Storie originali > Avventura
Segui la storia  |       
Autore: ArtistaMaeda    01/05/2017    0 recensioni
Un bambino che sparisce nel nulla, la proprietaria di un pub che lo cerca, un ragazzino che vuole vendicare la madre, degli agenti misteriosi con una loro agenda, e una donna vestita da motociclista che appare sempre dove succede qualcosa. Cos'hanno in comune queste persone? E poi c'è l'amichetta dai capelli rossi convinta di poter comunicare via radio con il bambino scomparso. Ed è convinta che sia in pericolo, braccato da una sorta di mostro. Ognuno ha il suo modo di affrontare le cose, e non sembrano esistere buoni o cattivi.
Genere: Avventura, Horror, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 1:

La scomparsa di Deon S. Hathaway



 

Un gran boato giù per le scale. L’atterraggio sul pianerottolo fu doloroso, ma si rialzò, doveva farlo; il panico di fuggire dal suo assalitore gli fece ignorare qualsiasi dolore fisico. Ma non aveva scampo. Una volta alla porta d’ingresso del cottage ci si spalmò addosso, incapace di aprirla. Era convinto di averla lasciata aperta, eppure stasera era chiusa. Si girò a cercare la chiave con lo sguardo, ma aveva troppa paura di staccarsi dalla porta per andare a frugare in giro, e poi vide l’ombra di quel maniaco che stava per scendere le scale. Il panico diventò più forte e scappò in cucina, chiudendocisi dentro.

Respirava in affanno come se avesse corso 10 km e si teneva il braccio che gli faceva male. Cosa poteva fare? Fuggire dalla porta del retro, ma certo! Nel momento in cui si girò per accedere alla porta, si ritrovò davanti il suo incubo. Gocciolava acqua piovana dall’impermeabile scuro, inondandogli il pavimento della cucina, ma non era quello che preoccupava l’uomo, bensì l’acuta emicrania che gli riempì immediatamente la testa non appena posò lo sguardo sul volto dell’assalitore. Pian piano l’uomo si ritrovò a soffocare con i piedi che levitavano da terra, e non poteva fare niente, solo sentire la vita scivolare via da lui. Esalò l’ultimo respiro, poi i suoi arti inferiori smisero di dimenarsi e rimase appeso come un prosciutto a dondolare lentamente dal soffitto, appeso a una corda.

 

Il sole entrava dalla finestra della cameretta. Il ragazzino aprì gli occhi pigramente, ma poi, un po' per il piacere dei raggi solari sul volto, un po' ripensando a ciò che aveva in mente di fare oggi, trovò l’energia di alzarsi dal letto con brio. Si mise addosso un paio di jeans, una maglietta, un paio di converse, e via di fretta fuori casa, per strada, Rue du Marché, già in fermento con il traffico della tarda mattinata, il mercato, i negozi. Entrò dalla fioraia di corsa, sfruttando la porta sempre aperta, più simile ad un cancello di piante e fiori che a una porta. Si fermò dentro, un posto non molto illuminato, ma decisamente verde. Era una pianta in particolare ad attirare la sua attenzione: una Dieffembachia. Carezzò le sue foglie con delicatezza e amore. La fioraia gli apparve alle spalle e lo spaventò. Lei rise.

“Ti piace questa pianta, eh?”

Lui la fissò da prima intimorito, ma poi sorrise anche lui, imbarazzato.

“Eri venuto qui per questa? O volevi prendere anche qualcos’altro?”

Il bambino si girò a guardare la pianta, e poi cercò con lo sguardo altrove. La fioraia guardò dove guardava lui. Fiori.

“Ah. Ho capito. Volevi dei fiori. Che fiori ti servono?”

La fioraia fece strada all’angolo dei fiori. Ce n’erano di ogni tipo e fruivano della luce diretta del sole dalla finestra. Il bambino li adocchiò sistematicamente con attenzione, e poi si soffermò sui tulipani. Alla fine si decise e puntò questi ultimi con l’indice.

“Questi?”

Lui annuì.

“Ti faccio un mazzo?”

Lui annuì di nuovo.

“Non parli molto, eh?”

La fioraia sorvolò la mancata risposta e decise di fare per conto suo. Gli impacchettò un mazzetto di 6 tulipani e il bambino la pagò con una manciata di monete, tutti pezzi da 1 euro ciascuno. Mentre la fioraia contava i soldi, il bambino già stava uscendo.

“Non vuoi la pianta?”

Lui si girò e le sorrise con più calma e agio.

“Ho capito. La prossima volta.”

Il sorriso del bambino si ampiò, poi uscì senza neanche salutare, e corse via continuando sul marciapiede della Rue, tra i vari negozi, facendo lo slalom tra la gente.

E di tutti i posti che un bambino poteva scegliere, il Celtic Pub…

Entrò nell’angusto, buio, locale con disinvoltura, ma poi si fermò a guardarsi intorno, alla ricerca di qualcosa, o di qualcuno. I clienti lo aggirarono infastiditi, chi entrava chi usciva. Uno di loro lo superò spingendolo sgarbatamente, e per poco il ragazzino non finì dritto per terra. Lo scatto attirò l’attenzione della barista, che subito gli lanciò contro un bercio.

“Te l’ho già detto, Puffo Sbiadito: i Puffi Sbiaditi non sono ammessi qua!”

Il cosiddetto Puffo si ricompose e sorrise timidamente all’affascinante barista dallo sguardo troppo severo, si avvicinò al bancone osservandola indaffararsi a servire i clienti, tra birra, caffè, e ordinazioni per piatti caldi. Il Puffo non arrivava a vedere sopra al bancone, pure sulle punte dei piedi, ma la barista poteva vedere la sua manina far leva per sollevarlo, e la sua testa rasata quasi a zero. Con un sospiro infastidito si prese un altro momento per rivolgersi al bambino.

“Sei proprio un rompicoglioni! Perché non te ne vai a giocare con quegli altri rompicoglioni dei tuoi amici? Eh?”

Il bambino le sorrideva timidamente e basta. Non una parola. Solo i suoi occhioni blu oceano. Ed il mazzo lasciato penzolare verso il pavimento. Già alcuni petali di tulipano si adagiavano sulle mattonelle.

Poi sbucò fuori lei.

“Oh! Meno male, pensaci tu, Jam!” disse la barista.

Jam, brunetta dall’aria saccente e sveglia, sbucò appunto fuori dal retrobottega, avvicinandosi al bancone, e interpellata dalla barista buttò lo sguardo sulla testolina del bambino e subito lo riconobbe e alzò gli occhi al cielo. Senza pensarci due volte, fece il giro del bancone e si pose davanti al bambino, già alzando l’indice e prendendo fiato per rimproverarlo. Ma lui l’anticipò, sollevando proprio in quel momento il mazzo di fiori davanti a lei, facendosi quasi scudo con esso, così che lei non potesse vedere altro. Dovette scansarlo e far capolino con la testa da dietro di esso, imbarazzato com’era. Ma si fece coraggio di sbirciare il volto di Jam, e la trovò ancora sorpresa. Quando i loro sguardi si incrociarono, però, Jam rilassò il proprio volto in una via di mezzo tra un’espressione infastidita e un sorriso grazioso. Era combattuta, si vedeva. Infatti cedette quando la barista sbuffò e fece finta di non vedere.

“Dìon! Adesso anche i fiori? Che ci devo fare con questi?”

Il sorriso si ammosciò. Jam prese il mazzo dalla manina di Deon e lo abbandonò sul bancone. Poi posò la mano sulla spalla del bambino e lo accompagnò ad un tavolo nell’angolo, dove potevano stare in pace.

Gli servì un piatto di patatine appena fritte ed una lattina di coca. Lui ne mangiò metà, poi si sentì troppo affaticato per continuare, così si attaccò alla coca.

“Ho già parlato con tuo padre” disse lei.

Lui si congelò, e la coca in bocca lo solleticò al punto di fargliela sputare inavvertitamente. Si asciugò la bocca con il polso e usò il tovagliolo che gli aveva dato Jam per asciugare la coca sputata sul tavolo. Lei lo osservò infastidita.

“Non puoi stare qui. Deon. È un posto per gente grande. Non è un posto per giocare. E tuo padre è d’accordo con me.”

Lui la guardava con ammirazione, ma non negli occhi, bensì addosso, il corpo snello, compatto, le mani, affusolate, leggermente grinzose e callose, forse dall’utilizzo di attrezzi e detersivi, la bocca, carnosa e lucida, la faccia, ovale al punto giusto, i capelli, scuri, ben curati, e quel piccolo neo al lato dell’occhio sinistro. E gli occhi, alla fine si soffermò sugli occhi, e lei pensò che finalmente le stava prestando attenzione.

“Sù. Non costringermi a chiamare tuo padre. Vai al parco o cose così… È domenica, porca miseria, troverai sicuramente qualche amichetto con cui giocare, no?”

Ma Deon si era già perso negli occhi neri intensi di Jam e non dava segno di voler comunicare. Alla fine Jam si spazientì e si alzò.

“Va bene, Deon. Non mi lasci altra scelta, dovrò chiamare tuo padre.”

Lo disse in maniera scoraggiata, e rimase ad attendere un’eventuale reazione da parte di Deon, ma non ci fu, perciò procedette per il retrobottega, lasciandolo da solo al tavolo. Tornò in sala esattamente 30 secondi dopo e, come si aspettava, non ce lo trovò.

 

Si perché l’intera cittadina di Locquirac, Bretagna, era oggi il suo parco giochi. E se pur solo, sapeva divertirsi. Tornò a casa, prima. Cercò in giro ma non trovò nessuno. In camera il letto era ancora fatto. In cameretta invece fece un pit-stop tattico. Si infilò una cintura alla quale aveva appiccicato con lo scotch una miriade di batterie tipo C, tutte Duracell. Poi si allacciò un ciondolo fatto con spago nero e una singola ma grossa conchiglia striata. Si mise addosso una simpatica borsa tracolla colorata e si prese cura di infilarci dentro il diario segreto sul quale aveva scritto “Jetwish” con un indelebile. Infilò nella borsa anche le due walkie talkie gialle e nere. Poi uscì fuori di casa a corsa.

Prese le vie dei campi, incontrando qualche contadino per strada, un trattore, persino un gregge di pecore. Corse sopra il ponticello che attraversa il canaletto, e poi tornò verso il paese, ma si fermò sulla collina, per godersi il panorama del borgo che sembrava uscito dal 1300.

Rientrò al paese dalla parte opposta e raggiunse la spiaggia. Era visibilmente stanco, ma non si fermò, s’arrampicò su per la scogliera sfruttando un sentiero poco sicuro che conosceva bene e una volta in cima, abbandonò la borsa in un angolo, e si affacciò su quel balcone naturale per sbirciare di sotto. L’oceano Atlantico era in subbuglio, la marea rientrata, le onde energiche e affamate di terra. Si suicidavano contro le rocce nude della scogliera, con tanta violenza da sollevare soffioni di goccioline minuscole che riuscivano a risalire la scogliera fino ad arrivare alla sua faccia.

Dopo la gita al mare, Deon tornò in paese e alla fine si ritrovò effettivamente ad andare al parco. Passeggiò lungo i viali, godendosi i rumori della natura, i ticchettii delle biciclette, l’abbaiare di qualche cane, e le voci lontane dei bambini che giocavano. Si sdraiò su uno dei prati, al sole pomeridiano, per riprendersi dagli sforzi. Qualcuno gli buttò gli occhi addosso per il bizzarro abbigliamento, ma Deon non si preoccupava degli occhi altrui. Tranne che di quelli impertinenti e smeraldi di una certa bambina dai capelli rossi che da un po' gli ronzava intorno, incuriosita. Lui si alzò a sedere per buttarle gli occhi addosso, e lei fece finta di niente, camminando apparentemente senza meta o interesse, giochicchiando con una delle due trecce ordinate e curate. Poi si girò, e i loro sguardi s’incrociarono, ma ciò che colpì poi Deon furono le lentiggini del volto della bimba. Sgranò gli occhi piacevolmente sorpreso. La bambina ne era ricoperta tanto quanto Deon. Erano compagni di efelidi. Lei, sempre più incuriosita, si avvicinò, per osservare meglio quella strada cintura di batterie. Deon si alzò in piedi e lei si tirò indietro intimorita. Poi prese più confidenza e si pose davanti a lui, sempre facendo attenzione a non infastidirlo. Lui restò a guardarla, lasciandola fare. Alla fine lei riuscì a esaminare con calma le varie batterie della cintura, il nastro adesivo con il quale erano state fissate, tanto nastro adesivo. Gli camminò intorno, esaminando anche il resto del coetaneo, facendo nota mentale dei vari elementi bizzarri ma interessanti. Tornatagli davanti, la rossa si focalizzò sul ciondolo di conchiglia sul petto di Deon. Affascinata, allungò l’indice con titubanza, mentre Deon soffriva di imbarazzo. Alla fine la rossa strinse la mano intorno alla conchiglia ed esplose in un enorme sorriso soddisfatto.

La bambina poi prese a camminare abbastanza svelta. Deon rimase lì a guardarla, ma poi lei si voltò e fece gesto a Deon di seguirla. Lui ci rimuginò un paio d’attimi, ma poi le corse dietro e camminarono fianco a fianco lungo il viale. Deon, stufo di tenere la testa bassa per l’imbarazzo, provò a guardarla, ma trovò i suoi vispi occhi verdi in agguato, così spostò lo guardo sulla treccia di capelli più vicina a lui e stavolta fu il suo turno di toccare. Si fermarono. Deon le carezzò i capelli. Poi, d’un tratto, la rossa afferrò la propria treccia e la gettò addosso alla faccia di Deon, solleticandolo. Lui rise imbarazzato e si scansò. Si studiarono a lungo, come due duellanti pronti a combattersi all’ultimo sangue. Chi avrebbe fatto la prossima mossa? Lui o lei?

Lei fece la finta. Come a volerlo spingere, e Deon ci cascò. Allora Deon le si avvicinò di nuovo come per stringerla, ma lei si scansò, camminando all’indietro. Sembravano fringuelli in danza. Incuranti della sera che scendeva.

All’improvviso la bimba tastò la spalla di Deon e cominciò a correre. Deon le corse dietro per prenderla ma la gazzella cambiava direzione repentinamente. Faticò a starle dietro, così abbandonò la borsa senza cura in mezzo al prato e la seguì lungo il viale, fino a tornare in Rue du Marché. Rovesciarono uno scaffale di frutta fuori da un negozio e finirono addosso alla gente, ma continuarono a correre comunque. Rubarono una spada giocattolo ciascuno per giocare a duellarsi per strada, con le auto che suonavano loro contro, e poi le lanciarono via e corsero ancora, fino a Rue des Tanneurs, passando sul ponticello del canale. Il fiatone e la stanchezza furono ignorati in favore di una scalata della fontana nella piazzetta. Si schizzarono con l’acqua torbida della vasca della fontana, e poi alla fine Deon si decise ad acchiappare la rossa, afferrandola per la vita, e finirono uno addosso all’altro contro il muro di un vicoletto, con un micio randagio che scappò via per lo spavento, rovesciando un sacchetto dell’immondizia.

Restarono a fissarsi con i volti a distanza di bacio mentre si riprendevano dal fiatone. Poi Deon si scansò e si guardò addosso. Guardò lei. Erano bagnati a chiazze. La maglietta e i jeans di lui, il vestitino azzurro di lei. Davanti a tale spettacolo, i due bambini scoppiarono a ridere di gusto e finirono per abbracciarsi, ridendo, come amici di vecchia data.

Rientrò in casa proprio quando si accesero i lampioni. Era ora di cena, lo sentiva dai gorgoglii del suo stomaco. Una volta in casa cercò di nuovo qua e là, ma la casa era ancora vuota. Aprii il microonde ma era vuoto anche quello. Si guardò intorno mentre rimuginava. Poi si guardò addosso e decise che, nel frattempo che aspettava di cenare, avrebbe potuto per lo meno darsi una sistemata. Entrò nel bagno e si tolse la maglietta. Mentre si slacciava le scarpe non fece caso dapprima alla lampada del bagno che lampeggiò come a voler fallire da un momento all’altro. La seconda volta che lampeggiò, Deon ci fece caso e si congelo sullo sbottonare i pantaloni, con lo sguardo verso la lampada. La fissò con il sopracciglio alzato, curioso e sospettoso, e poi quando il bulbo brillò più forte del solito, Deon sollevò una mano per farsi scudo dalla luce, che continuava comunque ad oscillare tra lieve e forte.

La situazione precipitò quando Deon sentì un rumore lontano ma poco promettente, come un rantolo. Il cuore prese a battere veloce e anche il respiro crebbe. Il rumore doveva venire da fuori il bagno, così, tremando, allungò titubantemente la mano alla maniglia e la girò, aprendola. La luce del bagno cessò all’istante, mentre si accese quella del corridoio, ben oltre le sue capacità, illuminandolo a giorno, ma la luce non arrivò su Deon, rimasto nell’ombra di un colosso che gli si parava davanti. Deon restò immobile a guardarlo, ma poi si rese conto che non si trattava di suo padre, perciò cominciò a gridare…

 

“Ciao Cleo”

“Giorno, capo”

Jam sbucò fuori dal retrobottega con una sigaretta tra le labbra ancora non accesa. Recuperò l’accendino proprio dal retrobancone dove Cleo preparava i caffè, e la accese, ignorando palesemente il cartello del divieto di fumare alle loro spalle.

“Hai già fatto i carichi per oggi?” chiese Jam.

“Sì, già fatto tutto. Stamani è stata tranquilla”

“Ah, bene. Meno male. Non avevo voglia di fare un cazzo” ridacchiò Jam.

“A parte quello che dice il giornale...” disse in maniera disinteressata ma provocatoria Cleo.

Jam si voltò a guardarla, incuriosita e sospettosa.

“Che intendi?”

“Leggilo. È lì” con un cenno della testa, Cleo indicò il giornale sul bancone. Jam sorpassò la barista per andare a recuperarlo.

“Parla del babbo del tuo fidanzatino”

Jam afferrò il giornale piegato mentre rispose alla barista.

“Fai meno la simpatica, Cleo, o ti spedisco in Egitto”

“E dove la trovi poi una che ti sopporta?”

Jam aveva il sorriso complice, pronta a ribattere alla barista, ma ormai aveva già buttato lo sguardo sull’inserzione in prima pagina:

 

Padre si impicca in cottage di famiglia

 

Jam rimase sbigottita a fissare l’inserzione. Poi, insazia, spalancò il giornale e cercò l’articolo intero. Quando lo trovò sistemò il giornale nel suo intero sul bancone, fregandosene di rubare posto ai pochi clienti presenti.

“Così magari se lo affidano a qualche servizio, ce lo togliamo di torno quel nanerottolo” commentò Cleo servendo una birra. Jam la fulminò con lo sguardo, poi, ancora insoddisfatta, si portò via il giornale goffamente e sparì in retrobottega.

Più tardi suonò il citofono del portone 11 in Rue du Marché. Suona, suona, suona. Nessuna risposta. Con il cellulare compose un numero…

“Pilar! Ascolta!”

Cercò di non litigarci ma fu difficile.

“Lasciamo perdere quella storia, OK? Ne parliamo un’altra volta, ti volevo chiedere una cosa urgente!”

Alla fine riuscì a farsi ascoltare.

“Sai mica dove ha il cottage, Hathaway, il babbo di Deon? Deon! Il ragazzino che viene sempre al Pub? Sì, lui. Dove? Ahahn… OK. OK, grazie, Pilar.”

A quel punto cercò di chiudere frettolosamente la telefonata nonostante Pilar provasse a tenerla al telefono.

Una volta ottenuto quello che voleva, Jam si mise alla guida. Uscì dal paese. Procedette per le fattorie. Alla fine trovò il cottage di Hathaway, lungo la via alberata Rue des Fleures, ma non poté neanche entrare nel vialetto perché una volante della Gendarmerie ne bloccava l’accesso. In un sospiro, Jam parcheggiò sul ciglio della strada e scese dalla spider. Si avvicinò alla volante dove un agente stava prendendo appunti con il quaderno sul tettino, nel frattempo che teneva a bada i due unici vicini degli Hathaway, un uomo e una donna in carne, che abitavano un centinaio di metri più avanti.

“Hey Maurice!”

Jam interpellò il gendarme. Lui le si rivolse infastidito.

“Jamael! Che ci fai da queste parti? Non ti facevo tipo di campagna…”

Ah, Ah, divertente. Cos’è successo qua?”

“Non hai letto il giornale stamani?”

Maurice adocchiò i due vicini e poi puntò la penna distrattamente verso il cottage, nel cui vialetto era parcheggiata un’altra volante, un furgone, e un uomo grassoccio stava uscendo proprio ora dalla porta d’ingresso assieme ad un collega smilzo.

“Hathaway s’è impiccato. Il medico legale ha detto che probabilmente l’ha fatto l’altro ieri”

L’altro ieri?

Il gendarme annuì disinteressato e con ironia. I vicini erano preoccupati e Jam cercò di contenere lo sbigottimento. Si mise le mani sulla pancia, come se stesse avendo dei contorcimenti di budella.

“Tutto apposto, Jam?”

“Sì, sì. Soffro un po' d’ansia, con lo stress”

“Beh sì, immagino. Con la gentaccia che gira al pub…”

Jam lo fulminò poi sentì la voce del commissario e così superò il gendarme e la sua volante per incrociare l’uomo grassoccio, ignorando l’ordine — intimato più ad avvertimento — del gendarme di non procedere oltre.

“Commissario!”

“Jamael. Non ho tempo di parlare del—”

“No, commissario, non si tratta della sparatoria”

“Allora mi lasci passare, ho da tornare a Plestin”

Il commissario si fece strada oltre Jam con prepotenza, ma lei gli si affrettò dietro, arrivando alla sua volante.

“Si tratta del figlio di Hathaway”

Il commissario si bloccò e si girò a guardare Jam, improvvisamente interessato.

“L’avete trovato?” chiese lei. Jamael aveva paura di sentire la risposta, già la anticipava. Il commissario la tenne sulle spine, sicuramente pensava a cosa dirle e cosa no, ma per Jamael fu una vera e propria tortura. Alla fine il commissario disse la sua.

“No. Abbiamo ragione di pensare che sia scappato. L’ha già fatto in passato, no?”

“Sì, l’anno scorso… In Inghilterra”

Jamael era evidentemente scossa. Il commissario tirò un sospiro e aprì la portiera dell’auto.

“Senta, Jamael. Se ci tiene tanto al ragazzino, mi faccia sapere se scopre qualcosa, e se si presentasse da lei, mi chiami subito…”

L’uomo s’infilò nell’abitacolo, e poi allungò un braccio per passare a Jam il suo biglietto da visita. Jam lo prese e gli diede un’occhiata, rimuginando però ad altro.

“Probabilmente è solo scappato dopo essere rimasto scioccato. Lo troveremo, stia tranquilla”

Jamael rispose con un sorriso forzato e poi osservò l’uomo mettere in moto e fare manovra per uscire, dovendo coinvolgere il collega per farsi fare spazio per uscire.

Tornata al Pub, Jam ignorò Cleo al bancone e andò direttamente nel retrobottega. Cercò a lungo, facendo un discreto baccano, e poi tornò in sala con un borsone pieno di quotidiani vecchi. Lo poggiò su uno dei tavoli e cominciò a tirarli fuori uno ad uno. Lanciò solo brevi occhiate ad ognuno, non interessata a leggerli. Dopo un po', Cleo si prese un attimo di pausa per aggirare il bancone e avvicinarsi al tavolo, incuriosita dal fare strano di Jam.

“Capo, che stai facendo? Sei finalmente sbroccata del tutto?”

“Sta’ zitta, Cleo!”

La lasciò senza parole.

“Se non hai intenzione di aiutarmi, levati dai piedi”

“OK. Cos’è che cerchi?”

Jam continuò a passare in rassegna ogni quotidiano, e rispose distrattamente.

“Un vecchio giornale inglese che sono sicura di… Aver messo qui… Da qualche parte…”

“Ma quale, quello dove il Puffo Sbiadito quasi quasi ci lasciava la pelle?”

Cleo ottenne la piena attenzione di Jam.

“Non l’hai messo in quel casino. Te lo dico io. Da come ne parlavi, c’avrai fatto una cornice da appendere al muro”

Jam fece una smoria infastidita e si alzò, abbandonando la pila di giornali, e se ne andò via dal locale. Cleo rimase lì a sua volta infastidita di dover rimettere a posto.

 

“Che vuoi dire, sparito?”

La voce di lui era sempre stata rassicurante e lo era anche adesso. Jam tirò un sospiro di sollievo mentre si sistemava sul divano, con le chiavi ancora in mano. Il gatto non aspettava altro che salirle sulle cosce, e lei non fece nulla per impedirglielo, già stanca come fosse sera.

“Matt! Era nel pub solamente ieri a pranzo! Secondo il medico legale, Hathaway era già morto. Quindi… Deon è sparito tra ieri pomeriggio e stamani. Non s’è presentato a scuola”

“I poliziotti che dicono?”

“Il commissario dice che sarà sicuramente scappato dallo spavento”

“Beh, mi sembra una cosa plausibile, no? Vedrai che spunterà fuori. Deon è il tipo che se ne va in giro, lo sai pure te meglio di me”

Matt si sedette accanto a Jam e le infilò il braccio dietro il collo.

“Lascia che se ne occupino loro. Sei già abbastanza stressata di tuo. Loro sanno quello che fanno”

“Sì, hai ragione”

Jam e Matt si rilassarono sul divano per un po'. Poi, mentre Matt scaldava un caffè, Jam rovistò nel ripostiglio.

“Cosa cerchi?”

“Niente…”

“Jam!”

“Sto cercando un giornale inglese”

“Ma ancora con la storia di Deon?”

“No, No!”

Jam fece un gran baccano nel ripostiglio, ma alla fine riemerse con il bottino tanto bramato. Lo schiaffò sul tavolino in cucina e Matt le servì il caffè, poco contento di aver a che fare con una donna persa nel suo mondo.

“Cosa stai cercando?”

Nessuna risposta. Ma Jam alla fine trovò quello che cercava, e Matt fece il giro del tavolo per leggere bene anche lui, incuriositosi.

“’Scompare bambino dopo gita al mare’”

Jam si sorprese che Matt stesse a sua volta leggendo, così lo adocchiò e poi continuarono entrambi a leggere. Matt ad alta voce.

“’Deon S. Anderson, 7 anni, è scomparso ieri nei pressi della spiaggia di Cam Towan, durante una gita con i genitori adottivi Amanda e Thomas Anderson. Le autorità hanno avviato una ricerca della zona e la guardia costiera si è impegnata a setacciare le acque che bagnano il paese, le ipotesi per il momento sono molte, bla bla bla…’”

“’Il sergente Paul O’Neil, della forza poliziesca bla bla bla, ha suggerito che potrebbe essere annegato dopo una caduta dalla scogliera…’”

Entrambi si guardarono preoccupati.

“’I coniugi Anderson hanno completato le pratiche dell’adozione soltanto lo scorso Maggio; Amanda, la madre adottiva, ha raccontato alla stampa, in una maschera di lacrime, i problemi con il matrimonio e la battaglia per l’affidamento di Deon’”

Matt si fermò. Prese fiato, e si rivolse a Jam con confidenza.

“Ma tu le avevi lette tutte ‘ste cose?”

“Sì, ma giusto così, velocemente. Quando è successo, cos’era, l’anno scorso? Me lo disse Luc, che lo sentiva più spesso di me, e allora presi il giornale”

“’O’Neil non ha escluso la possibilità che il bambino possa riapparire di sua spontanea volontà.’ Vedi? Non è detto. Potrebbe rifarsi vivo.”

 

“Sofie! Dove l’hai presa quella?”

La bimba roscia, beccata in flagrante con una radiolina gialla e nera tra le mani, alzò lo sguardo verso la madre, rossa anche lei, e con occhietti innocenti le rispose che gliela aveva data un suo amico.

“Come si chiama il tuo amico?”

Sofie non rispose, sorrise soltanto, imbarazzata.

“Ho capito… Non gliel’hai chiesto, eh?”

Sofie voleva ridere, ma si trattenne, stringendo invece la radiolina come fosse un peluche.

“La prossima volta chiediglielo. Non è bello essere amici di una persona che non sai come si chiama”

Sofie strinse le labbra tra loro in una smorfia e annuì, e la mamma la lasciò stare. Poi si concentrò di nuovo sulla radiolina e la accese. L’aggeggio cominciò a gracchiare di tanto in tanto. Interferenze forse.

“Valkyrie! Valkyrie! Sei lì? Come funziona questo coso?”

 

Qualcosa gracchiò. Non era vicino ma non era neanche lontano. Deon aprì gli occhi. Aveva freddo ed era buio ed umido. Non era per niente un bel posto quello, puzzava di polvere e di abbandono.

Qualcosa gracchiò di nuovo. Deon gemette. La paura saliva man mano che lui riprendeva i sensi. Non fece in tempo ad arrivare al panico, però, perché riconobbe il fruscio della radiolina. Dov’era, però? Non era certo in vista, riusciva a vedere solamente una stanza di medie dimensioni, sgrombra, quattro mura semplici, cementate, fredde e squadrate, un ambiente per nulla ospitale o familiare, più una prigione, senza finestre né porte. Il fruscio andava e veniva, ma Deon non sapeva dove guardare.

“C’è nessuno?”

La sua voce riecheggiò tra le mura in una maniera atipica che gli ghiacciò il sangue. Era come l’eco venisse assorbito al primo rimbalzo, come se le mura si nutrissero della sua voce.

“C’è nessuno?”

Era fastidioso parlare, sentire quel lugubre effetto di riverbero. Decise di tacere. Passeggiò intorno alle mura. Dopo tre angoli, finalmente trovò il primo dettaglio di spicco: una grata. Sembrava robusta abbastanza da resistere alla forza di un bambino come lui, ma di sicuro, se fosse riuscito nell’impresa di aprirla, o sfondarla, sarebbe potuto passare di lì. Si accovacciò per sbirciare attraverso la grata. Si trattava di una serie di alette di metallo orizzontali orientate verso l’alto, dalle quali filtrava aria viziata dalle viscere del muro. Oltre le alette riusciva a malapena a mettere a fuoco una seconda grata di metallo, una vera e propria rete che mai avrebbe potuto sfondare. In un sospiro si scoraggiò e si lasciò scivolare a sedere, cominciando a singhiozzare.

“Valkyrie!”

Stavolta riuscì a sentire bene la radiolina. Era una voce femminile di sicuro. Giovane. Un coetaneo? Si alzò in piedi.

“Sofie!”

Esultò poi. Si guardò intorno, impaziente, ma non sentì più niente.

“Sofie?”

Restò lì in attesa per un po', ma poi si lasciò scivolare di nuovo a sedere a piagnucolare. Non aveva finito di esaminare la stanza, però. Gli mancava un angolo. Per distrarsi dalla tristezza e dalla paura decise di farlo adesso, così si alzò e procedette quasi al buio fino a trovare il muro. Lo scandagliò e trovò una porta. Girò la maniglia ma non c’era niente da fare, era chiusa a chiave. Provò a forzarla tirandola a sé ma non aveva lontanamente la forza necessaria. In un sospiro si scansò dalla porta e tornò a sedere al centro della stanza. Quando si calmò, e scese il silenzio, cominciò a sentire strani rumori che lo facevano spaventare.

“Non è reale” si disse. Poteva sembrare un grosso ragno che correva sul pavimento, o solo la sua fobia che gli metteva ansia. Oppure i rantoli nel muro. Anche quelli lo mettevano in paranoia. Provò a non pensarci e si rannicchiò in posizione fetale.

 

Spazientita, Sofie spense la radiolina e la ripose nel cassetto vuoto del comodino. Aveva i compiti da fare, ma la sua mente vagava fuori dalla finestra, i suoi pensieri altrove. Aveva provato ad abbellire la stanza con una foto sul comodino, ma rimaneva ancora troppo spoglia per sembrare la cameretta di una bambina.

Stufatasi di fare i compiti, poi, Sofie uscì fuori a giocare nel cortile. Si sedette sull’altalena ma non riuscì a trovare la voglia di spingersi con energia, così si lasciò dondolare mentre rimuginava.

“Dai, vai a giocare con tua cugina!” disse la mamma di Sofie al ragazzino, che si avvicinò all’altalena.

“Hey!” s’introdusse lui, ma Sofie non lo considerò.

“Vuoi giocare?” chiese lui, sedendosi al seggiolino accanto. Lei gli lanciò un’occhiata, ma poi fece no con la testa, visibilmente disinteressata. Lui si scoraggiò e sospirò, e la mamma di Sofie tornò in casa.

D’un tratto, Sofie si sporse sulla spalla del cugino per bisbigliargli.

“Didier! Mi serve il tuo aiuto!”

 

Sofie suonò per l’ennesima volta al portone 11 di Rue du Marché, sotto “Frostera” ma nessuno rispose né aprì il portone.

“Non c’è, dai!”

“Aspetta!” insistette Sofie.

Suonò ancora, ma nessuno venne mai a rispondere o aprire il portone.

“È ovvio che non c’è” disse Didier.

Sofie era abbattuta, ma poi prese coraggio di nuovo.

“Che vuoi fare?” chiese Didier.

“Proviamo casa sua!”

“Ma io pensavo che fosse questa casa sua!”

Sofie fece strada sul marciapiede di Rue du Marché. Si stava per far sera.

“No, qua ci sta la nonna. Deon sta fuori a Rue des Fleures, è un cottage”

“Rue de che?”

“Tu segui me”

Camminarono fino al tramonto e alla fine arrivarono al cottage. Una volante bloccava il vialetto e il gendarme faceva la guardia nell’abitacolo. Sofie e Didier si nascosero dietro il tronco di un albero. Sofie tirò fuori la radiolina e la accese.

“Lo stanno già cercando, non hanno bisogno di noi! Meglio se torniamo a casa o ci mettono in punizione”

“Shhh!” ordinò Sofie, tutta presa dalla radiolina. Attese il silenzio del cugino e poi prese parola.

“Valkyrie, sei lì? Valkyrie! Mi ricevi? Passo!”

Didier la osservò scettico ma incuriosito allo stesso tempo. Attesero impazienti entrambi ma nessuna risposta arrivò. Didier sospirò, ma Sofie non si diede per vinta e riprovò sul prossimo canale.

“Ma quante volte devi prova—”

“Shhh!”

Sofie posò l’indice sulle labbra. Didier stavolta capì.

“Valkyrie! Ci sei? Sono Chiomarossa! Rispondi!”

Continuò a provare su tutti i canali.

“Ma quanti ce ne sono?” chiese Didier.

“Otto”

Didier sbuffò.

 

Deon aprì gli occhi. Aveva di nuovo sentito quel rantolo strano provenire dai muri, ma non sapeva dove collocarlo esattamente. Si alzò e passeggiò in tondo alla ricerca del suono. Poi, all’improvviso, qualcosa gridò nella stanza, tanto vicino da sembrargli accanto a lui, e di riflesso anche Deon urlò, più per il fastidio della voce stridula e per la sorpresa che non per la paura. Non aveva ancora idea di cosa fosse. Il grido cessò e anche Deon tacque, con il fiatone e il cuore in gola. Accortosi dell’improvviso silenzio, decise di trattenere il fiato quanto poteva, per riuscire a sentire meglio. In effetti poteva sentire dei passi, ma chi poteva esserci lì con lui? La stanza era praticamente blindata e aveva già controllato, era vuota. Poi ci arrivò… La porta. Le mani alla bocca, sbigottito, inorridito. La paura era salita e si era fatta sentire. I passi si facevano sempre più vicini. Si aspettava di sentire la porta venir abusata in qualche modo, e infatti sobbalzò quando qualcosa o qualcuno la sbatacchiò di cattiveria facendola traballare. Questo essere possedeva sicuramente la forza per sfondarla, e sicuramente anche quella di sfondare lui. La paura di ritrovarsi a dover affrontare chissà cosa a mani nude lo spinse a cercare istintivamente qualcosa con cui difendersi. Portò le mani alla vita, ma non trovò la cintura di batterie, bensì l’elastico delle mutande. Portò le mani al plettro solare ma non trovò la conchiglia del ciondolo, bensì il tessuto umido della maglietta, la stessa con la quale aveva giocato tutto il giorno con Sofie. Ripensando a Sofie, si strinse nella maglietta, sperando di sentire il suo odore, immaginarla vicino, accanto a lui, a fargli compagnia, a dargli coraggio. Ma Sofie non c’era. C’era solo quella cosa che sbatacchiò di nuovo la porta di cattiveria, e Deon urlò, e le lacrime cominciarono a scendere.

 

“Hai sentito?”

“Cosa?”

Sofie era in attento ascolto. Si stava facendo buio. Il gendarme ascoltava la musica a basso volume in macchina mentre mangiava un take-away. Non era lo stesso, era il sostituto. E i due ragazzini invece si erano seduti accanto a quel tronco d’albero ed avevano aspettato tutto quel tempo. E ora finalmente qualcosa…

“Cos’era? Una voce?”

“Non lo so!” rispose Sofie, incerta e preoccupata.

“Ma sembrava stesse urlando!”

Seh, ora!”

“Ti dico di sì!”

“Secondo me sono interferenze…”

“Shhhh! Senti!”

Restarono in ascolto. Nel fruscio e nei rigurgiti elettronici, qualcuno stava piagnucolando. Qualcuno di piccino e di spaventato.

“È lui! Sono sicura!”

“Ma lo conosci appena!”

“Ti dico che è lui! Non può essere lontano!”

“Sofie… Dobbiamo tornare a casa, è tardi!”

“Ancora un altro po'!”

Didier sospirò spazientito. Già anticipava la cazziata.

Attesero ancora. E ancora. Ma niente.

“Sofie! Dobbiamo andare!”

Sofie sbuffò, ma dovette dar ragione a Didier stavolta. Si alzarono e si allontanarono dal cottage. Il ritorno fu al buio, e al vento. Cominciò anche a schizzettare. Non era inusuale, ma faceva comunque paura.

“Sbrighiamoci, ho i brividi!” ammise Didier.

“Fifone!” replicò Sofie.

Giunti a metà percorso, sentirono un fruscio nella boscaglia al lato della strada. Si bloccarono. Didier guardò la strada alla ricerca di fari di macchine, ma l’unica luce a disposizione era lo schermo del suo cellulare.

“Sarà un coniglio” disse Sofie riprendendo a camminare.

“E se non lo è?”

“Dai, Didier, mamma mia, come sei fifone!”

Le frasche frusciarono di nuovo, con più brio. I bimbi si congelarono dal terrore. Se c’era qualcosa, era qualcosa di grosso.

“S-sarà il ve-vento?” suggerì Didier. Sofie rimase paralizzata. Si strinse al cugino, che tutto sommato aveva comunque un paio d’anni più di lei, e cominciò a tremare.

Qualcuno stava smuovendo le frasche con decisione, ma i bimbi non sapevano in che direzione esatta, con il vento che muoveva tutte le frasche in maniera indistinta. I bimbi cominciarono a muoversi lungo la strada, con cautela. Poi cadde davanti a loro una pigna che li colse di sorpresa e, gridando, corsero via, disperdendosi nella boscaglia. Si separarono inavvertitamente e Sofie si perse al buio più totale.

“Didier! Didier!”

Chiamò, chiamò, ma Didier non rispose. Procedette terrorizzata per un po' ma era sicura che continuare al buio senza idea di dove stesse andando l’avrebbe fatta addentrare ancora di più nel bosco, così si fermò. Proprio in quel momento, dalle frasche, qualcosa emerse fuori, una sagoma più alta di lei, che le si pose davanti prima che potesse anche solo prendere aria per gridare. Quando effettivamente gridò, era troppo tardi, la cosa l’aveva già presa. Il grido le morì in gola.

Didier rimase pietrificato.

“Sofie! Sofie!”

L’aveva sentita gridare ma poi si era zittita. Brutto segno. Con il telefono provò a illuminare il bosco ma non era sufficiente. Cominciò a piangere. La situazione stava degenerando. Decise che era ora di darci un taglio. Tolse la torcia e tornò alla schermata principale del telefonino per comporre un numero, ma poi si accorse di non avere segnale per chiamare.

“No! No, no, no, no, NO!

Si guardò intorno paranoico. Le frasche erano minacciose.

“Sofie!”

Niente, Sofie non rispondeva più.

Le frasche poi frusciarono in sua direzione. Didier si congelò. Le sentì di nuovo e così si voltò di scatto. Ancora una volta. Allora si adoperò goffamente con il telefono per riattivare la luce, ma gli cadde di mano e finì nell’erba, sparendo all’istante. Didier piagnucolava mentre andava a tastoni in ginocchio per cercarlo, ma poi si fermò perché si sentì fronteggiare da una sagoma enorme, una presenza dominante. Poteva sentire i suoi passi fermarsi davanti a lui. Gli si fermò il respiro, e il cuore pareva volergli uscire dalla bocca. Stava per prendere aria per un grido quando l’essere gli accese una torcia in faccia, accecandolo, costringendolo a coprirsi per il fastidio. Quando si scoprì, Didier, che tremava, scoprì che si trattava di una donna, vestita da motociclista, e accanto a lei c’era Sofie, avvinghiata, che aveva trovato protezione nella donna. La donna era mora, asiatica, e dallo sguardo duro e intransigente. Li avrebbe tratti in salvo tutti e due. Per fortuna.

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Avventura / Vai alla pagina dell'autore: ArtistaMaeda