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Autore: Eneri_Mess    04/05/2017    3 recensioni
Shiro osservò l’immensa voluta di fumo innalzarsi e allargarsi, inglobando metro dopo metro la foresta. Dall’alto della corvette ancora in discesa, quella massa gli sembrò prima un mostro e poi il residuo di un incubo.
Una mano si poggiò sulla sua spalla, distraendolo dal pensiero che di lì a poco sarebbero penetrati tra le fauci di quell’ammasso impalpabile. Nei suoi diciannove anni, Takashi Shirogane guardò negli occhi Albus Galma, il proprio Maestro, e comprese ancora prima che egli aprisse bocca.
« Stai indugiando, mio padawan? »
[Star Wars!AU]
Genere: Angst, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Kogane Keith, McClain Lance, Takashi Shirogane, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Spoiler!
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Torno dopo un sacco di tempo, ma colgo l'occasione del "May the Fourth be with you" per pubblicare questo capitoletto rimasto in cantiere per un saaaaacco di tempo (x2). Da febbraio, visto che era previsto per il COW-T. Vi dico subito che, anche dopo la terza lettura, è molto molto MEH. C'è tanta spiegazione al passato e niente di particolare. 
Keith è ancora un fringuellino innocente, prima della sua trasformazione nell'emo-kitty che conosciamo uwu. Shiro è un budino di dubbi esistenziali. Buona lettura!
PS: questo capitolo è, in linea temporale, il proseguo del primo! 


 

Good People Are Like Candles

they burn themselves up to give others light



 

Shiro rimase a fissare la porta della camera di Keith per un tempo infinito, la mano alta che esitava nel bussare.

Non c’era anima viva per il corridoio; era ora del pasto serale, la ragione per cui Shiro era andato a cercare Keith. Era anche la scusa più ragionevole per bussare a quella porta ed entrare. Ma quando le nocche erano state a un passo dal toc toc, il motivo reale si era palesato nella testa del Jedi con l’arroganza di qualcosa messo da parte. Ignorato.

Durante gli anni da padawan il suo Maestro Galma gli aveva ripetuto in più occasioni, in toni bonari quanto incisivi, come la sua empatia fosse un’arma a doppio taglio: lo avrebbe aiutato con quelli che la gente chiamava “giochetti mentali da Jedi”, grazie anche al suo faccino rassicurante. Di contro, come ogni persona sostanzialmente buona di carattere, avrebbe patito doppiamente le decisioni giuste, quelle che in quanto Guardiano della Pace e della Giustizia si sarebbe trovato a compiere per il meglio.

Accettare la responsabilità di crescere Keith come proprio padawan era stata una scelta dettata per la maggior parte dalla compassione e il rimpianto di non aver potuto fare abbastanza durante la missione su Tranmar. Aveva la sensazione che su quel pianeta avesse messo una sorta di punto fisso nella propria esistenza, qualcosa che segnava un prima e un dopo. A volte aveva la strana sensazione che il prima di Keith, tutta la sua vita da che ne aveva memoria, fosse quella di qualcun altro. A tratti slavata, altre volte così lontana.


Erano passati quasi tre anni, e da due abbondanti lui e Keith erano Maestro e padawan, con un legame invidiabile a detta di molti. Takashi stesso si trovava così bene da avere l’impressione che quei due anni fossero scivolati via con la durata di qualche mese.

Keith si era dimostrato intuitivo, attento alle spiegazioni e volenteroso nel metterle in pratica. La sua padronanza con la Forza macinava traguardi notevoli e a volte la rivalità negli altri bambini e ragazzi, ma Keith non prestava loro particolare attenzione. Per un po’ Shiro si era preoccupato che tutta quella bravura, accompagnata al silenzio, potesse rivelarsi fonte di arroganza, qualcosa che non avrebbe saputo come trattare al meglio. Aveva capito invece che Keith era impacciato nei rapporti; consapevole sì, delle proprie capacità, ma non del tutto a proprio agio quando si trovava in mezzo agli altri e alle chiacchiere leggere.

Questo lo aveva portato spesso ad attaccarsi alle sottane del Maestro, come scherzava Galma quando li pescava nei chiostri o nelle sale appartate del Tempio anche solo a meditare o a sfogliare qualche file interattivo preso in prestito negli Archivi.

Shiro era grato per la continua presenza di Galma. L’arrivo di Keith al Tempio aveva suscitato scompiglio e una sequela di pettegolezzi che da parte di padawan e Jedi non si sarebbe aspettato. Mantenere segreti alcuni dettagli era stato complicato, soprattutto quando si erano resi conto che Keith si era svegliato privo di memoria.

I responsi dei droni medici, e di uno specialista a seguire, avevano riportato un trauma cranico e un forte shock alla base della totale perdita di ricordi del bambino. Rispondeva al nome Keith più di riflesso che per consapevolezza. Sapeva come utilizzare gli oggetti semplici che gli venivano messi in mano, ma non era avvezzo alla tecnologia. Le spiegazioni erano state varie e in disaccordo; per alcuni era cresciuto su Tranmar, dove il marchingegno più avanzato era un aratro automatico. Ipotesi confermabile dal suo esprimersi in Tranmariano in maniera abbastanza sciolta; scoprire subito dopo che parlasse galriano senza esitazioni aveva rimesso in discussione tutto.

Un dettaglio - così definito - su cui il Consiglio aveva deciso di porre un veto. Al concludersi di quella seduta, e finché non ci fossero state prove tangibili del contrario, si sarebbe considerato il bambino come un prigioniero dei Galra, nato e cresciuto in una colonia di schiavi da cui aveva acquisito il linguaggio per sopravvivenza.

Nonostante il resoconto di Shiro sulla donna Galra di Tranmar e il suo tentativo di proteggere Keith - discorso che persino a lui faticava ad accettare come credibile - i Maestri avevano tagliato la questione e incalzato affinché il futuro padawan imparasse quanto prima una delle lingue franche intergalattiche, mettendo da parte il galriano.

Quando si era chiesto al bambino dei suoi genitori, questi non era stato in grado di rispondere. Circondato com’era di sconosciuti, le mani aggrappate a una veste standard da aprendista che non sentiva ancora sua, Keith si era rannicchiato su se stesso, scuotendo la testa e rispondendo “Gon hijgwal! Gon hijgwal!” - non lo so, non lo so. Al nominare la donna Galra il suo atteggiamento non era mutato, ma la replica era stata un “Cos’è un Galra?” poco incoraggiante.

Alla fine, il Maestro Galma ne aveva chiesto l’affido temporaneo in attesa che il suo quasi-non-più padawan entrasse in possesso del titolo di Cavaliere Jedi per diventarne il mentore ufficiale. Tuttavia i tempi si erano dilungati quando la nomina aveva coinciso con una rappresaglia ai danni della Repubblica e l’inizio di mesi burrascosi a opera dei Separatisti; tutti i Cavalieri disponibili erano stati chiamati per riportare l’ordine, compreso Shiro.


Erano stati giorni lunghi per Takashi: il faccia a faccia con sommosse costanti e continue, il rischio sventato di almeno quattro attentati, la fiducia riposta in lui nell’affidargli l’incarico di guardia del corpo di Re Alfor e di sua figlia, la Principessa Allura, avevano riempito le sue ore di emozioni che si avvicendavano tra alti e bassi. I momenti più critici erano stati riuscire ad addormentarsi la sera senza pensare a cosa sarebbe potuto accadere il giorno dopo, gli stessi momenti in cui aveva avuto la sensazione che la Forza fosse diventata un mulinello, un tornado a cui non riusciva più ad attingere.

Scacciare i dubbi si era rivelato più facile quando aveva avuto tempo di parlare a tu per tu con i reali di Altea. Aveva potuto finalmente conoscerli al di là delle figure dipinte da altri, oltre le lodi e i salamelecchi, scoprendo quanta forza d’animo fossero capaci non solo di dimostrare, ma di infondere. Aveva iniziato così a godersi i momenti di pace e le belle serate nella capitale alteana, profondendosi in discorsi e racconti di cui talvolta perdeva il filo, ma che lo aiutavano ad andare a dormire con serenità, accompagnato da un sorriso e un « Buonanotte » per cui si ritrovava a spendere gli ultimi pensieri prima del sonno, dimentico delle flotte nemiche.

Quelle conversazioni piacevoli, unite ai brevi momenti in cui riusciva a parlare col proprio ex mentore, che anche a distanza di parsec e tramite un tremolante ologramma era in grado di leggerlo come un libro aperto, erano i motivi che lo avevano tenuto a galla.

“Ti farai venire i capelli bianchi prima del tempo se continui così, mio - ahimé - non più padawan. Sei pronto per affrontare tutto questo. Non lasciare che i timori di una decisione, o peggio, il pensare a conseguenze lontane annebbino il tuo giudizio. Segui la Forza, lasciale il cammino sgombro verso la tua mente e il tuo cuore.”

“Lo farò Maestro. Grazie...”

“Ti sento ancora titubare. Re Alfor e la Principessa Allura ti fanno pressioni?”

“No… no”

Shiro si era ritrovato ad arrossire stupidamente e sperare che dall’immagine azzurrognola del trasmettitore non trapelasse. “Sono entrambi… straordinari” non aveva trovato altra parola, un improvviso quanto piacevole vuoto in testa, pensando a uno dei due in particolare.  

“Più volte il Tempio ha trovato candidati padawan tra gli Altean, grazie alla loro innata percezione e una certa predisposizione all’armonia. Re Alfor stesso era stato individuato, ma scelse il dovere verso il proprio popolo. Immagino che se avesse intrapreso la via della Forza, ora la Repubblica non sarebbe la stessa, e dubito che si potrebbe parlare di pace. Relativa, ma sempre pace. È una figura di cui non possiamo fare a meno, non di questi tempi. Tuttavia Shiro... questo periodo passerà, non è una guerra”

Il Cavaliere aveva annuito, più leggero. Ma non era mancato il ghigno del suo ex mentore a fargli corrugare di nuovo la fronte. Con un gesto di invito, nell’ologramma si era palesato anche Keith, le mani di Galma a tenerlo per le spalle. Gli arrivava a malapena alla cintola.

“Shiro!” la meraviglia e l’affetto sul volto e nel tono del bambino erano stati un balsamo e il ragazzo più grande si trovò a sorridere di cuore.

“Oggi il tuo futuro padawan è riuscito per primo a parare i colpi dei bot di allenamento. Un paio ogni dozzina, ma promettente”

Keith aveva annuito computo, gli occhi accesi della gioia dei bambini che riescono a sorprendere se stessi e gli adulti.

“La Maestra Valora dice che sono migliorato anche nel parlare. Mi ha permesso di prendere in prestito dalla biblioteca qualche libro per esercitarmi”

“Sono fiero di te” si era lasciato sfuggire Shiro, osservandolo e sentendosi il petto corroborato da una sensazione calda e traboccante che non aveva mai provato prima.

Sulla stessa scia, Keith si era illuminato, rivolgendosi al Maestro Galma con un sorriso ampissimo, a cui l’altro aveva replicato scuotendo la testa con pazienza.

“Piano voi due. Non voglio ricordarvi che l’orgoglio è una strada ambigua in cui addentrarsi”

Ma voleva dire che sono bravo! Shiro mi ha fatto un complemento!

Entrambi i Jedi erano scoppiati a ridere morbidamente, mentre il bambino li aveva guardati senza capire l’ilarità, mettendo su un broncetto adatto alla sua età.

“Si dice complimento, mio zelante padawan. Avanti, saluta il tuo Maestro, per lui è ora di tornare ai suoi compiti come tu ai tuoi”

L’ologramma si era spento con la manina di Keith che sventolava nell’aria accanto al suo sorriso sincero e rassicurante.  



 

Shiro aveva finito con l’osservarsi il palmo ancora sospeso e in procinto di bussare mentre a tornargli in mente erano i ricordi di quel lungo periodo di incertezze, di quei mesi prima che tutto si stabilizzasse, che lui prendesse Keith sotto la propria ala e si ritrovasse a considerarlo come un fratello minore. I moniti bonari del Maestro Galma non erano mancati, ma le cose erano andate sempre così bene tra di loro, seguendo un’intesa quasi naturale.

Fino a tre giorni prima.

La mano di Shiro tornò bassa, lungo il fianco, mentre i suoi occhi proiettavano sulla porta l’accaduto che aveva allontanato Keith, ciò che aveva costruito tra di loro un sottile quanto resistente muro invisibile.

Galma glielo aveva sempre ripetuto che essere un Maestro sarebbe stato un compito arduo. Si trattava di conciliare insieme molti, troppi aspetti, scendere a patti con le proprie convinzioni senza dimenticarsi di avere di fronte un altro individuo a cui insegnare il dovere e cosa fosse giusto. Keith era sempre stato ricettivo, ubbidiente e allo stesso tempo intraprendente. Talvolta più spericolato che coraggioso forse, perché non si tirava indietro dal provare, soprattutto se era Shiro a chiederglielo. Soprattutto se era Shiro a guardarlo, a rimanergli alle spalle per rassicurarlo.

Il Jedi si chiese quanto avesse peccato ogni volta nel sorridergli di rimando, nel gratificarlo con un “ben fatto, Keith” tutte quelle volte che il bambino si era girato in cerca di approvazione. Stava forse agendo male? Era quello che Galma gli aveva insegnato?

Tre giorni prima la loro missione aveva preso una brutta piega. Era successo tutto in una manciata di minuti, il tempo di ritenere il peggio passato e poi un urlo di Keith aveva fermato il cuore a Shiro. Pochi secondi per brandire la spada laser e precipitarsi a salvare il bambino dalle grinfie di un Galra creduto sconfitto erano stati sufficienti perché qualcosa nello sguardo di Keith andasse perduto.

Il ritorno al Tempio, che avrebbe dovuto essere un rientro alla stabilità, era invece stato affetto da un cambio di routine.

Il padawan consumava i pasti in silenzio; seguiva gli allenamenti in comune con gli altri in movimenti automatici, più precisi, quasi più concentrati ma privi di quella volontà di superare i propri limiti che di solito lo teneva un passo avanti. I momenti con Shiro poi erano più taciturni che meditativi, quasi obbligati. A un primo “Vuoi parlarmi di qualcosa?” Keith si era irrigidito, per poi scuotere la testa e chiedere il permesso di potersene tornare in camera. Shiro lo aveva lasciato andare già due volte e ora che la scusa di ricordargli la cena era sfumata, quella porta gli sembrò invalicabile.

Sgombra la mente e tieni il cammino libero, ecco cosa gli aveva insegnato sempre Galma. Se escludeva i dubbi e i tentennamenti, riusciva a figurarsi Keith oltre quell’uscio, riusciva a sentire il turbamento in lui.

Appoggiò la mano al tastierino sul muro e la porta slittò di lato.

Non fu preparato al buio della stanza e rimase interdetto, la vista non abituata. Gli oscuranti erano abbassati, sigillati. La luce proveniva solo dalla soglia su cui stanziava Shiro; persino le luci di cortesia azzurrognole erano state spente.

« Keith? » chiamò Shiro. Se avesse dovuto dare retta solo ai sensi, avrebbe detto che il bambino non fosse presente. La Forza invece era un’onda vibrante, incerta e a tratti vorticante. Il Jedi entrò nella stanza con l’aria viziata, cercando di focalizzare il bambino. Qualcosa che gli riusciva facile di solito, ma la sua stessa volontà era ancora intaccata dal dubbio. « Keith? »

« Sono qui »

Keith stesso gli venne in contro, verbalmente, in un borbottio rauco soffocato dalla stoffa. Shiro lo trovò raggomitolato in un angolo del letto, il lenzuolo tirato sopra la testa.

Nell’avvicinarsi, il Jedi accese la piccola lampada a globo del comodino. Al bagliore, il bambino affondò gli occhi stanchi e insonni nelle braccia, facendosi ancora più piccolo di quanto già non fosse.

Per la sua età Keith sembrava un uccellino venuto via dal nido troppo presto; le sue abilità non avevano mai fatto venire il dubbio a Shiro che potesse essere anche fragile, che a tutti gli effetti fosse un bambino di soli undici anni.

Gli si sedette davanti e scostò il lembo del lenzuolo che gli ricadeva sul volto. I capelli, insieme alla treccina tipica degli apprendisti, ne vennero fuori arruffati e bisognosi di un taglio; crescevano davvero in fretta. Il broncio del padawan rimase inalterato, gli occhi fissi e ostinati su un punto impreciso del letto.

È ora della cena, sarebbe stata la frase più facile da dire per spezzare il silenzio. Ma anche la più inutile. Shiro sapeva cosa avrebbe smosso il bambino a rispondergli subito.

« Hai avuto paura? »

Come previsto, Keith si irrigidì e alzò il volto di scatto, fissando il Maestro con espressione colpita e turbata. Adombrati dalla fioca luce, aveva gli occhi vitrei, di chi non fa altro che sfregarseli per cancellare le lacrime.

Shiro gli strinse una spalla; non riusciva a sorridere incoraggiante come avrebbe voluto, ma sperò di comunicargli in modo rassicurante quell’Avanti, sono qui per ascoltarti che sentiva pompargli il sangue nel cuore.

« … un Jedi non prova paura » mormorò Keith. Per quanto fosse un’affermazione, il tono fu l’estensione esatta dei dubbi che gli si annidavano dentro. Shiro trattenne appena il fiato, soppesando di parlargli come fosse un’altra lezione da impartirgli, se questo lo avesse fatto sentire più a suo agio.

« Un Jedi impara a liberarsi della paura col tempo e affrontandola in varie esperienze. Prima deve saperla riconoscere »

Le dita di Keith si strinsero forte alla stoffa del lenzuolo in cui si era avvolto. Si ostinò a non guardare il mentore in faccia e si trincerò nel mutismo. Ma Shiro sapeva che lo stava ascoltando.

« La paura ha molti volti Keith. La troverai nelle situazioni come nelle persone… e non sempre sarà facile dividerla da altri sentimenti »

Il bambino sembrò confuso, oltre che poco incline a rispondere. Combattuto sul come esprimersi.  

« Nell'ultima missione… » proseguì il Maestro, una mano sulla spalla in un bisogno di contatto più suo che del padawan. « Anche il Galra che hai affrontato ha agito per paura »

Keith si stringe le ginocchia al petto di riflesso; le labbra unite in una piega rigida mentre gli occhi si spalancarono contro la sua volontà. Shiro riconobbe nel linguaggio del corpo la stessa espressione di panico che lo aveva bloccato di fronte al nemico. Ma come allora, una parte di Keith sembrò sul punto di voler ruggire, di lasciare andare un grido di battaglia e frustrazione. Ciò che gli fece corrugare la fronte però, che confuse la sua parte umana più che l’intuito del Jedi, fu la sfumatura tormentata, il dubbio in fondo alle sue iridi indaco.

« Io… » Keith tentennò, ma quando rilassò le dita fu il segnale che era pronto a parlare. « Tutti qui al Tempio sono sempre pronti ad affrontare i Galra. Sono… I nostri nemici, i nemici della Repubblica » non era una domanda, anche se l’incertezza persisteva. « Anche io sono pronto » aggiunse, insistente, guardando Shiro negli occhi. Se c'era della delusione, per sé e per quanto successo, questa fu inghiottita presto da una determinazione ostentata, un mattone necessario per erigere un muro di difesa.

« Keith… nessuno di noi si era accorto di quel Galra, non devi rimproverarti » Shiro si sentì in dovere di dirlo, di aggiustare qualcosa. Vedere Keith deciso lo rincuorava, ma aveva la sensazione - con la consistenza della voce di Galma nella sua testa - che dovesse mitigare il temperamento del padawan. Ma contro il buon senso Jedi, se così si poteva chiamare, Shiro gli stringe una spalla, portandolo più vicino a sé, tanto che Keith appoggiò la fronte contro di lui.

« Shiro… » il tono del bambino ora era una vocina. Ancora bianca, ancora quella di un pulcino. « Quando mi sono trovato davanti quel Galra… non sono… » respirò forte, a metà tra un sospiro e uno sbuffo, lottando con le parole nella sua testa. Disse anche qualcos’altro, tra i denti, che Shiro riconobbe come una parola galriana, un’imprecazione.

Il volto viola, gli occhi topazio, di una donna aliena che non era riuscito a salvare due anni prima si palesò nella mente di Shiro. Era tanto che non si riviveva i momenti di Tranmar. A volte erano diapositive di qualcun altro, ma anche tasselli di puzzle legati al suo padawan che giacevano nel fondo dei suoi pensieri senza che il Jedi trovasse loro una collocazione definitiva.

« ... sono tutti cattivi? »

Shiro si riscosse.

« Riformula la domanda » sorrise il Maestro indulgente. Cattivo era un termine favolistico che non si addiceva al parlare di un futuro Cavaliere Jedi.

Keith si imbronciò.

« I Galra sono tutti nostri nemici? »

Il viso della donna di Tranmar si sovrappose per un attimo a quello del bambino e Shiro sentì la Forza dilatarsi, come se la risposta fosse lì. Prima della missione in cui aveva salvato Keith, Shiro a quella domanda avrebbe replicato di sì con una sicurezza che ora riconosceva come deleteria, infantile quanto l’aggettivo cattivo. Ma il grido di aiuto di una sola Galra aveva messo in discussione tutte le sue convinzioni. Un singolo dubbio contro un intero Impero che mieteva sopprusi e vittime ogni giorno.

Non replicò al dubbio di Keith. Non sentiva di avere una risposta che avesse potuto fugare le incertezze di entrambi.

« Hai ricordato qualcosa? » domandò di rimando.

Tre anni prima la conclusione degli Anziani del Consiglio era stata che Keith fosse stato uno schiavo in una qualche colonia Galra, nato e cresciuto in mezzo al nemico. Shiro non era mai riuscito ad accettare quella storia, non con quello che aveva visto e se dava retta al proprio istinto, ma non aveva neanche gli elementi per controbattere. Né aveva intenzione di far vivere Keith costantemente in bilico su più sospesi di quanti già non avesse senza memoria della propria infanzia.

Il bambino scosse la testa, strusciando la fronte contro la stoffa ruvida della casacca del Maestro, trovando conforto nel gesto.

Shiro si morse il labbro, non visto. Combattuto, scelse di tacere. Scelse di tenere per sé quelli che per lui erano frammenti di opinioni e idee dai bordi taglienti. Keith era ancora un bambino. E lui sentì il bisogno di proteggerlo soffocare tutto il resto.

« Ti ho lasciato solo di fronte a quel Galra » iniziò, col pentimento come burro nella sua voce. « Potrebbe… succederà di nuovo »

« Non rimarrò fermo la prossima volta, Maestro » si affrettò a dire Keith, scostandosi dalla presa per mettersi seduto dritto. Anche nella poca luce, dai suoi occhi traspariva la trepidazione di chi aspetta una seconda occasione per mettersi in gioco. « Ora so cos'è la paura verso i Galra »

« Keith… »

« Un Jedi impara a riconoscere la paura » replicò il bambino con un assenso spavaldo. « La prossima volta la affronterò »

« Sgombra il tuo animo turbolento e lascia che sia la Forza a guidarti » Shiro esibì una smorfia divertita, più leggera. « Ricordati che la pazienza produce concentrazione » precisò, ma l’annuire di Keith fu troppo frettoloso per qualcuno che stava ascoltando e comprendendo la lezione fino in fondo. « Niente azioni avventate »

Sulle labbra di Keith si aprì un sorriso fatto di pura innocenza fanciullesca. Il suo stomaco gorgogliò, e nascondendo l’imbarazzo il bambino tirò la mano del Maestro per trascinarlo verso la mensa.





Un grazie grande come un cuore grande come una casa, grandissimo, al trio Yuki-Wren-Leyru che hanno letto la storia e l'hanno apprezzata çWç *squitii confusi* Spero di potervi dare presto altro da leggere, soprattutto perché nel prossimo capitolo arriva Lance *love* 
Alla prossima! 

Nefelibata ~

 
   
 
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