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Autore: Adeia Di Elferas    10/05/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Gli ambasciatori di papa Alessandro VI arrivarono a Castelfranco con un giorno di ritardo rispetto a quelli della Lega Santa.

Virginio Orsini, che se ne sarebbe andato dalla zona di Todi molto prima, se solo la paga non fosse arrivata con tanta difficoltà, accolse gli uomini di Roma con incredula sorpresa.

Prima di tutto, i messi di Rodrigo Borja lo criticarono apertamente e davanti ai suoi sottufficiali per il modo in cui era entrato a Monteleone d'Orvieto con la forza e poi, in modo non dissimile da come avevano fatto quelli della Lega, lo biasimarono per la sua scelta di schierarsi con i francesi.

Mangiando la foglia, Virginio aveva chiesto ai suoi di lasciarlo solo con i messi pontifici e, una volta ottenuta la segretezza necessaria, si voltò con impeto verso gli uomini di Roma e, con i baffetti che si agitavano come le vibrisse di un gatto esclamò: “Potevate evitare!”

Gli inviati papali allargarono le braccia, si scambiarono mezze frasi e si scusarono a mezza bocca, dicendo che era necessario, al buon fine del loro compito, che nessuno a parte l'Orsini sapesse la verità.

“Se mi prendete così a male parole davanti ai miei soldati, io che posso fare poi per farmi rispettare da loro?!” proseguì Virginio, mettendosi le mani strette a pugno sui fianchi.

Da giorni non dormiva bene. La vita militare cominciava davvero a essergli di peso e, se solo avesse potuto farlo, avrebbe mollato tutto in quel preciso istante.

Alla sua età non era il caso di correre a quel modo dietro ai giochetti di uno o dell'altro. Se sua sorella Bartolomea ne aveva ancora la fibra, Virginio non si sentiva più fatto della sua stessa pasta.

Tuttavia sapeva di non poter lasciare il campo così, proprio quando il gioco si faceva difficile. Non era nel suo stile.

Rodrigo Borja stava tessendo una rete imperscrutabile e siccome l'Orsini era entrato a farne parte, senza neppure rendersene conto, doveva fare del suo meglio per far filar liscia la matassa che gli spettava.

Il papa si dichiarava fedele alla Lega antifrancese da lui stesso costituita, ma di fatto suo figlio si stava avvicinando al regno d'Oltralpe, tanto da essere stato messo dal Santo Padre sotto l'ala protettrice di Paolo Orsini.

Virginio, che stava cercando con quei brevi ingaggi di mettere da parte un po' di soldi, era passato in modo più netto dalla parte di Carlo VIII e al contempo del figlio del papa e quindi Alessandro VI doveva fingere di discostarsene, per non adirare la Lega.

Tutti quegli intrighi non facevano più per Virginio. Gli doleva la testa ogni volta che provava a raccapezzarsi. La politica non era più quella di un tempo. Da quando era papa un Borja, il sotterfugio aveva rimpiazzato l'onore delle armi e questo a Virginio non andava giù.

Passandosi una mano tra i capelli ancora abbastanza scuri, ma sempre più radi, l'Orsini sbuffò e guardò di soppiatto i messi pontifici: “Ferrandino d'Aragona ha davvero venduto a Venezia tutte quelle città?”

Uno degli ambasciatori si fece avanti e annuì: “Brindisi, Trani, Otranto e Gallipoli. Ci ha guadagnato duecentomila ducati.”

Virginio soppesò quel dettaglio e poi avvertì il solito fastidio che gli prendeva lo stomaco quando non mangiava per troppo tempo. Gli facevano male le gambe per il tempo trascorso in piedi sotto la pioggia a Monteleone d'Orvieto, e aveva pure una spalla che scricchiolava e gli doleva quando la sollevava troppo. Insomma, non c'erano altre cosa da dire: era vecchio e basta.

“E sia, e sia...” sussurrò tra sé, poi si rivolse di nuovo ai romani: “La Lega mi ha offerto quarantamila ducati per farmi ritirare dalla condotta francese e sta minacciando di invadere le mie terre, lo sapete, sì? Il papa lo sa?”

“Sua Santità sa tutto.” confermò uno dei messi.

“Sa tutto, ma non gliene importa nulla, suppongo.” parafrasò Virginio, mettendosi a vagare per la stanzetta che aveva scelto come suo studio ad interim nel castello appena requisito: “Comunque che stia tranquillo. Non accetterò soldi dalla Lega e non cambierò la mia strategia. Ma che si sbrighi a prendere una posizione chiara, perché i miei uomini prima o poi capiranno che qualcosa non quadra e non sarà facile tenerli a bada. Per metà i miei mercenari sono avanzi di galera. Non tutti saprebbero gestirli. Se il papa vuole questi soldati, deve tenersi buono me. Che se lo ricordi.”

“Riferiremo.” concesse uno degli ambasciatori.

Virginio squadrò per un istante tutti loro, i loro vestiti sfarzosi e le loro acconciature pompose ed esagerate. Se quello era il volto della cristianità...

“Adesso andatevene, o i miei ufficiali mi faranno troppe domande. Il nostro colloquio è durato già anche troppo.” li congedò Virginio, allargando le braccia e accennando con il capo alla porta.

 

Lucrezia Landriani aveva passato Faenza senza difficoltà, anche se la sua scorta, scelta elemento per elemento da Caterina in persona, non aveva accennato a mollarla neppure per un attimo né prima di arrivare in città, né mentre la traversavano, né tanto meno dopo esserne usciti.

I segni dei recenti scontri con gli uomini dei Naldi e di Ottaviano Manfredi erano ancora ben visibili nei danni, seppur minimi, alla cinta muraria di Faenza, ma la madre della Contessa trovò i veri indizi del passaggio della guerra in altri dettagli.

I campi coltivati a cui passarono accanto erano per metà incolti e i pochi contadini erano o anziani o bambini e solo le donne sembravano avere ancora la forza di lavorare. I mendicanti si sprecavano, lungo la via e di quando in quando qualche manipolo di soldati con addosso i colori dei Manfredi li incrociavano, fissandoli cupi.

Quando furono in vista di Imola, Lucrezia si permise di tirare un sospiro di sollievo. Passata la porta principale, la città le si aprì dinnanzi con la sua solita serafica calma e, per quanto anche per le strade che portavano al palazzo del Governatore ci fossero più accattoni del solito, la situazione sembrava molto più sotto controllo che non a Faenza.

Lucrezia avrebbe voluto andare prima da suo marito Gian Piero, alla rocca, ma aveva fatto una promessa a Caterina e la lettera urgente per Tommaso sembrava pesare un quintale nella tasca interna del suo abito scuro.

La donna aveva già consegnato un messaggio a suo figlio Piero, a Forlimpopoli, prima di andare verso Imola e il giovane aveva letto immediatamente le parole della sorella, senza né commentarle né tradire alcuna reazione.

Quando faceva così, aveva pensato sua madre, assomigliava molto a Caterina. Anche se avevano in comune solo metà del sangue, nessuno avrebbe potuto dubitare che fossero fratelli.

Piero aveva messo via la missiva e poi si era dedicato a Lucrezia con il suo solito umore gioviale, ereditato da Gian Piero, augurandole un buon viaggio e chiedendole di salutare il padre e Bianca anche da parte sua.

La scorta portò Lucrezia fin proprio davanti all'ingresso principale del palazzo del Governatore e solo quando uno dei servi arrivò ad aprirle la lasciarono e si dedicarono a mettere a riposo i cavalli e a portare i pochi bagagli della loro protetta dove pattuito.

“Devo consegnare una lettera urgente al Governatore.” esordì Lucrezia, cercando un'indicazione su dove trovare il genero.

Il servo la portò allora allo studiolo di Tommaso, dicendole, lungo il tragitto, che 'Madonna Bianca' era fuori, ma che sarebbe tornata presto, sicuramente prima di cena.

Tommaso aveva il capo basso, gli occhi immersi nella lettura di una serie di resoconti stilati in parte dal suocero e in parte dal vice del bargello cittadino.

Quello che gli avevano riferito era gravissimo e stentava a credere che fosse vero. In quei documenti si diceva che il bargello, Giovanni Merlo, aveva rubato alle casse di Imola circa duecento ducati d'oro e quindi, essendo stato scoperto, era stato subito messo in carcere e si attendeva che il Governatore decidesse che farne di lui.

“Non vorrei disturbare...” disse piano Lucrezia, mentre varcava la soglia aperta dello studiolo.

Tommaso non riconobbe subito la voce, perciò sollevò lo sguardo con espressione corrucciata, ma si aprì in un sorriso – che però non si estese fino agli occhi – quando vide la suocera: “Voi non disturbate affatto.”

Lucrezia scambiò con il genero un paio di frasi di prammatica e poi gli consegnò il dispaccio urgente scritto da Caterina: “Ora, visto che mia figlia Bianca è fuori, andrei a salutare mio marito alla rocca...”

Tommaso annuì: “Bianca fa spesso giri in città. Dice che l'aiuta a tenere il contatto con il popolo e in effetti in molti l'apprezzano.” e poi aggiunse: “Intanto vi farò preparare una stanza...”

“Alloggerò alla rocca. Ho già detto alla mia scorta di portare là i miei bagagli.” rispose subito Lucrezia: “Non ho intenzione di importunarvi.”

“Ma resterete per cena.” decise il Governatore, senza ammettere repliche.

La suocera ringraziò e poi lasciò lo studiolo, permettendo a Tommaso di leggere in santa pace la missiva della Contessa.

Rompendo il sigillo, che mostrava la rosa dei Riario, con un'improvvisa scarica di rabbia – una di quelle che, a volte, involontariamente, ancora prendevano Tommaso nel pensare alla cognata e di conseguenza alla morte di Giacomo e alla punizione monca messa in atto per vendicarlo – il Governatore si rimise seduto alla scrivania e iniziò a leggere.

Com'era suo costume, Caterina non si era dilungata in grosse perifrasi, ma, dopo un brevissimo saluto, aveva scritto: 'Ho necessità di trovare in fretta fondi sicuri per alcune opere pubbliche che ho intenzione di intraprendere in Forlì. Se trovate un modo, uno qualsiasi, di reperire del denaro senza imporre nuove tasse o gabelle, scrivetemi immediatamente.'

 

“La vera festa sarà a casa di Francesco – stava spiegando, un po' recalcitrante, Galeazzo Sanseverino agli ospiti del Moro – e poi io mi recherò a Bobbio per visionare la zona.”

Ludovico ascoltava le parole del fresco genero con attenzione, pronto a cogliere anche una sola nota stonata. Finché Galeazzo si limitava a parlare di banchetti e intrattenimenti, a lui stava bene.

Si era deciso di tenere un sontuoso ricevimento nella casa, appunto, del Conte di Caiazzo e sarebbe stato il domine magister Leonardo a organizzare tutto quanto. Dopo la festa del Paradiso, in molti si attendevano grandi cose da quell'allestimento e quindi la curiosità serpeggiava irrequieta tra gli invitati alle nozze.

“Allestire la Danae...” soppesò Beatrice, come se avesse letto nella mente del marito: “Che idea bizzarra, per un matrimonio.”

Il Duca sollevò le spalle, facendosi versare dell'altro vino da un servo. La sala del ricevimento era piena di gente che mangiava, beveva e chiacchierava. I due sposi, che erano stati messi per l'occasione al centro della tavolata d'onore, stavano disquisendo con diversi commensali e Ludovico, purtroppo, non poteva sentire quel che diceva Bianca Giovanna.

Da come si infervorava e rideva, dato che stava chiacchierando con un paio di nobildonne di corte, probabilmente si tratta di pettegolezzi.

La cerimonia era stata celebrata senza troppo risalto, una funzione breve ed elegante e, di comune accordo con il Sanseverino, il Moro aveva deciso di abolire per quella volta l'usanza della messa a letto degli sposi.

Beatrice, ricordando come anche le nozze tra lei e il Duca non fossero state coronate da quella barbara usanza, fu del tutto d'accordo e fece anche un apprezzamento al marito per la sua sensibilità e il suo buon senso paterno.

“Tua cugina Isabella – disse a un certo punto della cena il Moro, quando sembrò che la moglie fosse abbastanza rilassata e rapita dalla musica – ha insistito ancora con le guardie dicendo che la sua figlia più piccola sta male. Vuole un medico, perchè dice che potrebbe morire.”

“E le guardie vedano di farla tacere. Sono pagate apposta!” ribatté all'istante Beatrice, facendo assumere alle piccole labbra un'espressione dura: “Alfonso di Napoli è morto. E Ferrandino è allo sbando, non lo vedi? Sta vendendo città che gli servirebbero solo per finanziare una guerra che sa di non poter vincere. Chi credi che prenderebbe le difese di mia cugina? Sinceramente, Ludovico, non capisco nemmeno perché non la fai uccidere e basta.”

Il Duca inghiottì un pezzo di spongata e, distratto da Galeazzo Sanseverino che si era alzato in piedi con riluttanza per un brindisi corale alla salute della sua novella sposa, commentò: “Non ammazzo nessuno, io, almeno finché non sarò certo che non sia davvero inutile tenerla viva.”

Beatrice sbuffò, ma siccome l'amica Bianca Giovanna la stava richiamando a sé per alzare assieme i calici, non si soffermò più di tanto e lasciò correre quel ragionamento del marito, benché secondo lei denotasse un'eccessiva inclinazione all'essere indulgente con chi non lo meritava.

 

Bianca Landriani aveva chiesto alla madre di fermarsi un momento, finita la cena. Lucrezia aveva acconsentito, ma solo dopo che Tommaso aveva fatto sapere che quella sera sarebbe stato impegnato in una riunione straordinaria per discutere di alcuni affari di bilancio.

“Non fare tardi.” aveva detto Bianca, sfiorandogli il braccio con fare protettivo.

Tommaso si era irrigidito per un istante e aveva poi addolcito lo sguardo e fatto un cenno con il capo: “Farò quello che posso.”

Lucrezia e la figlia, quindi, rimaste sole, si andarono a sistemare in una delle stanze più belle del palazzo. Misero due poltroncine vicino al camino e per qualche minuto parlarono delle vacuità che si toccano sempre quando non ci si vede da qualche tempo.

Bianca ricordava bene di quando suo marito Tommaso era partito in fretta e furia per Forlì, appena ricevuta la notizia della morte di Giacomo e ricordava anche il suo sgomento, nel sentire che sua madre Lucrezia si era recata con lui in una città che, a detta di tutti, era piombata di colpo nel caos di una guerra civile.

Riavere a Imola sua madre, in carne e ossa, viva e vegeta, le dava una strana sensazione. Era felice che non le fosse successo nulla. Eppure...

“Bianca, stai bene?” chiese Lucrezia, sporgendosi un po' verso la figlia che, mentre rimuginava tra sé, aveva puntato gli occhi chiari verso il camino, mettendo in mostra l'impercettibile velo di lacrime che li stava per coprire.

“Sto bene. Sto bene...” rispose la giovane, tenendo le mani strette in grembo: “Anzi, a proposito...”

Con un lungo sospiro, Bianca si trovò improvvisamente a chiedersi se quello fosse il momento giusto per parlare a sua madre della sua gravidanza. Ormai era di più di cinque mesi e si sarebbe già visto il ventre sporgente, se solo avesse indossato abiti un po' più succinti.

Gli altri li aveva persi molto prima, quindi le sue paure cominciavano a dissiparsi. Malgrado ciò, ancora le sembrava che parlarne con qualcuno avrebbe potuto attirare su di lei qualche sciagura, come se, in un momento di lutto come quello, essere felici fosse un crimine e perciò il fato l'avrebbe condannato con qualche orribile punizione.

Lucrezia era in attesa e così la figlia sospirò e, con un sorriso un po' incerto, disse: “Io e Tommaso aspettiamo un bambino.”

La madre non reagì con troppo entusiasmo, ma con moderato interesse e Bianca capì bene il perché. Troppe altre volte quella notizia aveva animato Lucrezia di gioia, e poi affrontare la tristezza di sapere perso un nipote l'aveva sfinita e gettata nello sconforto.

“Sento che questo non lo perderò.” la rassicurò Bianca, con decisione: “Dovrebbe nascere verso maggio, se abbiamo fatto bene i calcoli.”

“Non manca poi molto a maggio...” sussurrò Lucrezia, le cui iridi azzurre iniziavano a rianimarsi dinnanzi a quella insperata prospettiva.

“Infatti, non manca poi molto.” fece eco Bianca, mentre la madre si alzava e andava a stringerla nel suo abbraccio.

Dopo un attimo di commozione di entrambe le donne, Lucrezia si riise seduta al suo posto, si asciugò le guance e chiese, cercando di tornare a un tono più leggero: “E come stai? Hai avuto nausee?”

Bianca scosse il capo: “No, solo un paio di volte. Infatti, all'inizio ero un po' preoccupata, perché...”

Lucrezia la fermò alzando una mano: “Non tutte le gravidanze danno nausee al mattino. Io, per esempio, non ne ho praticamente mai avute. Su sei figli, mi è successo una volta e basta. Solo quando aspettavo Caterina.”

Nel sentire quel nome, il volto di Bianca si oscurò all'improvviso: “Ah! Caterina si faceva notare anche prima di nascere.”

Il modo tagliente in cui la giovane aveva parlato ferì particolarmente la madre, che provò a convincerla a cambiare un po' registro: “Non avere astio verso tua sorella. Che ti ha fatto di male, in fondo? Ha dato una carica di tutto rispetto a tuo padre e a tuo fratello, ti ha dato un'ottima dote quando volevi sposarti, ti ha dato una casa...”

“Io una casa l'avevo già.” disse con ostinazione Bianca, gli occhi che correvano di nuovo al camino e si perdevano nei ricordi della sua vita a Milano.

Lucrezia scosse la testa con decisione: “Ludovico si sarebbe liberato di noi, prima o poi, non lo capisci? Milano non era più una città adatta a noi. Non era più un posto sicuro.”

La figlia sollevò le sopracciglia e fece un'espressione ironica: “Perché, questo è un posto sicuro, invece?”

La madre cominciava a essere stanca di dover sempre difendere Caterina, la sua prima figlia femmina, la bambina che aveva sempre preferito sopra a tutti gli altri, senza riuscire a essere abbastanza obiettiva da vederne i grandi difetti oltre ai pregi.

Con un sospiro un po' rassegnato, Lucrezia si lisciò l'abito e fece intendere di volersi ritirare subito alla rocca, presso il marito: “Caterina – specificò, mentre si avviava alla porta, seguita a breve distanza da Bianca – ci ha teso una mano quando nessuno voleva farlo. Ricordati questa gentilezza, perché in pochi ti faranno favori simili in futuro. Non è colpa sua se mentre eravamo qui siamo state catturate dagli Orsi, né se adesso ci siamo trovate in un paese in guerra. E se Tommaso si era innamorato di lei, prima di innamorarsi di te, cerca di capire che tua sorella non ne ha colpa.”

Bianca contrasse i muscoli della mascella e si sforzò di sorridere, mentre congedava la madre: “Ti aspettiamo anche domani sera.”

 

Caterina era sui camminamenti della rocca e stava osservando dall'alto la sua città. Quel giorno aveva cominciato a ragionare di progetti assieme a Pompeo Lacchini, un costruttore e un curatore di parchi che le era stato fortemente consigliato da più di una persona.

In effetti quell'uomo aveva belle idee, ma sembravano molto costose e la Contessa ancora non aveva trovato una fonte sicura di guadagno per finanziare la sua opera.

Mentre si arrovellava su come racimolare almeno la cifra sufficiente per ingaggiare Lacchini, la Tigre lasciò che il vento freddo che portava la sera le scompigliasse i biondi capelli portati sciolti.

Le guardie di ronda le passavano accanto con noncuranza, avvezzi alla sua costante presenza nelle attività quotidiane della rocca.

Teneva le mani appoggiate alla pietra gelida e gli occhi vagavano irrequieti sulle luci di Forlì, che si stavano accendendo una dopo l'altra, come tanti piccoli bracieri di vita.

Mentre era assorta nei suoi pensieri, Caterina fu attratta da una figura vestita di nero che si stava avvicinando alla rocca. Aguzzò la vista e, alla luce delle grandi torce che illuminavano la statua bronzea che ritraeva Giacomo, si accorse che quello che stava avanzando era suo figlio Cesare.

In quei mesi era smagrito, si era fatto anche più alto, allampanato, con la tonsura sempre più evidente, e il profilo del suo naso si era fatto più aguzzo, rendendolo ogni giorno di più una copia sbiadita e più giovane del cugino Raffaele Sansoni Riario.

La Tigre lo seguì con lo sguardo mentre affiancava il monumento memoriale. Cesare si fermò per qualche lunghissimo minuto, alzando il volto verso quello di bronzo che aveva – raffigurate in modo abbastanza fedele – le sembianze dell'uomo che con le sue azioni aveva contribuito a portare alla tomba. Poi si fece il segno della croce, quasi si trovasse davanti alla statua di un santo e infine raggiunse il ponte levatoio abbassato.

Caterina a quel punto voltò le spalle alla città e rientro nelle viscere della rocca, stando ben attenta a evitare le zone in cui avrebbe potuto incontrare il suo secondogenito.

Era arrivata alla sala delle armi, a quell'ora già buia e deserta, quando venne raggiunta dal castellano Feo: “Mia signora, è giunta da Imola questa. Il messaggero ha detto che è urgente.”

La Contessa prese la lettera all'istante e sentì il cuore battere più in fretta nel vedere che l'intestazione era scritta con la grafia di Tommaso. Se le aveva già risposto, significava che aveva trovato una soluzione.

Ringraziò il castellano e si mise sotto a una delle torce a muro che illuminavano l'armeria.

'Ho la risposta al nostro problema, se voi sarete d'accordo. Giovanni Merlo, bargello cittadino di Imola, s'è macchiato di furto per duecento ducati d'oro rubati alle nostre casse. L'ho incontrato in cella e gli ho detto che per un simile reato la pena è la morte per mano vostra. A quel dire, si è dichiarato disposto a pagarne il doppio, pur di essere libero. Ha proprietà e case da vendere, dunque potrebbe pagare senza fiatare. Inoltre, se i quattrocento non sono bastanti, egli dice di poter fare i nomi di chi sa aver comprato alcuni campi con la truffa, aggirando le disposizioni vostre. In questo modo potremmo sfrattare i compratori fraudolenti e far pagare una multa ai venditori corrotti e così la somma si alzerebbe. Fatemi sapere se devo accettare la proposta di Merlo. Attendo vostri ordini.'

Caterina passò con distrazione la punta dell'indice sulla firma vergata dalla mano di Tommaso e sospirò. Sapeva di poter contare su di lui, come sempre.

“Fate preparare una staffetta – ordinò la Contessa al castellano, che attendeva eventuali consegne sulla porta della sala delle armi – che corra a Imola e riferisca la mia risposta al Governatore.”

“Cosa deve dire, mia signora, di preciso?” domandò Cesare Feo, raddrizzando la schiena e inclinando la testa.

“Semplicemente questo: sì.” rispose la Tigre e per un attimo il suo castellano ebbe il dubbio di aver visto l'ombra di un sorriso passarle sulle labbra.

 
   
 
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