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Autore: Miss Dumbledore    30/04/2017    1 recensioni
“Più un cuore è vuoto e più pesa."
—Augusta Amiel-Lapeyre

Una ragazza ricca e tradita fin troppe volte, sfiduciata e arrabbiata nel profondo nei confronti degli uomini.
Un gigolò che si destreggia fra le donne più facoltose e sole della città usando il suo charme e il suo corpo come fonte di guadagno.
Lei che si sente un involucro vuoto.
Lui una cosiddetta “puttana di alto bordo”.
Come si incroceranno le loro strade? Cosa c'entrano i loro mondi l'uno con l'altro e cosa li ha portati a incrociarsi quando sono solo i soldi ad accomunarli?
Lei, non la classica bella ragazza, una bellezza discreta dai lineamenti particolari.
Lui affascinante, ferino e decisamente gettonato fra le signore; il classico uomo da ormone impazzito.
Lei con un carattere forte e un cuore che sembra essere stato asportato gli fa una proposta.
Superficialità e un viaggio interiore intrapreso dalla porta di servizio s'incrociano per arrivare alla stessa destinazione.
"Aprì gli occhi di scatto e incontrò i suoi, così blu da affogarvici dentro."
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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#06 – AFTERMATH ;

Passato e Presente.


C'è una storia dietro ogni persona. C'è una ragione per cui loro sono quel che sono. Loro non sono così perché lo vogliono.
Qualcosa nel passato li ha resi tali e, alcune volte, è impossibile cambiarli."

Sigmund Freud


La suoneria di un cellulare si introdusse nel suo sonno agitato facendole spalancare gli occhi di colpo. Si srotolò dalle coperte per sporgersi dal bordo del letto frugando nel mucchio di vestiti ai suoi piedi.
«Pronto?» biascicò mentre strisciava sulla pancia per tornare sul letto.
«Ti ho svegliata tesoro?»
«Mhn, no—» si fermò a fissare perplessa il mucchio di vestiti per terra notando un paio di jeans e una maglietta più in là. «cioè, sì, ma tranquilla.»
«Ti godi le vacanze dormendo fino a tardi, e i compiti?» la voce di sua madre sembrava divertita nonostante il rimprovero.
«Mi hai chiamata di prima mattina per chiedermi se ho fatto i compiti?» non riuscì ad ammorbidire il tono critico.
«Non rivolgerti così a tua madre.» la sentì distintamente trattenere un sorriso, come se ce l'avesse davanti. «Comunque ti ho chiamata per dirti che anticipiamo il rientro a dopodomani, a quanto pare ci sarà una tempesta di neve o una bufera.. Non so nemmeno se sono la stessa cosa, so solo che mi rifiuto di rimanere quassù bloccata anche se Francesco e tuo fratello sembrano trovarlo divertente.»
«Immagino..» borbottò sommersa dal fiume di parole.
«Ti mando la lista della spesa, tanto immagino che non ci sia niente in casa.»
«Okay, okay, tanto domani Carla dovrebbe tornare dalle vacanze, la faccio fare a lei.» rispose distrattamente mentre, dirigendosi verso il bagno, studiava i vestiti non suoi sparsi per il pavimento.
«Forse è meglio visto che non hai la macchina.. La chiamo io dai, lascia stare.»
«Okay.»
La chiamata durò il tempo necessario per andare al bagno, mettersi qualcosa addosso e rassicurare sua madre sul suo stato di salute, la salutò in cima alle scale, chiedendosi se fosse davvero preparata a scoprire cosa c’era al pian terreno.
Lo trovò in cucina, che –in boxer– curiosava nel suo frigo come se nulla fosse.
«Buongiorno.» lo vide sobbalzare quando la sentì.
«Oh, buongiorno.» le sorrise spuntando con tutti i capelli arruffati da dietro l’anta. «Non hai proprio nulla da mangiare per colazione, ma la fai mai una spesa decente?»
«Diciamo che non è nel mio ambito di competenza.» gli si avvicinò allungando un braccio per prendere la bottiglia d’acqua. «Come mai sei ancora qui?»
«Ieri sera sono crollato, come te d'altronde, quando sono uscito dal bagno eri già nel mondo dei sogni e sembravano piuttosto agitati.»
«Non importa, basta che non pretendi di farti pagare la notte intera.» si allontanò per appoggiarsi con la schiena all’isola e bere. La notte prima, grazie alla lettera che aveva ricevuto, era stata tormentata dallo stesso incubo che spuntava ogni volta che era vulnerabile.
«Non sarei mai così meschino.» chiuse il frigo e le sorrise radioso, quel buon’umore mattiniero la infastidiva. Come si fa ad essere così allegri quando si è appena scesi dal letto? «Ora vestiti però, andiamo a fare colazione fuori.»
«Perché?» inclinò la testa leggermente da un lato perplessa.
«Perché io ho fame e tu devi fare una colazione decente, tranquilla, ognuno paga per sé.» la verità era che non sapeva perché avrebbe dovuto dire di no. Cioè, lo sapeva, ma non trovava una motivazione valida per cui una colazione avrebbe distrutto quell’equilibrio precario che avevano creato. In fondo sarebbe uscita lo stesso a fare colazione perché nel frigo non aveva più latte né nulla da mangiare. Quindi perché no?
«Ci mancherebbe solo che ti offra la colazione con quello che ti pago.»
«È un sì?» sembrava sorpreso, come se non si aspettasse che lei sarebbe effettivamente venuta. Sembrava piacevolmente sorpreso.
«Ho fame e come tu mi hai fatto gentilmente notare il frigo è vuoto.» scrollò le spalle uscendo dalla cucina, chiedendosi se si fosse dovuta sorprendere anche lei di aver accettato senza indugi.
Dopo essersi preparati alla bell’e meglio ed essersi coperti per bene dato il cielo scuro che minacciava pioggia a catinelle salirono nella macchina di Ian diretti al bar più vicino.
«Mi aspettavo un’auto più vistosa da parte tua, comunque.» disse Amelia allacciandosi la cintura di sicurezza. Non che ci capisse molto di auto, distingueva a malapena una Smart da un SUV, ma insomma, ad occhio poteva dire quali fossero le auto che gli uomini prendevano per compiacere e spargere il proprio testosterone e quali per utilità.
«Come mai?» sorrise lui mettendo in moto.
«Beh, non è che tu non ti possa permettere una—» rifletté un secondo su quali fossero le auto che aveva visto più spesso nel girone dei dannati che era l’alta società. «Porche, per esempio.»
«Sono scomode e troppo basse, se voglio correre lo faccio in moto.» era un guidatore attento, nonostante chiacchierasse con nonchalance con lei non si lasciava sfuggire nulla della strada. «Senza contare che mia madre si chiederebbe come fa uno che salta da un lavoro a tempo determinato all’altro a permettersi un auto che vale più della sua stessa casa.»
«Mi sembrano entrambe buone motivazioni.. quindi hai una moto?» parlare con lui di quelle piccole cose mentre attraversavano la città nebbiosa su cui cominciava a piovigginare le sembrava quasi la cosa più normale del mondo. Forse era perché lo pagava, forse perché lui era davvero bravo in ciò che faceva, ma la faceva sentire a suo agio, come se avesse il controllo della situazione e potesse finalmente lasciarsi un po’ andare.
«Sì, mi sarebbe piaciuta una Harley, ma sai com’è, credo che non riuscirei nemmeno a tenerla in piedi senza contare che non ho un garage dove metterla.»
«Capisco. Nonostante mi sia sempre piaciuto andare in moto preferisco di gran lunga essere il passeggero di qualcuno di cui mi fido che il guidatore, sono troppo veloci e instabili per me.» lo disse come se stesse quasi parlando con sé stessa, con lo sguardo perso fuori dal finestrino appannato veniva assalita dai ricordi, le vecchie abitudini. Lei che apriva le braccia e con la testa all’indietro urlava sul retro di un motorino, il suo amico che guidava che rideva a crepapelle, il sole sopra di loro che li abbagliava, il brivido della libertà.
«In poche parole non salirai mai su una moto in vita tua.» questa frase la fece voltare verso di lui e lui distolse lo sguardo che aveva posato su di lei per qualche istante.
Lo fissò intensamente mentre i ricordi sbiadivano tornando al loro posto, rinchiusi da qualche parte in cui non sarebbe andata a scavare di nuovo.
«No, ora no, ma una volta sì. Era divertente.» mormorò assorta fissandolo intensamente. Lui s’immise in un parcheggio davanti al bar dove avevano fatto colazione anche quella mattina in cui gli aveva proposto il secondo accordo.
«Quindi una volta avevi degli amici, Miss?» rispose al suo sguardo quando ebbe sfilato la chiave. Quelle pozze blu così tranquille avevano un potere magnetico su di lei, forse si stava abituando troppo in fretta alla sua presenza.
«Immagino che si possa dire così.» scrollò le spalle slacciandosi la cintura e distogliendo lo sguardo, desiderosa di poter evitare il discorso il più possibile. Non aveva lottato per diventare quella che era ora solo per tornare la nostalgica ragazzina troppo sensibile da essere spezzata da una parola sbagliata da parte della persona giusta, da un ricordo al momento sbagliato. Ian scese veloce e fece il giro della macchina per aprirle la portiera.
«Uh, quindi una volta eri un comune essere mortale come tutti noi, buono a sapersi.» le sorrise da sotto la pioggerella fitta e sottile che gli inumidiva e scompigliava ancora di più i capelli corvini.
«Buono a sapersi..?» lo guardò perplessa scendendo dall’auto a sua volta, passandosi una mano fra i capelli distrattamente. Ian schiacciò il bottone sulle chiavi facendo chiudere le portiere e le si piazzò davanti con un espressione serafica che le faceva sempre temere di scoprire cosa pensasse davvero quel ragazzo.
«Sì, vuol dire che sei un essere umano.» sorrise con semplicità a pochi centimetri dal suo viso mettendola curiosamente a disagio, come se tutta quella situazione fosse estremamente sbagliata. Come se ci fosse una nota stonata quanto delle unghie che sfregano su una lavagna.
«Solo perché non mi comporto come secondo te dovrebbe fare una ragazza della mia età non vuol dire che non sia umana.» inarcò un sopracciglio infastidita da quelle battutine più di quanto avrebbe dovuto.
«Io non ho la più pallida idea di quanti anni tu abbia, a dire il vero, ma so che non è tutto come sembra con te.» quella risposta la lasciò basita ferma vicino all’auto mentre lui con tutta la tranquillità del mondo si dirigeva verso la porta del bar e la teneva aperta per lei, aspettandola.
Lo guardò per qualche istante sospettosa, come un animale selvatico che valuta quante probabilità ci sono che gli stiano tendendo una trappola, poi i suoi piedi si mossero da soli e con lo sguardo fisso davanti a sé lo superò, sicura che le sarebbe stato dietro.
«Allora, che cosa prendi?» le domandò appoggiando la giacca di pelle alla sedia di fronte a quella che aveva occupato lei.
«Cappuccio e brioche.» stette bene attenta a non incrociare il suo sguardo.
«Okay, alla marmellata giusto?» accidenti a lui. Con quella domanda la sorprese facendola scattare verso di lui, come faceva a sapere? Giusto, la colazione che avevano fatto quasi un mese prima, ma.. come faceva a ricordarsi un dettaglio così insignificante?
«Sì.» quell’unica sillaba le sfuggì dalle labbra spaccate sotto forma di un ringhio indispettito, facendole guadagnare un’occhiata divertita da parte dell’uomo che sembrava aver capito cosa la infastidiva tanto.
«Arrivo subito.» detto questo andò al bancone a parlare con la ragazza bionda della volta precedente lasciandola a guardarsi attorno distrattamente. C’erano più avventori della volta precedente, forse perché erano quasi le undici e non presto come l’altra volta. Si ritrovò attratta come una calamita ad osservare di nascosto Ian che chiacchierava e rideva con la ragazza, inducendola ad interrogarsi su quale rapporto avessero quei due, se lei sapesse che lavoro faceva davvero quell’uomo così affascinante. Se lei sapesse chi era lui davvero.
In fondo lei stessa lo sapeva? Certo, non si conoscevano intimamente nel senso tradizionale eppure sentiva che quel legame puramente fisico che avevano costruito era qualcosa di diverso, di talmente diverso da non infastidirla. Non c’era amore, sentimenti, non era legata a lui se non per il sesso ed anche se ne aveva bisogno forse il fatto di essere lei stessa a condurre il gioco riusciva a calmarla. Con molta probabilità, anche se il rapporto includeva il fatto che i due si usassero reciprocamente, proprio perché entrambi erano a conoscenza di ciò rendeva quella situazione assolutamente gestibile e accettabile. Giusta.
Non ci sarebbe mai stato niente di più e per questo poteva permettersi di starsene lì a fare colazione con quel ragazzo senza temere nulla, senza temere tutto.
«Ora arriva tutto.» la riscosse dai suoi pensieri Ian sedendosi davanti a lei con un sorriso smagliante. Sentì una strana stretta alla bocca dello stomaco, doveva essere davvero molto più affamata di quanto pensasse.
«Va bene.» rispose distrattamente tirando fuori il cellulare per controllare i messaggi.
«Tutto bene?» lui era uno dei pochi che riusciva a sorprenderla intuendo i suoi stati d’animo, non capiva bene come facesse. Si ritrovò ad alzare di nuovo lo sguardo incontrando il suo concentrato su di lei.
«Perché?»
«Una sensazione.» scrollò le spalle mantenendo il contatto visivo.
«Capisco.»
«Allora?»
«Cosa?» poggiò il cellulare di fronte a lei, sul tavolino, sentendosi studiata ad ogni minima mossa.
«Allora va tutto bene?»
«Non ti arrendi mai, vero?» si passò una mano fra i capelli lanciandogli un’occhiataccia.
«Mai.» sorrise con semplicità facendole chiedere da quale girone dell’inferno l’avessero mandato per tormentarla.
«Peccato.»
La bionda le risparmiò di rispondere arrivando con un vassoio carico delle loro ordinazioni. Poggiò due brioche con delle gocce di cioccolato sopra davanti a lui, i cappuccini e un croissant davanti a lei.
«Ecco a voi, dovresti seriamente mangiare di meno.» sorrise la ragazza fissando Ian, fingendo un tono di rimprovero.
«Perché mai se non ingrasso?»
«Fottiti.» quella risposta diretta fece sorridere sotto i baffi Amelia ancora prima di rendersene conto. Nonostante si ricompose in fretta quell’espressione non sfuggi all’uomo di fronte a lei che le sorrise a sua volta complice.
«Allora non sai fare solo smorfie disgustate!» commentò allegramente avvicinando a sé la tazza e il piattino con sopra la sua colazione.
«Sono completamente d’accordo su quello che ti ha detto la tua amica.»
«Che dovrei mangiare di meno?»
«No, che dovresti andare a farti fottere.» questa risposta detta con un tono assolutamente calmo e diplomatico lo fece scoppiare a ridere attirando diversi sguardi.
Amelia sbuffò e addentò la sua colazione chiedendosi ancora una volta perché fosse lì.

Wanderwall" degli Oasis cominciò a risuonare dalla giacca del ragazzo che estrasse velocemente il cellulare dalla tasca e rispose senza nemmeno guardare chi lo stava chiamando.
Senza farci nemmeno tanto caso, la ragazza si ritrovò ad ascoltare la conversazione mangiando la sua colazione.
«Sono qua da Beth con un’amica adesso.. Beh sì, ma dopo.. Okay, okay.. Tranquillo, non ho intenzione di assalire la tua promessa sposa..» una risata sommessa, il caffè che si raffreddava e lei smise di ascoltare disinteressata guardandosi intorno.
C’era una coppia di anziani che discuteva animatamente dall’altra parte del bar, un ragazzo che sembrava pendere da un cellulare che rimaneva spento appoggiato vicino ad una tazzina vuota e una brioche intoccata, due ragazzine che potevano avere al massimo quindici anni che ridevano allegramente e un signore anziano che leggeva la Gazzetta dello Sport. Erano tutti lì, con le loro vite, il loro passato, tutti intrecciati da un destino comune che li portava in quel bar, senza nemmeno notarsi a vicenda perché troppo occupati dai problemi di tutti i giorni. Tanto tempo prima si divertiva ad immaginare quale potesse essere la storia di ogni persona che incrociava per strada, le loro esperienze, i loro pensieri. Era una persona curiosa che fin da piccola voleva sapere tutto per pura curiosità.
Contrapporre quell’immagine di sé stessa a quella del presente faceva male per la distanza che si era creata fra quelle due persone, diametralmente opposte. La differenza fra lei e quella ragazzina che ad un certo punto era arrivata ad un punto in cui non sapeva più nemmeno lei dove arrivava la finzione, sospesa fra ciò che gli altri vedevano e il nulla che era dentro. E rideva, senza farlo mai davvero, parlava fino a non sentirsi più lei stessa.
Tutto, tutto per non sentire il silenzio che urlava sordo dentro di lei.
«Mel?» come succedeva spesso in quei giorni fu Ian a richiamarla alla realtà, la cui frequentazione aiutava a lenire i ricordi che cercavano di risalire a galla.
«Sì?» riportò lo sguardo su di lui che aveva terminato la chiamata e appoggiato il cellulare sul tavolino.
«Mi sbaglierò, ma c’è un uomo seduto fuori che continua a fissarti.»
Non fece in tempo a finire la frase che la sua testa scattò, sapeva già che cosa avrebbe visto, chi avrebbe trovato, ma sperava fino all’ultimo che non fosse vero. Eccolo lì, con un bicchiere davanti che la osservava da uno dei tavolini esterni con un sorrisetto sfrontato, quegli occhi verde bottiglia che la scorticavano come carta vetrata sulla pelle.
«Lo conosci?»
«No, sarà solo un ubriacone a cui piacciono le ragazze giovani.» scrollò le spalle mantenendo il controllo sulla propria voce, tutta la leggerezza di poco prima era sparita.
«Vuoi che gli dica di smettere?» la fissò con uno sguardo indecifrabile, facendola scoppiare suo malgrado in una risatina che suonava falsa persino alle sue orecchie.
«Ora anche il ruolo di cavaliere senza macchia fa parte del pacchetto?»
«Come ti pare.» sembrava irritato da quel rifiuto così netto, ma non se ne curò più di tanto, sentendosi osservata come una cavia da laboratorio.
«Vado.» dopo qualche istante di silenziò finì di bere il proprio cappuccino lasciando pressoché intoccata la brioche e si alzò di scatto, poggiando i soldi sul tavolo.
«Okay.» la guardò stranito il ragazzo, capendo che non lo voleva con sé.
Si infilò la giacca e uscì in fretta, sperando che non la seguisse, non disse un’altra parola ad Ian e lui nemmeno, anche se lo sentì mentre la seguiva con lo sguardo. Oppure era solo una sua ossessione quella di sentirsi osservata?
Camminava veloce, con le mani in tasca, diretta al supermercato più vicino per prendere qualcosa da mangiare e trovare un luogo neutro per affrontare l’uomo che la seguiva a passo svelto facendo rumore quando finiva in una pozzanghera formatasi sul marciapiedi sconnesso.
Una volta nel parcheggio del discount superò con passo sicuro un angolo più nascosto dietro a dove tenevano i carrelli e si accese una sigaretta appoggiata al muro, aspettando che la raggiungesse.
«Pensavo che non ti saresti fermata più.» infatti eccolo, con quella sua voce strascicata che tanto odiava.
«Io non scappo, cosa vuoi?» lo fulminò con lo sguardo mentre se ne stava anche lui con le mani in tasca sotto la pioggerellina leggera che aveva iniziato a cadere, a fissarla.
«Mi sembra di averlo messo nero su bianco, oppure non hai ricevuto la mia lettera?»
«Quella in cui mi chiedi di darti più soldi di quanti possieda?» inarcò un sopracciglio mantenendo una calma glaciale. La verità era che in quel momento una parte di lei avrebbe voluto urlare, gridare e dimenarsi, piangere a dirotto. Avere dei sentimenti da riversare sopra quell’essere che l’aveva fatta a pezzi, invece rimaneva lì, bloccata in un limbo in cui si era rifugiata una volta in cui aveva fatto troppo male per respirare e non ne era più uscita. Non avrebbe più mostrato debolezza, né rabbia, né odio, perché non aveva più nulla. Solo quel vuoto in cui poteva distintamente sentire l’eco del suo battito cardiaco regolare.
«Andiamo, ho visto in che bella casa vivete, sono sicuro che i soldi li hai, lo sai che mi servono.» le si avvicinò di un passo. Anche se era ancora troppo lontano per sentire il suo odore riusciva ad immaginarselo, le era rimasto impresso nella mente quel misto di dopobarba alla menta troppo forte, alcool, sudore e fumo. Tutto ciò che aveva amato di suo padre era soffocato in quell’odore nauseante, sporco.
«Anche se li avessi non te li darei e in ogni caso non hai nessun diritto di chiedermeli, saresti tu a dovermi dare gli alimenti.» cercò di imprimere il disgusto in ogni singola parola che sputò fuori. Lui si accigliò, come se avesse appena detto la stronzata del secolo.
«È stata tua madre a cacciarmi di casa, se vuoi lamentarti con qualcuno fallo con lei.» sputò fuori pieno di risentimento.
«E io l’ho aiutata, questo non ti da il diritto di venire a chiederci di saldare i tuoi debiti.»
«Tu sei mia figlia, hai il dovere di aiutare tuo padre, ho dato tutto per te.» si avvicinò ancora di un passo e lei dovette farsi forza per non indietreggiare disgustata.
«Mio padre è morto.» ringhiò raddrizzandosi, la sigaretta che ormai fradicia si era spenta da tempo fra le sue dita. «Sono stata ad ascoltarti per dirti solo questo: osa ancora avvicinarti a casa mia, alla mia famiglia e finirai molto peggio di come ti conceranno gli strozzini con cui sei andato ad impantanarti quando tornerai da loro a mani vuote.»
Dritta davanti a lui gli arrivava a malapena alle spalle, aveva preso l’altezza dalla madre come quasi tutti i suoi tratti e li portava orgogliosamente davanti a quell’uomo che aveva tentato di distruggerli per anni.
«Non osare parlare così a me ragazzina, sei uguale a quella stronza di tua madre.» ormai riusciva a sentire il suo odore per quanto si era avvicinato ed era come lo ricordava, notò con una smorfia di disgusto. Quell’uomo era ciò che rimaneva dell’uomo affogato nei vizi che una volta era suo padre. «Tua madre mi deve quei soldi e se non me li darai tu, me li darà lei.»
«Io ti ho avvertito, stalle lontano o ti ammazzo.» rispose glaciale per poi superarlo a passo svelto, buttando la sigaretta per terra. Non riuscì a fare nemmeno un passo che sì senti stringere con forza il braccio.
«Dove credi di andare?» la strattonò riportandola indietro con uno sbalzo che quasi la fece cadere. Poteva fare la dura quanto voleva, ma era alta un metro e un tappo e pesava poco più di 50 chili, per quanto lui fosse magro e malmesso era sempre più forte di lei.
«Lasciami andare.» la sua voce calma sembrava quasi surreale in quel contesto, la pioggia aveva smesso di cadere, ma il cielo continuava ad essere plumbeo nascondendo la luce del sole.
«Altrimenti cosa fai? Mi ammazzi?» scoppiò a ridere duramente l’uomo. Sembrava delirante.
«Mel!» sentì urlare il proprio nome e in un attimo l’immobilità si spezzò, come se non fosse nemmeno lei a muovere il proprio corpo sfilò il braccio dalla sua presa che si era allentata quando aveva sentito la voce alle proprie spalle e gli sferrò un pugno dritto sul naso. Lui cadde come un sasso sull’asfalto alle sue spalle visto il suo equilibrio reso instabile dall’alcol con una mano davanti al viso sporca di sangue.
«Mel, stai bene?» vide Ian correre verso di lei da dietro l’angolo con un’espressione sconvolta mentre sentiva la propria mano pulsare dolorosamente.
«Cosa cazzo ci fai qui?» lo aggredì non appena fu al suo fianco.
«Beth mi ha detto che l’ha visto seguirti e sono venuto, sai per—» sembrava confuso, di sicuro quella non era la reazione che si era aspettato da parte di un’ideale donzella in pericolo.
«E hai pensato bene di venire in mio soccorso sul tuo cavallo bianco? Spiacente, so cavarmela da sola.» ringhiò nella sua direzione interrompendolo. Lanciò un’ultima occhiata all’uomo che cercava di alzarsi da terra barcollando mentre inveiva contro di lei e poi si allontanò a passo svelto ignorandolo, con Ian alle calcagna.
La seguì ad un passo di distanza silenziosamente, non protestò per la sua accoglienza poco calorosa o le chiese spiegazioni. Semplicemente la seguì e doveva ammettere con sé stessa che in qualche modo la sua presenza la tranquillizzava e irritava al tempo stesso. Entrò nella prima farmacia che trovò sulla strada, sempre con la sua scorta alle spalle e prese del ghiaccio istantaneo da uno scaffale per poi continuare verso la cassa.
Vide l’uomo affiancarla mettendosi in fila per quella vicina con qualcosa in mano, forse avevano fatto solo la stessa strada e non l’aveva seguita dopotutto. Non capiva se doveva sentirsi delusa o sollevata da quella conclusione.
Pagò e uscì senza aspettarlo, dirigendosi verso casa, si sarebbe fermata dal primo droghiere per prendere qualcosa per il pranzo, il discount era fuori questione.
Quando uscì dal negozio se lo trovò lì davanti, con una busta della farmacia che gli pendeva dalla mano la aspettava silenziosamente. Gli lanciò un’occhiata impenetrabile e poi continuò per la propria strada. Arrivata al cancellino le fu chiaro che non avrebbe mollato.
Sempre senza dire una parola aprì il cancellino e poi la porta dell’ingresso facendolo abbastanza lentamente da lasciargli il tempo di seguirla, forse voleva solo i soldi della sera prima e poi se ne sarebbe andato.
Poggiò la busta della spesa in cucina e si sedette su uno sgabello vicino all’isola, lui restò immobile sulla soglia della stanza, fissandola silenzioso.
Nonostante avesse voluto chiedergli dei soldi e mandarlo via le parole le si fermarono in gola, aprì le labbra una volta e le richiuse senza emettere un fiato. Distolse in fretta lo sguardo e si applicò con la mano dolorante ad aprire la confezione che aveva preso in farmacia, ignorandolo.


~*~


La osservò silenziosamente mentre lo ignorava con testardaggine. Dal momento in cui l’aveva aggredito quando era corso in suo soccorso aveva capito di aver superato inavvertitamente uno delle tante linee di confine che lei aveva tracciato.
La proposta è questa: quando ho bisogno— dei tuoi servizi ti chiamo, tu rispondi e poi te ne vai. Niente domande o intromissioni nella mia vita privata.”
Quelle erano state le esatte parole che aveva detto, non si atteggiava da dura, non era una finzione perché da lui voleva che abbattesse quelle barriere. Quando l’aveva incontrata la prima volta aveva pensato che fosse pazza, completamente pazza e machiavellica. Pagare un uomo per perdere la verginità come e quando voleva lei. Una maniaca del controllo calda come un ghiacciolo e anaffettiva come solo Crudelia Demon poteva essere. E quando quella sera si era presentato alla sua porta per compiere il suo dovere lei non aveva fatto nulla per fargli cambiare idea.
Eppure c’era qualcosa di più. Non poteva fare a meno di continuare a ripetersi quella frase nella sua testa, spuntava sempre nei momenti più inopportuni.
Quella convinzione forse l’aveva spinto ad andare a prendersi cura di lei quando era malata e chiederle di lei quando abbassava di poco la guardia dopo il sesso. Piccole briciole, indizi su chi era davvero eppure non la capiva ancora. Non riusciva a trovare una motivazione perché lei si comportasse così, perché aveva allontanato così la propria umanità. Non poteva comportarsi così freddamente solo con lui, nonostante avesse notato che si era sciolta un po’ bastava un battito di ciglia, una parola sbagliata e tornava a rifugiarsi dietro quel muro d’acciaio che si era creata.
Quello che aveva visto quella mattina forse spiegava qualcosa di quel suo comportamento e lo legava ancora più strettamente a quella ragazza che lo usava per dimenticare, per fuggire da sé stessa.
Quello che nascondeva con le parole e con i gesti veniva fuori mentre facevano sesso, nel sonno agitato che la sera prima lo aveva spinto a fermarsi a dormire e stringerla mentre tremava come una bambina, inconsapevole.
Quello che l’aveva spinto a seguirla a piedi lasciando l’auto quasi dall’altra parte della città, solo perché pensava che potesse avere bisogno di aiuto.
Sapeva che lei non lo voleva lì, ma non poteva lasciarla andare.
«Lascia.» fu la prima parola dopo un’ora di silenzio, le si avvicinò e poggiò la busta della farmacia che aveva ancora con sé lì accanto, poi le sfilò la scatola di cartone contro cui stava lottando senza successo. L’aprì e spaccò il ghiaccio sintetico contro il banco dell’isola, agitandolo e poi porgendoglielo.
Lei incontrò il suo sguardo per un attimo e poi lo prese, poggiandolo sulla mano le cui nocche erano sbucciate e stavano assumendo un colore violaceo.
«Non devi rimanere qui.» mormorò assorta mentre si guardava le mani. Era interpretabile come un “Non ho bisogno di te, non ho bisogno della tua pietà". Nonostante questo lui scosse la testa serio.
«Non ho nulla da fare.»
«Non serve.» insistette alzando lo sguardo, aveva un’espressione che era definibile solo come vuota, sembrava completamente svuotata dall’astio con cui aveva affrontato quell’uomo.
«Lo so, ma resto comunque, mi piace darti fastidio.»
«L’avevo notato.»
Restarono ancora qualche istante a guardarsi negli occhi e poi lei abbassò di nuovo lo sguardo, persa di nuovo nei suoi pensieri. Era come se nella sua forza sembrasse estremamente fragile. L’aveva raggiunta di corsa, appena in tempo per sentire le ultime frasi da dietro l’angolo, lei sembrava cavarsela bene con quello che a quanto pareva era suo padre e aveva deciso di rimanere lì e non intervenire se non in caso di bisogno. Era preoccupato per quella ragazzina alta quanto un nano da giardino che sembrava incurante del rischio che correva, era assurdo, ma era preoccupato.
Quando aveva sentito la situazione degenerare non aveva potuto fare altro che provare ad aiutarla, solo per vederla stendere lo stronzo con un pugno.
Lo sguardo che aveva lo aveva bloccato, sembrava come se non ci fosse altro che odio dentro di lei. In quel momento ci aveva creduto davvero a quella minaccia che aveva fatto all’uomo a terra, era perfettamente plausibile, che l’avrebbe potuto ammazzare senza provare nulla. Nell’istante in cui l’aveva pensato si era dato dell’idiota, ma quel dubbio strisciante rimaneva.
Era finita così perché l’odio aveva consumato tutto il resto? Era davvero così semplice?
Rimasero in silenzio, lei con lo sguardo basso persa nei suoi pensieri e lui che la guardava. Sfilò dalla busta di plastica la pomata e la garza che aveva preso e con delicatezza le tolse il ghiaccio dalla mano.
Lei incontrò il suo sguardo senza dire una parola e lo lasciò fare mentre teneva la sua mano piccola e fredda fra le sue, le applicava l’antinfiammatorio e la fasciava.
«Non è un po’ esagerato per un paio di sbucciature?» aveva la voce rauca, forse dovuta ai capelli bagnati e al lungo silenzio.
«Forse, ma è sempre meglio esagerare che non fare abbastanza.» scrollò le spalle senza dire altro, continuando a tenere la sua mano fra le sue.
«Mhm.» non disse altro, scendendo dallo sgabello lentamente e avvicinandosi a lui mantenendo il contatto visivo e fra le mani.
Cominciò a baciarlo e sospingerlo dolcemente verso il soggiorno, dove sapeva che avrebbe trovato il divano e lui non poté fare a meno di darle ciò di cui aveva bisogno, anche se sapeva lui per primo che non era che un altro modo per scappare dai problemi, dalle domande, dalle spiegazioni. Un modo per riempire il vuoto che sembrava circondarla.
Non voleva salvarla, non sapeva nemmeno come si faceva, ed era convinto che se una persona non vuole essere salvata non c’era nulla da fare, ma allo stesso tempo non poteva mollare la presa. Anche se non se ne rendeva conto lei lo attraeva come una forza magnetica che gli impediva di lasciarla sola a sé stessa.








Note dell’autrice: eccomi con un nuovo capitolo, cerco di andare più alla svelta possibile con gli aggiornamento impegni permettendo.
Mi farebbe davvero piacere sentire la vostra opinione a riguardo, per come sta andando, se vi sta piacendo, se c’è qualcosa che non quadra o che non va secondo voi, le critiche sono sempre ben accette.
Vorrei ringraziare chi sta leggendo fin’ora, anche silenziosamente, per il tempo che state dando alla mia storia e chiunque stia seguendo, preferendo o ricordando.
With love. :)

   
 
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