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Autore: Ayr    12/05/2017    4 recensioni
"Ivory, a quanto pare sei riuscito a distinguerti per abilità, coraggio ed un pizzico di fortuna in mezzo a quella turba di guerrieri grandi il doppio di te, e sei anche riuscito a prevalere su di loro. Ciò significa che sei il migliore tra questi e che sei colui che è destinato a compiere la missione» il tono della sovrana si era fatto improvvisamente grave e serio, facendo preoccupare l'elfo, «Ciò che sto per chiederti è molto pericoloso e potrebbe anche essere considerato tradimento, se prima di questo non ne fosse già stato compiuto un altro: mia sorella, dopo l'ultima visita, mi ha sottratto una cosa a me molto cara, nella speranza che non mi accorgessi della sua assenza... Si tratta di uno specchio"
Quando Ivory sentì quelle parole uscire dalle labbra della Regina Rossa, pensò ad uno scherzo di cattivo gusto: come poteva uno specchio essere oggetto di una tale contesa?
Ma nulla è come sembra, e anche lo specchio non è una semplice superficie riflettente, bensì un oggetto pericoloso e affascinante, che ammalia e promette di realizzare i più profondi desideri di un uomo...a caro prezzo
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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IV

I suoi sensi gli suggerivano che ci fosse qualcuno- o qualcosa- che lo stesse seguendo: cercava di essere il più silenzioso possibile ma l’udito finissimo dell’elfo riusciva a captarne i passi leggeri che cozzavano contro i sassi della strada sterrata, che dal villaggio conduceva verso i Danaver, i Ciclopi di Ghiaccio, la mastodontica catena montuosa che divideva Actardion da Damevar: una successione infinita di imponenti massicci perennemente ammantati di neve, dove nessuno osava avventurarsi di sua spontanea volontà. La Porta di Lorran, che si incuneava tra l’Etrion e l’Edemor, era l’unico passaggio conosciuto, sebbene la sua esatta ubicazione fosse incerta e molti viandanti si fossero persi nella sua ricerca, trovando la morte tra quelle vette; ma, grazie alla bussola, Ivory non avrebbe rischiato di vagare tra quella distesa di roccia e neve fino ad incontrare la morte.

Nei tempi in cui la guerra dilagava su quelle terre, la Porta era stata un fondamentale punto nevralgico controllato dall’occhio attento di Volkyria, la Fortezza Nera, una roccaforte di granito e basalto di forma ottagonale con otto torri, anch’esse della medesima forma, che si innestavano ad ogni spigolo e che davano alla struttura un aspetto vagamente floreale. Con l’avvento di tempi di pace e concordia, la fortezza era stata abbandonata e non ne rimanevano che delle rovine, smangiate dal vento e dal freddo, ma ancora valide per offrire un riparo dai venti impetuosi delle tempeste di neve, che spesso spazzavano il valico, grazie ai muri spessi e solidi. L’elfo aveva pensato di fare tappa alla fortezza, che si trovava a metà strada tra i due regni, e contava di raggiungerla in due o tre mesi: doveva attraversare buona parte di Actardion e se fosse arrivato a Danilia, l’ultimo villaggio prima dei Ciclopi entro due pleniluni, sarebbe stato un grande traguardo…sempre che, durante la marcia, non fosse infastidito da briganti molto arditi o molto disperati, come quello che si ostinava a pedinarlo.
L’elfo si era scocciato: aveva cercato di ignorarlo come meglio aveva potuto, ma quel continuo scalpiccio lo innervosiva, non tanto perché avesse paura di essere attaccato e derubato- si trattava pur sempre di un mercenario e aveva visto cose ben peggiori di un brigate- ma detestava il fatto che quell’inconveniente gli avrebbe fatto perdere tempo: voleva giungere a Melinger entro il mattino, comprare un cavallo in qualche fattoria nei dintorni e giungere a Casernya entro sera, in modo da potersi concedere un pasto decente e un letto comodo; la Regina si era premurata di rifornirlo di tutto il denaro necessario per il viaggio insieme a qualche piccolo extra per soddisfare un capriccio ogni tanto. All’elfo sembrava di essere partito per una scampagnata piuttosto che per una missione: avrebbe avuto la possibilità di soggiornare in locande lungo il viaggio e persino di cavalcare, così da dimezzare il tempo; nelle campagne militari era sempre stato costretto a ritmi di marci serrati ed estenuanti e a dormire all’addiaccio, per non parlare della sbobba ripugnante che gli rifilavano da mangiare avendo pure il coraggio di chiamarlo cibo! Quell’incarico sarebbe stata una passeggiata, almeno fino a quando non fosse giunto a Damevar e allora avrebbe dovuto ideare un qualche piano per penetrare nel Palazzo della Regina Bianca scoprire dove tenesse nascosto lo specchio e riportalo; accantonò quei pensieri, per il momento si trovava ancora ad Actardion e non aveva senso angosciarsi per qualcosa che doveva ancora accadere.

I rumori si interruppero bruscamente, e quel silenzio irreale fu più preoccupante: o il suo misterioso inseguitore si era volatilizzato, oppure doveva essergli accaduto qualcosa.

La strada era circondata da campi coltivati e frutteti, e non offriva molti ripari per possibili briganti; ma questa era l’opzione più plausibile, non c’erano foreste in cui potessero annidarsi belve feroci e il villaggio non era abbastanza grande e rinomato per attirare banditi di alto calibro.
L’elfo estrasse la spada, ruotando su sé stesso con circospezione e sondò con lo sguardo la nebbia serale, che si sfilacciava e si riannodava a seconda dei capricci del vento. Questa foschia poteva risultare un vantaggio per gli aggressori, ma l’albino aveva sensi abbastanza sviluppati da poter fare anche a meno della vista.

Aguzzò le orecchie, per poter captare anche il minimo respiro, ma gli rispose solo il silenzio. Poi, un gemito soffocato nella notte.

Una sensazione spiacevole gli attanagliò la bocca dello stomaco: quella voce, per quanto ovattata e lontana, gli suonava famigliare. Scattò nella direzione da cui proveniva, addentrandosi nelle nebbie. Queste lo accarezzavano e lo ghermivano con le loro dita di fumo, lasciando come ricordo del loro passaggio uno strato di goccioline sui capelli e sui vestiti dell’elfo.

Ivory arrivò nel mezzo di un frutteto, e scorse ombre muoversi furtive, staccandosi dalle sagome degli alberi per poi fondersi nuovamente con loro: erano in quattro e sembrava ne stessero trasportando una quinta, con sommo disappunto di quest’ultima.

Il mercenario rinfoderò la spada: i filari di alberi erano troppo serrati e l’avrebbero impacciato nei movimenti; estrasse, invece, un pugnale dalla lama più corta e maneggevole, che abbandonò la sua guaina in un sibilo agghiacciante.

Anche le ombre dovettero averlo sentito, perché si fermarono, in allerta.

«Forse è stato il vento» bisbigliò uno di loro. Aveva la voce soffocata, segno che doveva portare una sciarpa o una bandana per nascondere i tratti del volto, e la cadenza era tipica delle città che si affacciavano sul mare, con il loro caratteristico strascicamento delle vocali finali.

Ivory si mosse fulmineo e l’uomo si accasciò a terra con un gemito, i resti dell’ultima parola ancora rimasti incastrati nella gola. I restanti tre si allarmarono e iniziarono a scrutare febbrili quelle nebbie che celavano lame.

Il quinto, invece, aveva iniziato a scalciare e a dimenarsi, per provare a sottrarsi alla morsa, e provava a parlare, ma la sua voce era soffocata dalla tela che gli era stata infilata sulla testa. Gli uomini lo lasciarono cadere come un sacco di patate per ricorrere alle armi, che estrassero in uno stridio sincrono.

Ivory non si fece spaventare: quei pugnali spuntati non avrebbero potuto fargli nulla e gli individui parevano piuttosto inesperti, aveva avuto a che fare con avversari più temibili di tre briganti spauriti, non valeva nemmeno la pena ucciderli: il primo era stato messo fuori gioco con una semplicità disarmante.

Scivolò accanto ad uno di loro e fece sbocciare un sorriso sul polpaccio di questo. L’uomo si accasciò a terra, trattenendosi la parte lesa e Ivory ne approfittò per tiragli un calcio e fargli perdere i sensi; questi si afflosciò con un pigolio patetico.

I due superstiti strinsero convulsamente le impugnature delle loro lame e iniziarono a fendere la nebbia, quasi fosse stata essa stessa la colpevole, nella vana speranza di ferire il loro aggressore.

Ivory se la rideva sotto i baffi, nascosto dietro un albero, e gli osservava mentre si accanivano contro il nulla, ciechi e nervosi, tremando come foglie. Sgusciò tra una pianta e l’altra, per poi afferrare uno dei sopravvissuti per il braccio e farlo sparire nella nebbia, stenderlo con il pomolo del pugnale e dedicarsi all’ultimo.

Il compagno si era voltato, ma ciò che si trovò davanti fu la figura prestante dell’elfo, ingigantita dal bagaglio e resa più minacciosa dal mantello da viaggio in cui era intabarrato, che si fondeva e confondeva con i rivoli di nebbia. I capelli bianchi e la pelle diafana risaltavano contro il nero uniforme del cielo e gli occhi d’ambra scintillavano come quelli dei felini; la lama del pugnale baluginava sinistra nell’oscurità. Nel complesso appariva come una figura terribile, simile ad un vendicatore, seminatore di morte e sofferenza. Uno spettro venuto dall’oltretomba per punirlo della sua pessima condotta.

Questo dovette essere il pensiero che attraversò la mente dell’ultimo brigante, perché questi lasciò cadere il coltello e si diede alla fuga, sparendo in un soffio, senza nemmeno provare ad assalirlo.

Ivory sorrise soddisfatto e si chinò verso il malcapitato, cercò di rassicurarlo e con movimenti misurati e delicati, lo liberò del sacco.

Un odore famigliare gli invase le narici: era lo stesso profumo delle erbe che Brandbury metteva nell’armadio per tenere lontane le tarme, ugualmente penetrante e pruriginoso.

«Cosa diamine ci fai qui!» esclamò sorpreso.

Il fratello era proprio davanti a lui, intabarrato in un enorme giacca e con uno zaino ancora più grande da cui fuoriusciva la fragranza. Probabilmente aveva riesumato coperte e cappotti di lana per affrontare al meglio il rigido freddo delle montagne. I capelli biondi erano spettinati e il volto era distorto in un’espressione stranita.

«Che domande!» rispose l’altro, tornando a respirare, «Avevo detto che sarei venuto con te! Però sei partito con largo anticipo: all’alba mancheranno ancora sei ore!»

L’elfo non sapeva se urlare contro il fratello, rispedirlo indietro o ucciderlo sul posto. Forse con l’ultima opzione sarebbe stato sicuro che non l’avrebbe più seguito. Nemmeno l’inganno era riuscito, eppure era sicuro di essersi mosso silenziosissimamente.

«Ho il sonno molto leggero» disse Brand, rispondendo ai suoi dubbi, «E per quanto tu possa essere silenzioso e lieve, la porta non lo è e l’ho sentita gemere e sbattere. Credevo fosse già arrivata l’alba e mi sono precipitato fuori casa, scoprendo che era ancora piena notte» non sembrava esserla presa, nei suoi occhi non c’era alcuna traccia di rabbia o rancore.

«Ho immaginato perché l’avessi fatto» continuò, quasi stesse leggendo i pensieri dell’altro, «So che non vuoi che mi accada nulla e che preferiresti sapermi al sicuro a casa, ma io non sarei riuscito a sopravvivere un giorno di più rinchiuso in quella gabbia di legno senza sapere nulla di te. Quindi mi dispiace, ma sarai costretto a prendermi come tuo compagno di viaggio.»

«Vedo quale compagno di viaggio utile saresti. Non sono passati neanche dieci minuti e vieni aggredito dai briganti!»

«Avevo la situazione perfettamente sotto controllo» replicò Brand rialzandosi con l’aiuto del fratello. Il peso del bagaglio gravava sulle spalle e lo destabilizzava.

«Ma ti sei portato dietro l’intero guardaroba invernale?» esclamò Ivory.

«I Ciclopi sono famosi per le loro temperature rigide, e le piaghe da congelamento sono veramente brutte.»

«Quindi sei proprio convinto di volermi seguire, anche dopo quello che ti è successo? I briganti saranno il nemico meno pericoloso che dovremo affrontare» cercò di dissuaderlo, di indurlo a un ripensamento dell’ultimo momento.

«Sappiamo perfettamente entrambi che non demorderò: ti seguirò fino a Damevar, che a te piaccia o no!»

Ivory alzò gli occhi al cielo: suo fratello sapeva diventare davvero testardo e inamovibile quando si impuntava su qualcosa.

Pensandoci bene, però, forse, avere qualcuno con cui condividere il viaggio non era nemmeno un’idea tanto terribile: Brandbury avrebbe potuto fargli compagnia e distrarlo dalla fatica e, soprattutto, dalla noia dei lunghi giorni di marcia che li attendevano; inoltre era un ragazzo molto intelligente, per quanto non ancora esperto del mondo, e avrebbe potuto dargli qualche idea su come entrare nel Palazzo della Regina. Si trattava solo di tenerlo il più possibile lontano dai guai e dagli scontri.

Alla fine, sarebbe venuto lo stesso, quindi perché non approfittarne?

Con un sospiro rassegnato, l’elfo fece cenno al giovane di seguirlo.


   
 
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