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Autore: Old Fashioned    11/05/2017    19 recensioni
Siamo nell'India coloniale di fine ottocento. Il tenente Eldred Grosvenor dei fucilieri di Sua Maestà è prigioniero dei thug e sta per essere sacrificato alla dea Kali per mano di un maharaja traditore alleato con l'Impero Russo. Ma i thug non erano stati debellati quarant'anni prima dal generale Sleeman? Chi è stato a far riprendere loro l'antico vigore e a fomentarli contro l'Impero Britannico? Chi è la misteriosa spia dello Zar che sta finanziando il Movimento Indipendentista Indiano? Ma soprattutto: riuscirà il nostro tenente a salvare la pellaccia?
Prima classificata al contest "Dire Circumstances" indetto da Sagas sul forum di EFP.
Genere: Avventura, Azione, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Grosvenor'
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Capitolo 3

Al vecchio signore della barca avevano dato ben più di una rupia a testa. Grosvenor aveva preso un po’ delle banconote requisite a Suraj Singh e gliele aveva consegnate, causandogli quasi un attacco cardiaco. Probabilmente il fioraio aveva ricevuto in due ore di lavoro l’equivalente di circa tre anni di giacinti e rododendri.
Per tale motivo s’era industriato particolarmente ad aiutare i suoi benefattori: avrebbe voluto invitarli a casa sua e offrire loro da mangiare, ma il tempo era poco e i rischi molti, per cui i quattro si accontentarono di qualche informazione pratica e di un passaggio fino in paese sul suo carretto.
Il piccolo centro abitato, di nome Mahish Bathan, comprendeva un tempio di mattoni, casupole di legno e due strade sterrate che formavano un incrocio. C’erano bambini e polli che razzolavano in giro, donne che camminavano con cesti in equilibrio sulla testa e le immancabili vacche sacre che si aggiravano indolenti. Accanto al tempio sorgeva un vecchissimo e nodoso banyan pieno di immagini votive, con le radici rosse per le ripetute offerte di gulal e nastrini colorati legati ai rami.
Un paio di scimmie sedevano tra le sue fronde spulciandosi a vicenda.
Grosvenor si guardò intorno. Un vecchio che sedeva sulla soglia di una casa si affrettò a rientrare, i bambini come per incanto si dispersero.
Il tenente si scambiò un’occhiata con Jenkins: la trasognata calma del luogo aveva assunto connotazioni vagamente sinistre.
Sono solo dei maledetti mangiacurry, signore. Abbiamo portato la civiltà e ci ringraziano in questo modo,” sentenziò il sergente.
Guardandosi intorno, l’ufficiale rispose: “Abbiamo portato anche il gin e l’acqua tonica, se è per questo, e abbiamo insegnato loro come mescolarli per ottenere il nettare degli dei, ma temo che il problema attuale non sia l’ingratitudine nei confronti della Corona Inglese.”
E quale sarebbe allora, signore?”
Probabilmente sanno che il maharaja sta cercando quattro sahib e guarda caso noi siamo proprio in quattro. Non vogliono grane.”
Con la coda dell’occhio notò che accanto al tempio c’era una donna vestita con un saree arancione che li fissava, ma quando si voltò ella era già di spalle e si stava allontanando con un recipiente in equilibrio sulla testa.
Muoviamoci,” disse il tenente.

Presero la strada che andava a nord-ovest, verso una pianura coltivata e punteggiata qua e là da qualche albero. All’orizzonte si vedeva la linea scura della foresta, ogni tanto c’erano dei gruppetti di casupole con panni colorati stesi ad asciugare
Era il primo pomeriggio, in cielo non c’era una nuvola. Nell’aria immobile, greve di umidità, non si sentiva nemmeno il canto di un uccello.
C’era qualche contadino al lavoro nei campi, sulla strada passava poca gente. Incrociarono un uomo che teneva per mano un bambino e una donna con un fascio di erbe di palude sottobraccio. Furono superati da un carro coperto trainato da una coppia di buoi. Al tenente parve di scorgervi un lampo di arancione, ma quando guardò meglio non riuscì più a ritrovarlo. Gli scricchiolii delle ruote e lo scalpiccio degli zoccoli si persero in lontananza.
Grosvenor approfittò di quella situazione di relativa calma per ripassare il piano che aveva ideato: il modo più veloce per arrivare a Calcutta, che distava circa settanta miglia, era certamente il treno. Considerato dove si trovavano, la stazione più vicina era Jotram, più o meno a dieci miglia da lì. Per raggiungerla si passava da Moktarpur, dove peraltro c’era anche una piccola guarnigione inglese che eventualmente avrebbe fornito ogni appoggio logistico, compresa la possibilità di telegrafare a Calcutta. Semplicissimo, in teoria.
Anni di servizio nelle Colonie gli avevano insegnato molto bene quanto poteva diventare ampio in certe situazioni il divario tra teoria e pratica.
Mentre stava così ragionando, nella caligine dell’orizzonte cominciò a prendere corpo una sagoma chiara.
Man mano che si avvicinavano la osservò facendosi ombra con la mano e notò che si trattava di un edificio in muratura con degli alberi intorno. All’ombra delle piante o sotto ripari di fortuna sedevano a gruppetti delle persone. C’erano anche animali da soma, carri e carretti.
Si direbbe una locanda,” constatò il sergente al suo fianco.
È quel che ci vuole,” rispose Grosvenor, “abbiamo giusto bisogno di bere qualcosa.”
Jenkins lo fissò stupito. “Volete dire qui, signore?”
Ho visto anche degli stagni, lungo la strada, ma sinceramente preferirei un tè.”
Non mi sento di darvi torto, signore.”

Vista da vicino, la cosiddetta locanda era solo un parallelepipedo di mattoni. I muri, una volta imbiancati a calce, erano scrostati e sporchi della terra rossa dei campi. Dal tetto pendevano festoni di peperoncini e mazzi di erbe aromatiche messe a seccare.
La porta era chiusa da una vecchia tenda sfilacciata.
C’era un ragazzino che faceva continuamente la spola fra dentro e fuori portando vassoi carichi di teiere ammaccate e bicchieri di lassi*.
Seguito dagli altri, Grosvenor entrò.
L’interno era costituito da una sola stanza tagliata in due da una specie di bancone. Da una parte c’erano una vecchia cucina economica carica di teiere e una giara di terracotta da cui spuntava il manico di un mestolo.
I pochi tavoli erano vuoti: la gente preferiva la pur modesta ventilazione del torrido esterno rispetto alla calura di quell’antro soffocante.
Chi si occupava della mescita era un uomo ossuto, con una rada barba grigia e un dhoti** rammendato come unico indumento.
Buon giorno,” lo salutò affabile il tenente, “parlate la mia lingua?”
L’indiano, che aveva sentito entrare gente ma era rimasto chino sulla cucina economica, all’udire una voce inglese sussultò. Si voltò a guardare e le quattro uniformi rosse gli fecero spalancare gli occhi. Cominciò a frugare sotto il bancone farfugliando cose indistinte.
Ehi, che stai facendo?” gli chiese il sergente insospettito. Con l’occhio dell’abitudine, Grosvenor notò che il sottufficiale era pronto a farsi scivolare il fucile dalla spalla e a imbracciarlo.
Aspettate, Jenkins,” gli disse con la più grande tranquillità, “forse questo bravo indigeno ha degli ottimi motivi per fare quello che sta facendo.” Poi, rivolto all’uomo: “Ripeto, carissimo: parlate la mia lingua?”
L’altro si raddrizzò. “Solo poco, sahib.” Finalmente tirò fuori quello che stava cercando: una scatola di latta con dentro delle carte accuratamente piegate. “Io sepoy,” disse, mostrando un foglio di congedo. “Da giovane. Sepoy.”
Se questo qui era un sepoy, io sono il re degli zulu,” ringhiò il sergente fissandolo torvo.
Grosvenor recepì l’informazione. Fece finta di niente, ma rinunciò a mostrare i dadi che aveva in tasca. “Benissimo, avete servito sotto la Corona,” disse con l’aria più tranquilla del mondo, “è una cosa molto bella. Ora potreste darci un po’ di tè, per favore? Niente zucchero né latte.”

Come minimo ci sputerà dentro, quel maledetto mangiacurry,” brontolò Jenkins, ancora poco convinto.
Grazie all’intervento di Barrett avevano ottenuto un posto sotto un albero ed erano in attesa che il ragazzino portasse loro il tè e le tazze.
E non è neppure stato sepoy. Io li riconosco a distanza quelli che hanno portato una divisa britannica.”
Neppure io penso che lo sia stato, sergente,” gli rispose Grosvenor, “e il fatto che abbia tirato fuori quella balla è decisamente sospetto. Terremo gli occhi aperti, ma in ogni caso dobbiamo bere, se non vogliamo che ci venga un colpo di calore.” Si passò con cautela le dita sul sopracciglio ferito. Il sudore gli faceva bruciare il taglio non ancora completamente chiuso, e in generale gli faceva male tutta la testa. Senza contare il resto del corpo, ovviamente.
Rivolse per l’ennesima volta il pensiero alle inaudite quantità di gin tonic che avrebbe bevuto una volta rientrato finalmente a Calcutta.
In quel momento arrivò il ragazzino, che lasciò accanto a loro un vassoio con quello che avevano chiesto.
A questo punto, Thayes si rivolse a Barrett e disse: “Chiedigli dov’è quel posticino. Non so come sia possibile con quello che ho sudato, ma devo...”
Soldato!” lo chiamò all’ordine Jenkins prima che potesse pronunciare il verbo.
Scusate, sergente. Però mi scappa.”
Ci fu un breve scambio di battute tra Barrett e il ragazzino, poi l’enorme militare si alzò e si diresse verso l’edificio.
Fu versato il tè.
Erano tutti molto assetati e venne vuotato un giro di tazze prima che Jenkins aggrottasse le sopracciglia e dicesse; “E adesso dov’è finito quell’impiastro?”
Gli altri realizzarono che in effetti Thayes non era ancora ricomparso. Si scambiarono un’occhiata. In un posto tropicale e lurido come l’India, le occasioni per avere improvviso bisogno di un bagno erano molteplici, ma nessuno pensò a un’eventualità del genere.
Sarà meglio che vada a controllare,” disse il sergente raccogliendo il fucile. Si allontanò nella direzione in cui era scomparso il soldato.
Passò appena un minuto, poi echeggiò uno sparo. I due superstiti balzarono in piedi e assieme alla totalità degli astanti corsero verso le latrine. Facendosi largo fra la folla vociante, il tenente vide la seguente scena: c’era Thayes addossato alla parete, ansante e pallido come un morto. Accanto a lui c’era Jenkins con il fucile ancora imbracciato.
Ai loro piedi era steso il corpo di un uomo con un turbante chiaro e l’estremità di un rumal stretta in pugno.
Non si può neanche pisciare in pace, in questo cazzo di paese,” mormorò Thayes massaggiandosi il collo, sul quale si vedeva un largo segno rosso.
Sebbene fossero in presenza di Grosvenor, Il sottufficiale evitò di riprenderlo per il linguaggio sconveniente. “Trentacinque anni di servizio e una cosa del genere dovevo ancora vederla,” ringhiò invece, in tono minacciosamente basso. “Un fuciliere di Sua Maestà che si fa sorprendere da un mangiacurry pidocchioso con l’affare in mano! Ti è andata bene che sei grosso, se no facevi la fine delle galline di mia zia. Ne riparliamo quando saremo a Calcutta.”
Scusate, sergente,” rispose il soldato, le enormi spalle curve in una postura avvilita.
E voialtri cos’avete da guardare?” latrò Jenkins alla folla di indiani. “Via! Fuori dalle scatole!”
Gli indigeni si dispersero senza fiatare.

La seconda parte della strada per arrivare a Moktarpur fu percorsa in modo decisamente più circospetto.
Avevano comprato un veicolo, tanto per cominciare. Un carretto coperto trainato da un mulo. L’avevano pagato probabilmente dieci volte il suo valore, ma tanto i soldi provenivano dalla generosa quanto inconsapevole donazione di Suraj Singh, e con essi il tenente si sentiva più prodigo di un mecenate rinascimentale.
Era ormai pomeriggio inoltrato e nessuno dei quattro aveva la minima voglia di farsi sorprendere dalle tenebre al di fuori delle protettive mura di un fortino inglese.
Mentre sedeva in silenzio nel cassone, Grosvenor ripensava all’incidente, per così dire, della locanda. Qualcuno li aveva preceduti. O perlomeno, qualcuno aveva diramato comunicazioni su di loro a chi di dovere e i thug li stavano aspettando. In una strada col sole a picco e trentotto gradi, era facile prevedere dove quattro persone che andavano a piedi e non avevano con sé acqua si sarebbero fermate, e lì avevano messo degli uomini.
Peraltro, quattro giubbe rosse non erano neppure difficili da notare.
Inutile chiedersi se a parlare fosse stato il vecchio o la spia dai lineamenti orientali, oppure se il maharaja avesse semplicemente immaginato che avrebbero cercato di raggiungere la guarnigione inglese. La faccenda importante era qualcuno li stava marcando stretti.
Ecco che fra teoria e pratica cominciava a comparire la prima fenditura.

Moktarpur era un po’ più grande di Mahish Bathan, il che significava che oltre alle case di legno aveva alcune case di mattoni, un paio di templi di pietra e un pozzo nella piazza centrale.
Il forte sorgeva su una lieve altura un po’ fuori dal paese.
Era una costruzione bianca di marziale essenzialità, con un portone, un giro di mura e torrette ai quattro angoli.
Che strano,” constatò Barrett, che sedeva a cassetta, “non c’è nessuno.”
Si stava facendo sera, ma il cielo ancora chiaro permetteva di vedere che i camminamenti di ronda erano vuoti.
I quattro si scambiarono un’occhiata. “Fermiamoci un momento,” ordinò il tenente, poi si rivolse al sottufficiale: “Voi che ne dite, Jenkins?”
Dico che non mi piace per niente, signore,” fu l’immediata risposta.
Era più o meno l’ora del rancio, ma non c’era un camino che fumasse. Da dentro non proveniva alcun rumore.
Sergente, prendete con voi Thayes e andate a dare un’occhiata,” disse Grosvenor estraendo il revolver. Barrett imbracciò il fucile.
Seguito dal soldato, Jenkins si avvicinò cauto al portone e diede due colpi con il calcio dell’arma. L’anta cedette con un cigolio e si socchiuse.
Il sergente fece un salto di lato per evitare eventuali pallottole, ma non successe nulla. A questo punto fece cenno al soldato di attenderlo ed entrò.
Passarono alcuni minuti, poi il sottufficiale uscì. “Sembra che non ci sia nessuno, signore,” disse stupefatto.
Grosvenor rimase perplesso. “Come, nessuno?”
Vuoto, signore. Non ho visto anima viva.”
Andiamo a controllare. Barrett, porta dentro il carretto, chiudi il portone e dà da mangiare a quel bravo mulo.”
Signorsì.”

Intanto era calato il buio e il forte deserto aveva assunto un’aria spettrale. C’era un gran silenzio, gli edifici venivano pian piano inghiottiti dall’oscurità. Abituati alla vita militare, ovvero luci accese e gente che vegliava a ogni ora del giorno e della notte, i quattro si guardavano intorno nervosi.
Controllarono in giro. Sembrava che qualche magia avesse fatto scomparire all’improvviso tutti gli effettivi del forte: i documenti del furiere erano ancora sulla scrivania, i viveri erano pronti per essere cucinati, i fuochi dei fornelli erano spenti ma la cenere era ancora tiepida. Nell’ufficio del comandante c’era addirittura un vassoio col servizio da tè pronto sul tavolo.
Jenkins guardò un po’ in giro, poi si chinò a osservare l’apparecchio telegrafico e disse: “I fili sono stati tagliati.”
A quelle parole, i quattro si scambiarono un’occhiata carica di preoccupazione.
Scesero nei sotterranei: l’armeria era stata vuotata di ogni suo contenuto. Anche buffetteria, borracce, coperte e altri oggetti di uso comune erano stati in gran parte asportati, probabilmente con la connivenza degli inservienti civili e degli abitanti del paese.
Ma dove sono tutti?” ruppe il silenzio Barrett.
Nessuno rispose. L’atmosfera si stava facendo man mano più greve, quel luogo fantasma stava instillando in tutti i più cupi presentimenti.
Alla fine scoprirono anche che fine avevano fatto gli uomini della guarnigione: erano stati ammazzati dal primo all’ultimo, compresi il comandante e l’ufficiale medico. I corpi erano ammucchiati in una cella gli uni sugli altri, già irrigiditi e con vistose macchie ipostatiche.
Tutti avevano la stessa lesione intorno al collo.
Maledetti selvaggi,” sbottò Jenkins contemplando l’orribile spettacolo.
Nessuno replicò. Chiusero la porta e tornarono su.
Quando furono di nuovo all’aria aperta, Grosvenor fece per parlare, ma ancora una volta si rese conto di non avere parole adatte a commentare quello che avevano appena visto. Con voce neutra si limitò a dire: “Barrichiamoci da qualche parte. Scommetto tutto il gin di Calcutta che stanotte torneranno a trovarci.”

La notte era silenziosa. I rumori della natura si udivano ovattati e solo in lontananza, come se le bestie in qualche modo riuscissero a percepire l’aura mortifera che circondava il forte e se ne tenessero alla larga.
Dopo una lunga disamina con il sergente Jenkins, il tenente Grosvenor aveva scelto come baluardo le cucine, per il semplice motivo che avevano acqua corrente, pareti rinforzate, finestre con le sbarre che davano sulla piazza d’armi e botola dei rifiuti, che in caso di estrema necessità avrebbe potuto essere usata come via di fuga.
Dopo aver mangiato ed essersi lavati alla meglio, i quattro vegliavano in silenzio. Approfittando del momento di relativa calma, Jenkins stava controllando le ferite del tenente Grosvenor.
Fa male qui?” chiese il sergente. L’ufficiale ebbe l’impressione che l’altro gli stesse premendo sul sopracciglio un ferro arroventato. “Un po’...” disse sobriamente.
È piuttosto profonda, signore. Come ve la siete fatta?”
È stata una mia dimostrazione d’affetto al maharaja, sergente.”
Domando scusa, signore?”
Data la sua ferma intenzione di tirarmi il collo, ho pensato di fargli saltare un paio di denti con una testata. Certo non è un cambio equo, ma in determinate situazioni ci si arrangia come si può.”
Capisco, signore. E vi fa male se la tocco?”
Sergente, volete la verità? Mi fa orribilmente male. Se non fossimo in questa deplorevole situazione, sarebbe un ottimo motivo per sbronzarmi fino a perdere la cognizione di me stesso.”
Ci vogliono dei punti, signore.”
Non penserete di ricucirmi come il telo dello spotted dog*** adesso, spero,” protestò il tenente inorridito.
Jenkins rimase imperturbabile. “No, ma è mio dovere informarvi che se domattina saremo ancora vivi lo farò, signore.”
Vi ringrazio per queste parole, che di certo nel malaugurato caso di una nostra sconfitta mi renderanno più leggero il trapasso.”
L’altro, che stava per ribattere, si immobilizzò in ascolto. Rimase con l’orecchio teso per un po’, poi sottovoce disse: “Sono qui fuori.”
Grosvenor arrischiò un’occhiata attraverso la finestra. Non vide nessuno, ma condivideva la sensazione del sergente, ovvero quell’intuito non spiegabile dalla Scienza per cui un soldato riesce a cogliere presenze nemiche pur senza percepirle direttamente.
Cercò di ragionare sulla situazione. Né il maharaja né il famigerato O’lim potevano permettersi di lasciarli arrivare a Calcutta. Lo scontro che si stava preparando, quindi, non sarebbe stato uno stimolante confronto fra gentiluomini condotto secondo i criteri del più rigido fair play, ma una battaglia sanguinosa in cui le alternative sarebbero state vincere a qualsiasi costo o morire.
Mentre era immerso in quelle meditazioni, sentì qualcosa rimbalzare contro la porta. Colse un inconfondibile sfrigolio.
A terra!” fece appena in tempo a gridare, poi ci fu uno scoppio che sembrò risucchiargli l’aria dai polmoni. Il mondo esplose in una nube di polvere e calcinacci tinta del bagliore aranciato delle fiamme.
Si alzò ancora rintronato, con le orecchie che gli fischiavano. La porta era sparita con metà della parete che la sosteneva, le sbarre delle finestre dondolavano nel nulla.
Notò con la coda dell’occhio che gli altri tre erano bianchi di polvere, ma in piedi e col fucile imbracciato. Estrasse la pistola e si sistemò al coperto dietro un pezzo di muro.
Alla luce delle fiaccole si vedevano uomini a torso nudo e col turbante chiaro muoversi furtivi. Il tenente ipotizzò che il senso pratico avesse infine prevalso anche in quella setta di nostalgici, perché la maggior parte di loro non aveva in mano un rumal ma un Martini-Henry ultimo modello.
Sic transit gloria mundi,” mormorò fra sé e sé.
Ragazzi, non voglio vedervi sprecare pallottole!” disse il sergente alle sue spalle, “Sparate solo quando siete sicuri di colpire!”
Il che, peraltro, non era un problema, perché dai lati del piazzale una torma di thug urlanti si precipitò sparando verso quel che restava delle cucine.
Le figure avanzavano nel buio, illuminate da tergo di una luce sanguigna che rendeva quei corpi asciutti e legnosi simili a diavoli usciti dall’inferno. Nell’oscurità si vedeva solo il bianco degli occhi e dei denti digrignati. Qua e là si udivano roche invocazioni a Kali.
Non avevano né addestramento né consapevolezza di quel che facevano, per cui i primi caddero come pecore al macello.
Alcuni riuscirono a saltare sui cumuli di macerie, ma furono respinti a colpi di baionetta.
Gli altri, vuoi per spirito di sopravvivenza, vuoi per l’ordine di qualcuno che aveva un minimo di cognizione, interruppero il dissennato avanzare e si addossarono alle pareti.
Le armi tacquero e sulla scena calò un silenzio rotto solo dai gemiti di qualche moribondo.
Il tenente si voltò verso Jenkins: “Non reggeremo a un secondo assalto. Penso sia meglio prendere in considerazione una ritirata strategica.”
Sono d’accordo con voi, signore,” rispose il sottufficiale.
Alzarono la botola del pavimento. Dal buco, nero come la pece, salì il tanfo di vegetali fermentati e carne putrefatta.
Buttarono giù un pezzo di carta incendiato e nel breve tragitto che esso compì videro delle pareti di mattoni e un fondo indefinito su cui navigavano cascami. Nel lato che dava sull’esterno c’era l’arco di una galleria.
Da fuori stavano ricominciando a sparare. Arrivò un altro candelotto di dinamite, che però rimbalzò lontano ed esplose senza fare particolari danni.
Dobbiamo muoverci,” disse Grosvenor.
Le pallottole dei thug colpivano le pareti rimbalzando con rabbiosi ronzii. Barrett e Thayes cominciarono a rispondere al fuoco per tenerli lontani.
Andiamo!”
Il tenente fu il primo a saltare. Atterrò senza danni e si trovò immerso fino alle ginocchia in un liquame fetido. C’era buio pesto, ma tastando tutt’intorno trovò l’imbocco della galleria. “Venite!” urlò.
Il secondo fu Thayes, che quasi gli finì addosso. Grosvenor se lo tirò dietro per una manica e lo fece entrare nella galleria.
Seguirono poi Barrett e per ultimo il sergente. Da sopra provenne il boato di un’esplosione e una gragnola di calcinacci piovve addosso a Jenkins facendo imprecare.

Il tenente in testa, i quattro cominciarono a procedere a tentoni. Dovevano camminare piegati per non urtare la volta e quasi ringraziavano di non aver a disposizione una luce, perché ciò impediva perlomeno di vedere il putridume nel quale stavano sguazzando.
Il fetore era così forte che prendeva alla gola rendendo ogni respiro un ferreo atto di volontà.
Procedettero così per un tempo che parve a tutti interminabile, poi finalmente a Grosvenor sembrò che il lume della galleria passasse da un nero pece a un grigio scurissimo. Allo stesso tempo cominciò anche a udire un lieve scorrere di acqua.
Avanzarono ancora un po’, il tunnel lentamente si schiariva, il tanfo si faceva meno intenso. Poi le mani di Grosvenor incontrarono un’inferriata. “Oh, no,” gemette il tenente.
Che c’è, signore?” gli giunse la voce del sottufficiale.
Una grata.”
Quanto è robusta, signore?”
Le sbarre sono grosse come il mio pollice.”
Questo non ci voleva.”
Ci fu qualche secondo di scorato silenzio, poi Thayes disse: “Signore, posso dare un’occhiata?”
Prego.”
Grosvenor si fece indietro per consentire il passaggio al soldato.
Questi afferrò le sbarre con la sua stretta poderosa e cominciò a scuoterle avanti e indietro. “Si può fare,” disse dopo qualche tentativo.
Cosa si può fare, Thayes?”
Posso provare a strapparle via, signore. Sono mezze marce.”
Che Dio ti benedica, soldato. Datti da fare allora.”

Per fortuna le sbarre erano effettivamente in pessimo stato. “Per una cosa del genere ci sarebbe da scrivere un rapporto lungo come un Requiem, signore,” buttò lì Jenkins, risentito come se la deplorevole condizione dell’inferriata fosse un affronto fatto a lui personalmente. “Sapete quanti mangiacurry potevano infilarcisi dentro?”
Pensate a cosa sarebbe successo se quella grata fosse stata in perfette condizioni,” gli ricordò il tenente.
L’altro non rispose.
Erano nel letto di un fiumiciattolo, apparentemente nessuno li stava seguendo. Stava per arrivare l’alba e i primi uccelli cominciavano a cantare.
Camminarono per un po’ allontanandosi dal forte, poi Grosvenor si fermò e disse: Sarebbe interessante scoprire dove siamo finiti.” Cercò di guardarsi intorno, ma il rigoglio delle piante nascondeva la visuale.
Barrett, va a dare un’occhiata,” disse il sergente.
Il ragazzo si inerpicò su per la sponda e scomparve. Tornò poco dopo dicendo: “Siamo vicini a un tempio.”
Riesci a vedere il paese?” domandò l’ufficiale.
Signornò. È ancora troppo buio, e poi siamo in mezzo alla giungla.”
Grosvenor si arrampicò a sua volta. Si erano in effetti addentrati in una foresta di enormi ficus macrophylla. Il tempio, che sorgeva proprio al centro di un gruppetto di alberi, nel corso dei secoli era stato inglobato dalle radici delle piante, diventando alla fine tutt’uno con esse.
Davanti alle statue delle divinità c’erano offerte di cibo, fiori e gulal, segno che il luogo era oggetto di culto.
Sarà il posto dove vengono a pregare dal villaggio,” disse. “Del resto, Moktarpur non può essere lontano, non abbiamo fatto molta strada in quel torrente.”
E a Moktarpur ci sono duecento thug e una spia russa che ci aspettano, pensò.
La questione peraltro non si esauriva con il paese: se quei tizi erano appena un po’ più intelligenti di un babbuino, trovando la botola aperta e la grata divelta dovevano aver immaginato da che parte se n’erano andati e probabilmente erano già sulle loro tracce.
Io credo che tra un po’ avremo visite, sergente,” disse.
Lo penso anch’io, signore,” rispose Jenkins.
Come stiamo a munizioni?”
Qualche minuto di fuoco, signore, poi ci restano le baionette.”
Grosvenor stava per rispondere quando il lieve rumore di un ramoscello spezzato lo fece irrigidire. “Nascondetevi,” disse sottovoce. Tutti cercarono riparo tra le antiche pietre.
Nel chiarore che precede l’alba videro arrivare una donna col capo coperto. L’ufficiale notò che aveva un saree arancione e la cosa gli comunicò un sordo turbamento. Possibile che fosse la stessa persona che aveva visto a Mahish Bathan? E se lo era, cosa ci faceva lì?
La donna avanzò adagio. Aveva in mano dei fiori di loto e qualcos’altro che nella scarsa luce non si distingueva. Si inginocchiò davanti a una delle immagini sacre, giunse all’altezza del viso le mani decorate con l’henné e recitò sottovoce una preghiera, poi appoggiò sull’altare qualcosa che mandò un lieve suono metallico.
Fatto questo, si alzò e si allontanò, scomparendo lentamente nella lieve caligine che ammantava la foresta silenziosa.
I quattro lasciarono passare alcuni minuti prima di decidersi a uscire dai nascondigli.
Jenkins si volse nella direzione in cui si era allontanata la donna, scosse la testa e brontolò: “Mangiacurry. Credono che lasciare cibo faccia piacere ai loro dei. Farà piacere agli animali, al massimo.”
Non dispiacerebbe nemmeno a me, sergente,” borbottò Thayes. “Mi mangerei un cavallo.”
Cavallo o no, non provare a toccare quelle porcherie,” replicò Jenkins, poi lanciò un’occhiata all’offerta, sollevo le sopracciglia e disse: “Che mi venga un colpo.”
Assieme ai fiori di loto, sulla pietra c’erano una grossa chiave di bronzo e un dado d’osso.

Il tenente raccolse i due oggetti. Il dado era identico a quelli che aveva in tasca.
Sergente, controllate se da qualche parte c’è una serratura,” ordinò.
Signorsì.”
Poco dopo gli inglesi erano nella costruzione principale del tempio, chiusi a chiave in una stanzetta semibuia. La porta aveva qualche fessura, attraverso la quale si vedevano uomini a torso nudo e col turbante chiaro che si aggiravano stringendo in pugno il rumal.
Qualcuno aveva anche provato a spingere l’anta, ma trovandola bloccata non vi aveva dedicato altre attenzioni.
Poi comparve anche il tizio vestito di nero. Si muoveva così silenziosamente che se lo trovarono davanti alla porta senza nemmeno averlo sentito arrivare. Provò anche lui ad aprirla, fece per andarsene ma subito dopo tornò indietro. Tentò ancora una volta di aprire. La porta resistette, ma la cosa non sembrò convincerlo. Rimase a scrutare, addirittura lo sentirono fiutare l’aria.
Grosvenor trattenne il respiro. Non so chi sei, dio di questo tempio, pensava, ma se fai andare via quel bastardo ti offrirò una bella pinta di gin appena torno a Calcutta.
Il bastardo, frattanto, si trovava probabilmente in un conflitto fra istinto e ragione: il primo gli diceva che dietro quella porta ci doveva essere qualcosa di interessante, ma la seconda gli faceva notare che quattro inglesi precipitosamente fuggiti attraverso le fogne non potevano aver trovato il modo di aprire e chiudere una porta con la chiave.
Due pinte…
Il tizio tentò di nuovo di aprire la porta. Il tenente percepì il tintinnio di piccoli oggetti metallici, poi qualcosa cominciò a frugare nella serratura.
Il cuore gli saltò un battito: attrezzi da scassinatore! Scambiò un’occhiata col sergente, che gli rimandò lo stesso messaggio di allarme.
Va bene, tutto il gin di Calcutta.
Si udì un richiamo. Il tizio vestito di nero rispose qualcosa, poi abbandonò quel che stava facendo e se ne andò.
Passarono diversi secondi prima che Grosvenor riuscisse a ritrovare una frequenza cardiaca accettabile. “Dobbiamo scoprire chi è il dio di questo tempio,” mormorò asciugandosi il sudore freddo dalla fronte, “sono in debito.”









* Bevanda tradizionale indiana ottenuta mescolando yogurt, acqua, spezie e talvolta frutta.
** Pezzo di stoffa rettangolare che viene legato intorno alla vita e scende fino ai piedi (vedi Gandhi).
*** Pudding tipico delle Forze Armate britanniche dell’epoca, che veniva cotto nell’acqua bollente dopo essere stato cucito all’interno di un pezzo di tela.


   
 
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