Zoppicava
ancora. Un medico aveva ricucito la ferita, ma lo aveva avvertito che
probabilmente non avrebbe mai più ripreso a camminare
normalmente e poi aveva
iniziato un lungo monologo sul perché, quali danni la ferita
aveva inferto,
cosa era stato danneggiato, ma lui aveva già smesso di
ascoltare. Non gli
importava. Non importava se ancora zoppicava, se avrebbe zoppicato per
tutto il
resto della sua vita. Avrebbe avuto la testa di quell’animale
sulla sua parete
dei trofei e questo avrebbe ripagato tutto. Maledetta bestia,
l’avrebbe
catturata finalmente.
Fece
un cenno ai suoi nuovi, decisamente più numerosi, uomini,
immobilizzandosi a
sua volta. Molti del villaggio si erano offerti di aiutarlo nella sua
caccia
contro la bestia che minacciava i loro figli e le loro figlie.
La
bestia? Si è
avvicinato così tanto al villaggio?
Era
bastato che gonfiasse un po’ la verità, la storia
di come il mostro lo aveva
ferito a sangue freddo, di come aveva progettato di andare al villaggio
e
divorarne gli abitanti, di come i suoi occhi erano iniettati di sangue,
le sue
zanne armi spaventose.
Aveva
sentito qualcosa. E, appena qualche metro avanti a loro, vide due occhi
gialli
scintillare minacciosi. Ma la bestia, invece di attaccarli, si
voltò, dando
loro le spalle e si allontanò pacatamente. Pregustando
già la gloria che lo
avrebbe accolto una volta tornato al villaggio con la testa del mostro
che
aveva ucciso completamente da solo, si avviò dietro la
bestia, distanziandosi
dagli altri, il fucile pronto. Alcuni passi dopo, la belva si
fermò,
fronteggiandolo. Poco oltre svettava il castello che una volta era
stata la sua
abitazione, ora desolato, distrutto, nient’altro che una
rovina. Non sembrava volersi
difendere, immobile sulle quattro zampe. Il suo aspetta era peggiore di
quanto
ricordasse e così quegli occhi gialli iniettati di sangue.
Puntò i piedi a
terra e, sollevato il fucile, prese la mira.
Rideva. Era una
bambina, avanzava tentennando senza pattini sul ghiaccio, tenendosi al
bordo
per non cadere e rideva. Suo padre doveva essere lì, poco
distante da lei,
nell’altro sogno lui era lì con lei, ma quando
alzò lo sguardo, sul ghiaccio,
nella notte, c’era solo una bestia. La guardava, immobile
sulle quattro zampe,
respirava piano e il sorriso le morì sulle labbra.
A lungo guardò la
bestia, ma quella non attaccò.
-Perché
nessuno mi ha svegliato?-
Maurice
rise, guardando i capelli scompigliati e gli occhi ancora assonnati, il
mago,
invece, non alzò gli occhi, intento a preparare la cena.
-Ho
sognato una bestia-
-Davvero?-
Annuì. –Era
sul ghiaccio, come mio padre-
-Mmm-
assaggiò il contenuto della pentola, storcendo appena il
naso e aggiungendovi
qualcosa. –Paragone
interessante. E..
cosa faceva?-
Esitò,
riflettendo. –Aspettava-
Così,
ancora una volta, pensò che quell’uomo vedesse
molto più lontano di quanto non facessero
i suoi stessi sogni.
-Mamma?- sussurrò,
aprendo la prima porta. Poi la seconda.
-Christian? Dominic?-
si guardò intorno, scrutò oltre la ringhiera,
raggiunse la soglia delle scale.
Un ringhio alle sue spalle la fece sobbalzare, si voltò di
scatto,due occhi
gialli brillavano nel buio, lasciò la presa sul legno scuro,
inciampò, la terra
mancò sotto i suoi piedi. Cadde, ruzzolò per le
scale, urlando, ogni gradino le
feriva le gambe, la testa, le braccia alzate a proteggere il volto.
Finalmente
a terra, distesa sulla schiena senza forze, scombussolata,
probabilmente
ferita, sollevò lo sguardo sulla cima delle scale.
Lì, immobile nel
buio, le zampe anteriori posate sul primo gradino, c’era una
bestia. Gli occhi
gialli lampeggiavano, guardandola. Ma non l’aveva inseguita,
non ringhiava. Era
lì, immobile.
Chiudeva gli occhi e
li riapriva all’aperto, al freddo, il sole pallido che la
riscaldava appena
attraverso le fronde degli alberi sopra di lei, la neve si stava
lentamente
sciogliendo sotto il suo peso, in una macchia sempre più
scura. Qualcuno la
teneva stretta tra le braccia, ma non ne vedeva il volto, vedeva solo
le foglie
che ondeggiavano, lentamente, mosse da un vento leggero. E lei aveva
freddo,
molto freddo.
Aprì
gli occhi, vide la luce ancora tenue del mattino fare capolino dalla
finestra,
riscuotendola dal torpore e si mise in piedi, vestendosi velocemente ed
uscendo
dalla casa.
Non
aveva dato a quell’ultimo sogno molta più
importanza di quanto non ne avesse
dato ai precedenti; sapeva di aver già sognato qualcosa di
simile in effetti,
ma non ricordava altro. Ciò che più la assillava
negli ultimi giorni, però, non
erano i suoi sogni, per quanto bizzarri.
Cosa
c’è qui che lì
non c’era?
Quando
il mago le aveva posto questa domanda, aveva pensato che le stesse
semplicemente chiedendo se le mancasse casa sua, ed era
così. Le mancava
terribilmente. Dominic sarebbe stato sconvolto, Christian avrebbe
sospettato
qualcosa, probabilmente, e forse si stava chiedendo come tornare in
quel mondo
per riportarla indietro, di nuovo. E sua madre.. beh, era sparita due
volte
nell’arco di un anno, sarebbe stata distrutta.
Avrebbe voluto essere lì, stringerla forte, rassicurarla e
dirle che era tutto
a posto, che lei stava bene. Non ne era stata in grado, fino ad allora.
Non
aveva potuto strapparle via dalla mente il dolore e i ricordi e
l’odiosa
nostalgia che spesso le oscurava il viso; si era limitata a starle
accanto,
accettando l’idea che non avrebbe mai potuto comprenderla
come invece facevano
i suoi fratelli. Ma neanche adesso poteva, no? Era lontana da casa,
dalla sua
famiglia e..
Cosa
c’è qui che lì
non c’era?
Aria.
Ecco cosa c’era. Fresca e pura e ristoratrice. Respirava. Per
la prima volta
respirava.
Si
fermò, prendendosi il tempo per inspirare a pieni polmoni e
sentire l’odore di
pino che negli ultimi giorni l’aveva sempre accompagnata
nelle lunghe
passeggiate con cui cercava di far passare il tempo. Si sedette sulle
radici di
un albero e il suo sguardo cadde sulla terra secca e scura. Nel suo
sogno c’era
la neve, ma mancava ancora molto all’inverno. Nel sogno lei
stava.. morendo,
no? Sarebbe successo d’inverno? No, non era quello, aveva la
netta sensazione
che la neve non indicasse il momento, ma fosse una specie di
similitudine.
E,
nonostante non avesse dato particolare peso a quel sogno, si era
trovata a
raccontarlo a Maurice, senza neanche capirne il motivo. Quella stessa
sera,
mentre rientrava nella casa del mago, li aveva sentiti parlare, ignari
della
sua presenza appena oltre la porta.
-Adam
mi ha raccontato di quel sogno, ma entrambi pensavamo che fosse ormai
un
pericolo lontano, visto quanto è accaduto-
Il
mago sembrava tranquillo, come sempre d’altronde. –Ma lei lo ha
sognato di nuovo-
Aprì
la prima porta,
aspettandosi di trovare la stessa stanza vuota dell’ultima
volta e, invece, la
camera era piena di oggetti, mobili, quadri, tutti distrutti e raccolti
lì per
essere dimenticati. Avanzò con attenzione, raggiunse uno dei
pochi ritratti
ancora appesi alla parete e allungò la mano per tenere
insieme la tela ferita.
Sembrava quasi che fosse stata squarciata da artigli molto affilati,
eppure non
c’era niente nell’uomo rappresentato che potesse
spiegare un tale odio. Guardò
a lungo il suo viso, gli occhi azzurri, i capelli bruni, ma poi una
luce tenue
richiamò la sua attenzione, allontanandola dal quadro e
attirandola verso un
piccolo tavolino rotondo proprio davanti al balcone chiuso. Su di esso,
coperta
da una cupola di vetro, brillava una rosa. Sembrava rimanere dritta da
sola,
poggiata sulla base dello stelo sottile. Sollevò la teca e
ne sfiorò i petali
lisci con le dita, esitante. Come poteva brillare in quel modo?
Sembrava
ricoperta di una rugiada simile a piccoli diamanti. Strinse lo stelo
per
prenderla e sentirne l’odore, ma si punse e la
lasciò ricadere subito, con un
lamento di dolore. Tornata magicamente al suo posto, Belle la
coprì nuovamente
e uscì in fretta dalla stanza, con la strana sensazione che
non dovesse essere
trovata lì.
Si avviò verso la
seconda porta e scoprì che anche questa, come la prima, non
era più vuota. Al
centro della stanza spiccava un piccolo tavolo di legno e, oltre, una
donna
dagli occhi chiusi e
le labbra
orrendamente cucite insieme se ne stava seduta con le mani poggiate sul
tavolino, il dorso rivolto verso l’alto. Si
avvicinò, sedendosi di fronte a lei.
Sembrava interamente ricoperta di polvere, quasi fosse stata
abbandonata lì
come i mobili della stanza accanto, i suoi capelli erano scuri, lunghi,
un rovo
non curato da tempo, il suo abito nero era logoro.
Non appena si fu
seduta, la donna aprì gli occhi vitrei, inchiodandola al suo
posto.
-Tu sei.. – corrugò
la fronte, cercando di ricordare.
-..
Rosaline-
Vendo
rose. Le sembrò di sentire la voce
nella
sua testa. Rose rosse. Erano bianche, ma io ho usato il
sangue per tingerle
di rosso.
-Cosa?
Aspetta..
questo me l’hai già detto, giusto? Sai cosa
significa la neve, non è vero?-
Erano
bianche, ma io ho usato il sangue per tingerle di rosso.
-Erano
bianche.. e la
neve si è tinta di rosso.. Io non capisco.. quando la neve
non sarà più bianca,
vuoi dire questo? Un momento.. il manicomio era sempre bianco nei miei
sogni..
accadrà quando ricorderò tutto, è
così?-
La donna sorrise e le
cuciture si tesero orrendamente, gli occhi vacui sempre fissi davanti a
sé, tese
il braccio sinistro e puntò l’indice verso il
pavimento. Gocce di sangue ne
macchiavano la superficie impolverata. Si alzò in piedi per
guardare meglio.
-Sai di chi sono? È
in pericolo-
Allora
salvala.
-Ma..
ma il
cacciatore non mirava a me, mirava a Leòn-
Una presa dolorosa la
fece voltare di scatto, trasalendo. Stretta attorno al suo braccio
c’era una
mano scheletrica e, oltre, un corpo putrefatto, un volto vivido di
carne morta
e ossa visibili. Urlò, ma nessun suono uscì dalle
sue labbra, il fiato bloccato
in gola.
Con gli occhi
sbarrati, guardò quelli ancora vitrei della strega e si
sentì gelare il sangue.
Il
suo nome, la sua voce era più
possente e
fredda di prima, non
è Leòn.
Strattonò
il braccio
dalla sua presa e corse via, uscendo dalla stanza e precipitandosi
giù per le
scale, il cuore che palpitava in gola e il respiro corto.
Si voltò solo un
secondo, per assicurarsi che non la stesse seguendo e fu allora che li
vide.
Due occhi gialli, proprio in cima alle scale. La bestia
ringhiò, mostrando le
zanne coperte di sangue, ai suoi piedi, un cerbiatto giaceva senza
vita, il
corpo dilaniato.
Questa volta sentì il
proprio urlo acuto, prima di scappare nuovamente via, ancora
più lontano, fuori
dal castello, il più velocemente possibile, il freddo che
riempiva i polmoni
già doloranti. Arrivò ad un lago ghiacciato, ma
continuò a correre, ignorando
il rumore del ghiaccio che si crepava sotto i suoi passi, voltandosi
ancora
una volta indietro. La bestia la stava inseguendo, era ad un soffio da
lei,
molto più veloce, i capelli le nascosero la vista, tirati
dal vento e lei sentì
un rumore sordo, il suolo crollarle sotto i piedi e cadde, sommersa
dall’acqua
gelida. Presa di sorpresa, spalancò la bocca per urlare e
respirare e..
Inspirò
di colpo, spalancando gli occhi. Scattò a sedere, portandosi
una mano al petto
e cercando di regolarizzare il respiro. Era ancora notte fonda, ma non
doveva
perdere tempo. Balzò in piedi, si vestì
rapidamente e uscì di corsa dalla
casa, addentrandosi nel bosco, senza avvertire nessuno, senza pensare a
cosa
stesse facendo, a dove stesse andando, senza badare a come dovesse
sembrare
stravolto il suo viso. Si allontanò senza voltarsi indietro
neanche una volta,
sicura che non avrebbe sbagliato strada. Un unico pensiero occupava la
sua
mente. Adam.