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Autore: Dakota Blood    13/05/2017    0 recensioni
Ellie è una ragazza difficile, si droga e la sua famiglia non si preoccupa di lei.
Romanzo liberamente ispirato a Noi i ragazzi dello zoo di Berlino
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo due: Mia madre entra nella mia stanza, non mi saluta. Ha ragione, poichè io non apro gli occhi e faccio finta di dormire come un ghiro. Sento i suoi passi accanto al mio letto mentre le sue pantofole ( con piccoli fiori rossi su sfondo beige) pestano il pavimento con sfumature marrone chiaro si avvicinano alla finestra, aprendola per metà sollevando l'avvolgibile. So che adesso sistemerà la mia borsa nera con uno scheletro disegnato sopra insistendo affinchè si capisca per bene che è stata spostata di qualche centimetro, come se fosse una sorta di rito da eseguire per forza. O lo fai o altrimenti non vivrai bene la tua giornata! Dopodichè allunga le sue braccia corte verso la scrivania e riordina i pacchi dei fazzoletti ecologici che ho comprato una settimana fa ( amo la natura e rispetto tutto ciò che la circonda) le confezioni di salviette struccanti all'aloe e le due matite nere che ho lasciato sparpagliate accanto al temperamatite per occhi, anzichè riporre il tutto nell'astuccio. Ok lo ammetto, sono disordinata, ma come dico sempre nel disordine trovo l'ordine di cui ho bisogno per non perdermi. Non oso muovermi. Quasi non respiro e nonostante il cuore mi batta all'impazzata a causa della tensione e del nervosismo, non cedo e rimango immobile come una statua greca. Lei si avvicina e mi sembra quasi di vederla mentre mi guarda dormire, non perché le piaccia occuparsi di me, ma perché deve farlo. è un dovere, le spetta comportarsi in questo modo proprio come è necessatio che ogni mattina alla medesima ora apra quella maledetta porta a vetri e compia gli stessi gesti, senza tardare nemmeno di un minuto. Sento che va via, ha sostato giusto il tempo dovuto e poi è sparita come un fantasma che attraversa un muro, facendomi finalmente respirare. Grazie a Dio anche per oggi è finita. Spalanco gli occhi incostrati di cispa e nel stropicciarli mi sento meglio, come s fossi rinata. Prendo in cellulare che ho lasciato sul comodino alla mia sinistra e guardo l'orario anche se non ne avrei bisogno. So che saranno le dodici in punto e infatti i numeri in rosso mi danno la conferma lampeggiando come lucine di Natale. 12:00 Il sole continua ad intrufolarsi nella mia camera, con insistenza, come un ladro che nonostante veda il pastore tedesco oltre il cancello, decida comunque di prendere un piede di porco ed introdursi in casa in cerca del suo tesoro. Io non voglio essere il tesoro di nessun sole, di nessuna luminosità. Se non odiassi gli occhiali li indosserei come potrei invece indossare senza problemi un paio di calze con i teschi o fatte a brandelli, di quelle che non indossa quasi nessuno per paura di essere giudicato male. In cucina il televisore è sintonizzato su un canale che trasmette principalmente musica elettronica e il DJ, con la sua voce squillante si introduce nella mia stanza, come se fosse seduto sul bordo del mio letto e volesse a tutti i costi buttarmi giù o farmi sentire il suo nuovo maledettissimo disco patetico. Ormai ci ho fatto l'abitudine e non sbuffo nemmeno più, ma i primi giorni è stato quasi come vivere in un incubo. Le mattine le trascorro sempre sola nella mia stanza a dormire fino a tardi perché non voglio dover pensare alla mia vita durante le ore diurne che detesto. Mia madre non lavora, o meglio, ora non ha nessun impiego ma tanti anni fa, molto prima che io nascessi, ottenne un posto nella sua città natale,che dista solo otto chilometri dal paese in cui vive assieme a tutta la famiglia da più di venticinque anni, solo che non l'hanno mai richiamata per dirle che l'avrebbero presa fissa. Se c'è qualcuno che è riusciuto a mettersi in proprio e mandare avanti tutti noi quello è il medico di casa. Non voglio chiamarlo padre e più avanti scoprirete il perché. Mia sorella, Theresa Dobren, ha venticinque anni e non posso certo dire di amarla come si dovrebbe invece amare una sorella. A lei piace uscire ogni sera con il suo ragazzo, Michael Lerner, uno stronzo di trent'anni con gli occhi celesti e i capelli biondo cenere. Io le dico sempre ( solo quando ha quei cinque minuti buoni da dedicarmi) che è un ragazzo sensa senso, che mi sembra un pupazzo, uno finto, ma a lei non interessa e mi guarda male se solo dico queste cose davanti a lei. Lui le regala vestiti corti e costosi, scarpe altissime e profumi dalle fragranze più seducenti e intense. Sembra di avere a che fare con uno sceicco ma in realtà è un mantenuto e non discende da nessun arabo, anzi! Lui la porta ogni estate a Barcellona, non perché voglia farle visitare il centro storico oppure i monumenti più importanti, no, solo perché è la città in cui ormai vanno tutti i ragazzi, è diventata una moda portare la propria ragazza in Spagna e quindi anche lui da perfetto ragazzo di merda deve far ciò che fano tutti i suoi amici e i suoi coetanei. Più ci penso e più mi viene da vomitare! Se lui è un idiota, lei è una di quelle classiche ragazze che si interessano solo di moda, di gossip, dei ragazzi che piacciono a tutte le ragazzette stupide della scuola, le interessa solo questo, solo apparire ed essere sempre in mostra. Tutto il resto, il mondo che c'è là fuori accanto a lei, per una ragazza come mia sorella è solo vuoto, è solo un cerchio che la soffoca e basta. Noi non siamo una famiglia, noi per lei siamo soltanto un peso. Non la telefono mai, non mi preoccupo di che fine possa fare, per me può andare al diavolo domani stesso! Torna ad orari assurdi mentre io sto dormendo e sento solo la sua voce ( impastata dall'alcool) mentre mi chiede se sono già sprofondata nel mondo dei sogni e prendendomi in giro perché vado a dormire troppo presto. Non mi muovo, proprio come non oso muovere nemmeno un braccio quando la mamma entra a controllare che tutto sia al solito posto, per il suo 'vizio dell'autocontrollo forzato' e respiro a fatica perché ho paura che se oso lasciarmi andare e tirare un lungo sospiro, lei possa sentirmi e iniziare a chiacchierare parlandomi di tacchi, di bevande alcoliche e di baci che le son stati rubati mentre ballava sul cubo. Non voglio sentire stronzate alle quattro del mattino. Mia sorella è un idiota senza cervello e non capisco come possa avere il mio stesso sangue. Domattina dovrò andare a scuola e ho mal di testa, mi sembra di avere qualcuno accanto a me che insistentemente sta calando un martello dritto sul mio cranio per farmi impazzire. Mi giro a sinistra allungando il braccio verso il vuoto mentre con la coda dell'occhio mi assicuro che lei si sia già sdraiata e magari stia dormendo, finalmente. La sento mentre sfila la maglietta e lancia i tacchi ( 20 centimetri) contro la parete rosa, la sua parete. Noi non abbiamo una camera singola, o meglio, dormiamo nella stessa stanza ma ognuna ha i suoi spazi, che sono completamente differenti l'uno dall'altro. La mia metà è più piccola e ha le pareti nere, qua e là ho appeso i poster delle band che mi stanno a cuore come gli Slipknot, i Motley Crue e gli Smashing Pumpkins, ho varie foto di cantanti come Ronald Joseph Radke e Sebastian Bach, mentre sorridono al pubblico e io immagino che sorridano perché vivono con me. Ho il comodino con sopra una lampada verde che detesto ma che non posso cambiare perché aspetto di compiere diciotto anni per andarmene di casa oppure trovare un buon lavoro che mi permetta di comprare le cose che mi piacciono. Theresa invece ha il suo lato ' da principessa' come piace chiamarlo a me, perché sembra di essere in un angolo di un castello in stile 'Raperonzolo', peccato che Michael non possa certo definirsi un principe azzurro. Preferisco i rospi ad uno come lui. Mia sorella di notte dorme con un pupazzo gigantesco di Helo Kitty con addosso un tutù rosa e al collo porta un bavaglio con la scritta 'I'm a perfect princess, and you?' E ogni qualvolta mi capita di imbattermi in quella schifezza penso, Non sono una principessa ed è meglio che non ti dica che cosa sono perchè non è niente di bello. Lei ama i peluche, io amo le borchie. La differenza non sta tanto nel fatto che ci vestiamo in modo diverso e ascoltiamo musica differente o frequentiamo posti completamenti diversi l'uno dall'altro, ma nel modo di comportarci con le persone e anche tra di noi. Io non la insulto mai, mentre lei non fa altro che prendermi in giro e a volte arriva persino a farmi dei dispetti nonostante siamo molto più grande di me. L'anno scorso, quando uno di suoi tanti ragazzi che le ronzano attorno l'ha lasciata per un'altra che aveva vinto ad un concorso di bellezza portandosi a casa la fascia di Miss Sorriso' se l'era presa con l'unico poster dei Green Day che ero riuscita a conservare con cura. L'aveva strappato in tre pezzi mentre tra le lacrime diceva che i miei gusti, i miei modi di fare e solo la mia presenza la rendevano nervosa e che addirittura lui ( Un certo Nik non so cosa, che nè io nè i miei genitori hanno mai visto nemmeno una volta) l'aveva lasciata perché si vergognava di uscire con una ragazza che aveva una sorella così strana. Io avevo riso dicendole di prendersi una camomilla e di lasciar perdere quel tipo di ragazzi perché tanto l'avrebbero solo usata e basta. Lei aveva imprecato urlando e dicendo che io dovevo stare zitta perché non potevo parlarle in quel modo, proprio io che non uscivo mai con nessun ragazzo. La principessa ora era stesa a terra con la gonna stropicciata e il rimmel che le colava giù per l guance trasformandola più in una prostituta che in una gran dama quale vuol far credere di essere. Che schifo ! Invidio tutti quelli che non hanno fratelli o sorelle, li invidio davvero! Ora dovrei parlarvi del dottore non è vero? Il medico di casa torna quando si ricorda che esistiamo, quando nella sua mente una lampadina, come un barlume di speranza, si accende a intermittenza e gli ricorda che più di vent'anni fa ha deciso di crearsi una famiglia e che non basta l'albero genealogico per dire che io sono sua figlia o un documento come la carta di identità dove appare il suo cognome accanto al nome Ellie. Torna con il suo sorriso da ebete, come se volesse dire ' eccomi, finalmente, sono tornato dalla grande guerra che stavolta devo ammetterlo mi ha trattenuto un po' troppo, ma oh sono qui e mai e dico MAI mi sarei dimenticato della vostra esistenza. Questo succede sempre. Che cosa dovrei pensare? Di essere voluta bene da un un uomo che sedici anni fa ha aiutato mia madre a generarmi? Dovrei essere certa del fatto che una persona che non mi guarda nemmeno in faccia non appena apre la porta di casa e tiene lo sguardo basso, possa essermi vicina nei momenti difficili? Sapete, quando avevo dieci anni presi la varicella per colpa di una compagna di classe che anzichè rimanere a casa per almeno tre settimane o un mese intero, si era incollata alla sedia e aveva voluto a tutti i costi seguire ogni lezione, senza preoccuparsi delle persone che avrebbe contagiato. Io beccai la malattia subito, assiem ad altre due ragazze, Rose Lorens e Virginia Pertrel. Me ne stavo a letto, a soffrire tra la febbre alta che a volte scendeva e a volte risaliva come se fossi su una montagna russa e il gioco fosse molto divertente, tra il prurito talmente forte che Dio solo sa cosa riusciva ogni volta a frenarmi dal non staccarmi la pelle a morsi! Per fortuna mia mamma ( quando ancora non aveva manifestato tutti i suoi sintomi da disturbi ossessivo-compulsivi) mi aveva spiegato che in casi come quelli, ( una sera d'estate mentre bevevamo una limonata ghiacciata sedute sul dondolo in veranda mi aveva parlato delle malattie dei bambini, quelle che prima o poi prendiamo tutti nella vita) l'unico rimedio per non diventar matti era cospargersi sul corpo del borotalco mentolato ( o in casi in cui non fosse possibile reperirlo in fretta, andava benissimo anche quello normale) che avrebbe reso la pelle fresca attutendo il malessero fisico dovuto alle vesciche. Diventai un mostro nel giro di due giorni, in una settimana assomigliavo ad una grossa fragola e in un mese, quando ormai le grosse bolle iniziavano ad abbandonarmi ( grazie tante!) finalmente potevo guardarmi alla specchio senza provare un senso di ribrezzo. Voglio dire, non sono così stupida da pensare di dovermi voler così male solo perché non potevo ammirare il mio faccino normale, ma andiamo! Chi non si è odiato nel vedere il proprio riflesso mutato, come se all'improvviso Biancaneve per uno strano sortilegio si fosse trasformata di punto in bianco in uno zombie o nell'abominevole uomo delle nevi.? Sarebbe riuscita a non disprezzarsi almeno un poco? Credo di no. Bene, in tutto quel tempo mio padre lo vidi solo due volte. La prima fu quando mi disse che era entrato nella mia stanza perché stava cercando il suo libro di medicina ( specificando che si trattava del volume riguardante i casi più esasperanti) e la seconda quando riuscii ( seppure a malapena) ad alzarmi dal letto e andare in cucina, aprire il frigorifero per prendere un bicchier d'acqua e tornarmene buona buona in camera aspettando che la malattia passasse del tutto. Lo trovai seduto di fronte al tavolo con una marea di documenti, fogli , ricette mediche e un computer portatile aperto su alcune pagine in cui si trattavano argomenti di psicologia e in cui alcuni utenti chiedevano consigli ai migliori medici della zona. Avevo sbirciato facendo finta di dover prendere un altro bicchiere e con la coda dell'occhio avevo letto il titolo in alto, come se si trattasse di una pagina di giornale. La frase, lampeggiante e scritta in rosso ( sembrava quasi un semaforo impazzito) diceva più o meno così: ' Peri i casi più disperati, i migliori dottori da esasperare' Quasi mi venne da ridere e per poco non lasciaoi cadere per terra la bottiglietta d'acqua e i bicchieri. Ero incerta se applaudire facendo sentire tutta la mia falsa accondiscendenza o andar via con passo svelto e silenzioso, poi optai per una scrollatina di capo e andai via chiudendomi l'accappatoio sul petto. Avevo i brividi sia per il freddo che per il gelo interno che avevo provato in quell'istante. Lui aveva sollevato solo per dieci secondi lo sguardo verso di me, e non sono nemmeno sicura se mi avesse realmente riconosciuta e addirittura VISTA. Non so se pensasse che fossi un fantasma, un apparizione mariana o se mi vedesse come una ragazza qualunque che si era introdotta nella sua cucina ( lui ci teneva molto affinchè tutti sapessero che quella era la SUA casa anche se in realtà non aveva mai fatto chissà quali sacrifici per ottenerla, solo botte di fortuna) senza che si sapesse realmente chi fosse. Ero contenta per lui, dovrei forse negarlo solo per salvare me stessa? Ero felice perché finalmente avevo capito che cosa non andava in lui. Finalmente sapevo che potevo mettermi il cuore in pace, lasciare che la mia vita proseguisse come un fiume in piena e arrivasse a sfociare da qualche parte, qualsiasi parte, senza sosta, finché non avrei sicuramente ottenuto di meglio, molto più di ciò che mi aveva potuto offrire lui con le sue mancanze. In lui non andavano tante cose, troppe. Non andava il fatto che non ci fosse mai, che quando rimaneva era come se la stanza fosse vuota. Lui era quel tipo di mancanza che quando non c'è ti manca ma allo stesso tempo hai paura di aver vicino perché sai che ti farebbe solo del male. Un po' come quando vogliamo avvicinarci ad un leone o ad un altro animale feroce perché amiamo i felini più di qualunque altro cosa al mondo ma abbiamo il timore ( anzi ne abbiamo la certezza, una certezza infinita e sepolta nel nostro cuore) che l'avvicinarci a loro significherà sentirci male e bene allo stesso tempo. Ci faranno male, un male da cani, ci sbraneranno di sicuro ma vogliamo stargli vicino perché poterli avere al nostro fianco ci renderebbe felici almeno per qualche ora, vogliamo provare piuttosto che provare ad avere dei rimpianti. Io avevo paura di lui eppure avevo molta più paura di non averlo più un domani o il giorno stesso in cui magari non sarebbe più tornato a casa. Perché doveva succedere questo? Incontravo tante persone che vedevo per due minuti soltanto e nonostante mi rimanessero impressi nella memoria come puzzle, dopo qualche ora li scordavo come si dimenticano i vecchi amori adolescenziali. Avevo solo cinque anni quando mi resi conto che era il padre sbagliato, non solo perché non fosse presente, ma soprattutto perché era presente nella maniera più errata possibile e questo faceva più male del suo 'starò via per molto tempo perché sono occupato, piccola mia' Ciò che lui non capiva era che io non volevo essere chiamata piccola mia, io avrei preferito esser trattata come una tossica, come se fossi una stupida o come se non fossi la bambina che lui avrebbe voluto, avrei preferito qualche schiaffo a tutti quei silenzi. Io non sopportavo la sua mancanza d'affetto, il suo non volermi mai parlare, il suo abbassare lo sguardo quando io cercavo i suoi occhi per cercare di fargli capire che se solo mi avrebbe guardata avrebbe capito che io gli volevo davvero bene. Non lo chiamavo mai papà, forse è capitato qualche volta, raramente, ma ogni volta sentivo come se stessi riolgendomi ad un estraneo e così preferivo non dire nulla e chiudermi in me stessa, in un mutismo così sciocco per gli altri che spesso mi guardavano male, come se stando zitta avessi ucciso delle parole di un'importanza vitale. Ma loro non sapevano. Loro non sapevano niente. Non voglio dire che siano mai successe cose bruttissime nella mia famiglia, a parte il fatto che mia sorella una sera esordì dicendo che avrebbe chiuso con i libri per dedicarsi totalmente alla vita notturna, ma non posso nemmeno dire che siano stati anni idilliaci. Se fosse stato così ora non starei qua a parlarvi della mia vita segreta. Avete voglia di starmi a sentire giusto? E allora seguitemi.
   
 
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