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Autore: in rotta per il paradiso    29/04/2017    3 recensioni
Cecco e Max sono due ragazzi figli della strada. Sono cresciuti tra risse e droga e ne sono diventati campioni. L'unica cosa che può salvare Max è la piccola Benedetta, la sorellina del suo migliore amico. E quando tutto sembrava​ andare bene, qualcosa li travolge.
Dedicato a coloro che hanno qualcosa per cui vivere e talvolta anche per morire...
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Cecco aveva girato tutto il quartiere, però del suo migliore amico non c'era traccia. Che si fosse messo in un vicolo a litigare con quelle teste di cazzo dell'altro gruppo? 
Arrivò al vecchio parco, uno spazio grande dove si riunivano i ragazzi per una partita a calcetto, mentre le ragazze ci andavano per guardare quelli più in vista della zona. Uno scivolo arrugginito e un'altalena cigolante erano rimasti sullo sfondo di un posto desolato dove ai bambini non era permesso giocare, a causa dei timori delle mamme che sapevano che nel pomeriggio il vecchio parco si popolava di giovani scansafatiche e poco raccomandabili. Di Max neanche l'ombra. C’era un parcheggio in una via interna, dove qualche volta si divertivano a improvvisare una rissa oppure quando si nascondevano per fumare i primi tempi. Era diventato il loro posto segreto: quando volevano stare soli, si rifugiavano sempre lì e solitamente accadeva quando qualcosa era andato storto. 
Infatti lo trovò. Massimiliano stava seduto sul muretto a gambe incrociate, mentre osservava la sigaretta che teneva tra l'indice e il medio. Accanto a lui, una birra quasi vuota. Lo avrà ripetuto mille volte a quel testone di non mischiare fumo e alcol! 
«Che ci fai qui?» 
«Volevo stare da solo...» parlava piano Massimiliano, scandiva tutte le parole a bassa voce e Cecco intuì subito che non era del tutto lucido. 
Rimasero in silenzio. Faceva finta di non saperlo, però le voci nel quartiere giravano; voci dei vicini di casa che sentivano le urla della madre contro il marito quando era ubriaca, il rumore di qualcosa finito a terra e andato in frantumi... E quelle voci erano giunte anche alla famiglia di Cecco e Benedetta. 
«Vorrei aiutarla, ma non posso...» disse Massimiliano. 
«Non puoi continuare a fare finta di niente, ti sta distruggendo!» 
«Per te è troppo facile parlare, la tua famiglia è perfetta...». 
Il ragazzo avrebbe voluto ribattere, però sapeva anche lui che la sua era una delle famiglie più "normali", ma non si sarebbe mai aspettato che gli venisse rinfacciato. Per questo motivo la mattina gli aveva fatto quella scenata... E quella gelosia da parte del suo migliore amico lo ferì, quasi quanto era ferito Massimiliano. Avrebbe voluto rispondergli nel peggiore dei modi, prenderlo a pugni, addirittura sputargli in faccia, invece senza neanche una parola se ne andò e nessuno provò a fermarlo. 
Di tornare subito a casa proprio non ne aveva voglia. Arrivò nella parte popolare della zona, dove sorgevano per l'appunto case popolari: si trattava di condomini di quindici piani. Era lì che voleva arrivare nonostante tutti i piani da fare a piedi, perché di quegli ascensori diroccati proprio non si fidava. Prese un respiro prima di perdersi un polmone tra le scale infinite di quei palazzoni. Il portone in ferro era sempre aperto, sulle mura decine e decine di scritte senza senso che avevano solo il compito di imbrattare quel cemento una volta nuovo. Nomi di ragazzi della sua età, o meglio i loro soprannomi; ne lesse alcuni per evitare di pensare ai piani che avrebbe dovuto ancora salire: Lupo, Zar, Principe erano scritti su ogni piano, come se stessero a significare che erano loro che comandavano. Finalmente arrivò in cima, era pieno di spade e preservativi, era il posto in cui si iniettavano la roba nelle vene oppure scopavano. Fece una smorfia con la bocca, dal pacchetto di Chesterfield estrasse una sigaretta e l'accese. Fumava tranquillo mentre guardava la città scorrere sotto i suoi occhi. 

Massimiliano si dava del coglione da due giorni. Come aveva potuto dire quelle cose a Cecco, al suo migliore amico? E conoscendolo, proprio non capiva perché non lo avesse preso a pugni! No, in realtà lo sapeva molto bene: aveva scelto di andarsene per la prova della grande amicizia che li legava. 
Erano due giorni che non lo vedeva, un po' perché si erano evitati e un po' perché preferivano rimanere in casa sotto le coperte. Sapeva di doversi far perdonare e non sarebbe stata un'impresa semplice. 
Arrivò senza quasi accorgersene al vecchio parco. Una ragazzina stava seduta di spalle sull'altalena dondolandosi delicatamente e spingendosi in alto con le gambe. «Dovresti essere a scuola!». 
Benedetta voltò la testa di scatto spaventata, poi gli sorrise. «Non dirlo a mio fratello o mi ammazza!» 
Massimiliano si avvicinò e iniziò a spingerla, non c'era niente di male in quel gesto quasi fraterno, ma se Cecco lo avesse saputo si sarebbe acceso come una miccia. Erano un paio d'anni che Massimiliano guardava quella ragazzina in modo diverso: prima era solo la sorellina del suo migliore amico, ora era una bella adolescente da proteggere dai maschi senza scrupoli della zona. Anche per lui era una sorellina minore... 
Alcuni giorni sentiva di non potersi lamentare della sua vita, spesso accadeva quando girava il quartiere con Cecco tenendo tra le dita l'ultima sigaretta da dividere, quando cazzeggiavano o guardavano storto altri ragazzi e a volte si finiva in una scazzottata; quelle risate, quegli sguardi e quei tagli lo facevano sentire bene, in quei momenti gli sembrava di essere vivo. 
In altri giorni aveva il respiro più pesante, proprio come il peso che aveva legato al cuore. Non gli riusciva un sorriso neanche se avesse assistito al due di picche rifilato a colui che gli stava proprio sulle palle.
Si chiedeva, in quei giorni, se ci fosse una via di fuga da quella realtà... Si domandava perché non potesse abitare in un quartiere normale, alzarsi la mattina per andare a scuola, uscire il pomeriggio con gli amici, tornare a casa mentre faceva buio e sedersi al tavolo con la sua famiglia a cenare. Aveva le risposte: non poteva abitare in un quartiere normale perché la sua famiglia occupava una casa popolare, con quali soldi avrebbero vissuto altrimenti? Non poteva alzarsi la mattina presto e fare quello che ci si aspettava da lui, perché aveva lasciato la scuola. Non poteva girare con gli amici perché era uno di quei ragazzi poco raccomandabili, nullafacenti, teppisti e perciò avevano timore di lui, purtroppo notava il modo in cui lo guardavano gli altri e come biasimarli? Se lui fosse stato una persona "normale", l'avrebbe pensata allo stesso modo. Non tornava a casa quando facesse buio, perché spesso si trovava a girare di notte per sfuggire a una delle solite crisi della madre. Lui non aveva una famiglia, quando si posizionavano al tavolo per la cena c'era solo silenzio... 
E adesso non aveva neanche più l'amicizia di Cecco. È strano pensare a certi legami: avrebbe fatto qualunque cosa per lui, persino donargli un rene se ce ne fosse stato bisogno e sapeva per certo che anche lui avrebbe agito allo stesso modo. La loro amicizia era certezza, forse l'unica che aveva. 
Guardò il cielo bianco e grigio: era in armonia con il suo umore. Sentiva la rabbia crescere a ogni respiro; davanti a lui solo un quartiere semivuoto, con quel freddo la gente rimaneva chiusa in casa. Iniziò a camminare, ogni passo era più veloce del precedente, finché quella camminata non divenne una corsa. 
Correva come se stesse scappando da un mostro, ma se quel mostro faceva parte di lui che senso aveva correre?
Avrebbe dovuto fermarsi, pensare e sistemare le cose invece continuò a spingere i muscoli fino allo stremo, passo dopo passo, con il vento freddo che gli rendeva il tutto ancora più difficile, però non gli importava. Guardava dritto davanti, osservava la grandezza di quei palazzi, pensava a sua mamma e al suo papà, pensava alla sua vita, pensava a Cecco. Correva, ma i pensieri non gli lasciarono scampo. 
Passò davanti al suo appartamento e a quello del suo migliore amico, arrivò al vecchio parco dove gruppi di ragazzi lo fissavano perplessi. Non ce la faceva proprio più. 

Cecco non riusciva a rimuovere il presentimento che ci fosse una faccenda che gli lasciava l'amaro in bocca. Voleva che fosse lui a fare il primo passo ed esigeva delle scuse, poi si ricordò l'ultimo secondo nel quale lo aveva visto ormai due giorni prima: i capelli scompigliati, la bottiglia di alcol quasi vuota, l'odore di sei o sette sigarette nell'aria aperta, quello sguardo vitreo, spento, vuoto... 
Sentiva di odiarlo in quel momento eppure l'affetto che lo legava al suo migliore amico era più forte e sapeva che aveva bisogno di lui, non poteva far finta di nulla come faceva Massimiliano perché il suo silenzio lo avrebbe pagato molto caro. 
Chissà dove poteva essere in quel momento. Cento pensieri orribili gli attraversarono la mente. Quelle quattro fermate che lo separavano dal suo quartiere gli sembrarono infinite, smaniava per scendere, non riusciva a rimanere seduto sul sedile. Lasciò il posto a sedere a una donna che teneva per mano una bambina e attese il suo turno per uscire. Avrebbe fatto quel mezzo chilometro a correre pur di non rimanere un minuto di più su quell'autobus. Le porte si aprirono e nemmeno il tempo di respirare che già correva a cercare il suo migliore amico. 
Non ragionava, andava appresso alle sue gambe le quali lo stavano portando al posto in cui lo aveva trovato un paio di giorni fa. Il parcheggio gli sembrava più triste del solito, sperava di trovarlo seduto sul muretto a fumare, però di lui non c'era traccia. La bottiglia che si era scolato per ubriacarsi e, probabilmente, dimenticare era in frantumi lì vicino; sulla colonna bianca annerita dal tempo c'erano numerose impronte di scarpe, aveva sicuramente preso a calci qualsiasi cosa potesse farlo sfogare. Sentiva il cuore sprofondargli nel petto, aveva bisogno di lui e lui lo aveva lasciato solo. Cominciò di nuovo a correre nonostante il fiatone e la richiesta vitale dei polmoni di ricevere più ossigeno. Vide qualcuno venirgli incontro. Quando furono abbastanza vicini Cecco riconobbe Maria, la migliore amica di sua sorella. 
«Cecco, Massimiliano... Sta facendo a botte... Sono due...». 
Poche parole sconnesse avevano realizzato la paura di Cecco. Stronzi bastardi, due contro uno! Aveva un'idea precisa di chi potessero essere poiché avevano molti conti in sospeso ed era giunta l'ora di saldarli. La rabbia gli accecava la vista, era come se davanti agli occhi avesse calato un velo nero che gli permetteva solo di andare a tastoni nella confusione dei suoi pensieri. 
Era abituato a correre e per quello fu fortunato, arrivò al vecchio parco in meno di cinque minuti. La scena che gli si prospettò davanti era brutta: un ragazzo alto più di Massimiliano lo teneva per le braccia in modo che non potesse muoversi e, di conseguenza difendersi; l'altro meno basso e molto meno muscoloso del compagno, lo stava riempendo di pugni allo stomaco, al petto e al volto. Quel viso affascinante da ragazzo bello e complicato era ricoperto di segni rossi e di sangue uscito dal labbro spaccato e dai pugni sul naso. La rissa doveva essere iniziata tra Massimiliano e il ragazzo che continuava a picchiarlo, era evidente che avesse preso molti cazzotti sul viso anche lui e perciò era intervenuto l'amico: quel ragazzetto dall'aspetto molto più minuto di Massimiliano non riusciva a tenergli testa. 
Bastardi! Con tutta la furia che gli aveva fatto gonfiare le vene sul collo e sulle braccia, prese il ragazzetto con uno strattone e lo buttò a terra. Ci vollero solo pochi secondi per riuscire a mettersi a cavalcioni sopra di lui e iniziare a tempestarlo di pugni sul volto. A ogni colpo il loro sangue si mischiava e più sangue vedeva e più era incontrollabile. Anche l'altro finì a terra e Massimiliano, incazzato nero, lo prese a calci e a pugni. Il parco era pieno di ragazzi e nessuno era intervenuto: vigliacchi, codardi, gente che non dovrebbe esistere! La furia di Cecco cresceva a ogni pensiero di questo genere. Dopo che entrambi si furono sfogati, si misero in piedi e li lasciarono lì, che qualcuno li aiutasse e li portasse in ospedale. 
Non si dissero una parola, Massimiliano si teneva la parte del costato appena sotto al petto, era conciato male, però niente a che vedere con quei due stesi a terra ansimanti e distrutti. 
Il suo migliore amico gli circondò le spalle con un braccio e andarono via. 
Il modo migliore di fare pace.
   
 
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