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Autore: ale93    01/05/2017    3 recensioni
Torna tutto indietro per colpirlo. Dritto allo stomaco.
Spoiler! 12x19 | Rivisitazione di scena
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Nessuna stagione
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we live through scars (this time)
 
 
 
 
 
Deve trattenersi, per non alzarsi e andarsene. Deve combattere contro l’impulso di mettere più distanza possibile tra lui e quella stanza.
 
E non è neanche il pensiero delle ore che ha sprecato a pregare là dentro, ad infastidirlo; non è la presenza di Castiel, che il suo cervello registra meccanicamente come uno stupido intervallo di quei lunghi periodi che passa chiedendosi se sia morto, o se ne sia solo andato una volta per tutte. Se abbia trovato qualcos’altro in cui credere.
 
Non è questo. Forse solo in parte, ma all’assenza ci si fa il callo.
 
La verità è che Dean vuole allontanarsi dal silenzio, fingere che non esista. È quello a pesargli, più di quanto la mancanza di Castiel abbia mai fatto.
 
Pregarlo e non ricevere risposta è un pugno alla bocca dello stomaco che può incassare con sportività. Chiamarlo e avere solo la sua segreteria telefonica a ricordargli il suo modo di parlare è solo uno smacco. Un colpetto da nulla al suo orgoglio.
 
Niente di che.
 
Alla mancanza si sopravvive. Ti scava nella carne, ma non arriva mai abbastanza in fondo da strapparti la speranza. Una speranza insignificante, certo, di quelle che ti fanno sentire un povero bastardo ingenuo, di quelle che devi nascondere a tutti perché non ti guardino con pietà.
 
Quello da cui non si scappa è il silenzio. Quello da cui Dean non può scappare è il profilo delle spalle tese di Cas, l’attimo di esitazione che gli legge negli occhi ogni volta che prova a parlare con lui senza poi dirgli niente; niente che non sappia, niente che non sia ovvio, niente che rompa il muro di vetro attraverso il quale si guardano da anni.
 
Ma non è da Castiel che vuole allontanarsi. È stare a guardare la miseria che sono diventati, che gli dà la nausea. È questa specie di recita deprimente che hanno messo in piedi, a farlo diventare claustrofobico. Ma suppone che lo spettacolo debba andare avanti, anche se non sa il perché.
 
“Un tempo,” dice Cas all’improvviso, spaventandolo quasi, “ti fidavi di me senza fare domande, senza soffermarti sui dubbi. Credevi in me, Dean. Credevi che qualsiasi cosa io decidessi di fare, fosse per la giusta causa.”
 
Castiel punta sulla sua faccia uno sguardo vuoto, inespressivo. È tutto quello che ha da offrire. Dean si sforza di vederci del dolore, da qualche parte; anche il risentimento andrebbe bene. Sarebbe qualcosa.
 
Deglutisce. “Non mi stai esattamente dando una mano, in questo. Non so più di che cosa dovrei fidarmi.” Chiude gli occhi. Non c’è altro che potrebbe fare.
 
Perché il non detto, quell’urgenza che Dean sente sulla lingua di sbattergli in faccia che sì, sì, sì cazzo, crede in lui, conta su Castiel come non si è mai permesso di contare su nessun altro pilastro nella sua vita- tutto questo lo schiaccia e gli mette il terrore addosso. Terrore puro. Ed è quello il dilemma. Sta tutto in quell’ammasso di fiducia cieca e rimorso e tentennamenti. In quello, e nel fatto che ogni cosa che lo divora dall’interno, ogni cosa che Dean prova si schianta contro quella barriera tra loro e gli ritorna dritto nello stomaco.
 
E l’impressione che ha è che Castiel rimanga a guardarlo inerte, mentre Dean si colpisce da solo con le sue stupidaggini.
 
È questo che succede quando Cas gli allunga una cassetta sulla scrivania. Una stronzata che Dean aveva fatto finta di aver rimosso. Uno degli ultimi gesti che aveva fatto d’impulso, solo perché ne sentiva il bisogno, perché voleva. E perché Castiel lo guardava come se valesse veramente qualcosa.
 
"Penso di doverti restituire questa."

“E’ un regalo,” dice, mentre combatte con la gola ruvida. Non sa più se quello di cui ha davvero bisogno sia andarsene e lasciarsi dietro tutto, oppure sbarrare la porta e chiudersi all’interno di quella stanza. Lanciare sassi a quel muro oltre il quale nessuno di loro due riesce ad andare. “Tienitelo.”
 
Solleva gli occhi solo per trovare quelli di Castiel già piantati nei suoi. Duri, taglienti; il blu del suo sguardo scuro come se lo stesse sfidando a dirgli che non gli importa se Cas gli restituisce quel regalo inutile. Che non gli importa niente.
 
E rimangono lì, in stallo, a fissarsi in un modo che sarebbe imbarazzante per chiunque, con chiunque. Ma non con Castiel, che è sempre stato una cosa a parte. Un altro mondo. Un’altra storia. Di quelle che non racconti a nessuno, semplicemente perché non sei in grado di farlo. Nè mai lo sarai.
 
Il fatto che Castiel indichi vagamente nella direzione della cassetta senza smettere di osservarlo, come se Dean potesse sparire, gli strappa quasi una smorfia. “L’ho ascoltata all’ingresso di un parco, una volta”, dice, corrugando la fronte. “Mi sembrava di essere tornato a quel giorno sulla panchina.”
 
Respira attraverso la bocca, nel tentativo di trattenere il suo pugno dall’impattare col tavolo e di non vomitargli addosso che non è questo che vuole, non i ricordi dei bei tempi andati. “Non hai bisogno di una scenografia per parlare con me.”
 
“In quei momenti era più semplice.”
 
Dean non commenta. Vorrebbe sapere cosa fosse più semplice. Avere a che fare con lui? Parlargli? Rimetterlo in sesto e sparire di nuovo?

Il fatto è che c'è una perversa verità in tutta questa storia. A dirla tutta, sì, deve ammettere: era tutto più semplice. Per una sfilza infinita di motivi che gli affollano la testa e che non riesce mai a cogliere del tutto. Forse ha a che fare col fatto che le persone cambiano, le circostanze cambiano, e quell'abisso tra loro non si è mai rischiarato col passare del tempo: si è solo fatto più scuro e più grande.

Non dicono nient’altro per così tanti minuti che Dean potrebbe andarsene, potrebbe alzarsi e continuare a difendersi dietro la maschera dell’amico incazzato per le fughe, per la mancanza di risposte e di aiuto; potrebbe girare all’infinito intorno alla superficie della voragine e fingere che non siano sull’orlo di un buco nero da anni.
 
Quando Dean allunga una mano per restituirgli quel mixtape che gli brucia tra le dita come una patata bollente, legge negli occhi dell'altro -per la prima volta, da quando è tornato- una scintilla di tristezza.

“Hai una brutta cicatrice sul polso”, sussurra Castiel distrattamente, come se parlasse a se stesso. È un segno vecchio di qualche settimana, qualcosa che Dean ha messo da parte, come mette da parte le bottiglie di birra svuotate, i fogli scarabocchiati, i rimpianti a cui non trova soluzione. Cose inutili da analizzare, cose da lasciarsi alle spalle senza domande. “Non la ricordo.”
 
“Uno degli ultimi incontri corpo a corpo con la realtà” dice, stringendo i denti.
 
Castiel annuisce lentamente; una contrazione della sua mascella suggerisce che sta leggendo tra le righe. Sta guardando oltre la facciata. “E io non ero qui a guardarti le spalle... non è così?” È un modo di guardare alla vita così tipico di Castiel, quel passare Dean ai raggi x, vivisezionando le sue parole e i suoi sguardi e ogni cosa che lo riguardi, che lo ha sempre fatto sentire vulnerabile. Col fianco scoperto. Ora, non può fare a meno di rendersi conto che non avere quel tipo d'invadenza nel suo spazio personale lo terrorizza più di quanto non facessero le sue debolezze. Ha più paura del silenzio in quella stanza che di se stesso.
 
“Tu non eri qua e io –“ si blocca, non ha idea di come spiegarsi. Non sa gestire l'intensità di quello che sente, che lo brucia dall'interno senza risparmiare niente. Tutto quello che può fare è mettersi allo scoperto all’improvviso, solo per un momento. Via il dente, via il dolore, in fondo. “Noi non potevamo sapere che fine avessi fatto. Se fossi in una situazione ancora più pericolosa della nostra. Non ho bisogno che tu sia qua per salvarmi il culo, o per presentarmi un pacchetto già scartato e sistemato. Siamo col culo sulla stessa brace e non mi va bene avere a che fare con le tue sparizioni. Non puoi farlo. Non puoi."
 
Per un attimo, Dean pensa che ogni pezzo del puzzle possa tornare al suo posto, che possano ritrovarsi in mezzo a quelle macerie e tornare a lottare sullo stesso fronte, spalla a spalla. Per un attimo, si concede il lusso di credere che potrà mettere la testa sul cuscino e riaprire gli occhi l’indomani mattina e Cas sarà lì. Solido e reale. Non solo una preghiera disperata nella sua testa. Non solo rabbia confusa raggrumata all’altezza del petto.
 
Crede quasi di sentire aprirsi una crepa in quella lastra di vetro tra loro.
 
Si scambiano uno sguardo.

Forse potrebbero -

“Quando ho ascoltato quella cassetta al parco” mormora Castiel, respirando attraverso la bocca, “ho capito... ho capito che credevi nelle mie scelte perché facevo la cosa giusta. Io ho bisogno di fare la cosa giusta, Dean. Devi capirmi.”
 
Afferra il mixtape ed esce di scena. Semplicemente.

Dean resta a guardare il vuoto tra gli stipiti della porta, gli pare quasi di vedere un buco a forma di Castiel su quell’uscio.
 
Come diceva. Torna tutto indietro per colpirlo. Dritto allo stomaco.


 

*

We always knew this day was coming, and now it's more frightening than it's ever gonna be.








 
Note: I versi citati nel testo e nel titolo appartengono a James Bay e alla sua canzone "Scars".

 
 
 
   
 
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