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Autore: psword    14/05/2017    1 recensioni
Sam è un ventunenne timido ed impacciato, che ha da poco fatto i conti con la sua omosessualità. Trasferitosi a Milano per lavoro, Sam si vedrà catapultato in un mondo fatto di lusso, eleganza e buone maniere. "Il Cavaliere" è uno dei più antichi e rinomati ristoranti della città, luogo di ritrovo del mondo della finanzia e della ricca borghesia milanese. Qui Sam, assunto inizialmente come aiuto cameriere, si troverà presto a diventare commis dell’affascinante e tenebroso Marco, il primo sommelier del ristorante. Da subito Sam percepisce una strana attrazione per quel ragazzo scontroso e taciturno, dall’aria apparentemente impenetrabile. Lo ammira da lontano, ne studia gli atteggiamenti e inizia ad essere inconsciamente affascinato dal suo mondo. Pian piano, tra Marco e Sam nasce una strana amicizia che, col passare del tempo, si trasformerà in qualcosa di più profondo. Senza neppure accorgersene, Sam finisce nel baratro di una relazione malata – la voragine oscura – permeata di misteri ed ombre. Chi è realmente Marco? Quale segreto nasconde? E soprattutto, che legame esiste tra lui e i Plincher, la potente famiglia milanese, cliente affezionata del ristorante?
Genere: Erotico, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 2






Mi fermai a guardare la mia immagine riflessa nello specchio. Avevo indossato la mia nuova divisa di lavoro. Annusandola, si sentiva un intenso odore di lavanda. Non riuscii a frenare un sorriso nell'ammirare il ragazzino che ero camuffato dietro quell'elegantissimo smoking nero che mi faceva apparire molto più grande della mia età. 
Ero quasi irriconoscibile.
Il viso, dalla pelle color avorio, era incorniciato da una cascata di capelli biondi, quasi rossicci, sempre troppo difficili da domare, nonostante li avessi spazzolati a dovere. Alcuni ciuffi ricadevano prepotentemente sulla mia fronte, disegnando delle morbide onde.
Soddisfatto del mio aspetto, presi a rassettarmi i bordi della giacca e tirai un profondo respiro. Feci una lunga giravolta su me stesso, per accertarmi che tutto fosse in ordine. Gettai anche un'occhiata alle mie scarpe di vernice, nuove di zecca. 
Quando finii di esaminare la mia uniforme, presi le chiavi che avevo posato sul davanzale della finestra, indossai il mio solito bomber e uscii di casa. 
Per fortuna aveva smesso di piovere: l'aria era fresca e profumava di terra bagnata. 
Le mie scarpe nuove squittivano sull'acciottolato bagnato dalla pioggia. Cercai di muovermi con cautela, evitando, per quanto possibile, le pozzanghere. 
Alberto mi aspettava vicino la fermata dell'autobus.
«Ci avrei giurato che non avresti resistito!». Mi disse scuotendo la testa divertito. Capii in un lampo che si riferiva alla mia nuova uniforme.
«Scusami, è che l'ho messa addosso e non sono piú riuscita a toglierla». 
«Tranquillo! Fa quest'effetto un po' a tutti la prima volta». 
Iniziò a scrutarmi dall'alto in basso, con attenzione: a giudicare dalla sua espressione, era soddisfatto del mio aspetto da damerino quasi quanto il sottoscritto.
«Mmmh... ». Alberto mi costrinse a girarmi di spalle. «Ti calza a pennello!». 
«Dici sul serio?». 
Mentre mi rassettavo il colletto, lui fece un cenno di approvazione.
Attendemmo qualche minuto, prima di vedere arrivare il tram che ci avrebbe portati alla meta. Da casa il ristorante distava solo dieci minuti a piedi. Salimmo l'uno accanto all'altro e mostrammo i biglietti. Durante il viaggio, rimasi in piedi reggendomi all'inferriata. Il mezzo si muoveva in modo incerto in mezzo al traffico milanese, così che dovevo fare ogni volta un grande sforzo per rimanere in equilibrio.
«Mi raccomando...». Disse ad un certo punto il mio accompagnatore con il chiaro intento di far conversazione. «Se vuoi fare colpo sul capo, non trascurare mai le buone maniere». 
«Buone maniere?». L'autobus stava svoltando ad un angolo e io dovetti aggrapparmi al sostegno con entrambe le mani.
«Parlo del portamento: non dimenticarti mai di tenere le spalle sempre dritte. Quando rivolgi la parola ad un cliente, usa sempre formule di cortesia: prego, signore; va bene, signore; dica pure, signore. Queste frasi devono essere ben incise nella tua testa come un ritornello». 
«D'accordo. Ci proverò».
Superammo l'ennesimo semaforo e rimanemmo in attesa fino a quando l'autobus non raggiunse la fermata successiva. A quel punto, scendemmo dal mezzo e attraversammo velocemente le strisce pedonali, inoltrandoci in una stradina dal pavimento di mattoni grezzi. Nel camminare, sentivo crescere l'agitazione. Avanzavo sul marciapiede stretto, senza parlare, mentre Alberto continuava a chiacchierare delle cose più disparate. Ad un tratto, si bloccò e allungò un dito verso un enorme palazzo d'epoca, circondato una lunga cancellata. Ai lati dell'ingresso, erano collocate due piante ornamentali dai fiori gialli. Osservai da lontano la struttura con un pelo di soggezione. 
«Eccolo lì, il Cavaliere». 
Alberto accelerò leggermente l'andatura. 
«Forse Giorgio te l'ha già detto: il Cavaliere è uno dei ristoranti più antichi e rinomati della città». 
Indirizzai lo sguardo verso la struttura dallo stile ottocentesco. Più ci avvicinavamo, più diventava imponente ai miei occhi. Superammo i cancelli e, dopo un lungo tratto, ci trovammo di fronte al portone che segnava l’ingresso del ristorante. Presi ad asciugarmi i piedi sul tappeto rosso.
«Incute un certo timore...».
«Solo all'inizio. Vedrai, col tempo ti sembrerà di stare a casa».
Alberto aspettò che le porte si aprissero e mi fece segno di stargli alle calcagna. Quando fui dentro, posai l'ombrello in un orcio e seguii il mio accompagnatore nel reparto camerini. Assomigliava allo spogliatoio di una palestra, zeppo com'era di armadietti, ognuno assegnato ad un nome specifico. 
«Lascia pure tutto qui. Dopo ti sistemerai». 
Alberto mi indicò un angolo vuoto. 
L'atmosfera del ristorante era calda e accogliente. Dopo aver attraversato un breve corridoio, mi ritrovai catapultato nel reparto accoglienza, alle cui pareti erano appesi quadri di vario genere. 
Sulla sinistra, proprio davanti l'ingresso delle cucine, era collocato un enorme bancone in legno massello, dietro al quale sedeva un uomo vestito di tutto punto. Dopo un attimo di titubanza, lo riconobbi. Era Giorgio, il proprietario del ristorante. 
«Seguimi...». 
Alberto mi rivolse un sorriso di incoraggiamento. Raggiungemmo la postazione, camminando uno affianco all'altro.
«Ehi! Già all’opera?». Giorgio, nel frattempo, batteva freneticamente le dita sulla tastiera del suo computer portatile. Aveva un viso magro, rugoso, occhi grandi e incavati.
«Amo il mio lavoro, Alberto. Dovresti saperlo».Giorgio aveva una voce appuntita come un chiodo arrugginito. La sua voce e i suoi modi erano meno amichevoli di come li ricordavo. Alberto arcuò le sopracciglia in una smorfia e fece un occhiolino al mio indirizzo.
«Sam, Giorgio. Giorgio, Sam. Immagino che vi conosciate già». Il capo alzò finalmente lo sguardo su di me e mi sorrise melenso. Ricordavo bene il suo viso. Dal giorno del colloquio non lo avevo dimenticato. I suoi lineamenti, non so perché, mi facevano pensare ad un cratere greco.
«Sam, benvenuto. Ti stavamo aspettando!». Allungò una mano con finta cortesia. Io, di tutta risposta, la strinsi, anche se con minore decisione.
«Alberto ti ha già spiegato quello che dovrai fare?».
«Pensavo di mostrargli tutto ora che è qui». Rispose il maître strappandomi le parole di bocca.
«Bene! Sam, come ti ho anticipato durante il nostro ultimo incontro, per oggi seguirai le direttive Alberto, che è il nostro caposala: lavorerai a stretto contatto con lui, quindi per qualunque problema sai a chi rivolgerti».
Mi limitai ad annuire.
A quel punto, Giorgio aprì un cassetto e tirò fuori una piccola chiave. 
«Questa tienila: è del tuo armadietto personale. Mi raccomando, cerca di non perderla».
«Grazie». La presi e la infilai in una tasca interna della giacca. 
«Okay, credo che possiate andare. Mi raccomando Alberto: conto su di te!».
«Agli ordini, capo!».
Salutai timidamente Giorgio e lasciai che Alberto mi guidasse verso l’area principale del ristorante. A quell'ora era già piena di camerieri impegnati nei preparativi. Era una sala molto ampia ed elegante, con ampie colonne di pietra, soffitti a cassettoni, decorazioni barocche ed elegantissimi tendaggi di velluto color aragosta. Per metà dava sul cortile interno del Palazzo, l'altra metà sul giardino anteriore. In ogni punto rivolgessi il mio sguardo, vedevo quadri appesi alle pareti e piante sempreverdi.
«Oh, eccoti: finalmente sei arrivato!». Esclamò all'improvviso una ragazza venendoci incontro con un cumulo di tovaglioli nelle mani. Era alta, snella, con una cascata di capelli rossi raccolti in una treccia e le guance coperte di lentiggini. 
«Tu devi essere Sam! Che piacere conoscerti!». La rossa, in un lampo, lasciò i tovaglioli puliti sul tavolo e mi abbracciò calorosamente.
Arrossii senza volerlo.
«Sophie…Vacci piano! Hai visto? Lo hai messo in imbarazzo!». 
«Dio, quanto sei noioso! Volevo solo dargli il benvenuto!». 
«Perdonala Sam. Mia cugina ha il debole per i ragazzi biondi!». Sophie, di tutta risposta, gli tirò un colpetto sul braccio.
Sorrisi svogliatamente.
«Ciao Sam! Bel posto, vero?». Un secondo cameriere sbucò alle nostre spalle, trascinando con le mani un enorme carrello pieno zeppo di tovaglie. Era alto, magrissimo. Un cumulo di ricci biondo cenere.
«Sam, loro sono Paolo e Sophie. Sophie è mia cugina, la ragazza che abitava nel tuo appartamento!».
«Benvenuto nella nostra squadra! Ma accidenti… Il tuo viso non mi è nuovo. Assomigli a quell’attore. Com’è che si chiamava? Hunter o qualcosa del genere!». 
Spianai le labbra nel vedere gli altri ridere come se Paolo avesse appena pronunciato la battuta del secolo.
«Basta con queste sciocchezze, avanti!» Alberto agitò la mano e fece segno ai due colleghi di tornare ai loro posti. 
«Sophie, finisci di aiutare Paolo ad apparecchiare i tavoli. Invece tu, Sam, vieni pure con me». 
«In bocca al lupo...». Sophie mi fece l'occhiolino prima di lasciarmi completamente nelle mani di suo cugino. Le lanciai uno sguardo perplesso.
«Avanti ragazzi!» Esclamò il caposala rivolgendosi ad altri due camerieri fermi a chiacchierare. 
«Tutti ai vostri posti. Tra meno di un'ora apriamo e i tavoli non sono ancora pronti!». Notai, proprio mentre seguivo Alberto, che avevano indosso una divisa diversa dalla mia, sebbene fossero poco più giovani di me.
Chiesi ad Alberto il perché.
«Oh, loro sono commis débarasseur. Si occupano prevalentemente dello sbarazzo dei tavoli».
Li guardai ancora: indossavano una giacca bianca e un papillon di colore nero.
«Il nostro ristorante offre alcuni posti agli studenti più meritevoli dell'Istituto Alberghiero.». Mi spiegò Alberto. «Un giorno, dopo una lunga gavetta, diventeranno anche loro dei commis de rang!».
Insieme, ci avvicinammo ad un ampio mobile, pieno di scompartimenti. Distolsi lo sguardo dai due ragazzini e presi ad esaminare il lungo ripiano di ebano. Lì sopra c'era davvero di tutto: piatti, posate, bicchieri, vari tipi di biancheria, il necessario per il servizio della fingerbowl, carte delle vivande e liste dei vini, vassoi, penne e cavatappi. Mentre ero lì, avevo come l'impressione che tutti i camerieri della sala avessero lo sguardo puntato verso di me: ma era più che normale. D'altronde, ero l'ultimo arrivato. 
«Questo mobile che vedi si chiama panadora. Immagino tu sappia cosa sia...»
Lo sapevo, anche se non ne avevo mai vista una così grande. Feci un cenno per tutta la risposta.
Soddisfatto, Alberto aprì un tiretto e tirò fuori alcuni copritavola, tovaglioli e tovaglie pulite, adagiandole poi su un elegante gueridon parcheggiato lì vicino. 
Mentre ci accostavamo ad un tavolo, subito mi fu chiaro quella che sarebbe stata la mia prima lezione del giorno. L'allestimento della sala era un momento fondamentale al Cavaliere - lo capii subito - in quanto bisognava curare tutto nei minimi dettagli, in modo che ogni elemento si armonizzasse con l'atmosfera dell'ambiente. Esisteva un vero e proprio regolamento. Per ogni postazione erano previsti in totale tre piatti, compreso quello per consommè, varie tipologie di forchette, cucchiai e coltelli, la cui funzionalità specifiche le appresi solo quel giorno. Era opportuno, inoltre, rispettare i vari rapporti di distanza tra il vasellame, la posateria, i bicchieri, imparare a piegare con eleganza i tovaglioli, in modo che rispettassero la forma convenuta.
«Tranquillo Sam....», disse Alberto vedendomi incerto nei movimenti, «col tempo diventerà tutto più semplice!».
Cercai di tenere alta la concentrazione. Fortunatamente, Alberto era un capo molto paziente. Mi seguiva e visionava il mio lavoro, senza fretta, dandomi ogni volta gli opportuni suggerimenti. Terminata quella lunga incombenza, Alberto mi mostrò il resto del ristorante: lo stanzino dei gueridon, la sala relax e la Camera delle colonne, una stanza privata che veniva adoperata per le cene importanti. La zona che, però, mi colpì più di tutte fu la Sala dei vini, collocata in una sfera remota del ristorante, lontana dalle altre aree operative. Era un locale molto grande, con pavimenti di mattoni di marmi spezzati. Ai muri, erano collocati imponenti scaffali pieni di vini. Un lampadario di vetro azzurro pendeva dal soffitto illuminando pigramente la stanza. Alberto mi aveva condotto lì per recuperare alcuni bicchieri che sarebbero serviti per la preparazione dei tavoli e ne ero rimasto a dir poco affascinato. 
Emanava un sentore strano, un'aura di altri tempi. 
«Nella Sala dei vini, verrai solo su esplicita richiesta mia o del sommelier». Mi spiegò Alberto mentre apriva la vetrinetta per estrarne un vassoio d'argento. Le sue parole assomigliavano ad una specie di raccomandazione. Mi guardai attorno incuriosito e presi ad osservare con attenzione le varie bottiglie adagiate sugli alveari di legno. Non avevo mai visto così tanti vini in un solo posto.
«Un luogo proibito...». Bisbigliai tra me e me. Alberto sbuffò un sorriso e mi passò uno strofinaccio pulito.
«Mettiamola così: se Marco ti vedesse gironzolare senza motivo da queste parti, non ci andrebbe molto per il sottile!».
«Chi è Marco?».
«Il nostro sommelier!». Lo disse come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
«Da anni è lui che si occupa della cantina del nostro ristorante, dirige personalmente l'inventario e suggerisce a Giorgio le varie tipologie di vino da acquistare, di volta in volta. Ogni bottiglia che vedi qui è una specie di piccolo gioiellino che vive sotto la sua tutela. Sai cosa succederebbe se qualcuno, per sbaglio, ne rompesse una?».
Passò in controluce uno dei bicchieri che aveva pulito dopo averlo strofinato con cura. Cercai di imitare i suoi gesti. 
«Una volta, un cameriere ha fatto cadere sbadatamente una bottiglia di Chardonnay. Onestamente, non ricordo il prezzo, ma costava parecchio. Quando Marco è venuto a saperlo, è andato su tutte le furie e lo ha fatto licenziare! Questo posto, per lui, è una specie di tempio sacro. Non può entrarci nessuno senza il suo permesso».
Non risposi: tutte quelle informazioni mi avevano improvvisamente riempito di disagio. Dovevo stare attento, muovermi con estrema cautela. Iniziavo a sentirmi come un elefante in un negozio di cristalli.
«Questo Marco deve essere un tipo molto severo…». Nel frattempo, sistemai i calici che avevo pulito sul vassoio con estrema cautela.
«Puoi giurarci! Questo lavoro è tutto per lui. Pensa che l'anno scorso ha vinto un premio molto prestigioso a livello europeo. Chissà, magari tra qualche anno potrà anche gareggiare per il titolo di migliore sommelier del mondo!».
Inarcai le sopracciglia senza volerlo, mentre un rumore di passi alle nostre spalle rompeva il flusso dei miei pensieri.
«Ah, eccoti!». Esclamò Alberto distendendo le labbra in un sorriso. 
«Parli del diavolo...». Nell'udire quelle parole, il suono sordo delle suole sul marmo, ebbi un profondo tuffo al cuore. Per un attimo, mi sembrò come se il tempo si fosse improvvisamente fermato. Mi voltai lentamente, mentre il ticchettio delle lancette dell'orologio a pendolo risuonava nelle mie orecchie più scandito di un attimo prima. Il mio sguardo timoroso e incerto incrociò, per un brevissimo frammento di secondo, un paio di occhi dello stesso grigio delle nuvole del cielo. Erano freddi e profondi. La scia d'aria messa in moto dal rapido passaggio di quella sagoma indistinta, al mio fianco, mi fece irrigidire senza volerlo.
«Di’ pure a quei due ragazzini che lavorano alle tue dipendenze, che non devono gironzolare da queste parti, durante la pausa pranzo. Ieri li ho beccati che fumavano nei corridoi!». E così Marco distolse subito l'attenzione da me. Mi stupii nel costatare quanto giovane fosse: poteva avere sì e no ventisette anni. Fisicamente era alto, slanciato, un folto casco di capelli castani, leggermente mossi. Con mia grande fatica, mi sforzai di tornare in me e continuai a sistemare i bicchieri sul vassoio, uno dopo l'altro, maneggiandoli con cura.  
«Lavorano per il ristorante, non di certo per me!». Ribatté Alberto con un pizzico di sarcasmo.
«Detesto quei ragazzini…». Grugnì Marco parlando tra sé e sé. «Pensano di venire qui a passare il tempo». 
Dopo qualche passo, si fermò di fronte ad uno degli innumerevoli scaffali del casellario, quindi prese in mano una delle bottiglia con un gesto elegante e la posò su un altro ripiano di legno. Nel farlo, egli ruotò di nuovo il capo verso di noi incrociando, per sbaglio, il mio sguardo intimidito. 
Automaticamente abbassai il mento e trattenni il respiro. Dovevo pensare solo ai bicchieri, mi ripetevo nella testa.
«Chi è quel pivello?». Domandò Marco riferendosi a me con sprezzo. Tenni il capo basso e non osai guardarlo.
«Lui è Sam. Il nostro nuovo aiutante». Credevo che, a quella dichiarazione, Marco si sarebbe avvicinato per presentarsi, e invece no. Rimase lì dov'era. 
«Mmh. Un altro aiutante. Mi domando quando la smetterà Giorgio di mandarci questa gente inesperta!». Ignorai volutamente quelle parole; lo sguardo di Alberto me l'aveva suggerito. Mentre finivo di allineare i calici, non riuscii a trattenermi dallo sbirciare, di nuovo, l' aitante figura del ragazzo dagli occhi di ghiaccio. Se ne stava davanti il ripiano su cui aveva posato la bottiglia, e teneva in mano un piccolo blocchetto su cui segnava qualcosa di tanto in tanto. Dopo un’attenta rassegna, egli aggrottò la fronte e venne verso di noi.
«Secondo i miei calcoli, mancano diverse bottiglie di bordeaux». 
«Come?». Alberto continuava a pulire i calici con movimenti rapidi.
«Nell’elenco… sei bottiglie di bordeaux sono sparite senza che nessuno abbia indicato la data di uscita!». Alberto esaminò attentamente la documentazione che Marco teneva in mano e fece una smorfia dubbiosa. Marco spiegò che era impossibile che fossero sparite tutte quelle bottiglie costose in meno di due giorni.
«Deve pur esserci una spiegazione logica...». Alberto storse il naso. «Dovresti chiedere ad Alen. La settimana scorsa è venuta molta gente: può essere che, nella fretta, abbia dimenticato di segnarle…». 
Alzai gli occhi un momento con aria innocente e mi accorsi che Marco stava osservando proprio me, quasi che fossi io il responsabile di quel misfatto. Le mie mani tremarono leggermente.
«Non vedo altra soluzione...» Concluse Alberto, rimettendo in fila l’ultimo bicchiere. «Su, Sam...Se hai finito lì, seguimi».
Senza farmelo ripetere, lasciai la stanza evitando di guardare Marco un'altra volta, ma mentre mi dirigevo verso l'uscita, ebbi come la sensazione di sentire i suoi occhi grigi su di me. Feci un enorme sforzo per non incespicare nei miei stessi piedi e seguii Alberto nella Sala Rossa. 
Fino alla fine dei preparativi, non vidi più Marco. Me lo ritrovai accanto poco prima dell'orario di apertura. Mentre il personale, come di consuetudine, si radunava vicino l'ingresso per l'accoglienza dei clienti, lo vidi; il suo corpo slanciato fasciato dall'elegante divisa da sommelier.
«Silenzio!». Esclamò Giorgio passandoci in rassegna uno per uno con un portamento quasi militaresco. Alcuni ragazzi che stavano chiacchierando tra di loro, si ammutolirono di colpo. Tutti rimanemmo immobili, l'uno accanto all'altro, come delle perfette statuine. Non ebbi il tempo di scambiare nessun'altra parola. 
Al contrario, con l'arrivo dei primi clienti, dovetti smettere di pensare e seguire Alberto nelle ordinazioni. 


***


«Ricorda Sam...». Disse il mio superiore mentre ci allontanavamo per raggiungere la consolle. Al tavolo a cui stavamo servendo c'erano due uomini e una donna. Lei vestita di tutto punto, con indosso un elegante tailleur color pesco e bijoux di perle. I due accompagnatori sembravano uomini d'affari: non facevano altro che commentare l'andamento della borsa.
«Quando un cliente entra, lo saluti e lo fai accomodare, spostando la sedia, come hai visto fare a me. Dopodiché dai la carta del menù e attendi qualche minuto». 
Alberto mi fece segno di prendere il porta borse. Quando tornammo nella sala, lo posizionai esattamente accanto alla donna e rimasi in piedi a visionare il lavoro, che poi avrei dovuto riprodurre con esattezza.
«Prego signori, cosa posso servirvi?».
«Tagliolini con tartufo e ravioli in salsa marinara, grazie».
Dall'alto della mia postazione, non riuscii ad evitare di dare una piccola sbirciata ai prezzi del menù: ci voleva davvero un capitale, per mangiare in un posto del genere!
«Altra regola...» In quel momento, io e Alberto stavano entrando in cucina. 
«Prima di rivolgerti a qualcuno, accertati che ti abbia notato. Sorridi sempre e dopo una breve attesa, se serve, ritorna al tavolo per capire se le portate siano di loro gradimento. Mi raccomando, sii discreto e dai sempre del lei».
«Sempre del lei». 
Dopo due ore passate a fargli da assistente, avevo la salivazione corta. Alle nostre spalle, intanto, si muoveva una schiera numerosa di cuochi, guidati da un uomo tozzo e nerboruto di nome Tommaso. 
«Perfetto Sam». Disse Alberto catturando improvvisamente la mia attenzione. Prelevò il vassoio dal passe e mi lanciò un’altra occhiata.
«Hai visto che cosa ho fatto, come mi sono mosso. Saresti in grado di completare un ordine al posto mio?».
«Penso di sì».
«E allora vediamo di cosa sei capace. Chiedi a quei clienti se vogliono qualcos'altro». Deglutii e mi avvicinai al tavolo che mi aveva indicato, cercando di muovermi con una certa grazia. Fu meno complicato di quanto temessi, anche se, mentre rivolgevo la parola a quegli uomini dall'aria aristocratica, sembravo rigido come un palo di legno, rispetto ad Alberto che agiva in maniera sciolta e coordinata. Nel portare poi il vassoio dei dolci verso la sala, rischiai anche di inciampare sul pavimento. Per fortuna, non accadde nulla di grave e il servizio, alla fine, risultò soddisfacente.
«Come inizio non male». Dichiarò Alberto, quando tornai da lui. 
«Devi ancora lavorare sul portamento e guadagnare un po' di sicurezza. Ma, per essere la prima volta, te la sei cavata bene. Diciamo che sei stato credibile».
Credibile! Ero stato tutto fuorché credibile!
Sapevo che ero ancora lontano anni luce dagli standard di eleganza del ristorante. Lo sguardo indagatore di Giorgio, che nel frattempo mi teneva d'occhio da un angolo, ne era una malcelata conferma. Ma cercai comunque di non pensarci e continuai a seguire le direttive del caposala. Quest'ultimo, per tutta la serata, non mi lasciò di vista un solo attimo. Annuiva quando mi comportavo nella maniera convenuta, mentre se commettevo un errore, mi prendeva da parte e mi dava gli opportuni suggerimenti. 
«Terza regola». Mi disse a fior di labbra verso la fine della serata. 
«Non dimenticare mai di dare la priorità alle donne, quando consegni le portate. Al Cavaliere certi accorgimenti sono sacri, non dimenticarlo mai...».
Ad un tavolo numeroso, avevo distrattamente servito per primo il signore più anziano della compagnia, guadagnandomi, come risposta, un'occhiata di rimprovero dalla donna seduta al suo fianco.
«Bene, Sam! Come è andata?». Mi domandò Paolo quando fummo tutti negli spogliatoi a cambiarci. Iniziai a sbottonare lentamente la camicia. Dall'altro capo della stanza c'era anche Marco, ma era di spalle e stava parlando con Alen, il suo commis.
«Poteva andare meglio, credo...». Alberto mi rivolse un sorriso comprensivo.
«Sam è in gamba. Ha solo bisogno di un po’ di pratica». 
Mentre parlavano, non riuscivo a distogliere lo sguardo dal sommelier. Quella sera sembrava di pessimo umore.
«Beh, su. Tutto sommato non ti è andata così male! Lavorare sotto la guida di Alberto, è molto meglio che essere alle dipendenze di quel bulldozer!». 
Paolo seguì la direzione del mio sguardo.  Per fortuna Marco era troppo lontano da noi per ascoltare certi discorsi. 
«Povero Alen...Se fossi in lui, me ne sarei già andato da un pezzo!».
«Marco deve essere ancora arrabbiato per la storia delle bottiglie». Mormorò Alberto mentre si cambiava le scarpe.
«Di che bottiglie stai parlando?».
Intercettai con gli occhi lo sguardo sfuggente di Alen.
«Sono sparite delle bottiglie dalla cantina! Sai cosa significa questo?». 
«Caspita! Ora, come minimo, lo terrà due ore sotto interrogatorio». 
Entrambi rivolsero lo sguardo al mio indirizzo.
«Pensate che darà la colpa a lui?». Domandai. Alberto si rialzò stiracchiandosi le spalle. Quindi lanciò l'ennesima occhiata ai due interessati.
«Chi può dirlo?». Sospirò lentamente. «Quei due non sono mai andati molto d'accordo! Sono come cane e gatto. Non l'hai notato?».
Indaffarato com'ero nel servizio, non avevo avuto modo di notare, come Alberto, i segni di quella tensione nascosta. Solo un momento mi ero avvicinato a Marco. Mentre ero davanti la panadora per recuperare la saliera, me lo ero ritrovato accanto e, senza volerlo, ero rimasto incantato dal modo in cui aveva preso ad esaminare con attenzione un bicchiere di flûte. Il suo sguardo concentrato nell'operazione.
In quella circostanza mi aveva completamente ignorato. 
Era lì, ad esaminare il bicchiere, come se fosse isolato dal mondo.
«Su andiamo!». Esclamò Alberto facendo schioccare le dita davanti ai miei occhi e riportandomi alla realtà.
Sbattei ripetutamente le ciglia.
«Ho proprio bisogno di una bella dormita!».
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