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Autore: LeAmantiDiBillKaulitz    14/05/2017    1 recensioni
Prendete Chelsea e Alexandria, due migliori amiche particolarmente male assortite: una, rumorosa, casinista, molto oca e morbosamente ossessionata dal cinema, l'altra acida, nervosa, arrabbiata e decisamente pronta a picchiare tutti. Poi aggiungete Bill, antipatico, isterico, viziato ma terribilmente sexy. Mescolate con un'intervista ai Tokio Hotel per il giornalino universitario, con un Tom molto scemo, un Georg molto martire e un Gustav molto affamato. Il piatto è pronto: tra gaffes, incomprensioni, tacchi alti, litigi e romanticismo-fai-da-te, riusciranno le due ragazze a conquistare l'algido cuore del cantante?
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Bill Kaulitz, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Threesome, Triangolo
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CAPITOLO DICIASSETTE: GO SHOPPING GURLS!

Siamo sdraiate a letto questo momento, il suo grosso letto matrimoniale sfondato nel mezzo del disordine cosmico che vige nella camera, la chitarra abbandonata in mezzo alle vecchie fanzine hardcore, i vestiti buttati alla rinfusa sul pavimento insieme ai vecchi cd dei Linkin Park e dei Bauhaus, le tapparelle scassate e la nebbia che schiaccia sui vetri come a voler entrare e divorarci, citazione perfetta di “Attacco Glaciale” del 2010, di Brian Trenchard-Smith con Michael Shanks e Alexandra Davies.
Credo che Alexandria dorma, a questo punto, usando il mio davanzale come cuscino come abbiamo sempre fatto sin da quando eravamo bambine, accoccolate una sull’altra come due procioni in letargo. Sento il suo respiro caldo sulla mia pelle lentigginosa, il petto che si alza e abbassa lentamente, le mie braccia che la stringono come una bambolina, e intanto penso, lo sguardo perso sul soffitto, la mano intrecciata coi suoi capelli, un sorriso vago sulle labbra, gli occhi viola socchiusi nella perfetta posizione da regista surrealista che sta per partorire l’Idea Del Secolo per aggiudicarsi l’Orso d’oro di Berlino e la Palma di Cannes. Certo, magari aggiungendo il rumore della pioggia che batte sul vetro e il sordo risuonare di Rachmaninov in qualche stradina secondaria, possibilmente anche coi due protagonisti della vicenda colti in un momento post-coito, ma immagino che per noi possa andare bene anche due migliori amiche che russano sonoramente senza alcun Rachmaninov ma solo qualche vecchia canzone dei One Direction della vicina di sopra e nessuna sigaretta, sostituita poeticamente da un pacchetto di patate fritte.
Sarebbe una pellicola decisamente strana, la mia, penso, mentre Alex russa distrattamente e mi da un calcio nel sonno. Soprattutto per la presenza di Bill che fa da jolly della situazione. Non potremmo mai davvero dire che è nostro, noi, che non abbiamo mai posseduto davvero nulla. Perché la musica non appartiene, la musica è libera, è la radio, sono le note che scorrono le chitarre, nessuno può dire di fare musica perché è la musica che fa te stesso, è lei che ti plasma e ti filtra fuori dalle dita o dalle corde vocale. Perché la follia non era nostra, era l’effetto di idoli sbagliati che non avremmo mai dovuto imitare, era lo strascico di quegli anni ’70 di cui mio fratello Cooper Carter ci ha fatto testate inimmaginabili, era lo schizzo copiato da una Factory che avremmo tanto voluto visitare. Perché la ribellione è del popolo, non del singolo, è la miccia che Billy Terry e Charity Rebecca ci hanno infilato in testa, è il messaggio che gli anni ’60 ci hanno voluto lasciare da portare avanti come figli di un mondo che è stanco. Perché il cinema ha già avuto i suoi padri di ogni sua forma e perversione, non siamo altro che i loro discendenti, i discepoli di mondi che non dovrebbero mai venir distrutti come il Gabinetto del Dottor Caligari ma continuati incessantemente per non dimenticare. Non abbiamo nulla di nostro, io e Alex, siamo solamente la periferia stessa nella sua essenza. La periferia non possiede, conquista, come noi c’eravamo conquistate la fama di regista da quattro soldi e di bestiaccia assassina. La periferia patrocina i propri figli e non li lascia in pasto alla borghesia, li difende dalla fine del mondo, e ugualmente noi ci proteggiamo a vicenda, costruendo labili muri di sogni infranti e cocci di bottiglie rotte che graffiano la gente e gli strappano via le borsette. Possiamo non aver niente, ma io ho in mano una vecchia macchina da presa, delle luci di scena vecchie come il mondo, un copione sporco di fritto e uno dei cast peggiori che la storia del cinema abbia mai visto. Ma non sono forse i piccoli sogni che danno vita a grandi opere? Non saremo forse noi tre a rivoluzionare il sistema? Mi alzo faticosamente dal letto, però mi inciampo e rotolo pesantemente a terra, rotolando come un sacco di patate nella gigantesca maglietta di MØ e svegliando irrimediabilmente la Coinquilina Hannibal che salta in piedi sobbalzando
-All’armi!- urla agitando indefessa il pugno – Ci attaccano da ovest!
-No, Alex, sono solo caduta dal letto.- le rispondo, premunendomi di un grosso vinile dei Guns’n’Roses onde evitare che mi tiri addosso una scarpa, cosa che sta per fare ma che viene fortunosamente bloccata dalla bella faccina di Axl Rose che la guarda con aria sexy dalla copertina. Anche questa l’hai scampata, Chelsea Sienna Spiegelmann. Non sia mai detto che la Grande Regista non sappia difendersi abilmente: cosa farò quando dovrò convincere un’arzilla centenaria a lasciarmi la sua casa in Himalaya per girare il più grande kolossal sul metabolismo magico di una capretta del Kentucky che teletrasporta lo squinternato protagonista in mezzo all’Annapurna?
-Dio, Chess, ma che eri rincoglionita si sapeva, ma non a ‘sti livelli.- grugnisce Alex, riemergendo dai boccoli biondi, il trucco sfatto e un filo di bava che cola sul cuscino dei Sex Pistols. Avrebbe anche un che di poetico, a guardarla ora, bella, bellissima e volgarmente sdraiata su questo letto sfatto. Guardo le calze strappate che le fasciano le gambe anoressiche, quel tocco di regale sciatteria che rimanda tanto alla brutta Berlino degli anni ’70 ma che, miracolo dei miracoli, potrebbero essere una deliziosa citazione di “Pretty Woman”, quello di Garry Marshall del 1990, con Richard Gere e Julia Roberts. Osservo la maglietta sfatta dei Linkin Park che le nasconde grossolanamente le forme eppure, nelle loro sfatte forme non sarebbero in fondo così diverse dalle statue di Prassitele, quelle morbide curve del tessuto che avvolgono la statua come ragnatele e che ugualmente la maglietta fa con suo corpo, è qualcosa di impalpabile ma tangibile nella sua presenza trivialmente attuale di una squinternata fan adagiata nel ricordo di una vecchia tournée dimenticata. Risalgo lentamente sulle sue braccia avvinghiate al vecchio cuscino pulcioso, alla semplice infantile dimostrazione di una ragazza che per quanto possa fare il muso duro e ringhiare in faccia a tutti è comunque ancorata ancora a quando eravamo bambine e dormivano con mia sorella Flora Anne, la maggiore in assoluto, che ci raccontava le storie della buonanotte e ci teneva strette a lei come bambolotti. Mi ricordo ancora quando ci svegliavamo nel cuore della notte, io con pigiama intero, i capelli ancora rossi, corti e riccissimi e lei coi boccolotti biondicci con le treccine, i peluche bucherellati di una pecora e un ragno gigante, una vicina all’altra nei lettini pressati in camera coi gemelli che ci raccontavano le storie più terrificanti prima di dormire e passavano le notte a letto insieme a ridacchiare, di cosa poi nessuno l’hai mai capito, e allora noi due ci alzavamo, i suoi occhi scuri determinati e i miei fanali viola terrorizzati a morte, e ci tenevamo per mano mentre sgattaiolavamo nel buio della casa verso la camera di Flora Anne, e saltavamo nel suo letto, svegliandola, e brontolava sempre, mentre tu davi la colpa ai gemelli che ci avevano spaventate e io dicevo che erano arrivati gli alieni a forma di formaggetta gigante e dormivamo con lei per tutta la notte. Sono i ricordi bellissimi della nostra spensierata infanzia che ancora adesso si trascinano mollemente nella nostra mondanità squilibrata sempre sull’orlo di un coltello. Adesso non abbiamo Flora da cui correre quando ci spaventiamo, abbiamo solamente noi stesse. E Bill, a questo punto, coi suoi capelli corvini e la faccia da troia. Sarà in grado di proteggerci dagli alieni formaggetta o scapperà anche lui come ho sempre fatto io? Ci consolerà la notte dopo le storie dei gemelli oppure andrà a dormire lontano come ha sempre fatto Alexandria?
Non so se è bello essere considerate dei casi persi, quelle a cui nessuno ha mai detto “ti amo” perché per qualche misterioso motivo eravamo sempre troppo pagliaccesche per poter essere prese sul serio. Non dici “ti amo” a una iena e a un pagliaccio, questo è poco ma sicuro. Tutte le ragazze che ho avuto io, e i suoi ragazzi nessuno si è mai sprecato più di tanto a considerarci qualcosa di più che un buffo duo di squilibrate che non si staccavano mai una dall’altra e che sparavano cazzate a mitraglietta. Mi ricordo ancora quella volta, sedute a cavalcioni del cavalcavia, a tirare sassolini giù di sotto e a cantare le vecchie canzoni dei Beatles a squarciagola, dondolando le gambe nel vuoto, e c’era brutto tempo e una schifosa nebbia che saliva da sud. C’eravamo solo noi due, mentre aspettavamo Cooper Carter e i suoi amici che tornassero da uno dei loro soliti raid da strafatti. Io avevo alzato la testa, tirando un altro sassolino, smettendo di strillare Hey Jude ad ogni uccello che passava e avevo detto ad Alex, con aria mesta “Ma se nessuno ci ha mai detto “ti amo” non credi che dovremmo dircelo io e te? Tanto per vedere che effetto fa”. Lei mi aveva guardato storto e poi aveva detto “Potremmo anche farlo, ma non credo che funzioni. È un po’ come il Califragilistichespiralidoso. Solo Mary Poppins può dirlo, e che diamine”. Le avevo dato ragione, come ogni volta, ma ce l’eravamo detto comunque, per poi metterci a ridere come due deficienti e rischiare di cadere giù dal cavalcavia. Non so quanto vorrei che Bill ci dicesse che ci ama seduti su un viadotto a tirare sassolini cantando Hey Jude. O forse cantando Automatic. Sì, l’ho sempre saputo di non essere molto poetica, ma in fondo sono una regista che racconta i meravigliosi paradossi della vita reale, non sono mica qui per montare storie su quanto l’amore possa essere bello. Sono qui per registrare l’amore sporco, brutto e inutile che si vive ogni giorno sulla pelle, che sia pallida, truccata, o lentigginosa. Con noi due non vale nessuna regola, credo sia più che appurato, siamo quelle ragazze ribelli che non valgono più una cicca per nessuno. E allora cosa farai, vogliosa Delfina? Ti sacrificherai così per la bella Ippolita, sarai disposta ad amarla da dietro un sottile velo di brina, a posarle le mani sui prosperosi fianchi senza poter fare altro che ardere d’amore per lei? Questo è il crudele destino del vostro amore dannato, destinato a languire per sempre sotto torbide occhiate e arrossamenti celati abilmente dietro un ventaglio di piume di pavone.
Avrei anche già una scena perfetta per un film socialmente impegnato, qualcosa che sarebbe perfetto da girare ancora qui in Germania
 
Notte fonda, la telecamera parte larga, sul cielo sporcato da qualche pallida stella, si sentono risate sguaiate in sottofondo, la musica a palla dei Beatles soffocata in casse di marca scassa. La telecamera scende piano, inquadra da lontano un gruppo di ragazzi, sono gli anni ’70 e ce se ne rende conto, sia dalle inquadrature che rimandano volutamente a quel periodo, sia dall’abbigliamento dei ragazzi seduti su un cavalcavia abbandonato, ormai divorato dalle piante. La visuale si avvicina sempre di più sui ragazzi, che tirano sassolini giù, ridono, ci sono birre che girano insieme a spinelli mal girati, c’è uno che suona la chitarra, qualche ragazza balla, uno sicuramente starà seduto a contare la velocità accelerata dei sassolini che precipitano, il solito secchione con gli occhiali e la salopette. Ci sono due ragazze, poco distanti dal gruppetto, silenziose, una accanto all’altra, slavate come in fantasmi di un futuro rovinoso che sono tornate indietro distrutte dalle sabbie del tempo. Una, bionda, mezza rapata, vestita da rockettara guarda con una smorfia, è avvilita, delusa, distrutta. L’altra, coi dread bianchi e rosa, vestita come una puttana piange in silenzio, grosse lacrime che colano, è semplicemente spezzata dentro. La telecamera torna a concentrarsi sui ragazzi degli anni ’70. Sul cofano della vecchia giardinetta beige ci sono la versione seventies dei due fantasmi, due ragazze decisamente più giovani, la bionda ha tutti i capelli e ha un vestito a fiori, l’altra ha i ricci arancioni e una tenuta orientale, ballano saltellando, ridono felici insieme a una terza ragazza, che forse a guardarla bene è un maschio ma non si capisce mai davvero bene, lui ha i capelli corvini, lunghi, tirato come una ballerina da lap-dance, balla molto meglio delle ragazze, ride forte, è bellissimo, si stringono uno all’altra quando il ragazzo con la chitarra e l’aria hippy scatta loro una foto con la vecchia Polaroid, tutti e tre abbracciati, accucciati sul cofano, sono felici, devono sprizzare amore da tutti i pori. La ripresa riprende sui due fantasmi del futuro che osservano il tutto senza colore, piatte, come se il solo vedere il loro passato le riportasse a ricordi così strazianti da sfibrare addirittura i loro fantasmi. È impercettibile, ma più guardano, più si sfaldano e perdono consistenza reale. Eppure, quando i tre si baciano contemporaneamente, stringendosi e ridendo, la rasta piange, piange forte e la bionda non è da meno, le loro lacrime scorrono sempre di più fino a farle sciogliere sul cavalcavia. Nessuno si rende conto che sta arrivando una macchina della Polizia sempre più rapida.
 
-Ehi, Chess, ci sei?- lo schiocco delle dita della Coinquilina Hannibal mi riporta alla realtà malamente, smontandomi tutti i momenti tragici che si sarebbero susseguiti in questa scena – Un’altra crisi da cineasta?
Non aspetta nemmeno risposta, si alza semplicemente e mi da uno schiaffetto affettuoso sulla testa, andando a recuperare la chitarra che si scorda sempre.
-Credo che dovremmo fare una versione 2.0 di Tower Hill.- commenta acidamente, girando le chiavi della vecchia chitarra rosso fuoco – Sinceramente, quella vecchia era una vera cazzata.
-Perché?- ribatto amareggiata. Ovviamente, Tower Hill era stata la colonna sonora de “La capra che scoreggiava lamponi”. – Aveva un che di mistico, a modo suo. È un po’ come Clint Eastwood. Come attore, da giovane, intendo, non era granché, ma come regista la musica cambia del tutto. Però non puoi cancellare i film del passato, che c’entra! Tower Hill ha sempre avuto una sua dignità!
-Sì, certo, infatti proprio perché era dignitosa sei stata così furba da metterla come colonna sonora nel frame in cui Terry e Charity fingevano di scopare. Wow. Un premio di intelligenza alla Grande Regista Surrealista.
Mi guarda tanto male quanto aveva guardato i compagni di band di Stenka quando lui l’aveva mollata spudoratamente e io mi faccio piccina piccina sotto la batteria, prima che mi arrivi un mattarello in testa come quando mia sorella Avery Aubrey ci aveva inseguite per ore dopo che le avevamo inavvertitamente calpestato la sua serra di bulbi algonchini con gli anfibi.
Mi lego i dread in un muccio sformato, attaccando voracemente qualche biscotto di Chernobyl con Nutella, mentre Alex si lascia cadere sul divano come un sacco di patate con la chitarra imbracciata, lanciandosi in una piccina cover di qualche pezzo intramontabile dei Black Sabbath che distorce così tanto da essere irriconoscibile.
Sembra la classica scena madre da casa nostra, io che mangio parlottando tra me e me di cinema sudafricano, e lei che strimpella, la nebbia oscura fuori, un umido bestiale che filtra dalle pareti di cartapesta e la pigrizia congenita che ci attanaglia la membra accidiose.  Sì, assolutamente lo sembra se a un certo punto non sentissimo un clacson fuori e uno strillo che purtroppo, o per fortuna, conosciamo più che bene.
-Ehi, puttanelle. Uscite!
È solo una frazione di secondo prima di precipitarsi entrambe fuori dalla porta come due missili, strabuzzando gli occhi non appena vediamo la famosa Audi della volta scorsa ferma davanti al nostro portoncino scrostato e Bill al volante, con occhiali da sole fatti a farfalla molto ’70, i guantini di pizzo nero, i capelli corvini accuratamente pettinati e le labbra spennellate di nero che schiocca le dita non appena ci vede, noi comune mortali sovra e sotto peso e strilla, agitando la sigaretta lunga
-Su, volete muovere i vostri culi grassi?! Salite, no!
-Oh, ma ci prendi in giro? Bill ma che … - inizia riluttante Alexandria, piantandosi a braccia incrociate di fronte alla portiera, per essere immediatamente smentita da me, per una volta, che la spingo nel sedile posteriore strillando
-Porco Humphrey Bogart e santa Jessica Chastain, Bill! Che ci fai qui?
-Sono venuto per portarvi in giro, troiette.- cinguetta lui, guardando con sufficienza la sottoscritta e la Coinquilina Hannibal buttate come due sacchi della spazzatura nella sua lussuosa Audi.  Eppure non riesce a nascondere un sorriso divertito e l’aria inguaribilmente cotta dietro le lenti nere degli occhiali a farfalla bianco panna.
Io e Alex ci guardiamo, boccheggiando. No. Cioè, ci sta veramente dicendo che è venuto lui, di sua spontanea verità, a recuperarci per portarci in giro?! Sembra impossibile, messa così. Come se in “Attack the Block”, film di Joe Cornish del 2012, con John  Boyega e Alex Esmail, Moses avesse deciso di non andare a bruciare vivi gli alieni. O come se Dorian Gray non avesse prestato attenzione a Sir Henry Wotton, che è più o meno la stessa cosa.
-Ma prima di tutto, mettete questi. Se volete davvero venire in giro col sottoscritto, dovete almeno reggere il paragone modaiolo.
Ci allunga due paia di occhiali da sole anni ’60, uno con due grossi cuori giallo limone e l’altro con due coni gelato fucsia. Io ho la brutta idea di allungare una mano per afferrare gli occhiali col cono gelato, deliziata all’idea delle facce che potrebbe fare Katie Crystal quando mi vedrà con queste meraviglie americane addosso.
-Cosa fai, sottoesperimento di robot narcolettico e storpio!- abbaia Alex, strappandomi di mano i bellissimi occhiali a cono gelato – Non puoi cedere così al sistema, indossando questi rimasugli di dietrologia consumista da americano medio sotto il governo Reagan!
-Senti un po’, straccetto da post-comunismo da governo Gorbaciov dietro la Cortina di Ferro, hai due chance: o ti metti gli occhiali consumisti da governo Reagan oppure puoi anche scendere qui!- Bill si gira, anche se sta guidando, abbassandosi sulla punta del nasino i suoi occhiali e ammiccando satanicamente.
E, anche se ci avrei giocato la testa di Mel Gibson, Alex sibila qualche insulto tra i denti ma mi strappa di mano gli occhiali a cuore e se li infila borbottando, dandomi anche uno scappellotto grugnendo
-Forza, soldato palla di lardo, mettiti gli occhiali. È il tuo superiore che te lo ordina.
Io e Alex ci guardiamo, prendendo un profondo respiro. Siamo sedute su una Audi della madonna, con gli occhiali da sole anni ’60, con Bill che guida a razzo per le strade, la radio che trasmette i Tokio Hotel a tutto volume accompagnata dal nostro fidanzato che strilla a tutto volume e una pericolosa bavetta alla bocca. Proprio come nei peggiori cliché di questo mondo, anche se non posso fare a meno di pensare che a volte certi cliché in un film sono proprio quelli che salvano da clamorosi tentativi di trovare la giusta chiave di originalità.
 
Route americana, telecamera esterna e fredda, deve riflettere tutta la falsità di quello che riprende, possibilmente gli Oasis come colonna sonora, il deserto del Nevada che brucia sotto il sole bollente dell’estate, i canyon all’orizzonte, tanto rosso che si fonde con l’azzurro pungente del cielo. Colori molto calcati, finti, molto irrealistici. Una Cadillac rosa shocking macina chilometri veloce, senza tettuccio, la telecamera si avvicina, viene inquadrato un ragazzo coi capelli corvini troppo effeminato con gli occhiali da sole a forma di farfalla, un fazzoletto a fiorellini rosa e verdi in testa, le mani ingioiellate, canta insieme agli Oasis, ridendo, guida. Dietro, una ragazza bionda mezza rapata con gli occhiali a cuore se ne sta spaparanzata su tutto il sedile posteriore, fuma tranquilla, i capelli al vento, la pancia nuda, si smalta le unghie dei piedi di un improbabile celeste, la mano con la sigaretta mollemente abbandonata all’indietro, una gamba tenuta su, volgare e sboccata, ride. Davanti, un’altra ragazza coi dread bianchi e rosa, coi piedi sul cruscotto, muove la testa al ritmo della musica. A un certo momento, quando si ripete “You’re my wonderwall”, si alza in piedi sul sedile, agita un grosso fazzoletto con la bandiera americana, uno sciame di Hell’s Angels accerchia rombando la Cadillac, urla “We are the future! America is ours!”, tutto questo accompagnato dalla risata del ragazzo che guida, un ghigno rauco della bionda e da un generale rombare dei motociclisti. La telecamera stacca su questo momento, come stesse scattando una foto a quella bandiera sventolante nel vento del Nevada.
 
-Benissimo, ragazze, che ne dite di andare a fare un po’ di shopping?- trilla Bill, svoltando con una frenata gagliarda nel parcheggio dei grandi magazzini, nel massimo tripudio di ignoranza medio-borghese. Ma noi siamo proletarie.
-Shopping? Ma non abbiamo nemmeno una lira!- esclamiamo in coro noi due, guardando preoccupate il negozio griffato nel quale lui ci sta trascinando, tenendoci per mano e graffiandoci con le sue unghie chilometriche, sculettando che manco in passerella.
-Ma abbiamo questa, ragazze mie, abbiamo questa!- agita una carta di credito, bloccandosi e mettendoci rapidamente a posto i capelli, aggiustando i boccoli di Alex e i miei dread bianchi e rosa – Ho deciso che avevo voglia di comprare qualcosa, e chi non meglio delle mie due patatine per rinnovare il look?
Cioè, sbaglio o ci ha appena chiamate patatine? No, aspetta, l’ultima volta che qualcuno mi aveva chiamato patatina era stato alle medie, quando non ero altro che la Sesta Spiegelmann, la Patata Irlandese, il Sacco di Ciccia Lentigginosa.
-Scusa, come ci hai chiamate?- Alex assottiglia gli occhi, incrociando le braccia al petto. L’avesse chiamata così qualcun altro a questo punto l’avrebbe già steso, ma come Bill, oramai l’abbiamo largamente accettato, non c’è nessuno.
-Patatine!- cinguetta lui – Perché, non ti piace?
Basta guardare la sua espressione sotto il sorriso e gli strati di trucco per capire perfettamente che appena una di noi due proverà ad obbiettare i suoi soprannomi, verrà schiavizzata senza troppi complimenti a porta-borse della Reginetta Delfina.
-Sì, ci piace un sacco!- intervengo, prima che Alex se ne esca con qualche insulto velenoso e rovini questa scena che fino a ieri non potevamo che sognarci – E’ davvero un soprannome delizioso.
-Volevo ben vedere. Ora forza, sbrighiamoci. Ovviamente, non ho tutto il giorno.
Seguiamo come due criceti la Delfina che sale come la regina che è lo scalone di imbarazzante plastica rosa confetto dello scalone principale che porta a un immenso corridoio decorato con imbarazzanti piante di magnolie nane e una serie di vetrine tirate a specchio dove anche una semplice piumetta costa più delle nostre due vite messe insieme. Non so perché, ma mi sento come se da un momento all’altro mi volessero mitragliare come un colabrodo perché ho provato a smontare la sacralità di questo tempio di boutique esclusive, così diverso dai negozi da battone dove andiamo io e Alexandria a comprarci i vestiti, e questi locali di nouvelle cuisine californiana così opposti ai 7-11 dove ci riforniamo anche alle due del mattino di bottiglioni da due litri di Coca-Cola e di immensi pacchi da chilo di marshmellow alla fragola e vaniglia. Potrebbero scatenare una sparatoria contro di noi, lo sento, come in “Commando”, del 1985, di Mark L. Lester, con Arnold Schwarzenegger e Alyssa Milano.  Poi, non che io e Alex siamo così pratiche di centri commerciali all’ultima moda: ricordo con chiarezza che l’ultima volta che ci siamo recate in un posto del genere è stato quando io dovevo comprare un regalo di compleanno a Sonja, una delle mie ex ragazze, e dopo che l’unica cosa con un prezzo abbordabile che ero riuscita a comprare erano state un paio di mutandine rosa con i gatti e che suddetta Sonja mi aveva mollata subito, beh, allora avevamo deciso di non metterci più piede.
-Ma, spiegaci, noi in cosa ti dovremmo aiutare?- chiede Alex, facendo una linguaccia a una timida commessa spaventata dalla rumorosa entrata di queste tre battone di periferia.
-Molto semplice, tesoro: mi devo assolutamente comprare qualcosa di carino, e devo anche comprare qualche accessorio per voi due! Siete due barbone!
Bill ci squadra dall’alto dei suoi stivali col tacco 12, scuotendo la testa con aria platealmente sconvolta.
-E perché non andiamo bene così? Siamo vestite molto bene, oggi, oserei dire anche con un certo stile!- esclamo io, guardando la mia maglietta sfatta di MØ e i miei shorts di jeans rosa shocking slavati in pendant con gli occhiali da sole con tanto di infradito di plastica verde pisello con le farfalline di plastica rosso fuoco appese sopra e la gonna vertiginosamente borchiata di Alex, con tanto di top scollacciato con scritto “I’m waiting you to die” e Converse nere che stanno su da sole. Insomma, come se non fossi mai andata in giro con vestitini di lattice rosa pompelmo con inserti rosa aderentissimi e stivali rossi con borchie argentate.
-Certo, come no. Una tortora darkettona con le emorroidi e una vacca danese in trasferta.- commenta lui, squadrandoci malamente, e mentre Alexandria gli sputa in faccia un “mai come te, pecora smarrita ad Amsterdam” e io gli perdo le bave dietro seguendo come un cucciolo scemo, lui schiocca sonoramente le dita e parte in quarta verso una boutique così griffata da non aver manco il nome scritto sopra.
Ci afferra per le collottole, e devo dire che ha una forza invidiabile, trascinandoci come due sacchi di patate bercianti verso un camerino grosso quanto casa nostra, spingendoci dentro in mezzo a grossi specchi, pareti rosa pesca, un divanetto imbottito dello stesso colore delle pareti con deliziose bordature barocche dorate e appendiabiti con piccoli brillantini. Una specie di bomboniera-camerino, ci mancava giusto un vassoio con paté di caviale e champagne ed eravamo a posto.
-Ora aspettate qui e non fate casino. Devo andare a cercare qualcosa di carino da farvi indossare!
Vediamo la sua chioma corvina scomparire di corsa da oltre la tendina rosa confetto, e rimaniamo da sole, una davanti all’altra, così fuori posto in tutta questa perfezione e pulizia, noi, che abbiamo i vestiti che camminano da soli e che abbiamo le pareti scrostate perché non riusciamo mai ad avere abbastanza soldi per chiamare l’imbianchino. Certo, ci sarebbe stato Jakob, ma non penso che ci voglia più fare lavori gratis dopo che Alex l’aveva mollato e mi aveva beccato a limonarmi la sua fidanzata dell’epoca. Mi guardo intorno, mettendomi comoda sul divanetto
-Beh, tesoro mio,- esordisco, accavallando le gambe, e ci mancherebbe un sigaro e a Don Vito Corleone gli faccio un baffo – La sai una cosa? Mamma diceva sempre che la vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita. Voglio dire, a noi è capitato Bill come una meteora, è piombato nelle nostre esistenze punk ribaltando tutto quello che avevamo dato per assodato, ha capovolto due vite che oramai erano scritte nelle stelle. Bill ha cambiato il nostro destino, Alex! Immagina: io e te, non siamo altro che due ventenni punk che dalla vita non si sarebbero potute aspettare nulla che non fosse stata una laurea stiracchiata e qualche stupido lavoretto come cameriere in qualche locale di bassa lega, nell’attesa che qualcuno ci notasse come erano stati  notati i Beatles, saremmo rimaste le solite due zitellone che tutti si aspettavano, sempre insieme come da principio, con una stirpe di Panther Lily e la musica a palla a qualunque ora del giorno. Io non avrei mai imparato a cucinare, anzi, credo che non lo farò mai, e tu non saresti mai stata gentile, cosa che comunque non lo sei nemmeno adesso. Cosa avrebbero detto di noi? Una coppia di squinternate, che si credono sempre bambine, due universitarie senza uno straccio di nessuno che non siano loro stesse, unite come solo due gemelle siamesi lo possono essere, perché io e te, non puoi negarlo, siamo unite come se ci fosse un pezzo di pelle a legarci. Ci saremmo trascinate nello squallore di questo mondo “trainspottiniano”, senza però vedere nessun treno e senza nessun Ewan MacGregor per le mani, avremmo continuato a stare con i miei fratelli, sopravvivendo a noi stesse come abbiamo sempre fatto. Invece, è arrivato lui. La popstar, la troia, la bastarda, tutto quello che più odiamo ma che più ci ha salvato dalla dannazione di dover vivere la nostra depressione punk. Con lui, abbiamo cominciato a cambiare, abbiamo l’ombra incerta di un futuro, lo straccio di qualche possibilità che ci illumina la strada verso un avvenire già segnato eppure miracolosamente squilibrato da quella supernova che è la Delfina. La nostra vita ha virato violentemente da una parte, e noi con lei, siamo salite sull’onda di trucchi che Bill ci ha porto e ci siamo appese alla sua certezza con le unghie e con i denti, e per quanto lui vada veloce, noi stiamo resistendo eroicamente, e non ci facciamo tirare giù. Perché per quanto lui sterzi, acceleri, noi siamo le figlie della periferia che ci ha insegnato a non arrenderci, a sbatterci come uova per uscirne e noi la faremo contenta, resisteremo, Alex, appese a lui non lasceremo la presa e …
Un sordo schiaffo mi fa tacere e mi fa strillare malamente, perdendo tutta l’aria sexy da Chelsea Sienna Corleone. Dio, come suona bene. Cambierò nome. Che poi, con sto cognome tedesco che mi ritrovo, capace che a Hollywood venga considerata una nazista e si abbiano dei pregiudizi contro di me e i miei dread.
-Ma tua mamma non ha mai detto che la vita è come i cioccolatini!- mi urla Alexandria, guardandomi malissimo. Ma come ha fatto a capire solo quella frase di tutto il panegirico che ho fatto?! Sì, signori e signore, la Grande Regista Surrealista Tedesca non viene mai accuratamente compresa a fondo. Come posso mostrare la mia arte al grande pubblico se tutti guardano il dito mentre io indico la luna? Come comprenderanno il complesso significato de “La rivolta dei babbuini”?
-Citazione da “Forrest Gump”, del 1994, alla regia Robert Zemeckis, con Tom Hanks e Robin Wright.- recito a memoria, per poi mugolare – Su, Alex, l’abbiamo visto centinaia di volte … come fai a non ricordarti di Forrest, sei Oscar alla Notte del 1995, al tredicesimo posto nella classifica dei 250 migliori film di sempre e al settantaseiesimo nella classifica dei migliori 100 film statunitensi?
-Ottima mente matematica, Newcastle, lo ammetto.- ci voltiamo di scatto, guardando con un certo orrore dipinto negli occhi Bill che ci guarda trionfanti dalla tendina del camerino, con in mano tanti di quei vestiti imbarazzanti che io e Lady Gaga sembriamo giusto due educande pudiche. – Ma ora, citando direttamente Avril Lavigne “I wanna lock you up in my closet”. Su, ragazze, è ora della fine del mondo!
E con un sorriso sadicamente sexy, chiude la tendina rosa pesca.
   
 
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