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Autore: Silvar tales    23/04/2017    6 recensioni
Otabek ripromise a sé stesso che, se tutto si fosse sistemato, avrebbe invitato il suo ragazzo ad Almaty e l’avrebbe finalmente presentato alla sua famiglia per quello che era, gli avrebbe cucinato i ravioli di agnello e per l’occasione anche lo çäkçäk, che era sicuro gli sarebbe piaciuto con tutta quella copertura al miele.
Poi sarebbero saliti sui 4979 metri del Pik Talgar, avrebbero telefonato a sua madre e le avrebbero detto che se si affacciava dalla finestra della cucina li poteva vedere, in piedi sulla cima.
Lei avrebbe sbraitato in dialetto kazako e gli avrebbe dato degli incoscienti, mentre loro avrebbero riso, avrebbero riso tanto e si sarebbero baciati, come due anni prima sulla cima dell’Eiger.
È una promessa, Yuri, quindi vedi di riprenderti.
Genere: Angst, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Jean Jacques Leroy, Otabek Altin, Yuri Plisetsky
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'The North Face'
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The North Face




made by Marti





Piccole premesse:

● Disclaimer: la foto che ho inserito a fine storia non mi appartiene.
Questa è l'ultima one-shot della serie The North Face, una raccolta di "AU montanare" un po' particolari, in cui i nostri amati pattinatori non sono pattinatori ma alpinisti. Penso che questa storia sia comprensibile anche come stand-alone, ma ovviamente è profondamente collegata a Eiger e Deffeyes.
● Una piccola nota sull'età dei personaggi: Yuri ha 22 anni nella prima parte della storia e 23 anni nella seconda. (Otabek 24/25, JJ 25/26 circa).
Ringrazio in anticipo chiunque vorrà leggere anche quest'ultima cosa angstosa e fluffosa. Come sempre, mi fate profondamente felice e io non lo merito, perché dovrei imparare a scrivere AU un po' più normali. Lo so.




Matterhorn





Il rumore assordante delle pale dell’elicottero continuava a rimbombargli nella testa, anche se ormai erano passati quattro giorni e cinque notti.
Lui era ancora sdraiato su quel letto, sospeso nel buio e nel delirio dell’incoscienza, con un quadro diagnostico da far accapponare la pelle.
Ma si riprenderà, si riprenderà, glielo dicono tutti i medici e gli infermieri del Parini di Aosta che gli passano davanti.
Cosa vuol dire si riprenderà? Vuol dire che la prossima estate potranno tentare di salire sull’Aguille du Midi, o vuol dire che al massimo potrà accompagnare suo nonno a braccetto nelle passeggiate domenicali lungo la Moscova? Perché in tal caso, non si riprenderà mai.
Non si guarisce dalla passione per la montagna verticale, tutto ciò che puoi fare è assecondarla, finché non diventi troppo vecchio e l’unica cosa che ti rimane da fare è nasconderti in un rifugio a tremila metri ed elencare ai giovincelli i nomi di quelle cime che un tempo mordevi con i ramponi i chiodi e le picozze, o finché non ci muori.

Lo stavano operando per la quarta volta.
In quelle ore infernali, Otabek non poteva far altro che starsene su una di quelle scomodissime sedie di plastica addossate contro le pareti bianche del corridoio di servizio, la testa abbandonata tra le mani, i capelli sporchi, gli occhi cerchiati dall’insonnia. Aveva ancora addosso la tuta da sci, si era rifiutato di abbandonare l’ospedale, benché più volte gli infermieri lo avessero esortato a passare almeno una notte in albergo, assicurandogli che Yuri non era in pericolo di vita, e che per qualsiasi complicazione lo avrebbero chiamato all’istante. Ma lui non aveva voluto sentir ragioni.
Gli avevano permesso di depositare gli sci, gli zaini, gli scarponi e lo sci superstite di Yuri in uno sgabuzzino chiuso a chiave che di norma era riservato agli inservienti. Ogni tanto passava un’infermiera a portargli un tè caldo e qualche biscotto secco, oppure un cuscino e un panno di lana, o semplicemente un sorriso che tentava di essere rassicurante.
Otabek ringraziava, pur non trovando alcun conforto in quei piccoli gesti. Cercava piuttosto di alleviare la tensione chiudendo gli occhi e ascoltando a ripetizione la loro playlist preferita, che spaziava da Martin Garrix, Sia, Kygo, a Ed Sheeran e One Direction, fino agli All Time Low e ai Subways. L’alternativa era attaccarsi alla macchinetta del caffè, anche se dopo il decimo bicchierino di brodaglia aveva esaurito tutte le monetine. Allora aveva iniziato a fumare una sigaretta dietro l’altra sulla scala antincendio, anche se c’era un cartello grande come una casa che lo vietava.
Era da quando aveva diciassette anni che non toccava più una sigaretta, da quando sua madre era in ospedale a partorire la sua sorellina. Da allora aveva smesso una volta per tutte di fumare, l’aveva promesso ai suoi genitori, ma promessa o no l’avrebbe fatto comunque per il bene sconfinato che nutriva nei confronti della nuova arrivata in famiglia.
Non aveva ancora chiamato a casa per raccontare quanto era successo. Non voleva allarmare i suoi genitori che si trovavano a più di seimila chilometri di distanza ed erano del tutto impotenti. Si sarebbero agitati inutilmente. Invece, per quanto riguarda Yuri, non lo conoscevano se non di nome, e per averlo visto nelle foto delle loro scalate, quasi sempre nascosto dietro un cappuccio e degli occhiali da sole. Ancora non sapevano che Yuri era molto di più di un semplice compagno di cordata, per lui.
Otabek ripromise a sé stesso che, se tutto si fosse sistemato, avrebbe invitato il suo ragazzo ad Almaty e l’avrebbe finalmente presentato alla sua famiglia per quello che era, gli avrebbe cucinato i ravioli di agnello e per l’occasione anche lo çäkçäk, che era sicuro gli sarebbe piaciuto con tutta quella copertura al miele. Poi sarebbero saliti sui 4979 metri del Pik Talgar, avrebbero telefonato a sua madre e le avrebbero detto che se si affacciava dalla finestra della cucina li poteva vedere, in piedi sulla cima. Lei avrebbe sbraitato in dialetto kazako e gli avrebbe dato degli incoscienti, mentre loro avrebbero riso, avrebbero riso tanto e si sarebbero baciati, come due anni prima sulla cima dell’Eiger.
È una promessa, Yuri, quindi vedi di riprenderti.

Anche l’ultima sigaretta era arrivata al filtro. Otabek la spense per bene sulla ringhiera di ferro, rientrò nell’atrio dell’ospedale e gettò il mozzicone nell'apposito contenitore di metallo.
Fermò la prima infermiera che gli passò davanti, una donna burbera sui quarant’anni con i capelli tutti bianchi prima del tempo e vistose borse sotto agli occhi. Si vedeva che era un’abitué del turno di notte. Provò a chiederle di Yuri in un francese stentato, ed ebbe in risposta solo un frettoloso «tu ne peux pas encore le voir». Non puoi ancora vederlo.
Era spossato, fisicamente e mentalmente. Non ne poteva più di stare in quel corridoio che puzzava di candeggina, ad attendere disperatamente una buona notizia. Ad attendere di sapere se gli interventi avevano avuto buon esito. Ad attendere che lo trasferissero finalmente dalla sala operatoria alla camera di degenza.
Erano quattro giorni che attendeva, e in quell’arco di tempo l’aveva visto solo un paio di volte, di sfuggita, mentre lo trasportavano in barella da un reparto all’altro.
Ora era giunto al limite, non ce la faceva più a stare fermo ad aspettare.
Crollò nuovamente sulla prima sedia che si trovò davanti, tirò fuori lo smartphone dalla tasca della tuta da sci e, senza sapere il perché, si trovò a scrivere sul contatto whatsapp di Leroy.

» Ciao, Yuri si è fatto molto male… è caduto in un crepaccio mentre scendevamo con gli sci dal Grand Combin… siamo all’ospedale Parini di Aosta.

Sì pentì di avergli inviato quel messaggio un attimo dopo averlo fatto. Come gli era saltato in mente di scrivergli?
Jean Jacques Leroy era stato loro compagno di cordata per alcuni anni, ma erano più di due anni ormai che avevano troncato i rapporti. Lui e Yuri erano sempre stati incompatibili, e nemmeno Otabek aveva mai nutrito molta simpatia nei suoi confronti. Forse non erano mai stati veramente amici, ma solo semplici colleghi di scalata.
Si erano incontrati per caso, nella falesia dello Sleeping Giant nell’ovest dell’Ontario.
Yuri all’epoca aveva solo sedici anni, ed era già uno scalatore eccezionale. Lui e Otabek si erano conosciuti l’anno precedente ad Arco di Trento, dove ogni anno si teneva la coppa del mondo di arrampicata sportiva. Fu l’ultima gara a cui Yuri partecipò prima di dedicarsi una volta per tutte all’alpinismo. Forse quel quarto posto l’aveva scoraggiato, o forse si era accorto di non voler passare tutta la vita a salire e scendere paretine artificiali di una ventina di metri al massimo, sempre rinchiuso in una palestra con l’aria satura di polvere e magnesite.
Era un ragazzo ambizioso, Yuri Plisetsky. Puntare sempre più in alto era una caratteristica della sua indole aggressiva e determinata. Lui voleva mettere le mani sulla roccia, voleva salire oltre le nuvole, sognava di conquistare i 4000, poi i 5000, e così via fino alle più alte vette andine e himalayane.
Forse è per questo che Otabek Altin, allora aspirante guida alpina, aveva attirato la sua attenzione. Prima di tornare l’uno a Mosca e l’altro ad Almaty, si erano scambiati i rispettivi contatti di hi5 e whatsapp, con la promessa di continuare a sentirsi.
L’estate successiva, Otabek gli aveva chiesto di seguirlo in Canada, nella Thunder Bay in Ontario, dove aveva intenzione di aprire delle nuove vie sul grande muro dello Sleeping Giant.
Yuri possedeva le abilità per scalare un 8c+ che Otabek non aveva, e usava una buona dose di fantasia sulla roccia: riusciva a vedere appigli improbabili e affrontava i punti chiave della via nei modi più inaspettati. E Otabek, d’altro canto, possedeva conoscenze tecniche che ancora a Yuri mancavano. Ben presto, si accorsero che insieme formavano un’accoppiata vincente.
Fu in quei giorni di duro lavoro per aprire un settimo grado sul pilastro Cedar che incontrarono Jean Jacques Leroy. Stava arrampicando assieme ad altri due amici sulla via multipitch adiacente alla loro, e iniziò ad attaccare bottone in un inglese smagliante. Il canadese si presentò fin da subito come un tipo socievole anche troppo, ma all’inizio non sembrava così insopportabilmente vanaglorioso. La sera si ritrovarono tutti quanti in un locale a Thunder Bay, e saltò fuori che Jean cercava due compagni di cordata per salire sul Mount Temple, in Alberta.
Da lì iniziò la loro collaborazione, e andò avanti per quattro anni, fino a quella fatidica sera a Chamonix in cui Jean tirò troppo la corda e Yuri lo mandò una volta per tutte a quel paese, sfogando in un colpo solo tutti i dissapori che aveva covato fino a quel momento.

L’orologio dell’atrio segnava le due meno dieci. In Ontario dovevano essere circa le otto di sera. Il messaggio che aveva mandato a Jean era stato visualizzato venti minuti fa, ma lui non aveva risposto.


*




«Yuri…»
Si era seduto di fianco al suo letto, aveva iniziato ad accarezzargli la fronte pallidissima e non aveva più smesso, cercando di ignorare tutti quei tubicini che gli avevano attaccato al corpo, cercando di resistere alla tentazione di scoprirgli le gambe e contargli i punti.
L’infermiera aveva iniziato a parlargli mezzo in italiano e mezzo in francese, e Otabek non aveva capito nulla. Non si era nemmeno sforzato di capire.
Yuri era lì, addormentato su quel letto, e respirava, senza l’aiuto della ventilazione artificiale. Per il momento poteva bastare. Anche se non sarebbe mai bastato.
Pensieri orribili cominciarono a farsi strada nella sua mente, mentre osservava il suo volto scavato e sofferente, anche nella distensione del sonno.
E se non avesse mai più potuto scalare? E se avesse perso l’uso delle gambe? E se fosse rimasto paralizzato?
Yuri non avrebbe mai potuto sopportare nessuna di queste condizioni invalidanti, Otabek lo sapeva fin troppo bene. Yuri Plisetsky era dotato di una grande forza e determinazione, ma qualora il corpo l’avesse abbandonato, la sua forza interiore se ne sarebbe andata con esso.

Avevano avuto il buon senso di lasciarli soli per un’ora abbondante, nella quale Yuri aveva continuato a dormire profondamente, e Otabek non aveva potuto far altro che lasciarsi mordicchiare dai cattivi pensieri, cercando al contempo di spazzare via i brutti sogni del russo con una carezza, una stretta di mano, un bacio sulla fronte.
Poi un medico (probabilmente il primario del reparto) l’aveva preso in disparte e aveva iniziato a mettergli sotto al naso una serie di lastre radiografiche, cercando di spiegargli, un po’ in francese e un po’ in inglese maccheronico, con una gentilezza e una pazienza infinite, la situazione clinica di Yuri.
Otabek non aveva capito tutto quello che gli era stato detto, ma aveva capito l’essenziale.
Aveva capito che Yuri avrebbe continuato a camminare, correre, persino scalare, anche se ci sarebbe voluto del tempo. Tanta fisioterapia, tanta riabilitazione, e tanta, tantissima pazienza e forza di volontà.
«Now let him rest and it would be better if you do the same».

Dopo che il primario lo congedò, Otabek si chiuse nel primo bagno che trovò libero, si appoggiò con i palmi sui bordi del lavandino e pianse.
Un po’ di quella terribile tensione che gli gravava addosso da cinque giorni, ormai, si era allentata. La sentiva abbandonargli il corpo assieme a quelle lacrime appiccicose che gli scivolavano lungo il mento.
Si concesse un altro minuto di sfogo, poi si asciugò il pianto con un pezzo di carta ruvida che gli abrase la pelle sensibile agli angoli degli occhi.
Quando si decise ad uscire dal bagno, i pensieri facevano così tanto rumore che quasi non sentì una voce familiare che lo chiamava.


*




«Otabek».
Jean Jacques Leroy era apparso in mezzo al corridoio, proprio sotto alla targa luminosa che identificava il reparto di terapia intensiva, come se questa l’avesse magicamente evocato.
Aveva un piccolo trolley al seguito, e nell’altra mano stringeva una borsa di carta di starbucks.
Era come se fosse stato catapultato a sua insaputa dal Canada all’Italia. Anche quando abbandonò tutto quanto per terra e corse ad abbracciarlo, gli parlò istintivamente in francese. Gli disse qualcosa come ho fatto prima che ho potuto.
«Jean…» era sinceramente provato, lo era davvero. Otabek ancora non credeva che lui fosse venuto fin lì, ad Aosta. Si sarebbe aspettato una risposta al suo messaggio, magari anche un finto interesse e delle forzate parole di conforto. Invece Jean si era precipitato in aeroporto a Toronto, aveva acquistato un volo last minute Air France con scalo a Parigi, e da Torino ad Aosta aveva speso un patrimonio in taxi per non perdere tempo ad aspettare il treno.
Aveva fatto tutto questo per dargli quell’abbraccio che adesso aveva il potere di salvarlo dal panico, di mettere ordine in quel gran casino che aveva in testa. Perché Jean Jacques Leroy non parlava la sua stessa lingua, ma entrambi condividevano qualcosa di più forte. Perché solo un altro alpinista avrebbe potuto capire il rischio che correvano ogni volta che salivano su quelle cime, e perché valeva la pena correrlo.
«Otabek, raccontami tutto».
Si sedettero nuovamente su quelle infernali sedie di plastica, e Jean andò a recuperare la borsa di starbucks e il trolley con ancora attaccato i codici a barre identificativi dei voli. Rovistò un po’ dentro la shopper e ne estrasse un cookie un po’ sbriciolato, che tuttavia Otabek accettò volentieri. Non ricordava quand'era l’ultima volta che aveva ingerito qualcos’altro oltre ai disgustosi caffè dei distributori automatici e al fumo delle sigarette.
Gli raccontò ogni cosa, le parole iniziarono ad uscire dalla sua bocca e ad accavallarsi fino a diventare una valanga inarrestabile. Anche quando giunse il momento di rievocare il ricordo più doloroso, quello che ancora non riusciva ad elaborare.
«Avevamo appena iniziato a scendere il couloir du Gardien, quando l’ho visto scomparire sotto la neve. Poi, poi...»

E poi buio, Otabek. La mente ti si inceppa. Non ti ricordi cos’hai fatto nei momenti successivi. Sicuramente ti sei tolto gli sci e sei arrancato fino al punto in cui Yuri è stato inghiottito dal ghiacciaio. Poi, quando hai visto che di quella voragine rimaneva solo una bocca nera non più larga della tana di una marmotta, e tutto il resto era stato coperto dalla neve di superficie, sei andato nel panico. Hai urlato il suo nome fino a perdere la voce, e lui non ti ha risposto neanche una volta.
Forse hai iniziato a trafficare con le corde i moschettoni i chiodi da ghiaccio o lo snow fluke, hai pensato di allestire un punto di ancoraggio e di calarti in quel maledetto crepaccio. Ma poi, per fortuna, sei riuscito a recuperare la fermezza necessaria per tirare fuori il cellulare dallo zaino, per fortuna sei riuscito a chiamare il soccorso alpino anche se c’era solo una tacca di campo, per fortuna Yuri aveva lasciato il suo gps nel tuo zaino e sei riuscito a comunicare le coordinate esatte della vostra posizione, cosicché l’elicottero potesse trovarti nel minor tempo possibile
.

«...credevo non lo tirassero più fuori di lì. Non sapevo se avevo più paura di non vederlo uscire mai più, o di vederlo uscire da quel crepaccio con la testa spaccata».
Le mani gli tremavano così tanto che il biscotto che gli aveva offerto Jean finì in pezzi sul pavimento.
Non aveva mai assaporato il panico. Era una guida alpina, doveva essere pronto ad affrontare a mente lucida situazioni del genere. Era il suo mestiere, portare gente inesperta a quattromila metri e oltre. Lui era quello che conosceva a menadito ogni manovra di soccorso. Lui era quello che doveva prendere in mano la situazione, in caso di pericolo.
Ma in quel momento, quando aveva visto Yuri scomparire sotto la neve e cadere nell'imbuto nero del crepaccio, chissà quanto in fondo, il panico l’aveva divorato.
Non riusciva a pensare a nient’altro che pregare, dio, ti prego, fa che sia ancora vivo… fa che sia ancora vivo… fa che sia ancora vivo… mentre armeggiava con le fettucce e allestiva una sosta sbagliando tutti i nodi, senza avere la minima idea di cosa stesse facendo.

Jean non lo guardava, aveva la testa china e lo sguardo fisso davanti a sé.
«So cosa succede in quel momento. L’ho visto succedere. Ho perso mio fratello più piccolo Christopher in quel modo», disse, prendendo Otabek completamente alla sprovvista.
«Io… non lo sapevo, non ne avevi mai parlato».
Jean scrollò le spalle, e fece un sorriso mesto, come se stesse rievocando un ricordo doloroso ma ormai digerito con il passare del tempo.
«Sei anni fa, ormai. Stavamo salendo sull’Alpamayo per la via basco-francese. Io ero troppo giovane e troppo sicuro delle mie capacità. Nessuno di noi due era veramente pronto. Lui si è lasciato trasportare dal mio entusiasmo, io ero il maggiore e Chris si fidava ciecamente di me».
Otabek non poteva nemmeno immaginare il peso dei sensi di colpa che Jean si portava sulle spalle, da allora. Non avrebbe mai pensato che dietro quell’arroganza e quella faccia da schiaffi si nascondesse una simile tragedia.
Eppure lui aveva continuato a scalare, vuol dire che a un certo punto era riuscito a farsene una ragione.
«Quello che è successo a Yuri non è colpa tua. Entrambi sapete fin troppo bene i rischi che si corrono, e avete deciso di affrontarli volontariamente. Yuri è un uomo e sapeva ciò che faceva. Non è un ragazzino che ha seguito un idiota».


*




A metà mattina, un’infermiera annunciò loro che Yuri si era finalmente svegliato, e li invitò a entrare nella camera di degenza senza fare troppo baccano.
Il russo aveva la testa rilassata su una pila di tre cuscini, gli occhi chiusi e l’espressione leggermente contratta, ma dal ritmo del suo respiro si capiva che non stava più dormendo.
Jean rimase in piedi alla destra del letto, mentre Otabek prese una sedia e si mise alla parte opposta.
Gli scostò i capelli sudaticci dalla fronte, ripetendo questo gesto per tre volte. Lo toccava come se fosse la cosa più preziosa e fragile del mondo.
Yuri aprì un occhio di una fessura, per poi richiuderlo un istante dopo. Prese un profondo respiro e sollevò un po’ di più la testa, sistemandosi più in alto sulla torre di cuscini.
«Che ci fa qui quel coglione di Leroy?» mormorò, con gli occhi ancora chiusi e la voce arrochita dalla disidratazione.
Otabek si mise una mano sulla bocca e riuscì a trasformare una risata in un colpo di tosse. Tipico di Yuri Plisetsky, che quelle fossero le sue prime parole. Anche se il russo aveva stiracchiato le labbra rotte in un sorriso spossato: non c’era ombra di cattiveria nella sua voce, solo stanchezza, tanta stanchezza.
Anche Jean capì quello che aveva detto. Negli anni in cui scalavano insieme aveva sentito tante di quelle volte la parola mudack accostata al suo nome che ormai la riconosceva come se appartenesse alla sua lingua madre.
«Dove sono i miei backland atomic nuovi di zecca?» disse ancora.
A Otabek veniva da ridere e da piangere nello stesso momento. Sentire il suono della sua voce era stato come sentire la sua sorellina piangere per la prima volta.
«Sei il solito idiota. Sei vivo per miracolo e ti preoccupi degli sci?»
«Li avevo pagati novecento fottutissimi euro e li ho usati solo due volte…» gemette Yuri spiaccicandosi una mano sulla faccia.
«Beh, quattrocentocinquanta euro te li ho recuperati…» Otabek preferì restare sul vago, senza dirgli a muso duro che il suo amato backland atomic sinistro era finito nella pancia del Grand Combin, e lì sarebbe rimasto, almeno fin quando il surriscaldamento globale non avrebbe dato il colpo di grazia a ciò che rimaneva del povero ghiacciaio. Lanciò una rapida occhiata a Jean, il quale si stava contorcendo nel tentativo di non scoppiare a ridere.
«Hai fame, te la senti di mangiare qualcosa?» gli propose, cercando di cambiare argomento. Di lagne sugli sci non ne voleva proprio sentire in quel momento.
Yuri si lasciò scappare dalle labbra una risatina sofferente. «Per ora mi accontenterei di fare la pipì in piedi».
Otabek ridacchiò, poi gli diede un buffetto affettuoso su una guancia. «Avanti, hai sopportato anche di peggio».
Sentirlo respirare, sentirlo parlare, sentirlo ridere e scherzare, sentirlo vivo, anche se era steso su un letto d’ospedale con la faccia dolorante e cateteri infilzati dappertutto, ma pur sempre vivo, erano tutte cose che aveva sempre dato per scontato. E solo in quel momento si rendeva conto di quanto fosse fortunato ad averlo lì, caldo e sudato, con il sangue che continuava a scorrergli sotto la pelle, con l’aria che continuava ad andargli dentro e fuori dai polmoni, con il cervello che aveva l’ossigeno necessario persino per permettersi di sprecarlo in preoccupazioni inutili.
Jean, forse per la prima volta nella sua vita, non spiccicava parola. Se ne stava ritto in piedi a braccia conserte, come se non volesse intromettersi, ma i suoi occhi erano lucidi tanto quanto quelli di Otabek.

«Va bene, io vado», disse dopo un po'. Yuri voltò faticosamente la testa verso di lui. Forse voleva ringraziarlo, forse voleva persino chiedergli scusa, ma non disse niente.
Otabek invece si alzò dalla sedia e lo seguì nel corridoio.

«Ti sei appena fatto dodici ore di volo per arrivare, e ora sei già in partenza?»
«Volevo solo vedere come stava, quello stronzetto russo. E sta bene, Otabek, ha gli occhi di uno che vuole combattere».
Otabek si lasciò sfuggire un sorriso. «Lo so», disse, a bassa voce, quasi sovrappensiero.

Lo so, lo so, quelli sono i suoi occhi. Avevo solo paura di non rivederli mai più. Avevo solo paura che avesse alzato le braccia sopra la testa e si fosse arreso.

«Jean, ci sentiamo per quest’estate, ok?»
Lui fece un sorriso grande grande, e alzò il pollice. «Puoi contarci!» poi infilò i rayban e si avviò verso l’ascensore, tirandosi dietro il suo trolley rosso della Samsonite.
«Io e Isabella stiamo progettando un paio di ascensioni che credo vi piaceranno un sacco», disse ancora, anche se ormai gli aveva già voltato le spalle. Aveva solo alzato una mano sopra la testa in segno di saluto.
«E chi sarebbe Isabella?» gli urlò Otabek.
Ma le porte dell’ascensore si erano già chiuse.


***




Yuri aveva passato tutto il giorno a guardarla in cagnesco, perché non può essere una vera alpinista una che ha lo smalto delle unghie abbinato al colore dello zaino, perché Beka, secondo me mi stanno sparlando dietro (quando Isabella e Jean confabulavano e ridacchiavano tra loro in francese, ma non sembravano minimamente interessati a Yuri quanto piuttosto al paesaggio mozzafiato che li circondava), perché scommetto che appena arriveremo al rifugio pretenderà pure di farsi una doccia.
«Perché tu infatti devi puzzare per forza, essendo che hai il pisellino tra le gambe».
«Non è questo il punto, non ci si fa la doccia al rifugio, altrimenti non è un vero rifugio».
Otabek, a quel punto, alzò gli occhi al cielo.
«Amore, vieni qua».
Si fermarono un attimo a lato del sentiero, e Otabek fece cenno agli altri due di continuare.
Lo spinse contro il muretto erboso che delimitava il percorso, e lo baciò dolcemente sulle labbra. Poi gli passò una mano tra i capelli e glieli mise tutti in disordine. Come se non ci avesse già pensato abbastanza il vento.
Yuri soffiò come un gatto che era stato appena accarezzato contropelo. Si ficcò in bocca il tubicino dell’hydrobag e ingollò qualche sorso d’acqua, con la faccia tutta imbronciata.
«Lo sai cosa sembri? Oltre che un rompiscatole?»
«Hm».
«Sembri geloso di Jay».
Yuri diventò tutto rosso e per poco non si strozzò. Prese a tossicchiare e un po’ d’acqua gli uscì persino dal naso.
«Io? Geloso di… quello? Ma che cazzo dici».
«Ora smettila di fare lo stronzo. Pensa piuttosto che domani saremo là in cima», disse Otabek, sventolando una mano all’indirizzo dell’imponente picco del Cervino che svettava davanti a loro, spolverato di neve fresca e carezzato da ciuffi di nuvole che si rincorrevano tra loro.
«Hm-hm», asserì Yuri. Poi strinse le chiusure dello zaino sul petto e in vita, e si chinò un momento a rifare il nodo agli scarponi, segno che era pronto per ripartire. Jean e Isabella avevano già scollinato e ormai erano avanti una ventina di tornanti.
Otabek intuì che c’era qualcosa che non andava, qualcosa che non aveva nulla a che fare né con Jean né con la sua fidanzata, ma sul momento non vi diede troppo peso. Come non diede troppo peso al fatto che Yuri non aveva mai camminato così lentamente, e che non aveva mai avuto bisogno di fare così tante pause.


*




Otabek e Jean avevano passato tutta la cena a discutere riguardo il percorso che avrebbero dovuto fare l’indomani, se salire per la via Normale svizzera, o se intraprendere un tracciato più difficile lungo la cresta di Zmutt.
Yuri, stranamente, non si era pronunciato a riguardo. Era rimasto truce e silenzioso, con l’ingombrante presenza di Isabella Yang al suo fianco che tentava inutilmente di fare conversazione in un imbarazzante inglese con un fortissimo accento francese e con qualche parola di russo infilata qua e là a casaccio.
Yuri le rispondeva a grugniti, non mostrando interesse per null’altro che non fosse lo schermo del suo iphone o il suo piatto di omelette.
Il suo ragazzo, d’altro canto, non sembrava curarsi minimamente dei fumini che si alzavano dalla sua schiacciata di burro patate ed erba cipollina, e che diventavano sempre più esili.
«Beka, il tuo Rösti si raffredda», disse Yuri, parlando appositamente in russo per attirare la sua attenzione. Ma Otabek fece finta di non sentirlo, e continuò a studiare i fogli delle relazioni alpinistiche insieme a Jean.
«Il punto più critico sulla Normale è dopo le Rochers Rouges, i pendii nevosi sono molto ripidi e sicuramente saranno ghiacciati...»
«Non capisco perché ti preoccupa di più quel passaggio, piuttosto che la deviazione che dobbiamo fare sulla parete Ovest, se decidiamo di andare per la cresta di Zmutt...»
Yuri sbuffò vistosamente. Allungò la forchetta e iniziò a spilluzzicare il Rösti di Beka, anche perché la sua omelette era già finita e nel suo stomaco c'era ancora parecchio spazio.
«Tu che dici, Yurino?» gli chiese a un certo punto Jean, con il suo solito sorriso smagliante. «Normale o cresta di Zmutt?»
Otabek sembrò accorgersi solo in quel momento che Yuri si stava mangiando la sua cena. Si riprese il piatto ed ebbe pure la faccia tosta di fare l'offeso.
«Io domani non vengo», disse Yuri a bruciapelo, serissimo in volto.
Per un momento non si sentirono più i crepitii del fuoco, le chiacchiere della gente, il tintinnio delle posate, il rumore delle panche che sfregavano contro il pavimento di legno.
Otabek e Jean lo guardavano come se da un momento all'altro Yuri dovesse scoppiare a ridere, mentre Isabella sembrava l'unica ad aver capito che non stava affatto scherzando.
Il russo lasciò cadere la forchetta sul tavolo, sibilò un vaffanculo tra i denti, si alzò dalla sedia e uscì dal rifugio, sbattendosi la porta alle spalle.

«Yuri, ma che hai?»
Lo trovò con i gomiti poggiati sulla balaustra della piattaforma di legno che circondava l'esterno dell'Hörnlihütte. Aveva il cappuccio della giacca alzato sulla testa, anche se alcuni ciuffi biondi venivano lo stesso catturati dal vento. La luce arancione del tramonto gli feriva gli occhi verdi, accentuandone ancora di più il colore smeraldino.
«Lasciami in pace. Tanto anche tu non capisci un cazzo, proprio come quell'altro».
«Vuoi che andiamo su per la Normale domani?»
Yuri si voltò verso di lui. Aveva il viso rosso di rabbia e gli occhi furenti.
«Non c’entra un cazzo la Normale! Lo vedi che non riesco nemmeno a salire su per un fottuto sentiero? Ci hai pensato anche solo un secondo a me quando hai detto di sì a Leroy? Ti sei dimenticato che l'anno scorso mi sono massacrato il bacino? Sei solo uno stronzo, non te ne frega un cazzo di me. Non te n'è mai fregato un cazzo!»
Otabek rimase pietrificato. Sul momento provò solo tanta rabbia, per l'ingiustizia di quelle parole. Aveva sacrificato il suo lavoro e la sua famiglia per stargli vicino a Mosca nei mesi di riabilitazione, aveva affittato un monolocale per non creargli problemi con il nonno che ancora non sapeva della loro relazione, l'aveva accompagnato ad ogni visita di controllo, ad ogni colloquio con i medici, ad ogni sessione di fisioterapia. E l'aveva visto recuperare le forze, giorno dopo giorno.
Dieci mesi più tardi, Yuri sembrava essersi rimesso in sesto, andava a correre tutti i giorni prima di andare a lezione, e ogni domenica faceva tre ore di piscina. Perciò avevano programmato di salire sul Cervino, in agosto. E non avevano certo fatto le cose di nascosto, avevano discusso per due ore abbondanti su skype, tutti e quattro in collegamento video.
Otabek alla fine aveva detto di sì, e Yuri aveva detto lo stesso due secondi dopo, ed era sembrato anche parecchio entusiasta all'idea di rimettere le mani sulla roccia.
Quindi sì, Otabek provò tanta rabbia, così tanta che questa volta avrebbe iniziato a urlargli contro, se solo Yuri non fosse scoppiato in lacrime subito dopo.
Si vedeva che cercava in tutti i modi di non piangere, aveva il viso tutto rosso, il respiro affannato, e si azzannava le labbra a sangue, ma proprio non ce la faceva a trattenere quelle maledette lacrime.
«Io non ci riesco... non ci riesco... non ce la faccio...» disse, coprendosi il viso con le mani non appena si rese conto di essere crollato.
Otabek sentì il cuore andargli in mille pezzi. Non l'aveva mai visto cadere in un tale sconforto, neanche nei momenti più neri.
In quel momento tutte le sue paure tornarono fuori, la paura che Yuri si arrendesse, che si scoraggiasse e dicesse addio una volta per tutte alla montagna verticale. Yuri non era fatto per i compromessi, voleva tutto o niente. E se non sarebbe più stato capace di scalare le pareti più difficili, molto probabilmente non avrebbe più voluto fare nient'altro.
Lo strinse forte tra le braccia, anche se lui cercava di mandarlo via, lo strinse a costo di farsi mordere, a costo di sentire le sue unghie affondargli nella carne.
Poi Yuri si arrese, si arrese e sfogò il suo pianto secco contro il suo petto. Sembrava che stesse annegando, stringeva forte i denti e faceva fatica a parlare tanto era scosso dai singulti.
«Io non ci riesco Beka, e ho paura che non ci riuscirò mai più».
«Shh, ora smettila di dire cazzate».
Otabek lo baciò tra i capelli, mentre gli accarezzava la schiena, cercando di distendergli i muscoli.
Forse Yuri non aveva tutti i torti. Non capiva un cazzo.
Scalare una montagna di quattromila metri non era uguale a fare una corsetta al parco o una nuotata in piscina. Per Yuri era ancora troppo presto per riprendere a scalare. Non avrebbero dovuto nemmeno parlarne di scalate, per quell'anno. Era ovvio che Yuri, stupido incosciente esagerato Yuri che era stato fin troppo tempo lontano dalla roccia e dal ghiaccio, non si sarebbe mai e poi mai tirato indietro.
E ora che si era reso conto di non farcela, non era arrabbiato con lui, con Jean, o con Isabella, ma con sé stesso. Ce l'aveva a morte solo e soltanto con sé stesso.
Otabek continuò a stringerlo, mentre la luce del giorno moriva e il vento si alzava sempre più gelido.

«Yura, io domani resto qui con te».
«Neanche per sogno, brutto deficiente. Tu domani muovi il culo e sali là in cima».
«Non è che hai adocchiato qualche bell'alpinista tedesco?» tentò di sdrammatizzare Otabek.
Yuri tirò su con il naso e ridacchiò.
«Più di uno. E se ti muovi forse riesco a farmeli tutti prima che torni giù». E mentre lo diceva, scoccò un bacio sulla maglia di Otabek.
Non voleva alzare gli occhi e guardare lo spigolo appuntito del Cervino che li osservava in silenzio.
Quell'anno avrebbe potuto solo guardarlo da lontano.















   
 
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