Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel
Segui la storia  |       
Autore: Lost In Donbass    11/05/2017    0 recensioni
Tom é un soldato, reduce dell'Afghanistan, scappa dal passato, da se stesso, dai suoi demoni.
Bill é solo, ha una figlia, divorato dalla depressione e dall'attesa.
C'è Loitsche, ci sono i ricordi, le incomprensioni, la passione mai davvero spenta, lettere mai aperte. Bill sta aspettando da due anni. Ma sarà disposto ad aspettare ancora?
Genere: Angst, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest, Mpreg
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
CAPITOLO CINQUE: ELYSA
I miss your feeling
I miss you, every single day
If you can hear me, come back and stay
I wanna blame the sky for every time I think of you,
I wanna blame every goodbye that

Made me drown into my blues
 
Tom si stupì non poco quando sentì il campanello della vecchia casa appartenuta ai suoi nonni squillare con insistenza, svegliandolo dal dormiveglia in cui si era dolcemente assopito non appena aveva cominciato a sfogliare un vecchio album di fotografie di sua nonna. Si sfregò una mano sugli occhi assonnati, sbuffando, e si trascinò alla porta senza nemmeno curarsi di vestirsi rapidamente, ma rimanendo con l’asciugamano attorno ai fianchi, i dread sciolti sulle spalle e un’espressione ancora insonnolita. Strisciò lentamente alla porta, massaggiandosi distrattamente il retro della testa. Si era svegliato con un dolore insopportabile che gli infliggeva continue scariche di male lungo la spina dorsale e che gli riverberavano nel cervello. Era stato fortunato a uscirne vivo, gli avevano detto i medici, sei un giovanotto molto forte, borbottavano dandogli qualche pacca sulla spalla muscolosa. Toccò con un brivido di fastidio la placca metallica incastrata nella sua scatola cranica, l’unica cosa ancora capace di mantenerlo in  vita: appena la scheggia di bomba fosse stata rimossa, per lui sarebbe stata la fine definitiva. Quanto era stato in coma, laggiù nel deserto dei tartari, in mezzo al caldo infernale e al gelo notturno, fino al giorno in cui aveva potuto aprire gli occhi, sulle labbra il suo nome e negli occhi il suo viso demoniaco e bellissimo. Poteva sembrare un visionario, ma quando gli avevano detto che i commilitoni al campo come lui erano morti in quell’esplosione e che era stato l’unico a uscirne vivo, era quasi caduto in ginocchio, in preghiera, le mani giunte, gli occhi allucinati. Ricordava il generale, un brav’uomo, in fondo,  che gli aveva stretto la spalla, con un sorriso, un banale “molto religioso, ragazzo mio”. Religioso, certo. Ma non stava pregando nessun dio e nessuna Madonna, solamente un ragazzo che un tempo aveva conosciuto a Berlino e che parlava arabo. Lo sapeva, una parte di lui percepiva che era stato solamente il volere di quell’angelo con le ali nere e il trucco pesante ad averlo salvato in mezzo al mare di sangue e morti che lo aveva circondato quando i nemici avevano attaccato il campo. I suoi compagni non lo conoscevano, non potevano pregare quel dio bizzoso e volubile come faceva lui ogni giorno, come stava facendo anche nel momento in cui era esplosa la bomba, seduto con gli altri a parlare delle loro vite precedenti all’inferno, e lui era lì che pensava a Bill, al suo corpo, al suo abbigliamento, ai suoi capelli sparati, alla sua risata, al … loro bambino. Aveva tentato di dimenticarlo nella sabbia e nel dolore, negli spari e nella vita del soldato ma non ce l’aveva fatta, perché ogni notte, al sopraggiungere del sonno arrivavano i suoi occhi neri come l’inchiostro a tormentarlo e a dilaniarlo vivo. Pensava al ragazzo che aveva abbandonato con mille false promesse in Germania, alle sue lacrime amare e innamorate, alla sua voce cristallina, pensava al figlio che Bill aspettava, suo figlio. Sperava che avesse abortito, non lo negava mai a sé stesso: Tom non era capace di amare una supernova come Bill, come avrebbe mai potuto amare un bambino nato per sbaglio? Continuava a dirsi che era meglio così, che lui era un’isola e non era fatto per arenarsi da nessuna parte, non sarebbero stati loro a fermarlo, lui era un vagabondo sotto le stelle che non accettava legami con nessuna terra esistente, però c’era una parte che lo rimproverava per quello, la parte che odiava il militare, quella che usciva la notte a ricordargli di come stava uccidendo lentamente una persona in Germania peggio di come stesse facendo lì in Afghanistan, la parte che gli sussurrava che lui aveva un figlio da cui ritornare, un figlio che non aveva visto nascere, un figlio che aveva ripudiato quando nonera nemmeno ancora venuto al mondo. Hai una specie di famiglia, Tom, diceva la voce, torna a casa, vatti a riprendere Bill che si strugge d’amore per te, vai ad abbracciare tuo figlio, torna indietro. Non sei fatto per restare, Tom, diceva l’altra voce, scappa, cosa ti importa di Bill, era solo una cotta giovanile, e del bambino, potrai anche averci messo qualcosa, ma è lui la “madre”, no? Allontanati e trovati una dimensione. Lo stava anche dicendo, addirittura, prima che scoppiasse il finimondo. Tutti i suoi compagni erano morti sentendo nelle orecchie la sua voce, addolcitasi per un attimo, quella frase un po’ aggiustata per risultare meno assurda, detta così, la parte buona di lui che aveva preso il sopravvento sul soldato e gli aveva fatto dire, tra le pacche di incoraggiamento e gli auguri,“La mia fidanzata è incinta, aspettiamo un bambino”. Niente di più falso e di più vero contemporaneamente. Niente di più tragico per Tom, ricordare che con quella frasetta buttata lì si era aperto l’orrore da cui lui era riuscito a scampare per miracolo. Dicevano che l’amore non salvava le vite, in guerra, ma lui, andato in Afghanistan per fuggire, dall’amore, aveva imparato che forse non era del tutto vero, che Bill dall’alto della sua infinità bontà d’animo l’aveva salvato da quella che sarebbe stata morte certa. Ogni volta che ci pensava, rivedeva i due ragazzini afghani in mezzo alle macerie del villaggio distrutto: rivedeva gli occhi di quello con la pelle più scura, che lo fulminavano con un orgoglio e una furia così forti che Tom tremava ancora, nel silenzio della distruzione, in mezzo alla polvere e alla morte che aleggiava dappertutto, rivedeva gli occhi pieni di lacrime di quello con la pelle poco più chiara, stretto all’altro, che invece pareva implorarlo, quasi, di lasciarli stare lì, abbracciati, di concedergli un attimo di tregua nel loro tempio di disperazione. E Tom era rimasto lì a fissarli, senza fare nulla, drogato di quella visione quasi onirica nel vento del Rigestan, di come aveva assistito al timido bacio che i due ragazzini si erano scambiati sulle labbra, di quei loro corpi smagriti e feriti che si confondevano tra le ombre mentre scappavano, lanciandogli un ultimo sguardo, un tacito ringraziamento, forse. Un attimo che il rasta non avrebbe dimenticato per tutta la vita, tanto gli aveva lasciato il segno nel cuore e che ogni tanto sognava, quando si assopiva con le medicine che tentavano di sopire le fitte lancinanti che la scheggia gli infliggeva. A volte, quando rimaneva sveglio a fissare il soffitto, si chiedeva in fondo lui chi fosse davvero: un reduce dell’Afghanistan, ventritrenne con un passato felice, una scheggia di granata in testa e una figlia di cui non conosceva l’esistenza. Cosa aveva in mano se non polvere e pallottole? Cosa sognava se non l’estati di Loitsche e una vita a Berlino che sarebbe stata bellissima se non avesse deciso di ustionarsi con la stella più luminosa? Cosa avrebbe potuto raccontare con la sua chitarra, adesso che aveva ucciso?
Tom sospirò, e aprì lentamente il portoncino, sbiancando quando si trovò davanti agli occhi quello che la notte prima lo aveva così completamente sbalestrato. Eccolo lì Bill, il suo Iblis, che teneva Mackenzie per mano e lo guardava con i suoi occhi tristi e velati, il trucco impeccabile, i capelli sparati dappertutto, il solito abbigliamento tirato e sexy, il sorriso quasi timido, un rossore appena accennato sulle guance, le lunghe ciglia ricurve che ombreggiavano gli occhi infernali.
-Ciao, Tom.
La sua voce. Al rasta sembrò di essere tornato indietro di qualche anno, quando quel miele melodioso era la voce che lo cullava prima di dormire, che lo prendeva in giro, che gli faceva mille moine, che cantava nei bar alternativi, che raccontava storie. era semplicemente la voce che amava e che lo aveva salvato dalla guerra, la voce che lo aveva salutato in stazione, sventolando il fazzoletto anche se lui lo aveva ignorato, ancora troppo arrabbiato, spaventato, per poter rendersi conto dell’errore che stava per compiere.
Lo guardò, quel viso così femmineo che lo aveva fatto innamorare, quel corpo magrissimo e slanciato che lo aveva fatto impazzire, quel trucco pesante, quei piercing e quei tatuaggi che lo avevano fatto capitolare. Bill era tornato, allora, come gli aveva promesso anni prima, quel “tornerò da te” che aveva detto tra i denti, le dita incrociate, mentendo spudoratamente nella certezza che non sarebbe tornato mai più e che l’Iblis sarebbe rimasto solo un trip di LSD della sua giovinezza. Eppure, eccolo lì, sempre uguale, con una bambina obesa accanto e quell’espressione innamorata che Tom avrebbe voluto cancellargli una volta per tutte. Lui non se l’era mai meritato, Bill. Non era giusto che soffrisse così tanto per la sua persona.
-Bill.- rispose, strozzandosi con la sua stessa voce. Non avrebbe voluto vederlo, ma ora che era lì, l’unica cosa che gli veniva in mente era quella di prenderlo in braccio e baciarlo, nutrirsi di quelle labbra piene e belle che conosceva così bene, sentire quelle gambe da modella attorno al suo bacino, stringergli le cosce, affondargli le dita nei capelli che ricordava così morbidi e profumati di shampoo.
-Tom!- abbassò lo sguardo su Mackenzie, che gli era capitombolata ai piedi, un largo sorriso sul viso da luna piena, i tristi occhioni a mandorla che lo fissavano dal basso e non poté fare a meno di sorriderle dolcemente. Sua figlia. Faceva così strano pensare che a ventitre anni aveva già un bambina di due, che non aveva mai visto in faccia e che ora lo osservava, avvolta in un ridicolo vestito rosa tutto crinoline, appesa ai jeans aderentissimi di Bill.
-Ehi, tesoro, buongiorno.- si inginocchiò all’altezza della bambina, accarezzandole la testolina mora e guardando il suo sorriso deliziato, per poi rialzarsi lentamente e trattenere un secondo il respiro. Sei arrivato alla fine, soldato Kaulitz. La corte marziale alla fine non ti ha risparmiato. Devi tornare a scendere a patti col tuo passato che come promesso quando è morto il punk ti ha aspettato sino alla fine, paziente, nel luogo dove avevi giurato che non avresti mai rimesso piede. Ma il punk non è forse morto quando Sid Vicious si è suicidato? E i giuramenti adolescenziali non sono forse fatti per essere distrutti da un colpo di vento più forte? Cosa ci fai ancora qui, soldato Kaulitz? Dov’è il tuo Afghanistan? Dov’è il tuo fucile? Dov’è quel luogo sotto le stelle che avevi deputato a tua tomba?
-Sei tornato, dunque.
Sentire la voce di Bill dopo anni era una deliziosa tortura per le orecchie del rasta, una melodia dannata che tanto lo aveva salvato quanto lo aveva mandato a morire. Era più soffocata di come la ricordava, forse perché parlottava invece che strillare come era solito. Nemmeno più il sorriso sensuale e vincente era più al suo posto, sostituito da uno triste e abbandonato, velato di lacrime e di rimorsi. Stava lì sull’uscio, torcendosi le belle mani pallide, cosa che il vecchio Bill non avrebbe mai fatto. Lui gli avrebbe tirato un  ceffone, si sarebbe fatto largo, forse lo avrebbe baciato appassionatamente, ma non sarebbe rimasto lì, tremante e ferito come un cucciolo di lupo siberiano lasciato dal branco. Quello non era Bill, decise Tom. Quello era la sua brutta copia slavata e debole. Assaporò per un attimo la delicatezza del timbro, la voce melodiosa, così musicale e strana, l’accento vezzosamente berlinese che gli era rimasto, nulla a che vedere con il volgare strascico di Loitsche.
-Sono tornato.- mormorò, arrossendo profondamente. Non sapeva come affrontare la situazione, a quel momento. Non sapeva nulla se non che avrebbe voluto chiudere la porta e scappare lontano, riprendere il treno, fuggire lontano dall’Iblis e da tutto quello che portava di brutto. Sentiva l’oscurità del deserto cominciare a gravargli addosso, portata dagli occhi troppo neri di Bill e di Mackenzie. Giusto, Mackenzie. Quella che pregava non fosse sua figlia ma che più guardava più si rendeva conto con orrore sempre più crescente di quanto si assomigliassero. Non voleva sobbarcarsi un peso del genere. Non voleva un uomo fisso, non voleva diventare padre, non voleva quel tipo di responsabilità. Aveva solo ventitre anni, dio santo. Solo ventritre anni.
-Possiamo entrare, Tom?                                                                                                                                                                                                                                                                                                    
Aveva un modo di pronunciare il suo nome che lo faceva sospirare ogni volta, così innocente e lascivo allo stesso tempo. Un ricordo così vivido da averlo salvato.
Si scostò dall’uscio, lasciando quella buffa coppia entrare, e richiuse la porta con un tonfo sordo, un rintocco a morte della fine della sua esistenza. Li guardò, la mamma e la bambina, che scivolavano nel suo appartamento. Gli ricordavano tanto due jinn del deserto, che seguivano i venti della tempesta e i mulinelli di sabbia, accompagnandosi nel lento vagare seguendo i canti degli altipiani del Kurdistan. Due fantasmi morti durante la guerra, costretti a vagare per l’eternità in un limbo d’orrore perché nessuno aveva pensato a seppellire i due corpi sconosciuti ritrovati mutilati da una bomba esplosa nel sottosuolo, forse dai loro stessi compatrioti. Due zingari di un freak show che girava l’Europa su colorati carrozzoni, rimasti soli a fissare le macerie della loro gente e i carri in fiamme, tra la puzza di carne bruciata e olio. Due esuli del Mayflower abbandonati sulle isole del Terranova che osservano l’oceano che li separa dalla loro vecchia, amata Inghilterra, il gelo canadese che gli ustiona le pelli baciate dalla luna e dalle stelle. Erano così belli, pensava Tom, per quanto potessero sembrare belli una bambina obesa e una drag queen spaurita che si guardavano in giro con aria persa e solitaria, due animaletti braccati che non sapevano più come uscire dalla tana del cacciatore. Emanavano un alone di luce lunare così potente da ferire gli occhi, qualcosa che voleva contemporaneamente scacciare gli eretici e avvicinare i pochi adepti a questa setta dimenticata nel cuore della Siberia, un antico culto mediorientale persosi nelle sabbie del tempo, un demone venerato da pochi pastori del Tash Rabat kirghiso, una filosofia sperduta a Samarcanda. Parevano tutto quello, Bill e Mackenzie, un misto di culture e di passati così vario da far girare la testa, un potpourri di spezie mai assaggiate e musiche mai ascoltate, più variopinti dei mercati di Bankok e più nascosti della Terra del Fuoco. Tom aveva amato Bill anche per quel motivo. Non importava che fosse nato in un villaggio al confine con la Polonia, come non importava che fosse cresciuto nel vortice di orrore che si nascondeva nel Gropiusstadt: importava solo il fatto che dentro di sé nascondeva le lacrime e la polvere di epoche e di reami incantati persi tra le cupe reminescenze del passato. Bastava guardarlo, con i suoi capelli sparati in aria, la sua parlata volgare e sboccata, i suoi gioielli dark, la sua espressione leziosamente annoiata, e non avresti mai immaginato che da quelle labbra grosse e sensuali, spennellate di rossetto, potessero fluentemente uscire tutte le più oscure leggende mediorientali, i segreti della Mongolia e del Tibet, il folklore kirghiso e tagiko, ninnananne arabe, non avresti immaginato che quegli occhioni neri si illuminassero delle stesse luci che costellano i cieli giordani, non avresti immaginato quelle mani lunghe e belle scrivere preziosi aneddoti che solo pochi dotti sanno. Lo aveva amato anche per la sua intelligenza spiccata e vivace, invero.
-Mamma, ho fame.- il cinguettio di Mackenzie interruppe l’imbarazzante silenzio che era calato tra i due ragazzi, e li fece quasi sobbalzare.
-Hai fame, patatina? Ma hai già fatto colazione, e da Gustav hai anche divorato il tagliere che c’era sul bancone … - Bill la guardò dispiaciuto, aggrottando le sopracciglia – Non so se …
-Mamma, ho fame.- ripeté la bambina, più ferma, stringendo il bordo dei jeans del moro e dandogli una tiratina extra.
-Sì, amore, certo.- Bill sospirò mestamente, scuotendo la testa, per poi voltarsi verso Tom, le gote soffusamente arrossate – Non vorrei chiedertelo, Tom ma … avresti qualcosa da dare a Mackenzie? Qualsiasi cosa, davvero.
Il rasta annuì troppo velocemente, facendo strada nella piccola cucina ordinata e linda, quel silenzio fastiodoso che era calato tra loro due e che non poteva essere cancellato. Avrebbe forse dovuto baciarlo subito? Avrebbe dovuto accettarlo il giorno prima, al Kalende May? Avrebbe dovuto prenderlo in braccio e scoppiare in lacrime? Avrebbe dovuto starsene in Afghanistan? E Bill, avrebbe dovuto farsene una ragione? Avrebbe dovuto abortire? Avrebbe dovuto restarsene a Berlino e rifarsi una vita? Troppi condizionali nella vita di Tom e Bill, troppe cose non dette e idiozie fatte. Non potevano raggiustare quello che era successo tra loro in quella maniera, non dopo due anni passati così, non …
-Penso che questa torta vada benissimo.- guardò quasi ebete Bill che afferrava una fetta della torta che gli aveva fatto la mamma di Georg e la metteva in mano a Mackenzie, dopo averla faticosamente seduta su una delle sedie attorno al vecchio tavolo di legno.
-Grazie, Tom.- cinguettò di rimando la bambina, attaccando come una piccola idrovora la torta al cioccolato, sorridendo come uno di quei grassi Boddhisatva nei templi tibetani. Bill la guardò dolcemente, accarezzandole la testolina, per poi girarsi lentamente verso il rasta, una nuova tristezza tornata ad ombrargli gli occhi. Si guardavano, semplicemente, standosene uno di fronte all’altro senza avere il coraggio di fare nulla che non fosse fissarsi con aria colpevole. Svuotati da tutto, incapaci di chiedersi scusa, di odiarsi, di amarsi. Incapaci di vivere e di morire.
-Bill.- Tom non si riconobbe nemmeno qundo parlò, un tono soffocato che gli era estraneo, un dolore nuovo a pesargli nel petto. Quando si rese conto di essere ancora con l’asciugamano drappeggiato intorno ai fianchi – Ahem, scusami, magari, magari mi vesto e …
-Non c’è n’è bisogno.- lo fermò Bill, sorridendo delicatamente – Non mi pare che tra noi possa più esserci la minima forma di inibizione, trovi?
Non aveva affatto torto: come faceva a vergognarsi così di fronte al ragazzo con cui un tempo aveva addirittura convissuto? Ricordava vividamente tutte le volte che avevano fatto sesso, in tutta la casa, dappertutto, impregnando l’ambiente piccolo e angusto con tutta l’eccitazione che due giovani studenti sulla cresta dell’onda potevano avere dentro, sesso che non aveva più provato, che aveva tentato di dimenticare con qualche ragazza afghana che lo andava addirittura a cercare, ma ogni volta pensava a lui, solo a lui, alle sue smorfie, ai suoi gemiti, solo ed esclusivamente all’unica persona che poteva effettivamente appagarlo del tutto, che conosceva tutto di lui, che sapeva quello che davvero voleva; tutte le volte che si erano fatti la doccia insieme, il suo corpo muscoloso e caldo schiacciato contro il corpicino debole e freddo di Bill, stretti uno all’altro in un abbraccio solido e apparentemente indistruttibile come il Muro dietro al quale erano nati, quel “Freiheit 89” che Bill aveva tatuato sul braccio e che ogni tanto si accarezzava, distrattamente, quelle pelli pallide che si infiammavano a vicenda, l’acqua che scrosciava su di loro portando via la loro rabbia e la loro indipendenza, i loro occhi chiusi e le mani intrecciate. Tom si morse il labbro inferiore, facendo un vago gesto ad indicare il piccolo e accogliente salotto, dove Bill andò, ondeggiando sui tacchi vertiginosi, quella vaga camminata ancheggiante non più sicura e decisa come ai tempi di Berlino. Lo guardò sedersi sul divanetto rosso, accavallando le gambe lunghe e snelle, le mani intrecciate in grembo, i ciuffi di capelli sul viso. Era così bello e così prezioso che Tom si chiedeva ancora come avesse fatto a farselo lasciare scivolare via dalle mani in quel modo orribile, come aveva potuto far piangere quell’angelico jinn del deserto.
-Sono contento di vederti.- cinguettò il moro, sfarfallando le lunghe ciglia ricurve – Mi eri mancato così tanto, Tommuccio, così tanto.
Eppure, più lo guardava, più al rasta sembrava che Bill non fosse affatto arrabbiato o deluso da lui, come invece avrebbe dovuto essere. La sua espressione tradiva una certa rassegnazione di fondo, come se in fondo si fosse convinto che amarlo era l’unica cosa che importava, e che lui facesse pure quello che gli pareva, che lo abbandonasse nel momento del bisogno, che lo odiasse, che lo ripudiasse, lui sarebbe stato sempre lì ad aspettarlo, con la porta aperta, le braccia tese e un sorriso stanco e bruciato dallo Xanax, questo a Tom faceva più male che uno schiaffo, un calcio nelle parti basse, un insulto velenoso. Non era cambiato, in fondo, dal Bill che ricordava lui. Poteva essere stato esuberante, prima, accattivante e pieno di risorse ed idee libertine e sfrenate, mentre ora non era altro che il fantasmino slavato di un villaggio della Pannonia, ma quell’ombra di cupa mestizia, quel suo chinare la testa, non erano cambiati. Tom ricordava di come nessuno potesse mettergli i piedi in testa, ma come si facesse maltrattare dal suddetto con inaudita pazienza, e di come ogni volta tornasse ad amarlo come lo amava prima. Una cosa del genere, Tom non avrebbe mai dovuto farsela sfuggire, ma era così giovane e stupido, convinto di avere il mondo in mano e la luna ai suoi piedi, così vanitoso e borioso, pieno di ideali di lotta e giustizia che non aveva avuto l’umiltà, la semplicità, anche la semplice correttezza morale di vedere quando in realtà Bill fosse dipendente da lui, di come lo amasse di un amore che Tom non provava nemmeno verso la sua stessa madre. Non aveva percepito la dipendeza che Bill aveva nei suoi confronti, il bisogno fisico e psichico del ragazzo di avere un punto di riferimento che gli era sempre mancato. Ma gli bastava guardare i suoi occhi e sentire la sua voce, adesso che oramai era cresciuto e quel ragazzo sempre in prima linea con ideali utopici e musica punk nelle orecchie era tramontato con i ricordi slavati di Berlino, ora capiva di quanto potesse essere vasto, smisurato e paziente l’amore di Bill, di quanto avesse perso e di quanto fosse un bastardo a starsene lì in piedi, sempre fingendo di non conoscerlo davvero, quando invece l’unica cosa che avrebbe dovuto fare sarebbe stato buttarsi in ginocchio e cominciare a baciargli i piedi implorando di perdonarlo tra le lacrime che teneva incastonate nel cuore di pietra. Però non pianse, e non gli cadde in ginocchio davanti, l’ultimo appigglio del suo orgoglio bastardo e del suo ego smisurato che lo reggevano in piedi e gli avevano congelato le lacrime negli occhi.
-Cosa ci fai qui, Bill? Perché non sei a Berlino?- gli chiese, gelido, scostandosi i dread dal viso. Perché un Iblis avrebbe dovuto scegliere la periferia dell’impero e lasciare da parte Samarcanda? – Io … perché, Bill?
-Perché te ne sei andato, semmai.- il moro lo guardò, alzandosi lentamente e fronteggiandolo, con quei suoi diabolici occhi di brace, il pianto spezzato di una sirena a cui hanno ferito la coda, di una selkie a cui hanno rubato la pelle, di un elfo a cui hanno strappato le ali – Perché non hai mai risposto alle mie lettere? Perché mi hai lasciato da solo?
-Non capisco di che stai parlando, sinceramente.- per chi mente, nell’esercito, la punizione è delle più dure. Soldato Kaulitz, per te non c’è altra via che non sia la Corte Marziale. Degradato, Soldato. Tom non aveva mai avuto il vero coraggio di ammettere di essere scappato in Afghanistan perché aveva paura di diventare adulto; poteva fare il ragazzino ribelle quanto voleva, ma alla fine la sua famiglia lo aveva richiamato all’ordine: sei un Kaulitz, Thomas, come tutti gli uomini della tua famiglia, diventarai un militare graduato. Poteva aver detto quello che voleva, a Berlino, aver parlato di libertà, di muri abbattuti, di diritti umani, ma infine l’accetta era calata sul suo collo e lui non era stato nemmeno lontanamente pronto a dire di no davvero, ma aveva chinato subito il capo, partendo per una guerra che non sentiva sua. Se avesse avuto più coraggio, si sarebbe opposto, avrebbe lottato controcorrente per scappare a quelle costrizioni, si sarebbe fatto un’altra vita, invece no, aveva scelto di sottostare, per combattere, per sfogare la sua rabbia e la sua follia che nei comizi berlinesi non riuscivano mai davvero ad esternarsi, aveva scelto di seguire la sua natura raminga e selvaggia, rimanendo ancora un bambino e cercando di allontanare l’adulto che lo osservava, quello che diceva, hai già ventun’anni, sei abbastanza grande per decidere. Tom non era pronto, ecco tutto. Non quanto lo era Bill, almeno. Gli si strinse lo stomaco a pensare alle lettere. Già, le lettere. Quella miriade di buste sporche di sangue, sabbia e polvere da sparo che custodiva gelosamente in un bauletto antico, tutta quella carta che Bill gli aveva spedito per due anni, indefesso, senza che gli avesse mai risposto una sola volta. Ma puntualmente, ecco una lettera. E poi un’altra. E un’altra ancora. Nessuna chiamata, nulla, se non lunghissime lettere fittamente scritte con la sua calligrafia bella e morbida, ognuna più innamorata e speranzosa dell’altra. C’erano delle foto di Mackenzie, all’inizio, dello stesso Bill. Ogni volta che arrivava allo spaccio e gli veniva allungata una lettera, si sentiva male dentro. Le leggeva controvoglia, non rispondeva mai, nella speranza vana che Bill si stufasse di lui, che lo lasciasse in pace, che la piantasse di perseguitarlo, che si rifacesse una vita, lui e quella dannata bambina che nessuno di loro aveva mai voluto. Ci piangeva sopra, all’inchiostro, alle ripetitive parole di ogni missiva, la notte, quando nessuno sentiva. Dopo un po’ aveva addirittura smesso pure di leggerle; le prendeva e le riponeva via, limitandosi a sentire l’odore di vaniglia di Bill che rimaneva appeso alla carta, quel odore così dolce che prima gli si attaccava alla pelle e ai vestiti ma che in quel momento non era altro che una visione olfattiva. Nelle prime lettere, quelle che ancora apriva e leggiucchiava c’erano addirittura delle fotografie, con scritto “Torna presto”, “Ti sto aspettando, amore mio”, “Sono sempre bello, trovi?” e lui le guardava e si mordeva il labbro perché mentre il suo cervello vomitava quanti più insulti possibile, il suo cuore sanguinava. Ce n’era una, così eterea, così sensualmente straziante che lo aveva convinto a tenersela sempre nell’uniforme, in qualche modo, per permettergli ogni tanto di guardare Berlino, la sua bellissima Berlino, quella città che lui aveva cavalcato, solcato, amato e violentato in tutti i modi possibili, alla quale aveva assorbito tutte le energie, e di maledire la grazia leggiadra di Bill, seduto con la sua solita finezza su una delle altalene nascoste del Ehrolungspark, le gambe accavallate, gli occhi bassi, i capelli sul viso, quel sorriso timido sulle belle labbra, qualcosa che gli aveva ricordato il motivo per cui era scappato dalla Germania e che lo aveva ferito oltre ogni dire. Però era una bella foto, quella, che aveva resistito anche all’esplosione della bomba, miracolosamente, nonostante l’avesse avuta in tasca in quel momento. Nemmeno a quella aveva osato rispondere, lasciando che le parole vagassero per gli infiniti cieli del deserto e si perdessero nell’oscurità della guerra e della morte. Le ultime lettere nemmeno le aveva aperte, troppo spaventato, annoiato, stufo di tutto quel panegirico inutile che Bill trascinava morbosamente. Non voleva più rivederlo, ma ora che era lì, a Loitsche, la vera periferia dell’impero, cosa poteva fare se non venire a patti definitivamente con sé stesso e con il suo Iblis?
-Tom, io ti ho aspettato per due anni. Io e Mackenzie ti abbiamo aspettato. Non …
La vocetta ovattata della bambina interruppe Bill, e Tom le fu sinceramente grato, perché spezzò per un secondo la tensione che si era instaurata nel salotto, quel vago hard rock del vecchio grammono della nonna con il vinile che macinava lentamente, la nebbia che saliva dalla pianura. Andarono in cucina, in silenzio, fianco a fianco, come due cavalieri di ventura, due corsari, due zar, e c’era Mackenzie seduta sul tavolo, il piatto con la torta praticamente finito in  mano, nessuna briciola o macchie a sporcare né lei né il tavolo.
-Mi ricorda qualcuno … - sussurrò Tom, lasciandosi sfuggire un sorriso dolce che avrebbe voluto ingoiare. Gli ricordava così tanto Bill e la sua precisione millimetrica, quella sua pulizia eccezionale. Puntualmente Bill si girò, un lampo di felicità a brillargli nelle iridi d’inferno, uno scatto di gioia che nessuno dei tre aveva mai sperimentato veramente.
-Ha preso da me, ovviamente.- cinguettò il moro, prima di spazzolare i capelli di Mackenzie e cinguettare – Però, amore della mamma, non dovevi mangiare tutta la torta di Tom.
-Avevo fame.- rispose candidamente la bambina, muovendo le grasse manine, per poi girarsi verso Tom con i suoi occhi di braci ardenti.
Tom strinse i denti, passandosi una mano sul volto stanco e bruciato dal deserto. Aveva tergiversato abilmente tutto il tempo sul tema principale, ovvero la loro figlia, che li guardava sorridendo dal tavolo, con quello sguardo più vecchio del tempo e più triste del vento. Era così bella, pensò il rasta. Così bella. Non riusciva ancora a credere davvero che quella fosse la sua bambina, gli sembrava una cosa così assurda, così inconcepibile. Era andato in guerra per fuggire proprio a quei grossi occhioni neri e malinconici, a quel sorriso triste, a quell’espressione un po’ abbattuta, però ora eccolo lì, davanti ai suoi due incubi che lo fissavano curiosamente una e dolcemente l’altro, in casa sua, dove non poteva fuggire, dove non poteva sparare, dove non poteva fare nulla che non fosse fronteggiare la cruda realtà. Non c’era sabbia, quella volta. Non c’era il deserto, il campo, le mine. Non c’era l’Afghanistan, e lui non si sentiva a casa.
-Tom, mi sei mancato tanto.- ripeté Bill, avvicinandoglisi tanto che Tom si sentì pervadere da un sentimento così forte da fare male. Da un lato, avrebbe voluto allontanarlo, spingerlo via, cacciarlo con violenza e cattiveria, ma dall’altro non voleva fare altro che stringerlo a sé, baciarlo, fare di nuovo suo quel corpicino guizzante e fresco. Un senso di repusione e attrazione così forte da essere doloroso, l’amore odio che da sempre li aveva legati e allontanati, la passione maniacale e assassina che era sempre stato il nettare delle notti berlinesi. Lo voleva follemente, e allo stesso momento lo voleva morto, lontano da lui con la loro obesa figlia.
Lo guardò, le sue belle mani che quasi gli sfioravano il petto, il suo odore così forte che dava alla testa come le spezie dei mercati afghani, i suoi occhi che grondavano sentimenti così tumultuosi da stupire, più luminosi delle notti del deserto e più turbinosi delle tempeste del Rigestan, le sue labbra socchiuse così erotiche da essere sconce ma allo stesso tempo così pure da essere innocenti, i suoi capelli sparati dappertutto ancora baluardo di un’esistenza punk-rock nella capitale. La sua bellezza leggendaria superava tutte le leggende arabe e mediorientali che narrava, Tom lo aveva sempre sostenuto e non se lo sarebbe lasciato sfuggire in quel momento. Non se lo lasciò sfuggire, quando lo guardò fisso in quegli occhi di tenebra e braci, e sebbene il soldato gli stesse urlando di staccarsi, di non lasciarsi corrompere da quell’Iblis che tentava di sedurlo e portarlo via per sempre nelle grotte del Kizilkum turkmeno. Ma non ce la fece, non quella volta, non dopo due anni di rimorsi, ripensamenti e incubi notturni. Non dopo che vide quel viso che lo aveva perseguitato. Gli bastò un secondo per prendergli il viso tra le dita e sussurrargli  un vago “Anche tu, Iblis”, prima di stampargli un delicato eppure irruento bacio sulle belle labbra dischiuse. 
  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel / Vai alla pagina dell'autore: Lost In Donbass