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Autore: simocarre83    26/04/2017    1 recensioni
Secondo racconto che parte dopo l'epilogo del primo. quindi se volete avere le idee chiare sarebbe, forse, il caso di leggere anche il primo. Ad ogni modo, una brutta notizia che presto diventano due, due vittime innocenti, loro malgrado, nuovi personaggi e purtroppo nemici che compaiono o RIcompaiono. Ma sempre l'amicizia che ha, come nella vita, un ruolo fondamentale.
Genere: Drammatico, Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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ROBERTO: PENSIERI INQUIETANTI

Il buio era una delle poche cose che gli faceva veramente paura. Il buio e le cimici. Erano le uniche due cose che non poteva proprio sopportare. Le cimici perché gli facevano schifo. Il buio per un altro motivo. Quella del buio era una paura che aveva da quando era piccolo. Aveva sempre dormito con una piccola luce accesa. Poi crescendo, aveva trovato sempre più irrazionale quella paura. Però, intanto, quando dormiva, la tapparella non era mai completamente abbassata. Tutto cambiò la prima notte che passò senza la sua mamma. Ma in quel momento non gliene fregava nulla. Erano stati sei mesi orribili e neanche il buio più profondo l’avrebbe spinto a non addormentarsi. Così, in preda alla stanchezza e al dolore più forte che avesse mai potuto provare, si addormentò comunque. Poi, nel bel mezzo della notte, si era risvegliato. Ed era semplicemente stato il panico. Aveva incominciato a sudare, gli girava la testa. Sentì il fiato corto. Corse alla finestra e alzò tutta la tapparella.
Quel senso di oppressione non se lo sarebbe mai dimenticato. Da quel momento, all’insaputa di tutti i suoi famigliari, dormì sempre con tutta la tapparella alzata, sentendo il cuore battere più forte al solo pensiero di rimanere al buio. Anche quando, per stare a casa di Simone, aveva dormito in camera con suo padre e sua sorella, aveva sempre fatto in modo di vedere un po’ di luce, nonostante la presenza dei suoi due parenti.
Così, alla chiusura della paratia, Roberto si accorse subito della cosa che mancava. Anzi, della cosa che più gli mancava in quel momento. Si accorse subito che una cortina di buio stava cadendo su di lui. Facendolo piombare nella sua unica e vera causa di paura di quei diciassette anni.
E la paura non tardò ad arrivare. Fortunatamente aveva con lui la tuta e infilandosi il casco, riuscì ad accenderla e ad avere un po’ di luce in quell’oceano di buio.
Poi sentì la porta aprirsi. E un conto alla rovescia partire. Da un’ora alla fine della vita che sarebbe dipesa da lui, non sapeva quale fosse, se quella di sua sorella o di qualcun altro degli ostaggi.
Spinse la porta, aprendola completamente. E si ritrovò davanti un corridoio. Corse lungo di esso e entrò in una stanza sferica di una ventina di metri di diametro. Lì vide una persona che mai avrebbe potuto pensare di ritrovarsi davanti.
“Buongiorno!” esclamò la persona.
“Buongiorno!” rispose Roberto. “Cosa ci fai qui!?”
“Faccio un piacere ad un amico ed un favore ad un nemico!” rispose.
“Spiegati meglio, Jonathan!” rispose Roberto. L’aveva visto una sola volta, in piscina, ma quel nome se lo ricordava benissimo.
“Il piacere lo faccio a Claudio, che potresti anche incontrare se riesci a prendere le due chiavi che ti servono, una a me e l’altra a Alessandro, per entrare nelle prossime stanze. Il favore lo faccio a te! Non permetterti di passare ti eviterà tanti brutti pensieri!”
Roberto decise di soprassedere, sfruttando la buona disposizione di Jonathan per fargli un’altra domanda.
“Chi è che devo liberare?!” chiese Roberto.
“Simone! La femminuccia che frequenta la mia piscina!” rispose Jonathan.
Bene! Significava probabilmente che Francesca era in mani migliori delle sue. Probabilmente, sperava, quelle di suo padre, che sicuramente avrebbe fatto tutto il possibile per liberarla, e ci sarebbe riuscito. Suo padre riusciva sempre a risolvere i problemi. Di questo era assolutamente sicuro.
“A proposito di piscina! State pulendo bene spogliatoi, docce e bagni? Non vorrei che i miei amici prendessero qualche malattia, frequentandola!” rispose sorridendo. Anche se quel sorriso, dietro il casco della tuta non si vedeva.
Non l’avesse mai detto. Solo in quel momento, infatti, si accorse del fatto che il pavimento di quella stanza era nascosto da una leggera nebbia.
“Ti ricordi del vecchio nemico di tuo padre, ti hanno mai parlato di Salvatore?” chiese Jonathan.
“Si! Quello che è stato ucciso quest’inverno! Perché?” rispose Roberto.
“Sai come è morto?!” chiese ancora Jonathan.
Poi un leggero cenno della mano di quest’ultimo gli fece capire il perché di quel ragionamento.
Un ago spuntò velocissimo dal pavimento e dalla nebbia e si conficcò nel braccio di Roberto, almeno per metà della sua lunghezza.
Roberto, dapprima fu spaventato. Poi si mise quasi a ridere.
“Allora! Prima di tutto Salvatore non aveva la tuta!” disse, espellendo immediatamente l’ago.
“E poi pensi di spaventarmi con una punturina?!” chiese.
“Ci sono circa centocinquanta aghi su questo pavimento!” rispose Jonathan. “E non sai dove si trovano!”
-come “centocinquanta aghi”? Io non li percepisco con la tuta- pensò Roberto. Solo per capire la spiegazione di quel problema. Il fatto era che, comprese Roberto, il pavimento era magnetizzato. Quindi non c’era modo di capire dove fossero gli aghi, almeno fino a quando non erano partiti. Ma a quel punto, come aveva visto, era troppo tardi. Fu in quel momento che incominciò ad avere paura.
“E se invece di prendere la carne prendo un tendine?” disse Jonathan.
Un dolore lancinante al piede, che gli cedette immediatamente. Un ago gli si era infilzato nel tendine di Achille del piede destro. Lì urlò. E si accasciò a terra in preda al dolore. Cercò di togliersi l’ago. Fortunatamente non l’aveva reciso. E riuscì a rialzarsi.
Capì che doveva difendersi in qualche modo.
Attivò un campo magnetico difensivo intorno al proprio corpo.
“Troppo debole! Proviamo con la cartilagine!” rispose Jonathan.
Un ago velocemente arrivò fino alla narice bucandogliela. E fuoriuscendo dall’altra parte. Solo a quel punto si rese conto che tenere la visiera del casco ancora alzata era un’ulteriore debolezza.
Sentì meno dolore di quello che ancora provava al piede. Ma capì che doveva intensificarlo, quel maledetto campo magnetico protettivo.
“Bene! Adesso ci divertiamo! Vediamo se riesco ad arrivare alla cartilagine del ginocchio!” disse.
Sentì distintamente partire un altro ago. Solo che, fortunatamente, il campo protettivo, finalmente, era abbastanza forte. La traiettoria dell’ago fu deviata e si andò a schiantare contro il muro, ricadendo a terra.
“Bene!” rispose Jonathan.
E partirono altri cinque aghi. Quasi tutti deviati. Solo uno riuscì ad arrivare a pungergli leggermente il braccio. Ma Roberto, prontamente, intensificò il campo magnetico e si sollevò da terra.
Partirono altri dieci aghi. E non lo colpirono. Ne partirono quindici. E così via. E riuscì a evitarli tutti. A quel punto si presentarono a Roberto due problemi.
Il primo era che molti aghi ricadevano sul pavimento. Quindi non solo era difficile continuare a rintracciarli, ma soprattutto erano nuovamente riutilizzabili da Jonathan. Il secondo era che le batterie della tuta, con quell’intensità di campo magnetico così forte, si stavano scaricando velocemente. E di quel passo, nei prossimi dieci minuti si sarebbero scaricate completamente. E di minuti, in quel momento, ne rimanevano ancora quarantacinque. Non poteva permetterlo. Evidentemente doveva esserci un'altra soluzione a quel problema.
Passarono altri cinque minuti. Quando gli venne un’idea.
Prima di tutto spense il campo repulsivo. Jonathan non se ne accorse neanche.
Poi si appoggiò al pavimento. E con una mossa da maestro, riattivò il campo repulsivo, annullando momentaneamente la magnetizzazione naturale di quel pavimento.
“Così pensi di riconoscerli, eh?” osservò Jonathan.
“No!” fu la sola risposta di Roberto.
Il successivo passo fu attivare un campo magnetico attrattivo.
“Ma cosa…” fu l’unica osservazione di Jonathan quando si accorse del fatto che tutti gli aghi stavano uscendo dal suo controllo e si stavano attaccando alla tuta di Roberto. Il campo magnetico di Roberto era molto più forte del suo. E gli aghi non si spostavano dalla sua tuta.
La risposta del ragazzo fu di aumentare il campo magnetico. E quello fu il suo errore. Più energia impiegata, significava più accelerazione degli aghi, e meno controllo su di essi.
A Roberto bastò disattivare il campo magnetico da alcune parti della tuta, per permettere a quegli aghi di staccarsi dal suo corpo e, molto velocemente, raggiungere quello di Jonathan. Con una velocità molto maggiore a quella a cui era abituato. Tanto che ne perse il controllo. Due gli si conficcarono nell’articolazione delle spalle.
Jonathan cadde indietro in preda ad un dolore inimmaginabile.
Roberto gli si avvicinò lentamente mentre altri due aghi si staccarono dal suo corpo e si conficcarono nelle cosce di Jonathan.
“Non ho tempo né voglia di scherzare!”
Un altro ago partì conficcandosi nel casco e spegnandolo completamente.
“Adesso mi consegni la chiave della prossima stanza, altrimenti a lanciarteli sarò io e ti assicuro che conosco abbastanza bene l’anatomia umana per trovare posti dolorosissimi in cui provare gli altri centoquarantacinque aghi!” disse.
“Per favore! Ti scongiuro! Basta!” urlò Jonathan.
“La chiave!” rispose Roberto.
“È nella mia tasca, ma non riesco a muovere il braccio! Per favore! Prendila e vattene!”
Roberto spense il campo magnetico e gli aghi caddero immediatamente a terra. Si avvicinò a Jonathan e gli infilò una mano in tasca, da cui estrasse la chiave.
“Non ti ho causato danni irreparabili. Quindi potrai continuare a nuotare. Ma non voglio più che causi problemi a Simone e Giuseppe. Hai capito?” chiese.
“Si! per favore! Dammi una mano ad alzarmi!” implorò l’altro.
Roberto gli porse la mano. E lo fece alzare. Poi si allontanò qualche passo da lui.
“Se vuoi darmi una mano a sconfiggere i prossimi sarò ben felice di accettarla!” gli disse Roberto.
“Darti una mano!? Certamente! Ma non a vincere!” urlò in un impeto di rabbia Jonathan, mentre tirò fuori dalla manica un legno appuntito che aveva nascosto nella tuta.
Roberto si voltò per vedere quello che stava succedendo. E capì che quelle persone erano accecate dalla rabbia. E che non avrebbero facilmente cambiato idea sul loro desiderio di vittoria o sulla cognizione di quello che era giusto e sbagliato.
“Mi dispiace!” fu l’unica cosa che poté dire, mentre gli bastò sollevare cinque aghi, posizionandoli con la punta verso l’alto, giusto in tempo per fare in modo che Jonathan ci muovesse sopra il piede. Cadde rovinosamente a terra.
“Se vuoi vivere, l’unico modo è uscire di qui. arrangiati!!” rispose Jonathan mentre, ancora in preda al dolore al piede, rimaneva inevitabilmente indietro a terra.
Intanto Roberto aveva attraversato la porta e l’aveva richiusa dietro di sé. Poi, trattandosi di un cancello, aveva gettato le chiavi dall’altro lato del sentiero dalla parte di Jonathan. A lui non servivano più. L’unica direzione ammissibile per lui era davanti a sé.
Il cancello era posto a metà del tragitto tra la stanza da cui era appena uscito e quella in cui stava appena per entrare. Mancavano quaranta minuti alla fine dell’ora. Aveva meno della metà della carica della batteria. E non sapeva come gestire quella situazione. Si fermò un attimo a riprendere fiato. Aveva timore di quello che avrebbe incontrato, probabilmente combattendo Alessandro nella successiva stanza.
Quando era a meno di un metro dalla tenda che lo separava dalla stanza di Alessandro, i sensori della tuta percepirono pienamente un misto di ultrasuoni e infrasuoni che provenivano da quella apertura. Non sapeva a cosa potevano servire ma sapeva che l’avrebbe scoperto presto.
Scostò la tenda e la prima persona che vide fu Alessandro. Era dall’altro lato della stanza. Su una poltrona. Seduto. Immobile. Era così fermo che non sembrava neanche vivo.
“Vattene finché sei in tempo!” disse Alessandro.
“Non posso! Rimani lì seduto, anzi, dammi direttamente la chiave e non ti succederà nulla!” fu la risposta di Roberto.
“E va bene! Allora la chiave è qui, nella poltrona. Sappi, però, che se ti avvicini, e prendi la chiave, un sensore lo rileva e succederanno cose molto spiacevoli per te! Decidi quello che vuoi fare. Io me ne vado. Seguo il mio stesso consiglio! Addio!” e scomparve.
Evidentemente era una proiezione tridimensionale. C’aveva quasi creduto, ma l’ultimo effetto era inequivocabile.
Così si avvicinò alla poltrona e vide su di essa la chiave. Senza pensarci neanche per un secondo prese quell’oggetto che significava l’ormai prossimo passaggio a quella che sapeva essere l’ultima stanza. Chissà se Alessandro l’avrebbe trovato lì.
Purtroppo, però, le parole di Alessandro si avverarono.
Appena prese le chiavi, una paratia di plexiglass si chiuse davanti a sé, precludendo ogni passaggio verso la futura stanza. Contemporaneamente dei piccoli fori si aprirono su tutta la parete della stanza in cui si trovava. Da ciascuno di essi uscirono centinaia di insetti. Insetti la cui identità non tardò a riconoscere. Si trattava di migliaia di cimici che erano entrate in quel momento nella stanza. Dopo neanche cinque secondi qualsiasi fonte di luce esterna alla sua tuta si spense. Rimase completamente al buio.
Fu così che le uniche due fonti di paura per lui, le uniche due cose per cui, senza che altri lo sapessero, tremava, entrambe quelle due cose, Roberto se le ritrovò lì. Subito venne colto dal panico. Incominciò ad urlare, cercando a tastoni di arrivare all’ingresso, ancora aperto, che riportava alla prima stanza.
Sentiva intanto gli insetti che gli si posavano addosso. Non capiva più niente. Tutte quelle cimici che sbattevano contro il muro metallico facevano un rumore pazzesco. Come un boato che le pareti della stanza, metalliche, provvedevano ad amplificare, rendendolo ancora più insopportabile.
Incominciò a sudare freddo. Poi la mente non resse più e perse i sensi.
Si risvegliò quando sentì un leggero solletico sul labbro. Portò la mano alla bocca e una cimice volò via. Si rialzò era ancora nella stanza. Era completamente nudo e sentiva le cimici ovunque. Venne colto da un urto di vomito, ma non gli salì nulla. ebbe la forza di correre un po’ più verso il corridoio di ingresso ed entrarvi. Fu solo allora, che la sua mente divenne un poco più razionale e incominciò a porsi delle domande.
-come faccio ad essermi sdraiato sul pavimento della stanza con la tuta ed essermi risvegliato nudo? Se ho la tuta ho anche il casco! Come faccio ad aver mandato via la cimice che avevo sulla bocca? Può essere una sensazione della mia mente? Un’allucinazione?-
Poi gli venne in mente l’unico particolare che aveva considerato prima di scendere in quella stanza. Gli vennero in mente gli ultrasuoni e gli infrasuoni che rilevò con la tuta. E capì.
Se ne ricordava, ma appena le cimici furono rilasciate, pensò che fosse un sistema per controllarle. In effetti poteva funzionare. Ora però, quelle domande che si porse, gli fecero capire che la situazione doveva essere diversa.
Ci provò.
“Attivazione schermatura sonora completa!” disse, provando a pensare che la tuta fosse ancora addosso a lui e completamente attivata. Ma non funzionò.
Allora comprese che effettivamente qualcuno l’aveva spogliato, e che non aveva la tuta. ma anche che la situazione doveva essere gestibile in qualche modo.
Provò a tornare indietro al cancello che separava le prime due stanze. Appena oltre vide un ago. Non sapeva se era la sua immaginazione o se era vero. Ma una cosa era certa. Doveva risvegliarsi al più presto. riuscì ad afferrare quell’ago e stringerlo forte tra due dita. La punta penetrò per qualche millimetro nel pollice. Il dolore fu sufficiente a riportarlo per un attimo alla realtà. Era effettivamente senza la tuta addosso. Ed era nel corridoio. Ma la tuta era riposta a pochi metri da lui in quello stesso corridoio.
Capì allora che poteva fare solo una cosa, l’unica che gli venne in mente in quel momento. Corse verso l’ingresso della seconda stanza e ritirò la tenda.
In quel preciso istante tornò la luce, e le cimici scomparvero tutte. Allora risolse quel mistero.
Sapeva, infatti, che poteva esserci solo una cosa che gli poteva far sembrare così realistiche quelle cose. Il memorizzatore acustico ricreato da Marco e i suoi compari. Evidentemente l’aveva indotto ad avere quelle allucinazioni e addirittura a perdere i sensi. La tenda, come un interruttore, attivava e disattivava il memorizzatore. Fu allora che comprese anche quello che doveva fare per risolvere la situazione.
Vide in quel momento che si era perso un bel po’ di tempo. e mancavano solamente dieci minuti. Indossò immediatamente la tuta. aveva solo il 2% di carica della batteria principale. Attivò la schermatura completa. Provò a scostare la tenda. Ebbe nuovamente conferma dell’accensione della macchina, dal momento che rilevò nuovamente gli ultrasuoni e gli infrasuoni. Ma a questo punto erano completamente schermati dalla tuta. Ritornò indietro al cancello. Attirò a se tutti gli aghi che riusciva a prendere sporgendo la mano fuori dal cancello. Era arrivato il momento di utilizzare il suo nuovo dispositivo installato. Attivò la pila supplementare. Concentrò un campo magnetico molto forte sugli aghi, che nel giro di pochi secondi si fusero. Successivamente forgiò delle palline e le fece solidificare.
Con la schermatura sonora completa, entrare nella stanza significava entrare, finalmente, in una stanza vuota. Dove c’era solo la poltrona. Controllò in tasca e le chiavi non c’erano. L’allucinazione, a quel punto, era già incominciata. Non si perse d’animo e lanciando un centinaio di pallini di ferro contro la porta in plexiglass, tempo dieci secondi crollò.
In quel momento ritornò la luce, definitivamente. Corse immediatamente dentro il corridoio. Non aveva la chiave ma non aveva neanche il tempo di cercarla. E non ne aveva effettivamente neanche bisogno.
Le sbarre di acciaio, di circa quattro centimetri di diametro, erano proprio della dimensione giusta per essere strette tra le mani. E due subirono quella fine. Bastarono per far concentrare un fortissimo campo magnetico in quel cancello, che dopo neanche un minuto si divelse a causa di quell’energia enorme. Roberto, subito dopo, passò. Mancavano solo 7 minuti. Così per fare l’ultima ventina di metri verso l’ultima stanza, volò.
Immediatamente la stanza illuminata si parò davanti ai suoi occhi. Davanti a lui, Claudio, dall’altro lato della stanza. In abiti civili. Senza tuta.
“Dammi immediatamente la chiave, se non vuoi perdere la vita. Non ho tempo di fermarmi a parlare!” esclamò tutto d’un fiato Roberto, atterrando al centro della stanza.
“Peccato!” disse Claudio. In mano aveva un telecomando. Con un solo bottone. Premette il pulsante.
Dapprima Roberto temette il peggio, che stesse rilasciando l’impulso che avrebbe potuto spegnere il motore che impediva all’acqua di entrare nel locale di Simone, peraltro posto proprio davanti a lui. Ma poi non accadde nulla che potesse anche solo far pensare a quello.
Sentì invece una vibrazione fortissima. Non si accorse neanche di stare cadendo. Ma istantaneamente una forza enorme lo attirò a terra.
“Belli gli elettromagneti, eh? Puoi utilizzarli come meglio credi!” esclamò sorridendo Claudio. Ecco perché non aveva la tuta. l’aveva capito adesso. Comunque troppo tardi. Provò a contrastare quel campo magnetico, ma era decisamente troppo forte. La carica della pila si ridusse velocemente alla metà. Nel frattempo la parte superiore della tuta, sottoposta a quel campo magnetico, pressava su di lui, impedendogli quasi di respirare. Capì che c’era una sola cosa che poteva fare. Spense la tuta. In quel modo la batteria si salvaguardava e soprattutto l’elettromagnete non avrebbe agito con tanta forza. Perché non c’era nessun magnete da attrarre.
Si sbrigò a levarsi la tuta. in quel momento con la coda dell’occhio vide Claudio correre verso di lui. Fece appena in tempo ad uscire dalla tuta, che venne colpito al volto da Claudio.
“Allora chi è più forte adesso, eh?!” esclamò quest’ultimo mentre continuava a colpire con pugni e calci Roberto.
Lui riuscì a schivare un paio di colpi, ma senza grossi vantaggi. Fu solo lasciato a sanguinare per terra quando Claudio si diresse verso il cancello che li separava da Simone.
“Adesso, davanti ai tuoi occhi, prima di andarmene e lasciare inondare questa e le altre stanze, picchio un po’ anche il tuo amichetto!” disse.
“Non ti conviene farlo!” furono le uniche parole di Roberto.
“Perché altrimenti che fai, mi uccidi!?” rispose Claudio, ridendo sguaiatamente.
Roberto non disse più niente. Sapeva che era inutile e che non gli conveniva. E mancavano solo due minuti.
Claudio aprì il cancello. E fu questione di un attimo. L’immenso campo magnetico che Claudio non sentiva e Simone neanche, le maniglie che costituivano i legami di Simone lo sentirono, eccome. Nessuna vite o bullone avrebbe potuto tenerli fissati. In meno di un decimo di secondo vennero strappati dalla parete. Uno dei due finì a pochi millimetri dal corpo di Roberto. L’altro colpì e trapassò l’addome di Claudio. Che cadde a terra.
“Roby!” esclamò immediatamente Simone, ormai completamente libero, correndogli incontro. Prima di tutto prese il telecomando di Claudio e spense quell’arma infernale. Poi corse verso Roberto.
Roberto si riprese immediatamente. Alzandosi. Mancava ormai poco più di un minuto.
“Vieni! Abbiamo pochissimo tempo!”. prese Simone per un braccio. Poi però la fatica per quell’ultima ora ebbe la meglio. E crollò a terra.
“Beh! allora questa volta sarò io a salvarti!” concluse Simone.
La tuta, ormai liberata dall’elettromagnete era nuovamente disponibile. La indossò prima possibile. Poi prese in braccio Roberto, che fortunatamente non pesava così tanto e lo riportò vicino alla porta che dava verso l’esterno. Aprì la porta e corse dentro. Verso l’ascensore idraulico. Pensò che bastasse ma le cose non stavano così. I boccaporti si aprirono, e in meno di dieci secondi tutti quei locali furono inondati.
Fortunatamente, uscito fuori da quella stanza, una volta accesa la tuta, Frem lo rilevò.
“Frem! Sono Simone, il figlio di Giuseppe! Aiutami! Non so come fare!” urlò Simone.
“NON PREOCCUPARTI! PENSO A TUTTO IO. TU RILASSATI!” rispose Frem.
Simone ubbidì. Un campo magnetico, riuscì addirittura ad allontanare l’acqua da loro due. Poi la scaldò vaporizzandone una parte. Come una bolla nell’acqua in ebollizione, cominciarono a risalire sempre più velocemente verso l’uscita che intanto si era aperta ed era un puntino bianco posto al di sopra delle loro teste.
Puntino che si stava ingrandendo sempre più.
Prima arrivò il vapore. Poi loro sbucarono fuori. Poi l’acqua in pressione che aveva sepolto Claudio e Jonathan in quei locali, raffreddò l’ambiente circostante.
Simone, con in braccio Roberto, atterrò in tutta sicurezza ad un paio di metri da quella buca, dalla quale stava finendo di gorgogliare acqua, proprio quando, dalla pineta sbucarono Giuseppe, Anna, Michele e Francesca.
Esattamente a quel punto, la tuta si scaricò completamente spegnendosi. E Simone crollò sotto il peso dei vestiti bagnati e di Roberto. Entrambi finirono stravolti a terra.
“Roby!” gridò Francesca, che corse immediatamente verso di lui, seguita da Michele.
Anna vide immediatamente Simone e corse ad abbracciarlo, seguito da Giuseppe.
“È tutto finito, ragazzi!” ebbe la forza, tra le lacrime, di esclamare Michele.
“Ma dove sono Simone e Giuseppe?!” esclamò Roberto.
“E Maria?” chiese Anna a suo marito.
“Non lo so!” rispose Giuseppe. Cercò di guardare verso il mare. Stando alle ipotesi elaborate da Frem, l’ultima uscita doveva essere a una trentina di metri dalla costa, a circa 5 metri di profondità. E stando al tempo che era trascorso da quando erano scesi dalla radura, i locali dell’ultimo lato della struttura, quelli con Giuseppe, dovevano già essere stati allagati. Ma il fatto che non era successo ancora niente non lasciava presagire nulla di buono.
La spiaggia si era quasi svuotata e in acqua non c’era più nessuno. Inoltre il sole stava quasi tramontando, e l’acqua diventando sempre più scura.


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NdA : Buongiorno a tutti ed eccoci di nuovo con il proseguimento di questo racconto. Sono sempre felice (e curioso) di sapere cosa ne pensate! Buona giornata.
  
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