Film > La Bella e la Bestia
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Autore: Rorschach D Wolfwood    12/05/2017    1 recensioni
Una piccola raccolta di racconti, non so ancora quanti con precisione, ispirati a quella che è probabilmente la favola più conosciuta, grazie agli innumerevoli film che ha ispirato. Niente di riconducibile al film Disney o precedenti, solo tutto ciò che mi passava in mente, dal dark al romanticismo all'horror.
Il titolo è un omaggio al film In compagnia dei lupi, ispirato ai racconti di Angela Carter, che è stata la mia principale ispirazione per questa raccolta.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio
Note: AU, Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
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1- La leggenda del deserto
 
 
 
Se il cammello avesse potuto parlare, in quel momento, probabilmente si sarebbe lamentato di quanto bruciasse la sabbia incandescente che calpestava ormai da giorni, e avrebbe senza dubbio palesato la sua preferenza ad abbandonare il percorso per andare in cerca di una sorgente d'acqua fresca per dissetarsi, e magari rinfrescarsi sprofondando nell'acqua fino al collo. La rovente luce del sole colpiva in pieno il suo pelo dorato, facendolo risplendere al pari delle pregiate rifiniture e decorazioni della tunica del suo padrone. Egli sedeva sulla gobba stringendo le briglie con le quali comandava la cavalcatura, mentre le merci e i viveri, attaccati alla sella, dondolavano lungo i fianchi dell'animale. 
Era un uomo ad occhio e croce sulla quarantina o poco più, dalla carnagione scura tipica di chi vive e viaggia nel deserto, indossava una lunga ed elegante tunica di un lucente verde smeraldo, con decorazioni floreali in tutta la parte inferiore, una fasciatura rossa che gli cingeva la vita e un ampio mantello, anch'esso rosso, gli copriva le spalle e si lasciava andare dolcemente al vento, come fosse nella sua completa balia. Sotto il copricapo bianco si celava un viso fiero che non lasciava trasparire affatto i segni dell'età. 
Anzi, con la sua lunga chioma nera, al momento nascosta, la folta barba e i lineamenti duri, quel volto conferiva all'uomo un'aria affascinante e leonina, e questo particolare, unito ad un innegabile coraggio e determinazione, lo aveva reso noto tra i nomadi come "il solitario leone del deserto".
Nessuno sapeva niente di lui, del suo passato o di che lavoro facesse prima di diventare un nomade.
Gli abitanti del deserto raccontavano le più svariate storie su di lui, anche coloro che lo avevano intravisto o avevano incrociato il suo sguardo per qualche secondo, senza però avere l'onore di scambiarvi qualche parola. Alcuni lo dipingevano come un mercante, altri lo rendevano protagonista di presunti viaggi nelle zone più inesplorate del deserto, in luoghi dove nessuno sarebbe riuscito a sopravvivere, altri sostenevano che avesse attraversato l'intera giungla dell'Africa Nera a piedi e con la sola compagnia della propria scimitarra, l'arma che simboleggiava il suo coraggio e che lo avrebbe aiutato a sconfiggere le belve più feroci. 
Insomma, un fascino in grado di colpire chiunque non solo per la sua figura, ma anche per la sua riservatezza e l'atteggiamento introverso che lo ammantavano di ulteriore mistero, tutti dettagli di cui l'uomo non si curava affatto.
Sembrava che il suo unico scopo fosse viaggiare, scoprire il mondo.
Si diceva che l'uomo fosse sposato, e questa era - forse- l'unica verità; si può dire che la sua sposa fosse il suo esatto riflesso, soprattutto nel carattere, ma non lo aveva mai seguito nei suoi viaggi, per volere del marito. Nessuno, nemmeno lei seppe mai per quale motivo. Era un uomo tanto misterioso... 
Presto la sposa gli fece dono di una figlia, una splendida bambina che aveva preso il meglio da entrambi i genitori, la fierezza del padre e la bellezza di sua madre, una pelle morbida e delicata, due scintillanti occhi blu e capelli corvini. I membri della tribù, che avevano cresciuto la piccola insieme alla madre durante i lunghi periodi di assenza del padre, dicevano che accarezzare la sua pelle era come toccare il viso di una divinità, e guardare i suoi occhi, limpidi come un cielo puro senza nuvole, equivaleva a specchiarsi in un lago. Insomma, tutto in lei dava l'idea di un dono, un regalo dal cielo che chiunque avrebbe desiderato; per questo i suoi genitori la chiamarono Nawal, che significa proprio dono.
Fu proprio grazie alla piccola che l'uomo decise di viaggiare di meno, avendo così la possibilità di veder crescere la sua piccola, la sua principessa. 
Ma quando la sua magnifica sposa si spense per sempre, l'uomo ricominciò a viaggiare. Una mattina partì, senza spiegare nulla a nessuno, con l'unica richiesta che la figlia fosse trattata con le dovute cure in sua assenza, promettendo che sarebbe tornato. 
Senza una meta precisa, l'uomo vagò in lungo e in largo, di città in città, di porto in porto, fermandosi solo per riposare in qualche locanda e acquistare i viveri necessari per se e la sua cavalcatura. Nelle locande piene di viandanti ascoltava molte storie, le stesse con le quali aveva cresciuto la piccola Nawal, le voci più varie e racconti che aveva già udito decine e decine di volte. Una in particolare, una storia degna delle avventure di Sinbad il marinaio; si vociferava di viandanti che sostenevano di aver ricevuto asilo in un misterioso palazzo dorato, situato nel mezzo del deserto, raggiungibile solo tramite una galleria nascosta tra le rocce, ma nessuno di essi aveva mai fatto ritorno da quel posto. Secondo molti, quel palazzo era la dimora di uno spaventoso essere che avrebbe divorato i malcapitati che gli avevano chiesto asilo.
Ovviamente per lui era solo un'altra leggenda, niente di nuovo insomma, tanto che, ormai stanco, si congedò e informò il locandiere che la mattina dopo sarebbe ripartito.
"Siete sicuro di voler ripartire?" gli chiese il locandiere, preoccupato "Dicono che dalle valli del sud si stia avvicinando una terribile tempesta, e a quanto pare colpirà la città, dirigendosi poi verso le oasi dell'est" 
L'uomo ascoltò le parole del locandiere con fare indifferente. Non era certo la prima tempesta di sabbia della sua vita, e il fatto che fosse lì a parlarne voleva dire che sapeva cavarsela in certe situazioni. 
"Non è la prima tempesta della mia vita" esclamò conciso. Il locandiere, intimorito dal tono usato, preferì non proseguire il discorso, riprendendo le proprie mansioni con un sottinteso faccia come vuole.
Il mattino seguente l'uomo riprese il proprio viaggio lasciandosi alle spalle la cittadina. 
Contrariamente a quanto aveva sentito, le premesse per un viaggio tranquillo c'erano tutte; fu solo quando il sole raggiunse il punto più alto nel cielo che qualcosa cambiò: la sabbia, fino a quel momento placida e incollata al terreno, iniziò a sollevarsi, dapprima lentamente, poi sempre più vorticosamente assieme al vento, circondando l'uomo e l'animale. Egli si guardò attorno, finchè non scorse dalle dune più lontane una gigantesca nuvola di sabbia protrarsi pericolosamente nella sua direzione come una belva feroce pronta a divorarlo. 
E proprio come una belva che piomba sulla preda con scatto fulmineo, la tempesta lo investì in pieno, inghiottendolo e facendolo sparire nel nulla in un vortice scatenato quanto l'inferno.
Il vento soffiava furioso, la sabbia rendeva impossibile notare anche il dettaglio più vicino, il cammello iniziò ad agitarsi e lamentarsi in preda al terrore. L'uomo tentò inutilmente di calmarlo tirando saldamente le redini per mantenerne il controllo ma l'animale non volle saperne di calmarsi. Anzi, spinto dall'incalzante furia della tempesta iniziò a correre alla cieca, senza avere idea di dove stesse andando. Nel caos scatenatosi, nessuno dei due riusciva a vedere nulla se non diabolici granelli di sabbia pronti ad insidiarsi nei loro occhi per oscurare la vista ad entrambi.
Improvvisamente, come se davanti a lui fosse apparso un ostacolo impossibile da evitare, il cammello ruzzolò per diversi metri, probabilmente lungo il fianco della duna, trascinando con se il suo padrone e rischiando più di una volta di schiacciarlo con tutto il suo peso. Ciò per fortuna non accadde, ma l'uomo rischiò di essere seppellito da metri di sabbia se non si fosse prontamente rialzato per tornare dal suo animale e cercare un modo per sfuggire ad una morte certa. Ma quando si guardò attorno, o meglio quando provò a guardarsi attorno, si accorse di essere da solo. Il ruggito del vento copriva ogni urlo che l'uomo emetteva per chiamare l'animale, e semmai esso si fosse trovato a poca distanza dal suo padrone, nessuno dei due sarebbe riuscito a udire i richiami e le richieste d'aiuto che si lanciavano a vicenda.
L'uomo era rimasto completamente da solo, senza cibo nè acqua, con la sola compagnia della propria scimitarra, senza la minima idea di dove si trovasse, ma istintivamente, invece che abbattersi iniziò a correre senza sapere cosa aspettarsi, ma pensò che fosse sempre meglio che attendere la fine senza fare nulla, tendendo la mano davanti a se nella speranza di toccare qualcosa che potesse aiutarlo in qualunque modo.
Non seppe quanto tempo passò prima che la mano si posasse effettivamente su qualcosa: una grande superficie rocciosa.
L'uomo esplorò la superficie con entrambe le mani in cerca di un appiglio o magari un'apertura nella quale rifugiarsi ed attendere che la tempesta si calmasse, e fortunatamente trovò quella che sembrava l'entrata di una grotta, ma la grandezza avrebbe permesso l'accesso solo ad uno sciacallo. L'uomo non si arrese, si mise carponi e si infilò in quel buco fiducioso di aver trovato una piccola salvezza. La grotta era buia e angusta, solo qualche centimetro separava la schiena dell'uomo dal soffitto roccioso, che toccò più di una volta camminando e strisciando in cerca di una parete che indicasse la fine di quella piccola galleria che sembrava pronta ad inghiottirlo nelle tenebre da un momento all'altro. 
Proprio quando l'uomo era sul punto di perdere le speranze sentì un debole soffio di vento provenire dritto davanti a lui. Pensò che dovesse trattarsi sempre della tempesta, ma lo sollevò il fatto che sembrava aver trovato una via d'uscita. Man mano che avanzava il debole soffio si fece sempre più forte, e una luce bianca si fece largo in quell'oscurità apparentemente infinita. 
Proprio quando stava per raggiungere l'uscita, l'oscurità scomparve e tutto attorno a lui divenne bianco. L'uomo si coprì istintivamente gli occhi, poichè l'improvviso bagliore lo accecò, ma piano piano tutto divenne sempre più nitido e definito: non c'erano vento o segni di tempesta, ma un sole morente che tinteggiava il cielo e la sabbia di abbaglianti sfumature rosse, e sotto il suo sguardo vigile si estendeva probabilmente la più bella oasi che l'uomo avesse mai visto in vita sua. Con i vestiti coperti di sabbia corse verso il cristallino lago circondato dalla rigogliosa vegetazione e alte palme per tuffarsi e soddisfare la bestiale sete che gli aveva prosciugato la gola. Esultò e si agitò come un bambino in preda alla totale gioia, felice di essere ancora vivo. 
Tornato a riva si guardò attorno in cerca di un punto di riferimento, qualcosa che gli permettesse almeno di farsi un'idea di dove si trovasse, ma non trovò nulla: l'oasi si trovava in una piccola valle di sabbia e c'era una strada lastricata di grossi mattoni rettangolari che partiva dalla riva opposta e spariva oltre una duna. L'uomo decise di seguirla, con un po' di fortuna avrebbe trovato un'abitazione con qualcuno disposto ad aiutarlo e offrirgli del cibo. Ma ciò che l'uomo si ritrovò davanti, una volta superata la duna, superò ogni sua più rosea aspettativa: la strada di mattoni proseguiva per qualche altro metro terminando davanti ad un alto muro che circondava un enorme palazzo luminoso come il sole; un numero incalcolabile di finestre sezionava le quattro facciate del muro, al centro del quale vi era l'entrata principale, decorata, come d'altronde le finestre, con piastre color smeraldo. Dagli angoli si sollevavano quattro torri di marmo rosso con piccole cupole bianche in cima, immobili e intimidatorie come quattro giganti a guardia di un tesoro. 
Varcata l'entrata l'uomo mise piede su un largo palco di mattoni bianchi che si affacciava su un immenso giardino, grande quanto l'oasi, circondato da un colonnato interno. Al centro del giardino, scesa la piccola scalinata sorvegliata da due leoni di pietra, una grande fontana traboccante acqua fresca e tutto intorno stormi di uccelli coloratissimi danzavano nel cielo, e tanti alberi colmi di frutti maturi. All'uomo sembrò di trovarsi in un altro mondo, un mondo così bello da mettere in dubbio la sua stessa esistenza. 
L'intero scenario era dominato dal palazzo vero e proprio, un enorme edificio bianco contro il quale si rifletteva la luce, con la facciata divisa in tre parti, ognuna con finestre e le più varie decorazioni e tre colori diversi, mentre tre imponenti pilastri sostenevano il portico d'ingresso. A completare quel magnifico quadro, una cupola d'oro. 
Provò a chiamare gli abitanti del palazzo, ma non ebbe alcuna risposta. La sua voce echeggiò nel silenzio tombale della foresta di colonne. Chiamò ancora, e ancora, ma niente. Possibile che un palazzo così maestoso fosse senza padroni?
L'uomo ipotizzò che si sarebbero fatto vivo comunque, prima o poi. Nel frattempo il sole aveva lasciato il posto nel cielo alla luna, e nella quiete che ammantava il giardino, spinto dalla fame, l'uomo si diresse verso un albero di mele. Ne staccò una da un ramo e le diede un morso. La gustò come fosse la prima mela della sua vita, e la divorò in men che non si dica. Ne prese un'altra, e un'altra ancora, ma proprio in quel momento una lugubre nube circondò il palazzo; la luna si spense, un vento più freddo del solito si alzò, piegando al proprio volere gli alberi e le piante del giardino, causando la fuga degli animali. Un ruggito spaventoso gelò il sangue nelle vene dello sfortunato viaggiatore. Si volse in direzione della fontana e, davanti ai suoi occhi, una delle statue leonine balzò giù dal piedistallo e gli si parò di fronte digrignando minacciosamente le zanne. Benchè non capisse come fosse possibile una cosa del genere, ma non aveva neanche tempo per pensarci, l'uomo impugnò la scimitarra e si preparò a rispondere a qualunque colpo della creatura. 
Il leone alzò una zampa e colpì l'avversario, ma l'uomo la schivò prontamente rotolando nella direzione opposta. Il leone corse furiosamente contro di lui e gli balzò addosso atterrandolo con l'intenzione di affondare le zanne nella sua carne, ma l'uomo riuscì a incastrare la lama della scimitarra nella bocca della bestia, bloccandola e dimenandosi con tutte le proprie forze per liberarsi. Alla bestia non servì molto per distruggere la lama, e con incredibile fortuna l'uomo riuscì a sgattaiolare sotto il ventre dell'animale e allontanarsi quanto bastava per elaborare un piano, ma un nuovo attacco da parte del leone non si fece attendere; l'uomo iniziò a correre a perdifiato verso il muro per attirarvi il leone, e quando l'animale, lanciato a tutta velocità, gli fu abbastanza vicino, l'uomo balzò via con scatto felino e il leone si schiantò contro il muro. In una manciata di secondi il testone di pietra si disintegrò e il corpo si accasciò sul pavimento tornando una semplice statua di pietra. 
L'uomo si rialzò riprendendo fiato, ancora fortemente incredulo. Sarebbe meglio se me ne andassi da qui pensò. Non fece in tempo ad avviarsi che un nuovo ruggito lo immobilizzò. Il coraggio era la qualità per la quale quell'uomo era conosciuto, ma di fronte a tali avvenimenti persino lui iniziò a provare timore. Era sempre un umano, dopotutto. Ma stavolta una voce accompagnò il ruggito, una voce profonda e graffiante.
" E' la prima volta in vita mia che vedo un uomo che trova il coraggio di affrontare uno dei miei leoni!" tuonò con sgomento la voce.
L'uomo si volse e la sua attenzione non fu colpita tanto dall'altro leone di pietra che aveva preso vita, quanto più dall'essere appollaiato sulla sua criniera con una postura quasi scimmiesca: un essere che aveva ben poco di umano, se non quelle che somigliavano a braccia e gambe, ma con mani e piedi artigliati, un corpo esile coperto di un folto pelo brizzolato con strisce scure e una piccola criniera grigia lungo collo e schiena. Il muso ricordava un macabro sciacallo con la bocca piena di zanne acuminate e due lunghe orecchie nere scarnificate. Indossava solo un paio di vecchi e laceri pantaloni blu con una fascia bianca, dai quali penzolava una piccola coda leonina, e due bracciali di bronzo.
"Se dovete uccidermi" disse l'uomo guardando negli occhi la mostruosa bestia "Fatelo adesso! Ma sappiate che, anche se non ho più la mia spada, mi batterò con tutto me stesso per vivere!"
La determinazione di quelle parole fece sghignazzare il mostro. 
"Devo supporre che voi siete il signore di questo palazzo, dico bene?"
"Esattamente, e tu se il primo umano che riesce a sopravvivere all'attacco dei miei leoni" sentenziò il mostro. L'uomo non rispose, e la bestia gli indicò un cespuglio poco lontano da loro, invitandolo ad osservare qualcosa; fu sconcertante. Resti di cadaveri, ossa ridotte quasi in polvere, crani sfondati e resti laceri di vestiti umani ancora chiazzati di rosso. L'uomo cadde a terra per il terrore.
"Allora, hai compreso quale sorte ti attende per esserti introdotto il mio palazzo?" gli chiese il mostro dopo aver riso sadicamente di gusto alla vista del suo terrore.
"Perchè?" gli chiese l'uomo "Non ho fatto nulla di male!"
"Hai rubato nel mio giardino!"
"Sono stato spinto dalla fame! Mi ero perso in una tempesta di sabbia e fortunatamente ho trovato una galleria che mi ha portato ad un'oasi, e una strada che mi ha condotto in questo palazzo". L'uomo parlò concitatamente, fissando la creatura negli occhi per fargli capire che non stava mentendo.
La bestia saltò giù dalla testa del leone e si parò davanti all'uomo, osservandolo attentamente con i suoi occhi gialli come due lanterne che brillano nel buio. "Se le cose stanno così" continuò "Sarò magnanimo e ti lascerò andare... Se solo tu porterai nel mio palazzo tua figlia!"
Quelle parole pietrificarono l'uomo. "Co-cosa avete detto? Come fate a sapere.."
"Tu sei colui che chiamano il solitario leone del deserto, giusto? Tutti gli abitanti del deserto ti conoscono, e tutti sanno di tua figlia" 
"Te lo puoi scordare!" urlò furiosamente l'uomo "Come puoi pensare che io possa cedere mia figlia ad un mostro come te?"
Un ringhio sommesso, un ruggito e senza avere il tempo di accorgersene, l'uomo si ritrovò a terra con la gola stretta dagli artigli dell'uomo bestia, pronto ad affondarli nella sua carne.
"Ti ricordo che sei stato tu il primo a rubare!" esclamò la bestia "E ora pretendo che tu dia qualcosa a me! Inoltre, sappi che qualunque creatura presente in questo giardino sarebbe in grado di trovare la tua casa! Ciò significa che potrei venire personalmente e ucciderti in qualsiasi momento! E a nulla varrebbero i tuoi spostamenti!"
Che stesse bluffando? O forse era la verità? L'uomo fu sommerso da mille domande e dubbi, ma alla fine, con profondo dolore e avendo capito che non c'era via di fuga, si ritrovò costretto ad accettare.
La bestia gli permise di rialzarsi, e gli disse che nell'oasi fuori del palazzo avrebbe trovato un cammello che gli avrebbe permesso di tornare a casa sua, e che lo avrebbe poi riportato al palazzo. Una volta raggiunta l'oasi l'uomo vide uno splendido cammello intento ad abbeverarsi e perfettamente equipaggiato per affrontare il lungo viaggio. 
 
 
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Difficile dire quanto durò il viaggio. Sapevano solo che dopo giorni e giorni di marcia il cammello li aveva riportati al palazzo. 
Nawal respirava profondamente, tentando di mantenere il controllo e di non esternare i timori e i mille pensieri che attanagliavano il suo cuore. Per quanto fosse coraggiosa come suo padre, il racconto del suo incontro con la bestia e del destino che esso avrebbe potuto riservare a tutti e due non poteva lasciarla indifferente. Più di una volta suo padre l'aveva guardata malinconicamente durante il viaggio, le aveva accarezzato amorevolmente le guance chiedendole perdono con lo sguardo, ma Nawal non cercò mai di fargli pesare la scelta. Ma in cuor suo tremava, chiedeva aiuto al pensiero di cosa il mostro avrebbe potuto farle una volta rimasta lì da sola.
Le paure cessarono - momentaneamente- quando arrivarono finalmente all'oasi, e successivamente al palazzo. Come suo padre, a prima vista lo scenario incantò la giovane Nawal, provava la forte tentazione di esplorare ogni angolo del giardino e di osservarne il minimo dettaglio come avrebbe fatto una bambina nel luogo più bello di tutta la Terra.
Il padre le rivolse un ultimo sguardo che condensava in una volta sola malinconia, senso di colpa, amore e paura, e la ragazza, accortasene, si lanciò tra le sue braccia nel tentativo di confortarlo e sentire, forse per l'ultima volta in vita sua, tutto l'affetto che solo un padre può provare per la propria figlia. 
"Non c'è motivo di provare tutta questa paura" affermò una voce fin troppo familiare all'uomo; nascosto dietro una colonna, in penombra, il Mostro li osservava. Sulle prime la ragazza cercò istintivamente protezione nascondendosi dietro il padre, ma la paura lasciò il posto al coraggio, e Nawal passò avanti al padre guardando dritta in direzione del colonnato.
"Io mi chiamo Nawal. Se dovrò vivere in questo palazzo" disse "Desidero conoscere il volto del suo padrone"
"Nawal... Un dono..." sussurrò debolmente il Mostro. Poi, lentamente, uscì dall'oscurità e sotto la luce soffusa del sole che tramontava, gli occhi, o per meglio dire gli zaffiri di Nawal si posarono sulla mostruosa figura del suo carceriere. Il fiato le morì in gola. 
"Nawal... Con un dono come te questo mio palazzo non sembrerà più così solitario e vuoto" 
Contrariamente a come si era presentato al padre, in quel momento il Mostro apparve stranamente gentile, e nelle sue parole si avvertiva una nota di timidezza. Che quel mostro non fosse come padre e figlia lo avevano immaginato, ovvero l'animale brutale e sanguinario pronto ad ucciderli alla prima occasione?
Spinta da questa possibilità, Nawal sentì il coraggio e la speranza crescere sempre più dentro di se, pur continuando a mantenere una certa distanza.
"Vi chiedo solo di trattarla con rispetto e gentilezza, come merita" 
"Non devi preoccuparti, leone del deserto, sarà trattata come merita. Hai la mia parola"
Cosa poteva farsene della parola di un mostro?
"Sappiate che, in caso contrario, non esiterò ad impugnare la scimitarra e conficcarvela nel cuore!"
Il Mostro lo guardò con silenziosa ammirazione. Tutto quello che aveva sentito sul suo conto gli rendeva giustizia, vedeva nel suo sguardo gli stessi occhi di una belva pronta a sacrificarsi per proteggere la prole. Lo ammirava così tanto che quasi gli dispiaceva....
"Passerai la notte qui" disse "E domattina partirai". Detto ciò, il Mostro sparì tra la foresta di colonne, lasciando padre e figlia da soli.
 
 
Le era stato annunciato che il Padrone l'avrebbe attesa nella sala principale del palazzo, la più grande e sontuosa, illuminata da candelabri e sovrastata da una maestosa e luminosa volta decorata con vari dipinti raffiguranti eroi e battaglia. Dal soffitto pendevano morbidi arazzi regalmente decorati con sgargianti colori, e tre grandi finestre si affacciavano sul giardino e l'oasi, illuminati dall'argentea luce della luna; ai loro piedi, sistemati a semicerchio, un complesso di cuscini azzurri dalle svariate grandezze, morbidi come gli arazzi, e un piccolo tavolo imbandito di prelibatezze che la giovane non aveva mai visto prima di allora, piatti e ciotole riempite con i frutti più succosi e i cibi più prelibati. 
Nawal era in piedi al centro della sala, guardandosi attorno estasiata, ma non v'era traccia di suo padre.
Il Mostro si presentò poco dopo, sorridendo nel guardare Nawal con il principesco abito che le aveva fatto trovare nella sua stanza, un abito di pregiata seta azzurra che esaltava la sua pelle scura, e un piccolo diadema le decorava i capelli corvini. Il Mostro, invece, non indossava nulla di particolare, se non dei pantaloni verdi senza dubbio più presentabili dei precedenti stracci laceri, un'elegante fascia rossa stretta in vita con decorazioni ovali, due bracciali d'oro e un collare decorativo con al centro un rubino. Tentativi vani di "mascherare" il suo aspetto animalesco, Nawal lo sapeva bene, ma per evitare di scatenare le sue possibili ire, e per proteggere il padre, fece buon viso a cattivo gioco.
Il Mostro le disse che il principesco banchetto era stato preparato esclusivamente per lei, e ogni volta che la giovane gli chiedeva come mai lui non mangiasse, il Mostro rispondeva "non preoccuparti per me, ho già mangiato".
La serata, nonostante le aspettative, fu piacevole; Nawal sembrò superare l'iniziale diffidenza nei confronti della creatura, ed egli, per intrattenerla, le raccontò le storie raffigurate nella immensa volta che li sovrastava, storie che la affascinarono e la fecero viaggiare con la fantasia immaginando di essere lei stessa la protagonista di tutte quelle avventure, quasi ad emulare l'avventurosa vita di suo padre. 
Giunta l'ora, il Mostro battè le mani, le grandi porte si aprirono e due fanciulle con il viso coperto da veli trasparenti fecero la loro entrata, dirigendosi verso il Mostro e la sua ospite. Egli ordinò loro di riaccompagnare la giovane nella sua stanza ed esse obbedirono. Nawal camminò per gli immensi corridoi scortata dalle due serve come fossero le sue ancelle personali, ma il suo pensiero continuò ad essere indirizzato verso il padre, che per tutta la serata non si era fatto vivo. Nawal chiese alle due fanciulle se, per caso, sapessero dov'era, e loro risposero che era talmente stanco per il viaggio che aveva preferito rimanere in camera a riposarsi. 
 
Quella notte qualcosa impedì a Nawal di dormire. Pensieri, immagini spaventose disturbarono il suo sonno, tanto che ad un certo punto pensò fosse inutile continuare a provare a dormire. Fuori ancora splendeva la luna e il palazzo era avvolto nello stesso inquietante silenzio che dominava il deserto di notte. Sentì il bisogno di vedere suo padre. Aprì lentamente la porta facendo capolino con la testa puntando lo sguardo nei profondi corridoi, ma non c'era nessuno. Nawal uscì dalla propria camera e si diresse lentamente verso la stanza del padre, attraversando la foresta di colonne scure e pilastri che sorreggevano il mastodontico peso della struttura. 
Nawal bussò chiamando il padre, ma non ricevette risposta. Bussò di nuovo, stavolta più forte, ma niente da fare. 
Possibile che stesse dormendo così profondamente da non sentire nemmeno la sua voce? Che stesse facendo di proposito?
Nawal fu sul punto di tornare indietro, ma improvvisamente la porta si aprì da sola, e lo spettacolo che la giovane si trovò davanti fu talmente terrificante che persino la luna, se l'avesse visto, si sarebbe nascosta dietro le dune: suo padre era disteso a terra, circondato da chiazze di sangue, con i vestiti lacerati e ciò che restava del corpo era poco più che una carcassa spolpata circondata da insetti. 
Il cuore di Nawal collassò silenziosamente nelle profondità del suo petto, e la luce dei suoi occhi si spense come la debole fiamma di una candela, per poi sentire un'inquietante presenza alle proprie spalle.
"Perchè...?" fu tutto ciò che riuscì a sussurrare.
Una zampa le si posò sulla spalla, risalendo delicatamente lungo il collo fino alla guancia, accarezzandola con cautela evitando anche solo di sfiorarle la pelle con gli artigli affilati. 
"Cosa... Cosa vuoi da me?"
"Voglio solo farti mia sposa... Nawal, il dono che attendevo da una vita... La perla più preziosa di tutto l'Oriente" sussurrò suadente il Mostro. La sua voce scivolò nelle orecchie di Newal, non prepotentemente ma dolcemente, come se a parlare fosse una persona a lei cara, placando stranamente la paura che pietrificava la povera giovane. Ella avrebbe voluto provare a ribellarsi, avrebbe voluto sottrarsi alle viscide carezze e avances della bestia, pur sapendo che, molto probabilmente, sarebbe incappata nello stesso destino del padre. Magari con un po' di fortuna sarebbe riuscita a montare sul cammello e sarebbe scappata laddove la bestia non avrebbe potuto raggiungerla. 
Eppure qualcosa nella sua voce, nelle sue parole, nei suoi gesti la fece desistere; la voce dell'essere non era nè graffiante nè cavernosa, non ringhiava e non ruggiva, era pacata, calda, quasi dolce, e le sue mani, o se preferite zampe, scivolavano lungo tutto il suo corpo disegnandolo nei minimi dettagli, cosicchè il sinuoso corpo di Nawal fu percorso da miriadi di brividi, facendole trattenere con difficoltà dei piccoli gemiti che, agli occhi del Mostro, la rendevano ancor più irresistibile di quanto già non fosse.
"Nawal... Diventa la mia sposa prediletta..."
Forse per una piccola nota di paura che le stringeva il petto, forse perchè non aveva altra scelta, o forse per una qualche strana forma di attrazione, la giovane balbettò un tiepido sì...
 
Nessuno seppe mai che fine fecero il solitario leone del deserto e sua figlia. I membri della loro tribù provarono a cercarli innumerevoli volte, ma senza successo. Dal giorno in cui il leone era tornato a prendere la sua amata figlia, nessuno di loro li rivide mai più, e la notizia della loro scomparsa passò di città in città, di tribù in tribù, di porto in porto, diventando una vera e propria leggenda.
Nessuno di loro immaginava che da qualche parte nel deserto, in uno splendente palazzo che nessuno sarebbe mai stato in grado di trovare, una giovane dagli occhi blu e i capelli scuri come la notte era diventata la perla dell'harem di una mostruosa bestia, che giorno dopo giorno era costretta a deliziare i suoi occhi con le danze più sensuali ed erotiche, riaccendendo nel mostro gli istinti primordiali e animaleschi sopiti che, più tardi, la stessa giovane era costretta a soddisfare, senza possibilità di ribellarsi, ma molto probabilmente, nemmeno lei avrebbe voluto che tutto finisse....
 
 
 
 
 
 
   
 
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