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Autore: Elizabeth_2206    27/04/2017    3 recensioni
"Hallelujah ci porta attraverso un immenso spettro di luoghi emozionali, spiegando quanti tipi di alleluia esistono, e che tutte le alleluia perfette e infrante hanno lo stesso valore. E' un desiderio di affermazione della vita con entusiasmo, con emozione. Chiunque la ascolti chiaramente scoprirà che è una canzone che parla di sesso, di amore, della vita sulla terra. L'alleluia non è un omaggio ad una persona adorata, a un idolo o un Dio. E' un'ode alla vita e all'amore."
1900, Casa Hawkeye. L'arrivo di una persona cambia per sempre il futuro dei suoi abitanti. E' l'analisi dell'adolescenza di Riza e di come si trova ad interagire con tutti i tipi di amore che esistono. Il racconto di come le vite di quella ragazzina e di Roy Mustang si sono intrecciate per sempre.
Genere: Introspettivo, Slice of life, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Berthold Hawkeye, Riza Hawkeye, Roy Mustang | Coppie: Roy/Riza
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Hallelujah'
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Hallelujah
#11 – The Mark
There’s a blaze of light in every word.
It doesn’t matter which you heard
The holy or the broken Hallelujah

L’estate era ricominciata, e il caldo afoso torturava Riza, mentre camminava sul sentiero che conduceva alla sua casa. Era appena uscita da casa del Dottor Logan, per la sua ultima lezione: l’uomo infatti sarebbe dovuto partire per Ishval.
Riza fece una smorfia di disappunto.
Non aveva preso molto bene la notizia; il dottore era un uomo gentile e simpatico, ed in quei mesi l’aveva aiutata molto a gestire la malattia di Berthold.
Gli aveva così promesso che, l’indomani, sarebbe andata a salutarlo alla stazione.

Finalmente di fronte a lei comparve il vecchio cancello, e la ragazza sospirò di sollievo. Non vedeva l’ora di mangiare qualcosa, per poi rilassarsi un po’. Quel caldo la sfiniva.
Mentre si apprestava a rientrare in casa, vide con la coda dell’occhio qualcuno sul retro.
Si avvicinò cauta, scorgendo una figura accovacciata fra i cespugli. Aguzzò la vista, per poi rilassarsi e stringere le labbra in un sorriso forzato.
“Papà. Sei uscito anche oggi.”

Dall’inizio della primavera l’uomo aveva preso la bizzarra abitudine di uscire nel giardino. Riza non sapeva l’esatto motivo per cui lui lo facesse, né Berthold si era premurato di spiegarglielo, ma la ragazza era convinta che il miglioramento della salute di suo padre fosse legato anche a quelle uscite. Infondo un po’ d’aria non poteva che fargli bene.
“Sai, Riza, tua madre aveva una vera passione per le piante. Possedeva tanti libri su di esse, dentro i quali vi erano descrizioni minuziose del loro utilizzo.”

Riza annuì, mentre l’uomo si alzava da terra. Era vero: li aveva letti spesso, anche se raramente ne aveva compreso del tutto l’utilizzo. Era uno dei suoi modi per farla sentire vicina alla madre.
Berthold con un cenno la distolse dai suoi pensieri e la invitò a rientrare in casa. Mentre si toglieva la giacca e l’appendeva all’attaccapanni, l’uomo entrò in cucina.
“Oggi mi sentivo particolarmente in forze, così ho deciso di preparare il pranzo.”
“Grazie, Papà.”

L’uomo la fissò intensamente con i suoi occhi cerulei, facendole correre i brividi lungo la schiena. Riza distolse lo sguardo, e si accomodò a tavola.
I due mangiarono nel silenzio più assoluto, mentre Riza rifletteva.
Quel pomeriggio avrebbe svolto un paio di faccende domestiche e, sul tardi, si sarebbe concessa una doccia tiepida: l’avrebbe aiutata a sopportare il caldo afoso.
Mentre lei era assorta in questi pensieri, Berthold si era alzato, prendendo una teiera dalla credenza.
“Faccio una tisana. Ne vuoi un po’?”

La ragazza annuì. Da quando suo padre e lei avevano cominciato a pranzare spesso insieme, quella della tisana era diventata un’abitudine. In generale, da quando era cominciato il periodo di degenza, il rapporto fra lei e Berthold era cambiato.
Non che fosse diventato un padre modello, per carità; ma avevano cominciato a ritagliarsi dei silenziosi momenti, come quello della tisana o anche solo degli impacchi serali che la ragazza gli faceva, durante i quali lei non temeva la sua presenza, anzi, la trovava tollerabile.
L’uomo si avvicinò con la teiera e due tazzine, porgendone una a Riza e premurandosi di versarle lui stesso il contenuto. Dopo aver fatto altrettanto con la sua, si sedette di fronte a lei. La ragazza l’accettò con un sorriso e cominciò a sorseggiarla lentamente.
Berthold, di fronte a lei, guardava fuori dalla finestra. Riza fissò la propria tazza, esaminandone il contenuto. Era diversa dalla solita tisana che lei e suo padre erano abituati a bere.
“Che tisana hai usato?”

L’uomo si voltò lentamente verso di lei, mantenendo il suo atteggiamento calmo e distaccato.
“Ho voluto provare qualcosa di nuovo. Un infuso al Giusquiamo. L’ho raccolto questa mattina nel retro del nostro giardino.”

Riza corrugò la fronte, tentando di pensare a che genere di pianta fosse. Poi sbarrò gli occhi.
‘Il Giusquiamo è una pianta velenosa, usata a scopi farmacologici per le sue qualità narcotiche e sedative.’
Le parole scritte sul libro di sua madre le vennero in mente troppo tardi, quando già la figura di suo padre, davanti a lei, stava sfumandosi in una maniera inquietante.
“Cosa… cosa hai fatto…”
“Ho solo bisogno del tuo aiuto, Riza.”

La ragazza provò ad alzarsi dalla sedia ma perse l’equilibrio, cadendo a terra. Le mattonelle chiare del pavimento sembravano danzare, prendendo colori mai visti prima. Riza si sentì sollevare da terra, mentre tutto attorno a lei diventava troppo bianco.

Un dolce limbo la avvolse, portandola con sé, estraniandola dal resto del mondo. Attorno a lei, piccole macchie scure tremolanti cominciavano a comparire in mezzo a tutto quel bianco, diventando via via sempre più nitide.
Ed eccola lì, di fronte a lei, in tutta la sua bellezza dei suoi trent’anni.
Sua madre.
Un dolce sorriso le splendeva sul volto, mentre tendeva le braccia verso di lei.
Quanto tempo era che non la vedeva? Quanto a lungo aveva desiderato quella stretta?
Quanto le erano mancate quelle mani affusolate che la stringevano a sé come il suo bene più prezioso?

Era lì, di fronte a lei, sana e bella come mai era stata, e la guardava con tanto amore che Riza nemmeno si accorse di avere le lacrime agli occhi.
“Oh no, piccola mia, non piangere. Devi essere forte.”
La sua voce… le mancava così tanto. Molte notti si era svegliata sentendosi chiamare, ma adesso era lì, di fronte a lei. Era diverso
“Devi essere forte.”
La donna ripeteva quella frase, e Riza si mise a guardarla confusa, cercando di capire.
“Perché mi dici questo, mamma?”
“Devi essere forte, Riza. Devi essere forte.”
Il volto della donna sembrò cambiare espressione, e poi l’immagine cominciò a scivolare via dalla sua vista.
“No mamma! Non andare! Torna, ti prego!”

Ma lei ormai era lontana, svanita in mezzo a quel bianco che sembrava accecare gli occhi della ragazza.
La luce tornò di nuovo a oscurarsi, mentre un’altra figura si avvicinava a lei.
Riza alzò la testa, e spalancò gli occhi dallo stupore. L’avrebbe riconosciuto ovunque.
Lo sguardo indagatore, il sorrisetto strafottente, i capelli scuri. Non avrebbe dovuto essere lì; non poteva essere lì; eppure, era Roy.

Incrociò le braccia di fronte a lei, salutandola con un cenno, sorridendole in quel modo spensierato che Riza adorava. Con quel sorriso che quasi mai gli aveva visto sul volto, durante l’ultimo anno che lui aveva passato a casa sua.
Le offrì la mano, e Riza si trovò a stringerla. Si sentì trascinare via, e cominciò a correre. Correva, saltava, a volte anche inciampava ma lui era ogni volta lì, a sostenerla se fosse caduta, a tirarla ancora più forte, facendola ridere fino a farle mancare il fiato.
Ad un certo punto però la mano di Roy cominciò a scivolare dalla sua, mentre una forza troppo intensa lo trascinava lontano.
Riza lo fissò spaventata, cercando in tutti i modi di aggrapparsi a lui. Ma le sue mani erano come burro, e scivolavano via sempre più in fretta.
“Roy, no! Non anche tu!”
“Ti prometto che tornerò, Riza! Te lo prometto.”

Lei lo guardò con le lacrime agli occhi, ma ormai anche la sua figura stava svanendo.
“Tornerò da te…”
Questa volta, ad accogliere Riza non fu il bianco, ma il nero più totale.

L’oscurità l’avvolse e, quando si sentì circondata del tutto, cominciò il dolore.
Non seppe dire cosa fosse, ma faceva dannatamente male. Era come se mille aghi le perforassero la schiena, o se una fiamma la bruciasse viva.
Urlava, ma dalle sue labbra non usciva alcun suono. Sentiva le sue membra irrigidirsi, mentre attorno a lei il nero si costellava di macchie rosse e gialle.
Le sembrò di scorgere degli oggetti, delle figure reali. Un tavolo. Una lampada.
Strizzò gli occhi, cercando di capire meglio cosa fosse, dove si trovasse. Poi cominciò a sentire un forte odore di sangue, bruciato e inchiostro.
Il dolore tornò feroce su di lei, che si sentiva spezzare a metà. Ogni respiro che faceva le creava altro dolore.
Poi, le sembrò di sentire una voce.
Non era dolce e accogliente come quella della sua mamma, ne calda e affidabile come quella di Roy. Era roca, secca, e più che parlare, sussurrava parole.
“Igni… natura… renovatur… integra…”

Ad ogni parola, il corpo di Riza veniva travolto sempre di più da quelle fitte dolorose, come se una fiamma gliele incidesse nella carne.
Sentì un crampo alla gamba, segno che la sua situazione di incoscienza stava cominciando a finire. Socchiuse gli occhi, mentre cercava di mettere a fuoco lo spazio attorno a sé, senza alcun successo. Aprì la bocca per parlare, ma uscì solo un mugugno.
Il dolore sulla schiena si fermò improvvisamente, lasciandola senza fiato.
Sentì una presenza avvicinarsi al suo voltò; tuttavia, non riusciva a distinguere bene le forme attorno a lei.
“Mmh, si sta svegliando. Serve altro Giusquiamo.”

Furono le uniche cose che sentì, prima di perdere nuovamente conoscenza.



Ciò che la svegliò, fu la sensazione di freddo che le fece percorrere brividi lungo tutto il corpo.
Lentamente, aprì gli occhi, cercando di abituarsi alla luce che entrava dalla finestra.
‘Deve essere mattina.’
Cercò di alzare la testa, ma scoprì di essere più indolenzita del previsto. Allora la riappoggiò alla superfice fredda dove si trovava, e si focalizzò sulle cose attorno a lei.
Di fronte ai suoi occhi vi era una biblioteca, che lentamente Riza riconobbe come quella dello studio di suo padre. Fece scorrere lentamente gli occhi sui tomi, riconoscendoli.
Abbassò lo sguardo, e si accorse che la superficie sulla quale si trovava doveva per forza essere il tavolo sul quale il padre era solito lavorare prima di ammalarsi, e che Riza aveva diligentemente pulito e disinfettato sotto sua richiesta.

I pezzi cominciarono a collegarsi uno alla volta, dentro la mente della ragazza, insieme ai ricordi del pranzo del giorno precedente. Suo padre in giardino. La tisana. Il Giusquiamo.
Un senso di terrore si impadronì di lei, e sentì una scarica di adrenalina percorrerle il corpo. Tentò di sollevarsi, ma si accorse di avere le mani bloccate da degli stretti lacci. Provò ancora a muoversi, ma una fitta di dolore alla schiena la immobilizzò.
Cercò di voltare la testa per guardare, e fu in quel momento che si accorse di essere nuda dalla vita in su.
I battiti le aumentarono, mentre una strana consapevolezza si impossessava di lei.
‘Cosa mi ha fatto?’

In quel momento la porta si aprì.
“Sei sveglia.”

La ragazza non rispose, né si voltò verso l’uomo. Cercò di restare immobile, con la cassa toracica che si alzava e abbassava seguendo il ritmo del suo respiro.
“Sono venuto a controllare come stai.”

Posò una mano sulla spalla di Riza, che cercò di ritrarsi al contatto.
“Il Tatuaggio è in ottime condizioni, ma purtroppo non l’ho ancora terminato. Ho lavorato tutta la notte, ma non posso permettermi che si rovini. Ci vorranno ancora un paio di giorni.”

Riza si bloccò. Tatuaggio? Un paio di giorni?
Cosa voleva dire suo padre?
“Fra un’ora ricomincerò; mi sembra un lasso di tempo accettabile. Infondo la tua pelle sta reagendo molto bene.”

La ragazza deglutì, mentre le mani di suo padre seguivano i contorni di quella cosa.
“Hai bisogno di qualcosa?”

Il tono stranamente gentile la sorprese, e, con lentezza, aprì la bocca per parlare.
“Bagno… dovrei andare in bagno.”

L’uomo staccò la mano dalla sua schiena e cominciò ad armeggiare con i lacci attorno ai suoi polsi.
“Ma certo! Ti accompagno. Devo controllare che il Tatuaggio non si rovini.”

La sollevò da sotto le braccia e la mise in posizione seduta, mentre lei tentava di riprendersi dalla sensazione di fastidio che le percorreva i nervi della schiena.
“Non…non so se riesco a stare in piedi.”

Berthold non fece una piega. Continuando a tenerla sollevata sotto le braccia, la condusse fuori dalla stanza, aiutandola a mettere i piedi uno davanti all’altro.
La condusse fino al bagno, ed entrò con lei.
Riza strinse gli occhi più forte che poteva, mentre anche il suo ultimo briciolo di dignità veniva cancellato.

Mentre usciva dalla stanza, passò di fronte al grande specchio sopra al lavandino.
Fu lì che lo vide per la prima volta.
Le si mozzò il fiato, mentre fissava quella cosa che suo padre le aveva tatuato sulla schiena. Era chiaramente incompleto, anche se solo a guardarlo si capiva l’opera d’arte che esso rappresentava. Poteva essere quasi bello, se solo non fosse stato inciso sulla sua schiena.
Berthold sorrise, ammirando il suo capolavoro con soddisfazione.
“E’ bello, vero Riza? L’ho terminata, finalmente… è tutta lì, la mia ricerca; manca solo poco e sarà completa.”

Riza si sentì mancare. Le venne la nausea, ma non rigettò. Il padre cominciò a spingerla di nuovo verso lo studio, mentre lei cercava di trovare una soluzione.
‘Scappare? E dove? Non avrei nessun luogo in cui andare. Non ho una persona a cui rivolgermi, nessuno si accorgerebbe mai della mia assenza.’
Un pensiero le passò la mente, veloce come una saetta.
‘Il Dottor Logan! Lui potrebbe!’

Il suo entusiasmo svanì quando, entrando nello studio, fissò la finestra. Ormai era mattina inoltrata. Il treno del Dottore era sicuramente partito; e l’uomo, pur non vedendola arrivare, non avrebbe potuto fare nulla. Erano venuti i militari a prelevarlo: non si sarebbero sicuramente preoccupati di una ragazzina che non si era presentata in stazione a salutare il Dottore.
Riza sentì le lacrime salirle agli occhi, mentre Berthold la adagiava di nuovo prona sul lettino. L’uomo la legò con calma, per poi uscire dalla stanza e fare ritorno con una tazza calda.
“Mi dispiace Riza, ma non posso permettermi che tu ti muova durante il processo.”

La ragazza comprese cosa voleva dire e si agitò, mentre suo padre le si avvicinava. Le tenne ferma la testa, mentre lei scalciava, bloccata dai lacci.
La costrinse a bere quel liquido, che Riza immaginava fosse altro Giusquiamo.
Poi suo padre le adagiò al testa sul tavolo, e in pochi minuti, Riza perse di nuovo conoscenza.



Tre giorni dopo, Riza era di nuovo nel suo letto, stravolta. In quel lasso di tempo aveva mangiato pochissimo, e tutto il suo corpo si sentiva ancora indolenzito dal tempo passato legata al tavolo.
Quando, il giorno prima, suo padre aveva terminato il lavoro, non le aveva detto nulla. Non una parola di scusa, di spiegazione; niente.
Era tornato nella sua stanza, e da lì non era più uscito.

Anche Riza era rimasta chiusa nella sua camera. Continuava a fissare la sua immagine riflessa nel grande specchio vicino all’armadio, e una sensazione di disgusto cresceva in lei ogni volta che fissava la cosa che aveva sulla schiena.
Se inizialmente poteva pensare che fosse, in un qualche strano e perverso modo, bello, ora non ce la faceva più.
Si sentiva uno schifo. Una ragazzina con il segreto dell’Alchimia di Fuoco sviluppata da suo padre inciso sulla schiena.

Si lasciò cadere fra le lenzuola, ricominciando a piangere.
‘Perché è successo? Perché mi ha fatto questo?’
La sua mente non riusciva trovare risposte a nessuna delle sue domande. Ancora una volta, la mentalità di suo padre le sfuggiva. Si era solo illusa di poterlo comprendere, di poter instaurare un qualche tipo di legame con lui.
Nel buio di quella stanza, però, Riza rivolse un ultima domanda all’oscurità.
Una domanda che non era né per lei, né per suo padre, né per un qualche Dio, se mai ce ne fosse stato uno.

‘Perché non eri qui a salvarmi?’





















Note dell'Autrice:
Ehilà! Eccomi di ritorno con il tanto atteso undicesimo capitolo di Hallelujah!

Potete vedere dalla lunghezza che è stato un vero parto; la stesura per intero mi ha preso diversi giorni. Ma finalmente ci sono riuscita!
Questo capitolo parla di quando Berthold incide su Riza la propria Alchimia. So che, non essendo raccontato nel manga, è una scena che, per quanto debba essersi svolta in modi simili, è diversa nell'immaginazione di ognuno di noi.
Avevo già raccontato che, nella mia storia, una delle passioni di Elizabeth fosse proprio l'essicare fiori. La donna, oltre a ciò, aveva una vera e propria passione per le piante; e di ognuna di loro conosceva utilizzi e pericoli.
Il Giusquiamo è una pianta erbacea velenosa tipica delle campagne, soprattutto vicino a ruderi e strade campestri, e fiorisce in estate. Veniva usato nel XIX secolo e precedentemente come narcotico e sedativo. Oltre a queste caratteristiche, però, era considerato pericoloso proprio perchè provocava forti allucinazioni e alterazione delle percezioni sensoriali, ed è quello che avviene a Riza mentre è sedata.
La ragazzina ha delle visioni, in particolar modo sulla madre (vedi l'attaccamento dimostrato alla sua persona nel capitolo precedente) e a Roy, che nel momento di incoscenza e difficoltà viene richiamato dal suo inconscio.
Ovviamente dopo un po' la ragazza riprende conoscenza e, lentamente, mette insieme i pezzi e capisce cosa stia succedendo. Prova acnhe a cercare una soluzione, ma non ce ne sono. Berthold ha fatto bene il suo lavoro, e sa che non corre pericolo che qualcuno interrompa il suo operato.
Riza ovviamente ha delle razioni contrastanti quando vede per la prima volta il tatuaggio. Da un lato, è tremendamente affascinante e incredibilmente studiato; dall'altro è un orribile segno che un padre sta lasciando sulla propria figlia, facendole soffrire le pene dell'inferno.
So che alcuni pensano, relativamente al tatuaggio di Riza, che 'non sia stato doloroso'. In effetti, i tatuaggi sulla schiena non sono tra i peggiori. Ma io vorrei ricordare che siamo all'inizio del XX secolo, e Berthold non possiede gli aghi da tatuatore, tanto più si sta aiutando con la stessa Alchimia di Fuoco.
Ultima ma non meno importante, la citazione. Dice: There's a blaze of light in every word, ovvero C'è un esplosione di luce in ogni parola, che io ho voluto riferire al momento del tatuaggio. Inoltre, l'Hallelujah sacro o spezzato  è, rispettivamente, quello di Berthold e quello di Riza.
Lascio a voi l'interpretazione delle ultime righe del capitolo...
A presto!
-Elizabeth
   
 
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