III
«Che
intenzioni hai?»
«Mi sembrava ovvio: vengo con te!»
«Sei impazzito! Perché dovresti venire
anche tu?» Ivory gettò uno sguardo sconcertato
allo zaino mezzo pieno di Brandbury. Quando era tornato a casa dopo
essere stato dall'armaiolo, l'aveva trovato intento a fare i bagagli,
per due.
«È un viaggio pericoloso, Brand, e la
Regina ha incaricato me!» sbottò, «Non
si tratta di una scampagnata, di una gita in montagna: devo
attraversare due regni, e le montagne sono infestate da leoni e orsi e
tigri, per non parlare dei briganti e dei malintenzionati che si
trovano lungo le strade!»
«Ma
potrei esserti utile!» replicò l'altro,
«Sono un medico e proprio perché il viaggio
è pericoloso, potresti avere bisogno di me.»
«Mi hai insegnato le tecniche principali e
più semplici, Brand, riuscirò a cavarmela anche
senza un cerusico appresso.»
Ivory non aveva alcuna intenzione di mettere in pericolo il
fratello coinvolgendolo in un viaggio lungo e periglioso. Lui era
abituato al freddo, agli stenti e ad affrontare belve feroci o
briganti; ma Brand aveva sempre vissuto in quel villaggio, immerso tra
i libri e le erbe, e non aveva idea di come sopravvivere all'infuori di
quelle quattro mura sicure.
«Non puoi venire con me» cercò di
blandirlo, «non sei abituato a questo genere di cose,
rischieresti solo di mettere in pericolo la tua vita.»
Brandbury era il fratello maggiore, quello più
giudizioso e prudente, e quel comportamento era così
insolito per lui: prima di allora, mai si era impuntato nel voler
imbarcarsi in qualcosa che fosse esplicitamente pericoloso, e Ivory si
domandò il motivo di una tale insistenza e ostinazione.
«Mi sono stancato di vederti partire, senza sapere se saresti
tornato!» esclamò il giovane
all’improvviso, cogliendo l’altro di sorpresa,
«Sei il mio unico vero amico, il mio unico affetto, l'ultimo
che mi sia rimasto: mamma è morta ormai da anni e
papà non si è mai fatto vedere, non ho mai avuto
altri fratelli o altri parenti all'infuori di te. Permettimi di venire
con te, solo per questa volta!»
Brandbury sollevò lo sguardo dal baule in cui
stava rovistando, e ciò che l'elfo lesse negli occhi del
fratello lo sconvolse: tra le iridi turchine erano racchiusi un dolore
straziante e una preoccupazione indicibili, sedimentatisi lentamente
negli anni, che si erano avvinghiati alla sua anima e avevano steso la
loro patina scura su quello sguardo sempre sorridente e luminoso,
adombrandolo. Quegli occhi così carichi di tristezza e
apprensione lacerarono l’elfo e lo fecero sentire ancora
più in colpa; la supplica del fratello gli strinse il cuore,
ma per quanto comprendesse la sua sofferenza e la sua frustrazione,
così come Brand non voleva perdere Ivory,
quest’ultimo non poteva permettersi di perdere il fratello:
non sarebbe mai riuscito a sopportare la sua assenza, il ricordo di lui
sarebbe stato troppo straziate e l’accoglienza calorosa, che
gli riservava ogni volta che tornava dopo una campagna, sarebbe stata
una mancanza troppo grande e troppo dolorosa. Brand rappresentava un
porto sicuro a cui tornare dopo essere stato trascinato in lungo e in
largo dalle correnti e strapazzato dai venti impietosi; era
l’unico punto fermo e sicuro della sua vita movimentata e
incerta, era un faro, una guida e una roccia a cui aggrapparsi nei
momenti di difficoltà, ma anche un focolare domestico presso
cui riposarsi e sentirsi amato…Non si sarebbe mai perdonato
se fosse successo qualcosa a Brand, a maggior ragione se lui ne era la
causa e avrebbe potuto evitarlo, e preferiva di gran lunga saperlo
depresso ma vivo e al sicuro, piuttosto che accanto a lui e
costantemente in pericolo.
«Non voglio rischiare di perderti, come non lo
vuoi tu» mormorò l’elfo, sperando che
l’altro capisse e accettasse la sua scelta, anche questa
volta, sebbene a malincuore.
«Non voglio rimanere, non
più» si imputò, invece, Brandbury,
«Ho vissuto per troppo tempo questa situazione ed
è diventata insostenibile: tu non hai idea dell'angoscia,
della preoccupazione e del terrore che provo ogni volta che ti vedo
partire; devo ingerire quantità esorbitanti di passiflora
per riuscire a dormire la notte...Sono distrutto!»
Ivory non sapeva come replicare: non voleva che Brandbury
venisse con lui, ma d'altro canto quel cocciuto di suo fratello si era
intestardito a voler venire con lui.
Improvvisamente un’idea balenò nella sua mente:
sarebbe stata una mossa meschina e crudele, ma era l'unico modo per
evitare che il fratello lo seguisse.
«Va bene» concesse alla fine,
«Partiremo domani mattina, all'alba. E sappi che se non ti
sveglierai non ti aspetterò e rimarrai qui.»
Un largo sorriso piegò le labbra sottili del
ragazzo, illuminandogli il viso.
«Grazie» mormorò, mentre
finiva di preparare lo zaino.
Ivory sorrise a sua volta, ma il piano che aveva appena
ideato rese il suo sorriso più amaro e triste.
Quella notte aspettò che Brandbury si
addormentasse e non appena sentì il suo respiro farsi lento
e regolare, sgusciò silenzioso e svelto come uno spettro
fuori dalla porta, portandosi dietro lo zaino pronto che era stato
lasciato all'ingresso. Si sentì un ladro e un traditore, ma
si disse che era per una buona causa e che Brandbury avrebbe capito.
La luna stendeva una cortina d'argento sui tetti di legno delle
casupole; non erano molte ma erano tutte ben mantenute e ordinate,
segno che quel villaggio per quanto modesto, non fosse così
povero, e che i suoi abitanti potevano permettersi di far riparare un
tetto. Era un luogo tranquillo e pacifico, in cui Ivory si sentiva a
disagio e rinchiuso, come in una gabbia, abituato agli accampamenti e
ai campi di battaglia, molto più vasti e frementi tanto
nell'attesa quanto nell'azione, pregni dell'odore di sangue, sudore ed
eccitazione, con l'aria perennemente carica e un'atmosfera sempre tesa
o rimbombante di grida, imprecazioni e incitazioni. Era il luogo
perfetto per Brandbrury, invece, ugualmente pacifico, tranquillo e
silenzioso, dedito allo studio e alla riflessione, abituato a
comodità che in un viaggio come quello erano assolutamente
impossibili da ottenere o anche solo da immaginare.
È
la cosa migliore, cercò di convincersi
l’elfo, sistemando lo zaino sulla spalla. Ma allora
perché si sentiva così male, quasi avesse
commesso un’azione turpe e imperdonabile?
Gettò un altro sguardo alla casupola,
l’ultimo, e diede il suo silenzioso saluto al fratello ancora
addormentato e ignaro dell’inganno. Cercò di
scacciare quel pensiero insistente dalla mente e si ripeté
per l’ennesima che era la sola cosa giusta da fare.
Con un sospiro iniziò ad avviarsi verso i campi
che si aprivano appena oltre la locanda del vecchio Tom: il primo
edificio che accoglieva i viandanti con l’invitante profumo
del vino speziato e il calore delle risa e dei canti dei contadini che
si radunavano lì dopo la giornata di lavoro, oppure
l’ultimo che li salutava malinconicamente con la vedova Becky
sulla porta stretta nello scialle e un sacchetto di paste dolci in
mano, appena sfornate, da sbocconcellare lungo il cammino. A
quell’ora della notte, però, la locanda era buia e
silenziosa e non c’era nessuna vedova ad augurargli un buon
viaggio.
Ivory estrasse da sotto la camicia la bussola che gli aveva
donato la regina, fece scattare il meccanismo e il coperchio
svelò la mappa luminosa e diafana, il nastro di luce scura
indicava la medesima direzione di quel giorno, dalla regina, e puntava
stabilmente verso nord.
La sovrana aveva corredato quel dono con uno più
macabro ma essenziale: l’elfo si assicurò di avere
in tasca la fialetta contenente il sangue della donna,
l’unico che fosse capace di azionare la bussola. Questa,
infatti, non funzionava sempre e dopo qualche giorno
l’effetto del sangue si esauriva e la mappa scompariva,
lasciando il quadrante vuoto e freddo come Ivory l’aveva
visto la prima volta; per evitare di rimanere senza indicazioni nel bel
mezzo dei Giganti di Ghiaccio, la regina aveva provveduto a rifornirlo
della linfa per alimentare la bussola, e sotto il suo sguardo sorpreso,
aveva praticato un piccolo taglio sul palmo della mano, facendo
gocciolare il sangue in quella minuta fiala di vetro e oro, che ora il
guerriero stringeva tra le dita, rassicurato dalla sua presenza.
Assicuratosi sulla direzione da prendere, Ivory scomparve, inghiottito
dalle brume sfilacciate che aleggiavano sui campi.
La notte scivolava lenta e le stelle ammiccavano,
volteggiando lievi nella volta celeste come fanciulle alla festa del
Solstizio; per trascorrere il tempo cercò nel cielo le
figure immaginarie che gli uomini avevano creato per potersi orientare
e per avere una guida anche nella tenebra: la Fanciulla gli sorrideva a
est, sciogliendo la sua chioma d'argento verso il Cacciatore che,
affiancato dal suo Cane fedele, vegliava sulla danza turbinosa delle
Sette Sorelle strette in un abbraccio, ignare della Vipera appostata ai
loro piedi e schiacciata dalle zampe del Cane; seguendo il corpo
sinuoso della Vipera giunse alla Brocca e al Veggente che aveva
incastonata in fronte la stella più luminosa del firmamento,
accanto a lui sostavano la Matriarca e il Pastore, mentre l'Ardito
cavalcava contro l'Idra e mozzava le sue teste armato di Spada.
Ivory era cresciuto con le storie di quelle figure, sua madre soleva
raccontargliele prima di andare a dormire e il ragazzo si imbeveva di
quelle immagini siderali e fantasiose, così affascinanti e
lontane. Le stelle avevano rappresentato per lui un conforto e una
compagnia durante le notti prima della battaglia, quando non riusciva a
prendere sonno, o mentre era il suo turno di guardia e passeggiava
assorto per l'accampamento, o ancora quando era in viaggio verso casa o
tornava al fronte; non mancava mai, in nessuna occasione, di alzare lo
sguardo verso il cielo e di ritrovare quelle care amiche pazienti e
scintillanti. Le stelle gli ricordavano casa, la madre e il calore dei
suoi abbracci, il suono della voce reso flebile dalla malattia, le sue
mani morbide e profumate, i suoi dolcetti del giorno di festa e le ore
trascorse a rammendare i suoi abiti alla luce del focolare.
Una sera, ormai consapevole della sua imminente dipartita,
gli aveva rivelato che chi lasciava questo mondo non lo faceva mai
completamente, perché diventava una stella e continuava a
vigilare sui suoi cari, osservandoli dall'alto e guidandoli.
L'elfo ogni notte alzava lo sguardo al cielo nella speranza
di ritrovare il volto di quella donna caritatevole e immensamente buona
che l'aveva accolto e cresciuto.
Brandbury aveva gli stessi occhi di sua madre e ogni volta che il
mercenario incrociava per un momento il suo sguardo, aveva come
l'impressione di cogliervi un frammento della donna, evanescente e
subitaneo. Condividevano anche lo stesso buon cuore e sperava con tutto
sé stesso che al fratello non venisse qualche strana idea
dettata dalla sua generosità.
Il suo istinto gli suggeriva che non l’inganno non
l’avrebbe fermato, e il suo istinto raramente si sbagliava.