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Autore: _armida    07/05/2017    1 recensioni
Dal capitolo XV:
“Si aspettano che io ti uccida?”, domandò lui con un filo di voce.
(...)
. “Mi… mi terrai la mano mentre… sì, insomma, dall’altra parte non sarò sola ma…”. Non riuscì ad andare avanti e si limitò a cercare aiuto nel viso che aveva di fronte.
“Lo farò per tutto il tempo che vorrai”, si affrettò a dire il Conte, mentre una lacrima sfuggita al suo controllo gli rigava una guancia.
Elettra la spazzò via con una carezza, tornando poi a sorridergli, seppur il suo tono di voce, quando parlò, fu estremamente serio. “Non per tutto il tempo che vorrò, solo il minimo indispensabile, poi correrai da Leonardo a salvargli la vita. Non voglio vedere nessuno di voi per i prossimi trenta o quarant'anni, almeno”, aggiunse in un tentativo di ironia. Si alzò sulle punte, per poter avere il suo viso all’altezza del proprio e lo baciò per l’ultima volta. “Addio, Girolamo”, disse ad un soffio dalle sue labbra.
Si guardarono negli occhi.
Una tacita domanda.
Un cenno di conferma.
Strinsero entrambi le mani intorno al pugnale e la lama si fece strada nella carne.
(seguito di "L'Altra Gemella)
Genere: Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Girolamo Riario, Leonardo da Vinci, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Elettra'
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Nda
Ehilà! Rieccomi qui come promesso con il primo capitolo della storia. Buona lettura e ci riaggiorniamo il mese prossimo! 


Capitolo I: Figli 
 

27 aprile 1478, sera del lunedì di Pasqua 


Gentile Becchi camminava avanti e indietro per il proprio studio. Erano ore che percorreva lo stesso medesimo percorso: dieci passi dividevano uno scaffale ricolmo di libri dall’altro e, al centro, la propria scrivania insolitamente in disordine. Appoggiò una mano sulla liscia superficie di legno intarsiato, reggendosi ad essa con tutte le proprie forze quando l’ennesimo capogiro della giornata lo colse all’improvviso. Chiuse per un istante gli occhi, prendendo dei lunghi respiri.  
I capogiri erano iniziati il giorno prima quando, sfumata l’adrenalina della fuga dal Duomo, dopo che la Donati era stata fatta prigioniera da Riario, aveva potuto ragionare a mente lucida sui fatti a cui aveva assisto. 
Aveva quasi avuto un mancamento quando le guardie della notte avevano riportato a palazzo il corpo martoriato di Giuliano. Dragonetti e uno dei servi lo avevano dovuto sorreggere, altrimenti era certo che sarebbe caduto a terra. 
Aveva servito sotto tre diversi signori: prima Cosimo, per cui era stato più un amico che un servitore, poi Piero, che la malattia si era portato via troppo presto, ed infine Lorenzo.  
Li aveva visti crescere, Lorenzo e Giuliano, e si era affezionato a loro come a dei figli. Lorenzo aveva la stoffa per governare, lo aveva da subito capito, ma era Giuliano il suo pupillo, il figlio prediletto.  
E ora glielo avevano portato via.  
Non era stato l’unico figlio che i congiurati gli avevano tolto: Elettra non era ancora stata trovata.  
Aveva esortato le guardie della notte a cercarla in ogni angolo di Firenze, ma niente. Di lei nessuna traccia.  
Non avrebbe dovuto permetterle di accorrere da Lorenzo, il giorno prima, in Duomo. Sarebbe dovuta restare con lui, Clarice e le bambine.  
Si lasciò cadere su una delle poltrone adibite agli ospiti quando si rese conto che le gambe faticavano a reggerlo. Chiuse nuovamente gli occhi. 
Non era la prima volta che si trovava in una situazione del genere. 
Doveva essere forte e non perdere la speranza, proprio come nove anni prima.  
Lo scorrere del tempo però si faceva sentire. Parevano essere passati molti più di nove anni. La forza e l’energia con cui aveva affrontato quegli altri infausti eventi pareva essere sfumata.  
Cercò di concentrarsi su un qualche ricordo il più possibile piacevole: gli pareva di poter ancora udire le loro risate infantili riecheggiare tra quelle quattro mura... 


1465, Palazzo della Signoria 


Alzò il viso dalle carte che stava studiando, osservando per un istante con occhio critico l’operato della bambina che gli stava di fronte, dall’altro lato della scrivania. Elettra, la sua piccola Elettra, aveva appena sei anni e aveva da poco iniziato ad imparare a leggere e scrivere.  
In quei pochi mesi di studio aveva ottenuto buoni risultati, eccezion fatta per la calligrafia. Quella rimaneva sempre un problema.  
Aveva provato ad imporle di scrivere con la mano destra, come ogni buon cristiano faceva, ma ben presto, esortato anche da quel saggio autorevole che era Cosimo de Medici, si era dovuto arrendere all’idea che la bambina utilizzasse la sinistra.  
La osservò mentre, con la fronte corrucciata e l’aria concentrata cercava di riprodurre le lettere ai bordi della pagina. Stava per aprire bocca per correggerla, quando bussarono alla porta. 
“Avanti”, disse con fare autorevole.  
Sullo stipite comparve un giovane servo, uno degli ultimi assunti dalla Signoria.  
“È arrivato l’ospite che attendavate”, balbettò con fare incerto il ragazzo, tenendo lo sguardo basso in un gesto di rispetto.  
Ad udire quella voce, la piccola Elettra si voltò verso il servo, agitando la manina sporca di inchiostro in un gesto di saluto. “Ciao, Fabrizio”, aggiunse. 
“Ossequi, mia signora”, rispose.  
Quella forma di saluto così formale fece ridere la bambina, le cui guance, per l’imbarazzo, si colorarono di rosso.  
Dopo aver osservato questa leggera scenetta con lo sguardo incantato, Gentile Becchi fece un cenno di congedo al servo, che lasciò immediatamente lo studio facendo prima un inchino. 
Tornò a guardare la nipote, tornata concentrata sul compito che le aveva affidato. 
“Torno tra un’oretta, Elettra. Se avessi bisogno di qualcosa non esitare a chiedere alla servitù” 

 

*** 

 

Un’ora più tardi... 


Gentile Becchi aprì con calma la porta del proprio studio, convinto che sua nipote fosse esattamente dove l’aveva lasciata invece... si guardò più volte intorno, ma di lei restava solo un quaderno macchiato d’inchiostro e una piuma d’oca abbandonati sulla scrivania. 
Prese un lungo respiro, dandosi mentalmente dello stupido da solo: non avrebbe dovuto lasciare sola per tutto quel tempo una bambina di sei anni. Specialmente se quella bambina aveva il brutto vizio di cacciarsi nei guai. 
Non gli restava altra scelta che andare a cercarla pregando di arrivare prima che combinasse qualcosa di grave.  
Uscì dal proprio studio a passo di marcia, chiedendo ad ogni persona che incontrava se avesse visto sua nipote in giro. 
Le risposte furono tutte vaghe. 
Passò davanti alla piccola biblioteca privata di Cosimo de Medici, dove l’ormai anziano Signore della città era solito passare le proprie giornate. La porta non era stata completamente socchiusa e da un’apertura di appena un paio di dita si poteva osservare cosa avvenisse all’interno.  
Gentile Becchi inizialmente non fece troppo caso a quel dettaglio, sorpassando con delle lunghe falcate quella stanza e continuando la propria ricerca per i corridoio, ma si fermò poco dopo, non appena delle voci infantili lo riattirarono verso di essa. Si accostò alla porta, aprendola appena un poco di più, lo spazio necessario ad osservare l’interno.  
Ciò che vide gli fece sciogliere il cuore.  
Tre bambini erano seduti a terra, intenti a conversare con un uomo anziano su di una poltrona. 
“E tu, mia cara, cosa vorresti fare da grande?”. La voce di Cosimo de Medici riusciva sempre ad essere paziente, sia che si trattasse di delicate questioni politiche che di tenere a bada i diversi bambini che vagavano per il palazzo.  
La piccola Elettra si morse il labbro e lasciò una risatina, come se all’improvviso tutta la timidezza si fosse concentrata in lei. “Diventerò il Capitano delle Guardie della Notte!”, disse, tornando ad essere in un istante la bambina iperattiva di sempre.  
“Quello è il mio posto”, ribattè prontamente il piccolo Giuliano. “E tu sei una femmina” 
La bimba arricciò le labbra, offesa da quello che aveva appena sentito. Il suo sguardo cadde sulla piccola spada di legno del più giovane de Medici, poggiata sul tappeto tra di loro. La prese tra le mani e si alzò di scatto, puntandola al collo del bambino. “Prenderai ordini da me, che tu lo voglia o meno”, disse con tono sicuro di sè.  
Giuliano fece una smorfia, prima di avventarsi sulla sua compagna di giochi. Caddero entrambi a terra, cominciando ad azzuffarsi. 
Lorenzo, ormai adolescente, guardò i due contrariato, a differenza di Cosimo, che si mise a ridacchiare. 
“Elettra” 
La voce indispettita di Gentile Becchi bloccò all’istante qualsiasi movimento della piccola che, in quel momento in posizione di vantaggio, seduta sulla pancia di Giuliano, fu ben presto ribaltata.  
“Ciao, zio”, disse innocentemente, cercando di soffiare via i lunghi capelli dal viso. Sulla sua guancia una vistosa macchia bianca faceva mostra di sè. 
“Cosa hai combinato?”, chiese Becchi, cercando di mantenere un tono intransigente, ma non potendo fare a meno di una nota di preoccupazione.  
“Ho aiutato il Maestro Andrea”, rispose lei, saltellando dall’entusiasmo nella sua direzione. 
“Oh cielo, ora ti metti pure a perseguitare il povero Verrocchio?”  
“Doveva solo dare una mano di bianco su una parete, Gentile”, ribattè Cosimo, con tranquillità. 
“Dice che ho un’ottima mano”, continuò la bambina.  
Gentile Becchi non potè fare a meno di sorridere di fronte a tutto quell’entusiasmo. Le carezzò il capo con una mano, cercando invano di sistemarle i capelli arruffati. 
Cosimo li osservò per alcuni istanti con il sorriso sulle labbra, prima di decidere di parlare. “Lorenzo, Giuliano, perchè non mostrate ad Elettra quel nuovo gioco dall’oriente?”  
Il bambino più piccolo annuì all’istante, prendendo la sua amica per una mano e correndo via, seguito da un decisamente meno entusiasta fratello maggiore. 
Quando furono lontani, il consigliere della repubblica si lasciò andare ad un sospiro. “Non ho più l’età per stare dietro a quella bambina” 
Cosimo scoppiò a ridere. “Lo hai detto di tutti, da sempre” 
“Diventerà una dama un giorno o l’altro, deve imparare le buone maniere e la disciplina”, borbottò, riferendosi alla piccola azzuffata a cui aveva assistito.  
“Non sono d’accordo”, ribattè in tono deciso l’anziano amico. “Lascia che Elettra diventi ciò che desidera, non ostacolarla mai. Se lo farai...”, le sue labbra si piegarono in un sorriso enigmatico, come spesso accadeva quando parlava del futuro. “Quella bambina è destinata a grandi cose, Gentile”  


“Consigliere?...Becchi? State bene?” 
Gentile Becchi sbattè più volte le palpebre per ritrovare lucidità e cacciare via le lacrime che gli appannavano la vista, prima di voltarsi nella direzione da cui aveva sentito arrivare una voce. 
Clarice Orsini, in piedi sulla soglia della porta in attesa del permesso di entrare, lo osservò a sua volta con uno sguardo ricolmo di compassione. Nonostante il volto pallido e le profonde occhiaie viola, tentò di rivolgergli un sorriso. Gesto che l’anziano consigliere apprezzò molto. 
“Il cerusico ha appena finito di visitare Lorenzo, dice che gli occorrerà molto riposo e...nemmeno lui si capacita come abbia fatto Da Vinci a salvargli la vita”, disse la donna, faticando a contenere tutto il proprio sollievo.  
Becchi avrebbe tanto voluto essere partecipe di quell’entusiasmo, avrebbe voluto viverlo, poterlo fare suo e allontanarsi per un istante dalla dolorosa morsa al cuore che gli rendeva difficoltoso anche il più insignificante movimento, ma non ci riuscì. Provò almeno a sorride alla Madre di Firenze, ma esso apparve stentato e troppo forzato. “Grazie”, riuscì appena a mormorare. 
Non aveva notato prima di quel momento il fazzoletto bianco che Clarice teneva tra le mani.  
Seguì anche lei lo sguardo dell’uomo e la sua espressione si fece cupa. Il consigliere mosse alcuni passi nella sua direzione e lei gli porse il lembo di stoffa, che aveva tutta l’aria di celare qualcosa al suo interno. 
“Dragonetti lo ha trovato in mano ad un rigattiere che tentava di venderlo”, spiegò la Orsini mentre Becchi scostava con attenzione e cura il tessuto. “Ha detto di averlo preso al Duomo”   
Un gemito sfuggì dalle labbra del consigliere quando vide di cosa si trattava.  
“Elettra non se ne sarebbe mai separata”, disse con appena un filo di voce.  
Osservò il bracciale che teneva tra le mani con più attenzione: la catenella di finissimo oro bianco era spezzata in un punto e un paio di acquemarine si erano scheggiate ma non c’erano dubbi, quello era senz’altro il suo. Lo aveva visto comparire così, da un giorno all’altro al polso della nipote e si era sempre chiesto da dove arrivasse. Le malelingue del palazzo parlavano del dono di un amante, ma lui ovviamente non ci credeva.  
Qualcuno aveva tentato di ripulirlo con cura, ma nei punti in cui le pietre erano state incastonate vi erano rimaste delle macchie di colore rosso.  
Sangue.  
Della sua bambina, probabilmente.  
Serrò gli occhi con forza. 
Il non averla vista fare immediatamente ritorno a palazzo, ciò che Da Vinci gli aveva raccontato riguardo alla chiusura delle porte della Sagrestia e ora quel bracciale...le sue speranze di poterla di nuovo stringere tra le braccia diminuivano di ora in ora. 
Clarice gli poggiò una mano sulla sua spalla in un tentativo di conforto. “Mi dispiace molto, Becchi”, disse, sinceramente mortificata. “Dragonetti in questo momento sta interrogando Francesco Pazzi, sono certa che dopo avremo le idee più chiare” 
 “Voglio assistere all’interrogatorio”. Il tono di voce dell’anziano consigliere non ammetteva repliche. “Devo conoscere il destino di mia nipote”  


*** 
 

 

Poco dopo, nelle prigioni del Bargello... 


I tentativi di dissuadere Becchi da quell’idea si erano rivelati tutti inutili: Clarice ora aveva compreso da chi avesse preso Elettra la propria testardaggine.  
Aveva tentato in tutti modi, ma alla fine l’unico compromesso che l’uomo aveva accettato era stato quello di portarsi madonna Orsini con sè come accompagnatrice.  
Mentre venivano scortati da alcune guardie della notte nella sala adibita agli interrogatori, la donna cercò di studiare con più attenzione il volto scavato e fosco dell’uomo al suo fianco: da ottimo consigliere quale era, Becchi riusciva a mascherare bene ciò che provava o che pensava dietro ai propri modi alle volte intransigenti.
Sapeva che si stava facendo male con le proprie mani a voler ascoltare a tutti i costi le parole di un folle: di Pazzi non ci si poteva fidare. Ma lo capiva anche, capiva cosa lo spingeva a voler tentare il tutto e per tutto.  
L’istinto di un genitore portava a fare qualsiasi cosa, anche ai gesti più disperati. E lei lo sapeva bene.  
Una delle guardie aprì una porta, ma parve tentennare a lasciare loro libero il passaggio alla vista di Gentile Becchi. Il consigliere lo oltrepassò a lunghi passi senza nemmeno notarlo. 
Appena oltrepassata la soglia, cercò con lo sguardo quel viscido verme del Pazzi e lo trovò seduto nella penombra al centro della stanza, nascosto dietro all’imponete figura del Capitano Dragonetti.  
“Consigliere”, lo salutò quest’ultimo, non riuscendo però a celare una nota di preoccupazione nel proprio volto. Si girò, facendo alcuni passi nella sua direzione. “Siete certo di voler restare qui? Posso riferivi tutto più tardi”, chiese, cauto, sottovoce per non farsi udire dal prigioniero. 
Becchi scosse la testa. “Voglio assolutamente sapere cosa è accaduto ad  Elettra. E lo voglio sapere direttamente da lui”. Il suo tono di voce non ammetteva repliche. Dragonetti sospirò, impossibilitato a fare altro per dissuaderlo. Il suo sguardo passò dalla figura del fidato consigliere della repubblica a quella di Clarice Orsini: dall’espressione della donna, capì che anche lei aveva inutilmente tentato di farlo desistere. 
“Ha detto qualcosa?”, domandò Becchi. 
Scosse la testa. “Su vostra nipote ancora nulla” 
Gentile Becchi prese un lungo respiro, poi si fece largo tra il cerchio di guardie della notte che si trovava riunito intorno a Francesco Pazzi. Gli si mise proprio di fronte, osservandolo dall’alto verso il basso.  
Si concesse alcuni secondi per godere della vista delle riprovevoli condizioni in cui quel lurido traditore si trovava: gli uomini di Dragonetti non ci erano andati leggeri con lui. Il labbro spaccato, un’occhio nero e diverse altre escoriazione sul viso testimoniavano l’odio che quegli uomini provavano per lui. E quella era solo la parte visibile.  
Gli scappò un sorriso di pura soddisfazione. Il primo da diverse ore. 
“Cosa siete venuto a fare qui, consigliere?”, chiese il Pazzi, con una sfrontatezza che mal si addiceva a quel momento. Sputò a terra un grumo di sangue quando finì di parlare. 
Il Capitano si fece più vicino e Becchi non potè fare a meno di notare il lampo di paura che passò nelle iridi del traditore. 
“Cosa è accaduto a mia nipote?”, chiese senza fare troppi giri di parole. 
Le labbra del Pazzi si piegarono nuovamente in un sorriso di quelli falsi, di cui il consigliere ne aveva visti troppi. E che da sempre aveva mal sopportato.  
“Da dove volete che incomincio il mio racconto? Dal momento in cui ho dato in pasto la piccola ed innocente Elettra all’esercito del Duca Federico o da quello in cui in un gesto di pietà ho deciso di porre fine alla sua vita?”. Proruppe in una inquietante risata che durò per diversi secondi. “La stupida credeva di fare un gesto eroico a sacrificarsi per concedere ancora un po’ di tempo all’artista e al vostro padrone...ha combattuto valorosamente, di questo gliene devo dare atto, ma non ha potuto nulla contro la mia spada” 
Gentile Becchi a quelle parole era impallidito, questo lo avevano notato tutti, ma quando Dragonetti fece per avvicinarsi a lui, lo bloccò con un gesto secco della mano. “L’ho ferita per disarmarla, ma non era una ferita mortale. Volevo decapitarla all’istante, ma poi mi è venuta un’idea migliore”. Il sorrisetto sulle sue labbra si fece più largo. “I soldati del Duca sono letteralmente impazziti quando hanno sentito l’odore di carne fresca. Si sono avventati su di lei come un bravo di lupi si avventa su una pecorella smarrita e...” 
“Ora basta!”, urlò Clarice. Si avvicinò a Gentile Becchi, che a sua volta la osservò con sguardo vuoto. “Ora ce ne andiamo”, aggiunse la Madre di Firenze, prendendo l’anziano a braccetto. 
“Ma non avete ancora sentito la parte migliore, Madonna”, continuò il Pazzi. “Era ancora viva quando i soldati hanno finito di giocarci...è strano come la vita si attacchi così strenuamente a certi individui” 
“La vostra vi verrà tolta domani all’alba”, lo interruppe Dragonetti, minaccioso. Un neanche troppo velato invito a fare silenzio. 
Il Pazzi parve nemmeno notarlo, dal momento che continuò imperterrito il proprio racconto. “Ci ho pensato io a darle il colpo di grazia, infilandole un pugnale nello stomaco. L’ho anche rigirato un paio di volte per essere certo che morisse” 
Nel frattempo, Clarice scortò fuori dalla sala interrogatori Gentile Becchi. 
“Ho dato l’ordine di fare a pezzi il suo corpo e gettarne le parti nell’Arno” 
La porta si stava chiudendo alle loro spalle.  
“Dovevate vedere la disperazione sul volto di Riario quando l’ha sap...” 
La sua voce smise di colpo quando un pesante ferro di metallo colpì la testa di Francesco Pazzi, facendogli perdere i sensi. Dragonetti poggiò a terra l’arnese, seguendo velocemente fuori gli altri due. 
Gentile Becchi nel frattempo era stato fatto sedere su di una panca e gli era stato dato un bicchiere d’acqua. La mano che lo reggeva tremava vistosamente. 
Se non fosse stato per le palpebre che si alzavano ed abbassavano ad intervalli regolari, non lo si sarebbe potuto considerare in vita. 
“Non siamo certi che quello che Pazzi ha detto sia la verità”, disse Clarice. Seppur provata anche lei, cercò di non darlo molto a vedere. 
L’anziano consigliere la osservò nuovamente con quello sguardo vuoto. Gli occhi azzurri spenti. “Perchè un uomo condannato al patibolo dovrebbe mentire?”, chiese con voce flebile. 
Alla sua domanda seguì un lungo silenzio. 
L’uomo sospirò.  
“Datemi carta e penna...devo dare la notizia all’unico nipote che mi è rimasto”. 

 

   
 
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