wayne, aiutala a medicarsi. Mi dispiace, non abbiamo un vero medico qui, dobbiamo arrangiarci con quello che sappiamo» spiega e poi ci fa cenno di allontanarci.

Ci dirigiamo verso un’altra stanza; entriamo e subito davanti a me vedo un lavabo e sopra uno specchio. Di fianco c’è un armadietto: credo ci siano dentro tutti i medicinali e le garze.

A sinistra c’è una doccia.

Appena Wayne chiude la porta alle nostre spalle, mi allontano dal suo corpo e raggiungo lo specchio.

Ho gli occhi stanchi, il viso pallido, un taglio sulla tempia sinistra, uno sulla fronte e un altro sul collo, il sangue uscito si è seccato e ha raggiungo la clavicola. Riesco a vedere anche un livido violaceo sulla spalla destra.

Mi aggrappo con una mano al lavabo e mi tiro su di qualche centimetro la canottiera che indosso e si mostra evidente un ematoma sul fianco e, alzando la maglietta ne scopro un altro tra torace e addome. Scovato il motivo per il quale mi è faticoso respirare.

Mi giro verso la porta e trovo Wayne girato verso la doccia per lasciarmi un po’ di privacy. Apprezzo il gesto e comincio a pensare che i pregiudizi che mi ero fatta su queste persone possano essere errati.

«Ho bisogno di una mano» dico, abbassando lo sguardo e aspettando che si avvicini.

Metto le mani ai bordi della canottiera e mi aiuta a toglierla. Gli do le spalle subito dopo.

«Vieni, ti lavo via il sangue dalla schiena» dice gentilmente, indicando la doccetta al muro.

«È grave?» chiedo, girando la testa e sedendomi su uno sgabello di plastica, in attesa di sentire l’acqua scorrere.

Mi guarda confuso.

«La ferita, è grave?»

«No. Devi esserti tagliata quando sei svenuta. C’erano dei pezzi di metallo per terra.»

Annuisco.

Sento l’acqua tiepida cominciare a scorrere sulla mia schiena e Wayne sta bene attento a non bagnarmi i pantaloni e il reggiseno, anche se a me non interessa.

Poi, sento la sua mano prima sulla nuca, poi sulla parte laterale del collo e infine sul dorso della schiena.

I minuti scorrono silenziosi, accompagnati solamente dallo scrosciare dell’acqua.

«Dov’eri quando ti ha trovata?» Appoggia la doccetta al muro e asciuga la schiena con una salvietta. È ruvida.

«Ero vicino al supermarket che io e Calum avevamo setacciato. Ho trovato una casa aperta e mi ci sono fiondata dentro. Pioveva.»

Prende una scatola dall’armadietto e tira fuori alcuni cerotti di tutte le misure; poi, me ne applica uno sulla schiena, delicatamente. Mi passa la mia canottiera e mi aiuta a infilarla.

Mi mette due cerotti anche sulla fronte e sulla tempia, così che i tagli non possano riaprirsi.

«Non aveva molto, ma aveva ciò che mi serviva. Poi sono andata in bagno e-e lì c’erano madre e figlio nella vasca da bagno, morti. Io non… ho dovuto bruciare i loro corpi» Mi pizzicano gli occhi.

Mi prende una mano e la stringe nella sua, subito dopo mi guarda con un mezzo sorriso sulle labbra.

«Perché vi importa così tanto di me da venire a cercarmi per la città?» gli chiedo spontaneamente, me lo sono chiesta da quando entrarono dalla porta di quel magazzino.

Non capivo per quale motivo: perché rischiare la vita per cercare una sola persona, oltretutto sconosciuta, per riportarla in vita al loro campo?

«Perché nessuno si merita di stare in quell’inferno là fuori, chiunque sia» ribatte, lasciando la mia mano ma aiutando ad alzarmi.

«Chi ha voluto che io tornassi qui?» lo interrogo senza sosta. Ho bisogno di risposte.

Ho bisogno della verità, se vogliono che io rimanga.

«Calum.»

«Perché?»

Proprio in quell’istante, la porta si apre e si presenta proprio lui.

«Ho bisogno di parlarti» sentenzia e non vuole sentire obiezioni. Anzi, fa un cenno a Wayne di andarsene e uno a me di seguirlo.

«Aiutala, non è in ottima forma, sai?» gli sussurra Wayne, anche se riesco a sentirlo pure io.

Calum mi guarda per un attimo e, notando che sono subito dietro di lui, ritira la mano che mi stava porgendo controvoglia.

Sarò orgogliosa, ma un aiuto da lui è l’ultima cosa che voglio.

«Che c’è?» gli chiedo con fare scontroso.

Nessuna risposta.

Lo seguo e mi riporta nella palestra; si ferma poco prima delle scalinate. Mi fissa per qualche istante e poi si decide a parlare.

«Seguimi e sta’ zitta.» Si volta e continua a camminare.

«Wow» dico, facendo schioccare la lingua contro il palato.

Mi lancia un’occhiataccia da dietro la sua spalla e poi apre una porta. Aspetta che entri e poi la chiude alle sue spalle.

Ho appena il tempo di guardarmi attorno che mi ritrovo con le spalle al muro, bloccate dalle sue mani.

Faccio una smorfia di dolore.

«Lo conoscevi.» Il suo corpo distanzia di pochi centimetri dal mio, il suo sguardo è infuocato e il suo petto si alza freneticamente.

«Tu credi?» gli chiedo con fare sarcastico. Questo ragazzo non fa altro che lasciarmi continuamente basita.

«Tu lo conoscevi» ripete, abbassando il tono della voce ed enfatizzando sul ‘tu’.

«Oh, mio Dio. Adesso spiegami, per favore, che diavolo ti passa per la mente perché sto avendo qualche problema a capirti.»

Stringe la presa sulle mie spalle e mi sento automaticamente più pressata contro al muro.

«Conoscevi Jordan. È l’unica spiegazione che riesco a darmi, che riusciamo tutti a darci. Com’è possibile, altrimenti, che lui ti abbia trovata, quando noi eravamo in giro a cercarti ma non avevamo la più pallida idea di dove tu fossi?»

«Ci aveva seguiti, io e te. Quando eravamo andati in quel maledetto supermarket» ribatto velocemente e mi dimeno debolmente nella sua presa ferrea.

«E, se quello che dici è vero, perché mai avrebbe preso solo te, quando il suo teorico bersaglio era una persona del mio gruppo? E, perché mai, sei scappata via da qui il giorno dopo?» dice a pochi centimetri dal mio viso.

«Stando a quello che diceva, lui sapeva che voi eravate in giro per me e mi ha usato come esca per voi» dico, ignorando il resto della sua frase.

«Ti rendi conto che dalla tua bocca escono solo cazzate?»

«A che diavolo di gioco stai giocando?» chiudo gli occhi in due fessure.

«Non sono io quello che gioca» ribatte pronto, allontanandosi di qualche centimetro da me.

«Ne sei sicuro? Perché, per quanto io ne sappia, sei stato tu a convincere tutti che venirmi a cercare non sarebbe stato uno sbaglio. Sei stato tu quello che ha messo in pericolo cinque delle tue persone per me, okay? Per una volta, non sono io quella con delle responsabilità!» sputo fuori, finendo con l’urlare. Il mio petto si alza freneticamente.

Sfrutto lo spazio che mi aveva lasciato pochi secondi prima per uscire dalla sua gabbia e dalla stanza, sbattendo la porta alle mie spalle.

Per la velocità con cui ho fatto il tutto, mi viene un giramento di testa e la gamba destra quasi mi cede. Lancio un'imprecazione e mi dirigo verso le scalinate.

Non ce la faccio più.

   
 
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