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Autore: Monijoy1990    27/04/2017    0 recensioni
Questo racconto rappresenta il proseguimento di "Love story". Quindi invito chiunque non lo abbia letto a farlo prima di iniziare.
Roberto è un ragazzo arguto e intelligente con un futuro già scritto a lettere cubitali nel suo destino e un sogno in minuscole chiuso in un cassetto. Avvocato, dottore o ingegnere questo ciò che vorrebbero i suoi genitori per lui. Ma cosa vuole davvero Roberto? Diventare un cantante. Così il Giappone diventerà la sua strada e la Kings Record la sua meta. Durante il suo viaggio verso il successo il destino gli tenderà tante sorprese improvvise. Riuscirà grazie alla sua arguzia e al suo buon cuore a superare le sue insicurezze? Tra triangoli amorosi e amicizie inaspettate, sarà in grado di realizzare il suo sogno? Troverà la sua strada?
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: Cross-over | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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CAPITOLO 39
FINALMENTE LA VERITA’

                                  
 
Cina
Jona era appena atterrato. Tra le mani il biglietto che Rio gli aveva dato. Non conosceva molto bene il cinese quindi in realtà non sapeva neanche cosa Rio avesse scritto. L’unica cosa certa era che lì segnato c’era il luogo in cui si trovava suo padre. Senza perder tempo recuperò il suo bagaglio a mano e raggiunse l’esterno dell’aeroporto, poi entrò in un taxi mostrando all’autista il foglietto tra le sue mani. In inglese gli chiese di condurlo in quel posto. Grazie al cielo Rio aveva provveduto al cambio valuta, quindi almeno per muoversi Jona non avrebbe avuto problemi. Dopo una decina di minuti l’uomo alla guida arrestò la sua corsa indicando a Jona il tassametro. Il ragazzo senza esitare pagò il conducente poi, preso il proprio bagaglio, scese dalla vettura.
Davanti ai suoi occhi si ergeva una imponente struttura ospedaliera dall’aspetto quasi futuristico. Preoccupato che lì non avrebbe scoperto nulla di buono iniziò a incamminarsi verso di essa.
All’ingresso due donne lo accolsero con un sorriso smagliante e anche abbastanza fuori luogo, considerando che quello non era proprio un posto di villeggiatura. Jona non perse tempo e chiese loro di poter far visita al compositore Hiro. Le due abbandonarono le loro espressioni raggianti e iniziarono a farfugliare qualcosa tra loro. Sembravano preoccupate o comunque non preparate a ricevere visite per quel paziente. Jona iniziava a nutrire il presentimento che presto avrebbe dovuto fare i conti con una realtà tremenda.
Una delle due gli chiese un documento di riconoscimento. Jona estrasse il passaporto e glielo porse. Dopo una rapida occhiata entrambe le ragazze ripresero a parlare tra loro. Quell'atteggiamento stava spazientendo Jona, tanto che ormai, persa la pazienza, stava per intervenire e interromperle. Ma fu una mano poggiata sulla sua spalla sinistra a trattenerlo dal farlo. Istintivamente si volse alle sue spalle e ad accoglierlo trovò sua madre. Aveva i capelli biondi raccolti in una coda arrangiata e gli occhi scavati e rossi di pianto. Non sembrava esserci più traccia della splendida attrice che era stata. Jona esitò come davanti a un estraneo. Quella per un attimo non le sembrò neanche più sua madre. Era dimagrita di molto e il suo colorito non dava a vedere nulla di buono. Sembrava più simile a un fantasma che ad un essere umano. Jona rimase immobile, quasi senza parole per qualche secondo impietrito da quella visione. 
«Rio mi ha chiamato pochi minuti fa… quell’uomo non è mai stato bravo a darmi retta. Non volevo vedessi questo Jona» esordì accogliendo con una voce sottile suo figlio.
«Mamma perché siamo qui? È successo qualcosa a papà?». La donna prese per mano suo figlio spronandolo a prendere posto su un divano nella sala d’attesa, poi fece segno alle due donne alla reception che era tutto ok.
«Jona, perdonami» esordì con le lacrime agli occhi, una volta accomodatasi accanto a suo figlio scosse la testa. Jona era sconcertato e preoccupato allo stesso tempo.
«Mamma raccontami cosa sta succedendo…». Misako prese tra le sue le mani di suo figlio. Rimase lì in silenzio a rimirarle per un tempo che Jona non riuscì a calcolare con precisione, poi riprese la parola.
«Jona sono anni che tuo padre combatte contro questo demone. Lo conosci, lui è un tipo orgoglioso, avrebbe preferito morire seduta stante che farsi vedere sofferente da te. Perdonaci se per mesi interi siamo spariti, ma se lo abbiamo fatto è stato per cercare di combattere e vincere questa battaglia e non volevamo che tu ne fossi coinvolto». Misako accarezzò il viso di Jona con sincero rammarico.
«Figlio mio per noi sei sempre stato il dono più prezioso che la vita ci avesse offerto, ma a causa della malattia di tuo padre siamo stati costretti a tenerti a distanza e a non essere i genitori che avresti e avremmo voluto essere. Ci siamo persi così tante cose… Forse anche sbagliando abbiamo cercato di proteggerti dalla sofferenza e dal dolore. Ormai, però, sei grande abbastanza per conoscere la verità. Ahimè non sei più un bambino. Adesso sei un uomo.» detto questo la donna si asciugò una lacrima dal viso tornando a confrontarsi con gli occhi scuri e profondi di suo figlio.
«Non condannare troppo duramente tuo padre. È stato lui a chiedermi di non dirti nulla della sua malattia. Non voleva che tu lo ricordassi in questo modo…» senza concludere la donna scoppiò a piangere tra le braccia di suo figlio.
«Mamma, calmati… vedrai che andrà tutto bene…» disse cercando di rincuorarla. Misako a stento tratteneva le lacrime.
«Perdonami, dovrei essere più forte ma non ci riesco…». Jona strinse a sé sua madre ancora una volta con maggior forza.
«Portami da lui..» Misako riprese le distanze da suo figlio.
«Jona, tuo padre non è più lo stesso. Andrà davvero bene per te vederlo in queste condizioni?» Jona acconsentì con fermezza.
«È mio padre dopotutto. E io sono suo figlio… mi sentirei peggio se scappassi come un vigliacco» Misako acconsentì. Preso sotto braccio suo figlio lo spronò a seguirlo. Erano appena arrivati al piano in cui si trovava la stanza di Hiro. Dopo aver abbandonato la sua valigia sul pavimento davanti la porta dietro cui si trovava suo padre, Jona sciolse la presa dal braccio rassicurante di sua madre.
«Jona, puoi ancora tirarti indietro… nessuno ti obbliga…». Jona senza sapere da dove stesse trovando quella forza, riuscì a sorridere a sua madre.
«Mamma perdonami, ho sempre creduto che foste dei pessimi genitori… vi ho sempre rimproverato tante cose… E invece adesso ho appena scoperto che non avrei potuto avere genitori migliori di voi. Grazie per avermi fatto vivere spensieratamente per tutti questi anni, grazie per esservi presi cura di me anche se non avevo capito che proprio standomi lontano voi lo stavate facendo. Grazie; ma adesso è arrivato il mio turno. Siete la mia famiglia e una famiglia non scappa nel momento del bisogno…» dopo aver sorriso un’ultima volta a sua madre Jona trovò la forza per aprire quella porta. Una volta spalancata la stessa, in quella stanza asettica in un letto bianco e sterile intravide suo padre. Jona rimase immobile. L’uomo su quel materasso si voltò verso di lui con sguardo vuoto e spento. Jona se ne sentì trapassare quasi come se fosse divenuto ai suoi occhi invisibile come un fantasma. Alle braccia Hiro aveva flebo sparse e grossi ematomi. I capelli neri e lunghi che un tempo gli incorniciavano il viso erano stati rasati e adesso intorno al capo era rimasta solo un’ampia e bianca fasciatura. Jona intuì che dovevano essere state le chemio a ridurre suo padre in quello stato.
Il viso era scavato e pallido.    Sua madre lo raggiunse alle spalle e con una mano sulla sua spalla lo spronò a muoversi verso quel letto al centro della stanza. Jona avvertì la mano di sua madre fare pressione sulle sue esili spalle, ma nonostante quel gesto premuroso il suo corpo non riuscì a spostarsi di un solo centimetro. Senza forzarlo oltre Misako lo lasciò all'ingresso, da solo, mentre raggiungeva suo marito che continuava a fissare nella direzione di Jona come sovrappensiero.
«Amore, vedi chi è venuto? Lo riconosci? È tuo figlio Jona» provò a spiegarli parlandogli premurosamente. Nonostante questo l’uomo rimase impassibile.
 Jona retrocedette di un passo.
“Cosa significa tutto questo? Non può essere… ”
In quel momento Jona si sentì catapultato in un’altra vita, una vita che non era la sua. Era come svegliarsi una mattina e ritrovarsi nel corpo di un altro. Fino a quel momento lui era stato il figlio viziato di una nota e bellissima attrice di fama mondiale e di un rispettabile e famoso compositore. Ma adesso chi erano quelle persone? Non c’era più nulla di rispettabile e fiero nell’uomo steso su quel letto, così come non c’era più nulla di invidiabile nel viso scarno e spento di sua madre.
La donna notando lo sguardo terrorizzato di suo figlio provò a chiamarlo.
«Jona…» ma a quel nome il ragazzo non ce la fece più, correndo scappò via da quella stanza. Pensava che sarebbe stato forte, che sarebbe riuscito a gestire qualsiasi situazione vi avrebbe trovato all’interno, ma qualcosa dentro di lui  in quella stanza e in quel momento era andata persa per sempre. Vedere la sua famiglia distrutta gli aveva dilaniato il cuore. Corse fino a raggiungere i bagni. Corse a chiudersi dentro uno degli spazi riservati ai water. Seduto su di esso iniziò a piangere disperatamente, tenendosi il viso tra le mani.
“Perché proprio lui? Signore, perché dovevi strapparmelo via in questo modo? Ho ancora così tante cose da dirgli, tanti consigli da chiedergli e tante domande da fargli! Perché lo hai ridotto in questo stato? Perché?”.
 
Tokyo
Kei era appena rientrato al dormitorio tra le mani una bottiglia di liquore. Per quella sera pensò di potersela permettere. La sua testa era piena di troppi pensieri e di troppi amari ricordi. Ricordi che avrebbe cancellato molto volentieri dalla sua mente. Accasciatosi al pavimento del corridoio vicino la porta dell’appartamento del gruppo, aprì la bottiglia ormai mezza vuota. Tutto d’un sorso buttò giù quello che ne rimaneva di quel liquido brunastro.
A dilaniarlo era un terribile dubbio. Nella tasca del suo cappotto quella lettera premeva incessantemente su i suoi sensi di colpa. Custodire quel segreto era davvero la cosa giusta da fare? Nonostante tutto quello che era successo alla fine Roberto era diventato una persona meritevole della sua onestà. Kei era convinto che da solo non sarebbe riuscito a mentirgli per molto tempo. Non era nella sua indole nascondere la verità, soprattutto se carica di ingiustizie come quella. Esasperato sospirò reclinando il capo all’indietro fissando il soffitto con la testa leggera e il cuore pesante.
Tra i tanti problemi da risolvere nella sua vita ci mancava solo quella lettera. Da figlio sentiva che la cosa giusta era dire tutta la verità a Roberto, ma allo stesso tempo rispettava Marika e la sua coraggiosa decisione. Inoltre c’era il gruppo da tutelare. Considerando quello che era successo con il ritiro di Take, non gli sembrava proprio il momento giusto per sganciare una bomba di quella portata. Inoltre anche lui si era messo in gioco completamente firmando quel contratto nello studio di Rio. Se il gruppo fosse scoppiato avrebbe sicuramente perso ogni possibilità di recuperare la casa che una volta era stata di Akiko, Yuki, Shin e anche la sua. No, non poteva permetterselo. Eppure nonostante tutti questi validi motivi una parte di lui non riusciva a ignorare il fatto che una bambina innocente sarebbe cresciuta lontano dal suo vero padre. Per lui che era cresciuto come un bambino abbandonato, sapere che qualcun altro avrebbe dovuto convivere con una colpa simile per causa sua lo faceva sentire un vero schifo. Più ci pensa e più non riusciva ad accettarlo soprattutto perché a differenza di suo padre Roberto avrebbe amato quella bambina con tutto se stesso. Di questo Kei era certo. E sottrarre a un uomo il diritto di essere padre e a una bambina il diritto di essere sua figlia non gli sembrava poi così giusto. 
E poi c’era Nami. Non sapeva se era gusto condividere con lei quello che aveva scoperto.  Prima o poi come aveva promesso a Marika avrebbe dato quella lettera a Roberto e a quel punto cosa ne sarebbe stato della sua amica? Kei non voleva che soffrisse ancora per colpa sua. Era già troppo quello che aveva dovuto subire fino a quel momento.
“Anche se Roberto alla fine di questa storia scegliesse Nami non sarebbe per amore. E se non una volta letta la verità in quella lettera dovesse decidere di lasciarla per tornare da Marika?” Kei scosse la testa. Non poteva accettare che accadesse una cosa simile. Non poteva permettere che la sua amica soffrisse ancora per un amore non ricambiato.
 
Nel suo appartamento la giovane modella della Kings Record aveva passato la serata a piangere ignara di quello che era successo agli Hope e a Roberto. Piangendo aveva finito con l’addormentarsi sul divano dell’ingresso.
Quella sera aveva preso la sua decisione. Era stanca di rincorrere amori impossibili. Roberto non sarebbe mai stato suo come non sarebbe mai stato suo Kei. Pensando questo alla fine era crollata.
Con la testa leggera e il cuore pesante Kei barcollò fino alla porta dell’appartamento di Nami. L’alcol in circolo nel suo corpo stava iniziando a fare il suo effetto. I pensieri che si affollavano nella sua mente iniziarono a diradarsi come una fitta nebbia che scopare gradualmente con il sorgere del sole. In quel momento gli sembrò tutto chiaro, come non lo era mai stato prima.
Perché dopo tutto quello che era successo si trovava ancora una volta davanti a quella porta? Perché tra tutte le persone era corso da lei?
La verità era che il forte e orgoglioso Kei stava cedendo. Finalmente stava capendo che nessuno può farcela da solo. Da soli non si arriva da nessuna parte e una parte di lui era stanca di andare avanti in quel modo. Aveva bisogno di qualcuno al suo fianco che gli dicesse che sarebbe andato tutto bene. Che il gruppo si sarebbe riunito. Che sarebbe riuscito a guadagnare abbastanza per ricomprare quella casa. Che sarebbe riuscito a recuperare quel diario dal pianoforte di Akiko in modo da ridare a Shin gli ultimi ricordi di sua madre. Che stare in silenzio e custodire quella lettera era la scelta più giusta. Questo avrebbe voluto sentirsi dire. Ma non da una persona qualunque ma da lei. Perché lei era l’unica donna che ancora non lo aveva abbandonato. Che nonostante tutto Kei sentiva ci sarebbe stata. L’unica di cui ancora riuscisse a fidarsi. L’unica che conoscesse il suo lato peggiore e che nonostante questo l’avesse amato.  L’unica che lui avrebbe protetto per sempre. 
Con la vista annebbiata Kei bussò un paio di volte senza successo. Dopo la quarta volta qualcuno andò ad aprirgli. Davanti alla sua vista annebbiata si materializzò Nami in un vestito lungo da sera tutto stropicciato. Lo stesso vestito con il quale poche ore prima era scappata via dalla Kings Record.
«Finalmente!» esordì barcollando. Nami corrucciò le sopracciglia. Poi avvicinandosi a Kei ne odorò l’alito.
«Ma sei ubriaco!» lo riprese portandosi due dita alle narici indignata.
«Si, sono ubriaco e allora?» proseguì Kei entrando di prepotenza nell’appartamento mentre stringeva ancora in una delle sue mani la bottiglia vuota di liquore.
Nami senza perderlo di vista chiuse la porta e lo raggiunse in cucina. Lì lo trovò appoggiato con la testa nel lavandino.
«Oh… no… non vomiterai li dentro caro mio…» disse cercando di tirarlo su. Ma Kei si sollevò e con uno scatto fulmineo immobilizzò Nami vicino la cucina. I loro due visi erano vicinissimi. Nami avvertiva chiaro e pungente l’odore di alcol uscire dalla bocca del suo amico.
«Si può sapere cosa ti è successo? Ti rendi conto che sono quasi le tre di notte?»
«Guardami bene» disse indicandole il proprio viso con l’indice della mano destra, «questo è l’uomo miserabile che sono diventato. Un uomo capace di nascondere la verità a un suo amico solo per interesse personale, che non è stato capace di ricambiare i sentimenti di chi lo amava e che non è capace di fare nulla per la sua famiglia… sono un vero perdente…». Disse con gli occhi lucidi. Nami sospirò addolcendo il tono della sua voce. Con una mano gli sfiorò il viso.
«Io non vedo un perdente. Io vedo solo un ragazzo che è dovuto diventare uomo troppo velocemente, che farebbe l’impossibile per la sua famiglia anche rinunciare ai suoi sentimenti. Che non abbandonerebbe mai i suoi amici. Vedo un ragazzo che semplicemente ha sempre pensato di essere abbastanza forte per poter reggere tutto da solo quando alla fine non è così». Kei chiuse i suoi occhi abbandonandosi a quel tocco leggero sul suo viso. Una lacrima gli scese in quel momento bagnando la mano che Nami gli teneva vicino la guancia sinistra. La stessa pensò che per quante volte Kei aveva asciugato le sue lacrime era arrivato finalmente il momento per lei di fare altrettanto. Non sapeva perché Kei stesse dicendo quelle cose ma sapeva che doveva stargli vicino. Kei reclinando il capo poggiò la fronte sulla spalla di Nami. Lei lo abbracciò e lui ricambiò.
«Nami… io… credo di aver bisogno di aiuto…  e non so a chi altro chiederlo se non a te».
Il ragazzo che non aveva mai chiesto l’aiuto di nessuno adesso aveva abbassato le sue difese.
Nami con dolcezza si staccò da Kei e, recuperata la bottiglia vuota dalle mani dell’amico, l’adagiò sul piano della cucina, poi lo prese per mano accompagnandolo fino alla sua camera da letto. Con cautela lo fece accomodare sul suo letto. Kei aveva la testa che gli girava e cosi il suo corpo si mosse in piena autonomia. Come un sasso crollò disteso sul letto di Nami. La stessa poco dopo gli sollevò i piedi e lo sistemò per bene sul proprio letto. Poi gli slacciò le scarpe, prese una coperta e gliela adagiò su rimboccandogliela.
“Povero Kei… deve essere successo qualcosa di grave… non è da lui ubriacarsi… anzi, ora che ci penso, è la prima volta che succede”.Stava per allontanarsi quando Kei la trattenne per un polso tirandola verso di sé. Nami perse l’equilibrio e finì sul letto tra le sue braccia.
«Dove credi di andare?»
«Vado a dormire sul divano…» gli rispose lei cercando di sollevarsi ma Kei la trattenne ancora una volta.
«Resta… non voglio rimanere solo…».
«Ma sei impazzito?».
«Ti prego».
Rassegnata Nami sospirò, «d’accordo resto, ma solo finché non ti addormenti» lo accontentò Nami. Il ragazzo con il ciuffo solo allora allentò la presa su di lei rasserenandosi.
In quel momento Kei pensò a suo fratello Shin. Aveva ragione: era una vera fortuna avere qualcuno pronto a condividere il letto con te quando il mondo ti fa paura.
I due si addormentarono stretti l’uno all’altro.
 
Il mattino dopo arrivò un po’ per tutti. Roberto era nel suo letto. Non aveva chiuso occhio. Non riusciva ancora a rassegnarsi all’idea di aver perso per sempre il suo primo amore. Il suo sguardo si volse all’altro letto vuoto della stanza. Avrebbe voluto avere qualcuno con cui parlare, ma Jona era partito per la Cina e sua sorella era ritornata in Italia e adesso non gli restavano più molte persone con cui parlare di quello che era successo. È vero, c’era Kei, ma per via di Nami Roberto pensò non fosse una buona cosa parlare con lui. Controvoglia si sollevò mettendosi seduto. Inaspettatamente avvertì un odore famigliare provenire dalla cucina. Trascinandosi di malavoglia prima fuori dal suo letto e dopo anche dalla sua stanza, raggiunse la cucina.
Di spalle vide qualcuno maneggiare vicino ai fornelli. Aveva un ché di famigliare. Poi finalmente quella sagoma indefinita ai suoi occhi stanchi si voltò con una caffettiera fumante nella mano destra e un sottopentola nella sinistra.
«Mamma?».
«Ero sicura che l’odore del mio caffè ti avrebbe tirato fuori dal letto» accolse suo figlio Mary in un grembiulino bianco e candido poggiando il sottopentola sul tavolo e subito dopo anche la caffettiera su di esso.
«Si può sapere cosa ci fai qui?» le chiese Roberto con aria perplessa avvicinandosi a lei.
«È questo il modo di accogliere qualcuno che si è fatto quasi dodici ore di volo per raggiungerti?». Roberto prese posto vicino al tavolo insieme a sua madre che versava il caffè in due tazzine bianche.
«Non era mia intenzione accoglierti in questo modo, ma vederti in questo posto pensavo sarebbe stata l’ultima cosa che sarebbe successa… immaginavo saresti stata impegnata con le tue mostre almeno fino a Natale».
«Beh, mi mancava mio figlio, quindi ho lasciato tutto e sono venuta prima. Ma se ti dispiace che sia qui posso anche andar via…» proseguì Mary provocando suo figlio.
«Non era quello che intendevo e tu lo sai…» la riprese Roberto messo alle strette. Dopo quello che era successo non sapeva come comportarsi con la donna che aveva davanti. L’ultima volta che si erano visti era stato il giorno del funerale di Salvatore e in quell’occasione lui le aveva rivolto delle parole molto dure. Anche se erano state dettate dal dolore del momento Roberto non riusciva ancora a perdonarsi per avergliele dette.
«Senti mamma… per quello che ti ho detto prima di partire…» Mary lo interruppe porgendogli una delle due tazzine di caffè.
«Non avevi tutti i torti quando mi hai rimproverato. Dopotutto sono consapevole di essere stata una mamma assente… Mi dispiace per questo…»
«Beh, adesso sei qui» le sorrise Roberto. Mary ricambiò grata quel sorriso di suo figlio.
«Se devo essere sincera non sono venuta solo per scusarmi di non essere stata una brava mamma… sono venuta perché ho saputo un po’ di cose da Marco ed ero in pensiero per te.»
Il viso di Roberto si rabbuiò nuovamente.
«Stai parlando di Marika…?» avanzò non molto contento di sollevare quell’argomento con sua madre.
Mary strinse nella sua la mano di suo figlio.
«Con me puoi parlarne…»
«Mamma… credo che papà avesse ragione… per entrare in questo mondo alla fine è davvero inevitabile pagare un prezzo…».
«Rob, non ascoltare tuo padre. Ognuno di noi parla sulla scorta delle proprie esperienze e tuo padre non ne ha vissute di molte felici in questo mondo, ma questo non vuol dire che con te sarà lo stesso. Il mondo dello spettacolo non è più quello di una volta e voi ragazzi avete un potere immenso tra le mani. Nei vostri occhi posso leggere un coraggio, una forza e una tenacia da vendere. E sono convinta che solo volendolo sareste capaci di cambiarlo».
«Ne ero convinto anche io all’inizio, ma adesso non ne sono più così sicuro…».
Mary staccò la sua mano da quella di suo figlio. Una volta in piedi raccolse una custodia nera dal pavimento. Poi gliela porse. Roberto capì subito quale ne fosse il contenuto.
«Questa te la manda tuo padre» gli spiegò alla fine. Roberto l’aprì. Era una chitarra classica.
«Cosa significa?»
«Tuo padre non è una persona capace di esprimere a parole tutto quello che pensa. Ha sempre preferito alle parole gesti eclatanti…» asserì Mary ripensando al passato.
«E cosa centra questa chitarra con quello che non mi ha mai detto papà?»
«Questa chitarra era la stessa che tua nonna Lucia usava per esercitarsi con il bisnonno Salvatore quando aveva più o meno la tua età. Tempo fa fu proprio lui a donarmela in modo che io potessi restituirla a tuo padre. È stato grazie a questa chitarra che tuo padre ha ritrovato i tuoi bisnonni e parte di quel passato che aveva perso durante il cammino. E fu proprio con questa chitarra che compose la canzone che mi riportò a lui quando sembrava essere arrivata la fine della nostra storia… Per molto tempo ha custodito gelosamente questo strumento. Poco prima che partissi per raggiungerti mi ha detto di dartela. Anche se tuo padre non lo ha mai detto apertamente è sempre stato fiero di te e di tua sorella. A trattenerlo da dirvelo è stata la paura. La paura di perdervi, la stessa paura che abbiamo vissuto quando eravate molto piccoli e che non ci ha mai abbandonato…»
Roberto adagiò la chitarra vicino la gamba del tavolo.
«Cosa è successo quando eravamo piccoli?» chiese a sua madre.
Mary si fece seria.
«Tuo padre e io abbiamo rischiato di perdere ciò che di più prezioso avevamo al mondo. Voi due. I nostri due bambini. All’epoca eravate molto piccoli. È normale che non ricordiate molto di quello che successe. Non te la porterò molto per le lunghe. Eravamo qui in Giappone, tuo padre aveva da poco ripreso la sua carriera da cantante e la cosa come puoi ben immaginare, accese subito la stampa di ceco interesse. Cosi un giorno eravamo in macchina tutti e quattro. Alla guida c’era tuo padre. Alcuni giornalisti iniziarono a seguirci perché volevano a tutti i costi una foto dei figli del famoso leader dei BB5. Tuo padre fece di tutto per seminarli ma questi non facevano che aumentare. Pioveva e nel tentativo di proteggervi prendemmo una strada secondaria. Insomma per poco non uscimmo fuori strada per colpa di uno di quei giornalisti che ci tagliò la strada. Fu un grosso spavento. Tuo padre da quel momento prese la decisione di rinunciare alla musica per proteggerci. Non credere sia stato facile per lui prendere quella decisione una seconda volta… ».
Roberto iniziava a capire finalmente le parole che suo padre gli aveva rivolto l’ultima volta che lo aveva visto.
«Seconda volta?» ribadì Roberto incuriosito.
«Si, la prima volta ha rinunciato alla musica per non perdere me e la seconda volta lo ha fatto per non perdere i suoi due figli… Roberto se tuo padre mi ha chiesto di darti questa chitarra è perché crede in te proprio come ci credo io. Entrambi siamo fieri di quello che stai facendo qui in Giappone e siamo convinti che tu abbia le capacità giuste per poter cambiare le cose. Non arrenderti».
«Mamma, Marika è incinta e sta per sposarsi… ormai è troppo tardi» aggiunse Roberto afflitto.
«Non è mai troppo tardi… » gli ammiccò complice sua madre.
«E con questa chitarra cosa dovrei farci?» chiese incerto Roberto rigirandosi la custodia tra le mani.
«Componi la tua canzone per lei…  Con me funzionò. Chissà, può essere che questa chitarra sia destinata a riunire le persone… tentare non costa nulla, giusto?»
«D’accordo, ci proverò» gli sorrise grato Roberto.
 
Italia
Clara era finalmente tornata a casa. Il silenzio che vi trovò all’interno la disorientò. Rispetto alle stanze caotiche e ricche di risate innocenti dell’orfanotrofio, quel luogo era silenzioso in modo quasi deprimente. Sospirando depose il trolley sul pavimento.
«C’è nessuno?» chiese per sicurezza dando un’occhiata rapida nelle imminenti vicinanze. Nessuno le rispose. Suo padre doveva essere andato al negozio. A quel punto recuperò una sedia. Una volta preso posto vicino al tavolo della cucina prese il proprio cellulare dalla tasca dei jeans. Per prima cosa avvisò sua madre e suo padre che era arrivata sana e salva in Italia e poi mandò un messaggio a Luca. Durante tutto il viaggio non aveva fatto altro che leggere e rileggere il finale del suo racconto e più lo leggeva e più non la convinceva. Non sapeva se la giovane principessa guerriera avrebbe scelto l’amico scudiero o l’affascinante e splendente cavaliere.
Per scoprirlo sentiva che doveva incontrare Luca. Solo dopo avrebbe potuto scoprire quale sarebbe stato il finale della sua storia.
Il messaggio di risposta arrivò all’istante.
 
Da Luca:
Ci vediamo tra un’ora al solito bar.
P.s.
Sono contento che tu sia tornata. Devo parlarti.
 
Clara depositati i bagagli nella sua stanza raccolse la borsa e uscì.
 
Eichi era al negozio che sistemava una chitarra accordandola alla meglio. Era lì che maneggiava con le cinque corde quando due mani lisce e delicate gli ostruirono la visuale.
«Indovina chi è tornata?»quella voce l’avrebbe riconosciuta tra mille.
«Clara!» concluse euforico girandosi alle sue spalle e abbracciando sua figlia sollevandola di colpo dal pavimento.
«Papà così mi stritoli». A quelle parole Eichi la riportò con i piedi sul pavimento.
«Perdonami se non sono potuto venire a prenderti dall’aeroporto ma ormai avendo lasciato il mio lavoro al conservatorio non ci resta che questo negozio e non posso proprio permettermi di chiudere un solo giorno….».
«Non preoccuparti papà» lo rassicurò Clara prendendo posto su uno sgabello vicino la cassa.
Eichi la raggiunse posizionandosi dietro il bancone.
«Beh, raccontami un po’. Come se la sta cavando tuo fratello? Rio mi ha detto di Take…».
«Cosa è successo a Take?» gli chiese sorpresa sua figlia.
«Non dirmi che non ti hanno detto nulla!» si sorprese Eichi.
«No, non so nulla…»
«Take a quanto pare ha deciso di lasciare il gruppo… »
Clara non poteva credere alle sue orecchie.
«Ma come ha potuto?»
«Purtroppo alle volte accade… spero solo che i ragazzi non si abbattano e reagiscano».
Clara prese a mordicchiarsi le unghie nervosamente.
“Toshi sarà fuori di sé in questo momento… probabilmente si starà dando la colpa di tutto… chissà se… ma perché sto pensando a lui? L’intero gruppo starà in piena crisi… perché mi preoccupo solo di lui? ”
Fu proprio sull’onda di quei pensieri che Eichi richiamò l’attenzione di sua figlia su un atro argomento.
«Comunque non preoccuparti, tua madre è andata da tuo fratello e vedrai che le cose si sistemeranno. Piuttosto parliamo di te. Hai scritto qualcosa di interessante mentre eri in Giappone?».
Clara si rabbuiò mentre tornava con gli occhi su suo padre.
«Si, ma non sono convinta del finale… ho scritto di getto senza pensare ai sentimenti dei personaggi e adesso un po’ me ne pento. Scrivevo pensando a quale sarebbe stato il finale che avrebbero gradito i lettori senza però pensare che quello non era un finale giusto per i miei personaggi…»
«Non so come funziona nei libri, ma nella realtà i finali alle volte si scrivono da soli… e spesso non vanno come speravamo sarebbero andati… Ciononostante ricorda, non si può vivere sempre accontentando le aspettative di chi ci sta intorno, certe volte bisogna trovare la forza di trasgredire per sentirsi realizzati e questa cosa me l’ha insegnata tuo fratello. Se pensi che il finale giusto sia un altro non farti influenzare da quello che potrebbero pensare i tuoi lettori. Scrivi il finale che desideri. Sono sicuro che andrà benissimo in ogni caso. L’importante non è come finisce una storia ma come si scrive quel finale e sono convinto che qualsiasi sarà la fine del tuo racconto sarai capace in ogni caso di renderla meravigliosa usando le tue capacità. In questo hai preso da me» asserì sorridendo a sua figlia.
Suo padre aveva ragione. Clara durante il volo non aveva fatto altro che ripensare a quel momento in aeroporto con Toshi. Era quello il finale giusto per lei? Sarebbe dovuta davvero finire così. Con lei che andava via da lui?
Con un raggiante sorriso abbracciò suo padre, «grazie papà! Credo di aver appena deciso quale sarà il finale della mia storia» concluse sciogliendo quel caldo contatto.
«Beh, allora, che cosa stai aspettando? Corri a scriverlo!» Clara saltò giù dallo sgabello.
«Hai ragione, sto proprio andando a riscriverlo in questo momento. Grazie papà.» Detto questo Clara corse al suo appuntamento con Luca. Aveva scelto il suo finale. Infondo il suo cuore già lo conosceva, aveva solo bisogno di una spinta in più per rendersene conto.
Luca era seduto allo stesso tavolino tondo dell’ultima volta. Come quel giorno sfoggiava un abbigliamento impeccabile. I capelli biondi gli raggiungevano ancora le spalle. Stava fumando una sigaretta nell’attesa che Clara lo raggiungesse, quando la stessa lo notò attraverso la vetrata del bar. Senza esitare entrò.
Quando lo raggiunse Luca si sollevò per salutarla, ma Clara gli fece segno di risedersi. Stranito decise di assecondarla.
«Prima che inizi,  ho bisogno di parlarti…» iniziò Clara senza permettere all’altro di aprir bocca.
«Come desideri…» l’assecondò il ragazzo seduto davanti a lei spegnendo il mozzicone di sigaretta nel portacenere.
«Luca devi sapere che mentre ero in Giappone sono successe molte cose. Ho ripreso a scrivere i miei racconti, e se ci sono riuscita devo tutto a una persona che adesso occupa un posto importante nel mio cuore. All’inizio non avevo capito i miei sentimenti, ma adesso so che è lui la persona che amo. Per questo io non credo di poter ricambiare i tuoi sentimenti. Mi dispiace.»
Luca le sorrise divertito.
“Perché sta ridendo?”
«Credo ci sia stato un equivoco…» la riprese sporgendosi nella sua direzione, «non è il tuo cuore che mi interessa, ma la tua abilità di scrittrice.»
«Cosa?» Clara non capiva cosa volesse dirgli.
«Non dirmi che non hai fatto caso al logo sul mio bigliettino da visita». Clara svelta lo tirò fuori dalla borsa. In alto era riportato il logo di una nota casa editrice.
«Cosa significa?» gli chiese perplessa.
Il ragazzo tornò a rilassarsi sulla sedia.
«Io e il tuo bisnonno ci conoscevamo da molto tempo, lui e mio padre erano molto amici. Un giorno mi raccontò di avere una nipote con un talento straordinario nella scrittura. Mi raccomandò di passare un giorno dal suo negozio per conoscerla. Voleva che leggessi qualcosa di tuo…»
Clara non poteva credere alle sue orecchie.
«Quindi quando alludevi al fatto che saresti tornato al negozio perché c’era qualcos’altro che ti interessava ti stavi riferendo ai miei manoscritti?».
Lui acconsentì con un movimento della testa. Clara non poteva credere di essersi immaginata tutto nella sua testa. No, non poteva essere stato solo frutto della sua immaginazione.
«Se ti interessavano solo quelli, perché all’aeroporto mi hai baciata sulla fronte?»
«Perdonami, credo sia stato solo un tiro mancino. Speravo che lasciandoti in quel modo ti avrei spinto a tornare il prima possibile in Italia. Alle volte mi capita di utilizzare il mio fascino nelle contrattazioni. Mi dispiace averti illusa, ma stando a quanto mi hai appena detto alla fine sembra non sia merito mio il tuo ritorno».
«Vuoi dirmi che è stata tutta una strategia per spingermi a tornare il prima possibile qui?»
«Si, mi dispiace…».
Clara era fuori di sé dalla rabbia. Luca non aveva fatto altro che prenderla in giro. A Clara non importava più che quel ragazzo fosse qualcuno di importante all’interno di una casa editrice famosa. Si era preso gioco di lei e questo non poteva perdonarglielo. Se solo pensava che a causa sua stava quasi per rinunciare a Toshi…
«Spero ti sia divertito a prenderti gioco di me…»
Senza esitare oltre Clara si sollevò dalla seduta vicino quel tavolino.
«Aspetta» la trattenne il ragazzo bloccandola per un polso.
Clara si divincolò furiosa.
«Cos’altro vuoi?»
«So che non abbiamo iniziato nel verso giusto, ma se ho fatto quello che ho fatto è stato solo per assecondare un desiderio di Salvatore. Lui voleva vederti realizzata come scrittrice e voglio provare ad accontentare questo suo ultimo desiderio. Alla fin fine ti ho aspettato per tutto questo tempo… concedimi almeno una possibilità per farmi perdonare…»
Clara esitò incerta.
«Perché mai dovrei?»
«Se non per me potresti farlo per il tuo bisnonno. Dopotutto lui si fidava di me potresti provare a farlo anche tu?»
Clara tornò a sedersi.
«Ebbene, per quanto detesti ammetterlo, se il mio bisnonno ha chiesto il tuo aiuto ci deve essere stato un motivo. Ma ci tengo a precisare che è del suo giudizio che mi sto fidando in questo momento, non di te.»
«Mi va bene anche così. In ogni caso, poco fa avevi detto di aver ripreso a scrivere… hai qualcosa da farmi leggere? Ovviamente sarò onesto. Se non mi piacerà quello che leggerò te lo dirò. Non ti pubblicherò solo per gentilezza. Ma se vorrai potrai accettare umilmente i miei consigli in ogni caso».
«Non preoccuparti, ci sono un milione di case editrici oltre la tua. Non mi fermerò di certo a te… ».
Il ragazzo acconsentì.
Senza esitare Clara tirò fuori il racconto che aveva scritto in Giappone.
«Ecco, appena lo avrai finito fammi sapere… non ho molto tempo da perdere… E non pensare di fare strani giochetti. Ho già depositato i diritti».
«Non temere mi farò sentire una volta completato».
Senza aggiungere altro Clara uscì dal bar.
Luca aveva tra le mani la busta sigillata con il manoscritto di Clara.
“Mi dispiace Clara, ho dovuto mentirti, la verità è che in amore non mi piace recitare la parte del perdente. Beh, poco male, se non potrò avere te, mi consolerò prendendo per me la tua storia…”.
   
 
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