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Autore: Beauty    01/05/2017    2 recensioni
La tranquilla cittadina di Heaven Barrow è stata sconvolta dall'omicidio di cinque studentesse, uccise con modalità che lasciano pensare all'opera di un serial killer. L'assassino è stato riconosciuto in Brandon Douthart, un ragazzo che ha sempre condotto una vita da recluso, tanto che nessuno o quasi sapeva della sua esistenza la notte in cui fu linciato dalla folla perché riconosciuto come il brutale omicida.
Un anno dopo, Calia Jefferson, liceale schiva e poco popolare, vede la scia di sangue ricominciare, quando altre ragazze incominciano a venire uccise. A tutto ciò, oltre alla diceria secondo cui Brandon Douthart non sarebbe realmente morto - o peggio, che sia tornato dall'oltretomba - si aggiunge l'opera di un altro assassino, che tormenta le sue vittime fino a spingerle a suicidarsi o a uccidersi a vicenda.
Mentre le persone intorno a lei si rivelano più ambigue di quel che credesse, e le morti inspiegabili continuano, Calia inizia a indagare per trovare il filo conduttore in quella catena di suicidi e omicidi - e a fare i conti con un passato inconfessabile che la vede strettamente collegata a Brandon Douthart e alla sua morte...
Genere: Drammatico, Suspence, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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     Le luci dei lampioni di Sweet Alyssum Street erano già accese nonostante non fossero neppure le sette di sera. Il sole calante in lontananza gettava ombre lungo la strada deserta.
La scuola era ricominciata da tre settimane, e l'aria settembrina e le giornate sempre più corte non facevano altro che ricordarle che l'estate era definitivamente scomparsa alle loro spalle.
Tamara Bentley si strinse nel golfino color salmone che si era gettata sulle spalle coperte dalla camicetta leggera e proseguì a passo svelto e testa china. Alcune foglie morte staccatesi dagli alberi dei giardini delle villette vennero spazzate via dal marciapiede da una folata di vento più intensa delle altre. I capelli biondi di Tammie le sventolavano di fronte al viso e agli occhi in ciocche disordinate. Più di una volta, durante il tragitto verso casa, aveva pensato di fare uno strappo alla regola e di legarli in una coda per non che il vento glieli scompigliasse, ma la vergogna aveva prevalso come al solito; anche se all'apparenza in Sweet Alyssum Street non c'era nessuno che avrebbe potuto vederla, quella sera.
La via in cui abitava non era niente male, doveva convenire Tammie quando – di rado, ma le capitava – ci rifletteva: non era elegante o raffinata come Lady's Mantle Avenue ma nemmeno un postaccio sudicio e malfamato come Tulip Street – ogni volta che pensava a Calia che viveva in quel posto si dispiaceva per lei.
Sweet Alyssum Street era lo stereotipo vivente della provincia americana – tutta Heaven Barrow lo era. Si trattava di una lunga e larga strada asfaltata che correva al centro di due marciapiedi sempre puliti e dove Tammie raramente aveva avuto l'onore d'intravedere l'ombra di una lattina vuota o di un mozzicone di sigaretta, e costeggiata da due schiere di villette a uno o due piani, rigorosamente color pastello e dai giardini fioriti e ben curati tutto l'anno.
La prova che non occorreva spararsi tutte le puntate di Desperate Housewives per avere un assaggio del classico ambiente provinciale medio-borghese degli USA.
Il fatto che quella sera non ci fosse nessuno in giro non era una novità. La maggior parte degli inquilini delle villette erano coppie sposate senza figli, perlopiù medici e avvocati che dopo la giornata lavorativa cenavano in casa, oppure persone anziane che andavano a letto presto. Certo, qualche ragazzo c'era, ma chi la sera voleva uscire a divertirsi era obbligato a migrare verso zone più vivaci di Heaven Barrow, come l'Enchantress o l'Havana Nights.
Tammie continuò a camminare a passo sostenuto. Una parte di sé voleva arrivare a casa il più presto possibile, l'altra la spingeva a tardare ancora un po'.
Le venne da pensare a Calia, a papà, alla mamma che non c'era più e all'incisione sulla sua lapide al cimitero. L'aveva imparata a memoria, quell'incisione:
 
In memoria di Caroline Mary Bentley
1975-2007
Amata moglie e madre
 
La fotografia di sua madre affissa alla lapide si sovrappose prima con il volto di suo padre, poi con quello di Calia, e infine divenne una moltitudine di facce conosciute che si contendevano l'una con l'altra il posto di fronte ai suoi occhi.
Fu in quel momento che Tammie si rese conto di stare piangendo.
Smise di camminare e si tolse gli occhiali, strofinando le lenti con un lembo del golfino. Lo zaino che teneva in spalla vibrò. Tammie pensò d'ignorare la chiamata, ma poi si sfilò la cartella da dosso e tirò fuori il cellulare.
- Pronto...?- singhiozzò; si schiarì la voce:- Pronto?- ripeté con maggiore fermezza.
- Sei a casa?
La voce di Calia dall'altra parte dell'apparecchio era intrisa di una malcelata ansia mista a una punta di sollievo. Tammie riprese a camminare.
- No - rispose, asciugandosi le guance con la manica del golfino.
- Stavi piangendo?
- No.
Calia sospirò; seguì un breve silenzio.
- Se non lo fai tu, lo faccio io.
- Ne abbiamo già parlato, ti ho detto che sarebbe inutile.
- Non puoi saperlo. Per lo meno sapremmo se c'è un modo per rimuoverlo.
- C'è, ho controllato su Internet. O sei un hacker o devi avere un bel po' di quattrini da buttare.
- Questa cosa deve finire. Parlane almeno con tuo padre, o con la professoressa Penley. Se vuoi, posso dirlo a mia zia.
- Tanto anche se qualcuno lo togliesse, non la smetterebbero comunque.
La voce di Tammie ora era più ferma, risoluta. Svoltò l'angolo a passo svelto, superò la villa dei signori Osborne e si avvicinò alla staccionata che circondava casa sua. Era di legno bianco, papà l'aveva ridipinta il giugno precedente. Il prato era ben curato, e sotto a un salice piangente era sistemato il barbecue del signor Bentley, accanto a una sdraio a righe gialle e bianche.
Tammie alzò lo sguardo sul salice piangente: quando era piccola, suo padre le aveva costruito una casetta sull'albero, con il tetto rosso spiovente, una porta e una finestra. Tammie non riusciva a starci dentro in piedi, era costretta a rimanere sempre seduta o a camminare carponi, ma l'adorava, e l'aveva riempita con le sue bambole e i suoi disegni, e quando Calia veniva a trovarla ci si arrampicavano insieme e fingevano di essere due signore che prendevano il té, oppure inscenavano una fiaba.
Lei, Tammie, era sempre la principessa tenuta prigioniera. Ovviamente Calia era il cavaliere che veniva in suo soccorso.
Poi lei era cresciuta troppo anche per poterci entrare a gattoni, il legno era marcito, e papà l'aveva abbattuta e usato i pezzi per accendere il camino in soggiorno.
Tammie aprì il cancelletto proprio nel momento in cui Calia esalava un lungo sospiro.
- Sei arrivata? Ho sentito il cigolio del cancello.
- Sì, sono arrivata.
- Tuo padre è tornato?
- Non ancora.
Non c'era traccia della Cadillac del signor Bentley né sul vialetto né in garage, e le luci dentro la casa erano spente. A Tammie sembrò quasi che le gambe le diventassero più pesanti a ogni passo che percorreva verso la porta.
- Vengo da te, stasera.
- No, non serve.
- Sì, che serve. Non risolverà il problema ma potrei tenerti su il morale. Ci mettiamo il pigiama e mangiamo qualche schifezza ipercalorica mentre guardiamo una di quelle mielose commedie romantiche che ti piacciono tanto...
- Mio padre sarà a casa fra un'ora al massimo. La vista di una diciassettenne in top e pantaloncini succinti potrebbe scioccarlo a vita - Tammie si sforzò di ridere.- E poi non vuole che si facciano pigiama party infrasettimanali.
- Va bene - la voce di Calia non sembrava delusa, solo preoccupata.- Ma resto al telefono ancora un po'. Ti tengo compagnia finché non torna tuo padre.
- Ho il cellulare quasi scarico. E poi devo preparare la cena e farmi la doccia.
Dall'altra parte della cornetta arrivò un terzo, profondo, triste sospiro.
- Non hai proprio voglia di parlare, vero? Neanche con me...
- Non sei tu - Tammie si affrettò a dire; estrasse le chiavi di casa dalla tasca della gonna e le infilò nella serratura.- Devo davvero farmi la doccia. E sono stanchissima.
- E' che tu mi sei stata vicina quando...lo sai. Voglio fare lo stesso con te.
- Lo stai già facendo - Tammie sorrise, nonostante tutto. Calia era la sua amica. La sua migliore amica, la sua amica del cuore. L'unica che non le avesse mai vomitato merda addosso da quando erano bambine, l'unica che conoscesse l'Inferno che stava attraversando e l'unica che stava seriamente cercando di fare qualcosa per aiutarla.
Le dispiaceva lasciarla così.
- Lo fai già, sul serio - ripeté, imponendosi di essere risoluta.- Ho solo bisogno di...
- Che cosa?
- Riflettere, ecco. E riposarmi. Oggi è stata durissima.
- Lo so. Sei sicura che non vuoi parlare? Non necessariamente di...quello, se non vuoi. Possiamo anche chiacchierare di cose stupide, se ti va. Come ai vecchi tempi, ricordi?
Tammie ridacchiò stentatamente. Entrò in casa.
L'interno era buio, ma Tammie esitò prima di accendere la luce. Alla fine, premette l'interruttore, e la luce flebile della lampadina rivelò l'angusto atrio: un breve corridoio alla cui sinistra era sistemato un portaombrelli e alla cui destra, qualche metro più in avanti, si apriva la porta della cucina. Tammie si sfilò le scarpe da tennis e zampettò a piedi nudi fino al soggiorno, dove abbandonò lo zaino sul divano.
- Ricordo. Ma come ti ho già detto, devo farmi una doccia. Magari più tardi, che ne dici?
- D'accordo. Ti chiamo dopo cena. Solo...
- Cosa?
- Promettimi che ne parlerai con qualcuno, va bene? Se vuoi, domattina andiamo insieme da mia zia.
- Ci penserò. Ma non da tua zia, lo sai come la penso sugli strizzacervelli.
- Allora da qualcun altro, ma facciamolo. E...Tammie?
- Sì?
- Promettimi solo un'ultima cosa: non guardarlo più. Intesi? Non accendere il computer, non guardare quella merda stasera. Ti fa solo male.
- Okay.
- Allora...a dopo? Stai bene?
- Certo.
- Sicura?
- Sicura. A dopo.
Calia la salutò e Tammie chiuse la chiamata. Spense il cellulare e lo lasciò cadere sul sofà accanto allo zaino. Salì al piano di sopra, ma non andò in bagno per farsi la doccia.
Si diresse in camera sua.
La sua stanza non era cambiata di molto dal giorno in cui la mamma era morta, quando aveva nove anni. Sembrava più la camera da letto di una dodicenne che di un'adolescente che andava al liceo. Il copriletto era nascosto da una ventina fra peluche, bambole e cuscini rosa e bianchi, l'armadio dalle ante aperte era ricolmo di golfini, calze e gonne colorate, e accanto alla scrivania su cui era riposto il suo portatile vi era uno specchio che rifletteva la figura intera.
Tammie vi si avvicinò e iniziò a spogliarsi senza smettere di guardarsi. A ogni centimetro di pelle che scopriva, i foruncoli dell'acne le si palesavano in ogni angolo. Ne era ricoperta: ne aveva sulle spalle, sul torace, sul dorso...la parte più colpita erano il volto e la fronte, un tripudio di brufoli e pustole schifose.
L'acne l'affliggeva da quando aveva tredici anni. Suo padre l'aveva portata da diversi medici e dermatologi, lei stessa spendeva una follia in creme e pomate, ma sembrava che più sforzi facesse per curarlo, più l'acne fiorisse sfigurandola.
Di solito cercava di nasconderlo il più possibile utilizzando strati e strati di fondotinta e tenendo i capelli biondi sempre sciolti in modo che le coprissero parzialmente il viso, ma il problema restava e non c'era nessuno che non se ne fosse accorto, specialmente a scuola.
L'unica a cui sembrava non importare nulla era Calia; la stessa Tammie spesso evitava di guardarsi allo specchio per non vedere quella schifosissima eruzione cutanea; ma quella sera non smise di rimirarsi per un solo istante e, dopo che ebbe infilato la camicia da notte, rimase in piedi di fronte allo specchio per diversi minuti.
Non pensò a niente. Né a quanto fosse brutta e repellente, né a quanto le stava accadendo da un mese a quella parte. Non pensò nemmeno a papà o a Calia. Temeva che se l'avesse fatto, avrebbe cambiato idea.
Decise di mantenere la promessa che aveva fatto alla sua amica, e soffocò l'istinto fortissimo che la spingeva ad aprire il PC e a guardare quella cosa.
Invece, si diresse verso il bagno.
Suo padre non era in casa, ma chiuse comunque la porta a chiave per evitare ogni rischio. Sfilò la cintura dall'accappatoio e prese lo sgabello che da bambina usava per raggiungere il lavandino, e di cui suo padre non si era mai sbarazzato, e lo trascinò verso la doccia. Vi salì in cima e legò saldamente un'estremità della cintura alla traversa della doccia, mentre praticò un nodo scorsoio sull'altra metà.
Se lo avvolse intorno al collo.
Rimase a fissare il vuoto per dieci, venti minuti, forse mezz'ora, prima di chiudere gli occhi e di saltare giù dallo sgabello.
La corda si tese per il peso del suo corpo. Dalla gola di Tammie uscì un urlo strozzato, mentre si portava le mani alla gola e cercava istintivamente di allentare la morsa del nodo scorsoio.
Il suo corpo si dimenò a mezz'aria, i piedi che scalciavano come colti da spasmi.
Poi, i movimenti si fecero più radi, lenti e pesanti, e i piedi smisero di scalciare. Gli spasmi cessarono, e Tammie rimase immobile, un corpo morto e cianotico che penzolava dalla traversa della doccia.
Fuori, il signor Bentley parcheggiò la sua auto nel vialetto di casa e spense il motore.
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Ciao a tutti.
Vi ringrazio per aver deciso di aprire questa storia e per aver letto questo primo capitolo. Vi chiederei per favore di leggere anche queste note, perché sebbene non essenziali possono aiutare meglio a capire alcune cose.
Parto con il dire che questa è la prima storia che pubblico nella sezione thriller, e che è stata ispirata parzialmente dal romanzo 13 di Jay Asher. Lo lessi nel lontano 2007, quando uscì, e l'ho riletto ultimamente in questi giorni. Come allora – avevo tredici anni – mi colpì molto.
So che ne è stata tratta una serie per Netflix che sta avendo molto successo. Premetto che non ho ancora visto la serie, eccetto alcune immagini scollegate che ho beccato per caso mentre mio fratello stava guardando gli episodi. Di conseguenza, se troverete riferimenti alla serie – a parte ovviamente il tema del suicidio, ma di questo discuterò più tardi – non sono voluti. Provvederò eventualmente ad avvisarvi quando/se inizierò/finirò la serie.
 
Secondo punto. Come avrete capito dall'intro e da questo “prologo”, chiamiamolo così, la tematica del suicidio sarà presente in modo massiccio. Questa fanfiction vuole essere un thriller – ci proverò, almeno – più che un teen drama, quindi sappiate fin da ora che potrebbero esserci delle scene abbastanza forti e/o crude, pur mantenendomi nei limiti del regolamento imposto da EFP.
 
Terzo punto. Dal capitolo 3 in avanti, la fanfiction seguirà la struttura capitolo ambientato nel presente – capitolo flashback – capitolo ambientato nel presente – capitolo flashback ecc.; cercherò di rendere il tutto il più lineare e comprensibile possibile.
 
Quarto punto. Questo come vi ho detto è il primo esperimento thriller della mia carriera di fyccinara sfaccendata, di conseguenza gradirei molto sapere la vostra opinione. Ergo, sarei felice se mi lasciaste una recensione, sia positiva sia critica. Sono dell'opinione che quando una persona pubblica qualcosa automaticamente sta chiedendo anche un parere, e che le critiche costruttive ed educate possano aiutare a migliorarsi. Quindi, se la storia vi interessa e/o avete delle critiche da muovere – anche in virtù del fatto che ci saranno temi delicati, e a maggior ragione un aiuto o una critica m'impedirebbero di fare involontari strafalcioni.
 
Detto questo, grazie per l'attenzione e al prossimo capitolo.
 
Beauty

 

  
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