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Autore: vul95    14/05/2017    2 recensioni
"Non è vero che i fantasmi posseggono la facoltà di passare attraverso i muri.
In realtà sono molto educati, e prima di entrare bussano.
Masaki rischiò quasi di non udire quel lieve suono, nelle condizioni in cui si trovava.
*
Minamisawa Atsushi era morto in un incidente stradale il 15 di gennaio.
Era una bella giornata di sole, e si stava affrettando per raggiungere il suo ragazzo per pranzo. Il giorno prima aveva nevicato molto, e le strade erano scivolose di neve. Una macchina aveva slittato in curva e lo aveva colpito mentre era sul marciapiede.
Non aveva sofferto, l'impatto era stato fatale. Aveva battuto la testa ed era morto, fine.
Il suo ragazzo lo aveva aspettato a lungo, quella mattina. Aveva persino pensato ad un centinaio di modi per fargliela pagare, perché un ritardo di più di cinque ore era veramente maleducato.
"
*
E se il tuo defunto ragazzo tornasse per aiutarti a superare la sua morte?
[Atsumasa] [Accenni HiroMido e MiuraMaki]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Crack Pairing | Personaggi: Kariya Masaki, Minamisawa Atsushi
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti~ prima di tutto, vi ringrazio molto per aver aperto questa pagina ;^) secondo poi, mentre scrivevo questa fan fiction ho creato una playlist con le canzoni che più mi hanno ispirato per scriverla, e penso che ascoltarle mentre la si legge possa dare un’idea in più sull’atmosfera (?) che volevo creare (?)

Insomma, se vi va di ascoltarla, potete trovarla ~qui~ su Spotify o ~qui~ su YouTube!

Grazie e buona lettura, ci vediamo giù ;^)!

 

 

-25 Giorni-

 

 

-Giorno 1-

 

Non è vero che i fantasmi posseggono la facoltà di passare attraverso i muri.

In realtà sono molto educati, e prima di entrare bussano.

Masaki rischiò quasi di non udire quel lieve suono, nelle condizioni in cui si trovava.

Non usciva di casa da due settimane. Non si era mai fatto una doccia, o almeno credeva. Non si ricordava cosa avesse mangiato né quando fosse stata l'ultima volta che l'aveva fatto. Si sentiva gli occhi cerchiati, infossati come se il cranio volesse risucchiarli al proprio interno. Si stava lasciando morire, credeva. Il pensiero non lo disturbava nemmeno. Evidentemente aveva già dato per scontato che sarebbe morto. Capita a tutti, lui stava giusto accelerando il processo.

Evitava di entrare nella sua stanza, mettere piede in cucina gli faceva rivoltare lo stomaco vuoto, il bagno gli faceva ribrezzo e la sala da pranzo gli dava la spiacevole sensazione che la terra gli sfuggisse da sotto i piedi. Eppure non riusciva ad allontanarsi da quel posto. Quindi aveva trovato un angolo perfetto in cui sistemarsi, tra il mobile della televisione e la libreria, di modo da avere la visuale parzialmente oscurata e non poter posare gli occhi su quello che lo circondava, avendo però la certezza di trovarsi a casa sua. Lo aveva trovato un buon compromesso, in attesa della morte.

Ranmaru, il suo migliore amico, era passato quasi tutti i giorni. Non aveva bussato, non era nemmeno salito fino al suo appartamento. Era rimasto fuori in strada. Aveva chiamato però. Masaki non aveva risposto, e Ranmaru non aveva insistito.

I suoi tutori continuavano a lasciargli messaggi. Probabilmente anche in quel momento, ma lui non ricordava dove fosse il cellulare, e probabilmente era anche scarico.

Si stava per l'appunto chiedendo quanto potesse impiegare un essere umano a morire di fame (non era lui quello che di solito conosceva questi dettagli inutili), quando gli parve di sentire un lieve bussare.

Impossibile, si disse. Aveva attaccato un cartello fuori alla porta di casa, molto chiaro: "IN CASA NON C'È NESSUNO, I PACCHI MANDATELI INDIETRO". Nessuno avrebbe avuto motivo di bussare, ed i suoi conoscenti meno stretti credevano che lui fosse partito per Inazuma-Cho per allontanarsi da lì.

Avrebbe riso, se ne avesse avuto voglia.

Socchiuse gli occhi, deglutendo a vuoto. Non sentiva i morsi della fame né percepiva di avere sete, ma supponeva che il suo corpo gli sarebbe stato grato se avesse mangiato o bevuto. Si rannicchiò ancora di più su se stesso, gli occhi secchi e rossi di sonno.

Di nuovo, un lieve bussare.

Non rispose.

Ancora, il rumore si fece più insistente.

Attese un altro quarto d'ora, prima di prendere in considerazione l'idea di alzarsi per andare a cacciare chiunque avesse avuto la simpatica idea di interrompere il suo patetico tentativo di morire.

Arrivò inaspettato –Masaki.- un brivido di terrore scivolò giù per la sua schiena, fermandosi alle punte dei piedi. Li sentì formicolare. Strizzò gli occhi, spaventato all'idea che prima della morte stesse subentrando la follia.

L'amore rende folli, la frase gli risuonò in testa vivida e terribile. Non sapeva perché la cosa lo attonisse così. Forse l'idea di non essere in sé al momento del suo addio al mondo sembrava l'ennesimo brutto tiro del destino.

Eppure accadde di nuovo -Masaki, piove. E non ho il mio ombrello, è ancora ad asciugare fuori dall'ultima volta, apri dai.- un groppo salì velocemente alla gola di Masaki, e dovette reprimere un conato di vomito mentre si alzava traballante. Intruppò con il piede nudo all'angolo della libreria e cadde a terra. Puzzava da morire. Solo in quel momento, mentre si alzava affannato, si rese conto di quanto fosse debole ed affamato. La testa gli girava vorticosamente mentre si rimetteva in piedi. L'oscurità della sala da pranzo lo colse impreparato, come se non si ricordasse che la luce fosse spenta da più di una settimana.

La sua memoria muscolare riuscì ad evitargli di andare a sbattere anche contro il divano mentre correva verso la porta come un assetato corre verso un pozzo. Non si sentiva più bussare ed il suo cuore sprofondò per un secondo soltanto, mentre le mani fremevano. Si fermò di fronte alla porta ed inclinò il capo, la bocca semiaperta in un fallito tentativo di gridare qualcosa. Non ne uscì che un lamento. Si lasciò andare contro il muro, battendo la spalla destra, e cominciò a ridere. Tremava, di freddo e dolore, della paura di essere diventato pazzo.

-Masaki.- fu un sussurro questa volta. Un sussurro triste -Apri la porta, per piacere.

La sua testa scattò verso l'alto in un moto di incredulità, speranza, diffidenza, non lo capiva nemmeno lui. Rizzò le spalle e lentamente si avvicinò al rumore.

Prese il pomello tra le dita tremanti ed aprì la porta.

 

-Giorno 2-

 

Minamisawa Atsushi era morto in un incidente stradale il 15 di gennaio.

Era una bella giornata di sole, e si stava affrettando per raggiungere il suo ragazzo per pranzo. Il giorno prima aveva nevicato molto, e le strade erano scivolose di neve. Una macchina aveva slittato in curva e lo aveva colpito mentre era sul marciapiede.

Non aveva sofferto, l'impatto era stato fatale. Aveva battuto la testa ed era morto, fine.

Il suo ragazzo lo aveva aspettato a lungo, quella mattina. Aveva persino pensato ad un centinaio di modi per fargliela pagare, perché un ritardo di più di cinque ore era veramente maleducato.

La chiamata era arrivata quando ormai la rabbia aveva ceduto il posto alla preoccupazione e la preoccupazione aveva ceduto il posto ad una paura sorda, febbrile. Lo aveva chiamato la madre di lui. Non era riuscita nemmeno a dirlo chiaramente. La sua voce distrutta si era limitata a pronunciare il nome del figlio, poi era scoppiata a piangere in forti singhiozzi malamente soffocati.

A Masaki era caduto il telefono di mano. In quell'attimo di fredda lucidità in cui si era piegato per raccoglierlo, un solo pensiero aveva attraversato la sua mente, terribile e definitivo "sono morto" aveva cominciato a tremare "sono troppo giovane per morire". I ricordi da quel punto in poi erano un susseguirsi di dolore, confusione e lacrime. Aveva vaghe reminescenze di un medico legale che cercava di portarlo via di forza dall'obitorio mentre urlava come impazzito, in preda ad un attacco isterico.

Stava sognando proprio quello, la morte della persona più importante della sua vita, come tutte le volte che aveva provato a dormire, quando un debole raggio di sole lo costrinse a socchiudere gli occhi, interrompendo bruscamente il suo sonno.

"Ah, maledizione", pensò, tremendamente stanco "Quell'idiota si dimentica sempre di chiudere le tapparelle." chiuse forte gli occhi e si rigirò pigramente sulle coperte, allungando una mano di fianco a sé, trovando il letto vuoto.

Sussultò.

Ecco perché dormiva il meno possibile. Svegliarsi dal sonno se possibile era ancora più doloroso dello stare sveglio. I sogni e gli incubi lo tormentavano quando era addormentato, i ricordi e i rimpianti lo uccidevano lentamente quando era sveglio. Quando non era né l'uno e né l'altro, per quei pochi secondi, era come se nulla fosse mai accaduto e per un attimo si rilassava, si beava della falsa consapevolezza che andasse tutto bene. Poi tornava in sé e soffocava nel dolore, ed il senso di colpa per averlo dimenticato, seppur per qualche momento, rischiava di ucciderlo. Era la sensazione più orribile dell'intero universo.

Rimase immobile, gli occhi ancora chiusi, ormai privo di lacrime da versare, e respirò in un rantolo soffocato.

"Eppure avevo abbassato le tapparelle in tutta casa" gli ricordò un angolo del suo cervello. Evitava di fare qualsiasi cosa gli riportasse alla mente l'altro, e lasciare le tapparelle semiaperte era davvero qualcosa che solo lui avrebbe fatto, quindi perché mai quella volta era diverso? Non riusciva a tornare coi pensieri al giorno prima. Aggrottò le sopracciglia. Come era arrivato a letto?

-Per la miseria, Masaki, da quanto non dormivi come si deve? Sei svenuto appena hai aperto la porta.- una voce bassa, calda e familiare lo apostrofò con una lieve sfumatura di preoccupazione.

Masaki trattenne il respiro.

Giusto, ricordò finalmente, era impazzito.

Strinse ancora di più gli occhi, sperando di morire lì, subito.

-Masaki, la colazione è in cucina. Stai morendo letteralmente di fame, ti alzi o devo trascinarti?- sentì qualcosa, qualcuno sedersi sul letto, di fianco a lui. A quel punto si spaventò sul serio ed aprì gli occhi, alzandosi a sedere di scatto, la gola occlusa.

Aleggiava un fastidioso odore di chiuso. Le tapparelle erano davvero semiaperte, constatò. La luce entrava in piccoli raggi che rischiaravano la stanza, illuminando i granelli di polvere a mezz'aria, e colpiva i capelli color prugna ben pettinati del ragazzo che si era seduto sul letto come se fosse diretta tutta e solo verso di lui.

Fu come annegare e poi sputare l'acqua dai polmoni tutta insieme. Probabilmente era la sete, ma la gola di Masaki bruciava dolorosamente mentre emetteva versi incomprensibili, gli occhi grandi come dischetti da hockey.

-Masaki—

Come a rispondere al richiamo, Masaki urlò e si portò le mani al capo, scalciando come impazzito. Gli girava ancora la testa, e adesso percepiva anche il dolore sordo della paura battergli nel cranio, come a volerlo far impazzire ancora di più.

Due mani familiarmente forti e fredde gli cinsero con urgenza le spalle, nel probabile tentativo di calmarlo, mentre il suo nome veniva chiamato ancora, Masaki, Masaki, inviandogli stilettate di dolore allo stomaco. O forse era la fame.

In qualche modo riuscì a placare la sua furia. Si accorse di star ripetendo due parole come una nenia: -Vai via, vai via.

Si era coperto gli occhi con le mani. Tremante, le scostò piano, il respiro ridotto ad un rantolo.

E lui era ancora lì che lo osservava, un'espressione vagamente ferita in viso. Masaki si prese ancora qualche secondo: il viso squadrato, pulito e sbarbato, la carnagione chiara così in contrasto con i capelli color vino; gli occhi fini, per metà ambrati e per metà di una calda sfumatura color cioccolato piegati all’ingiù come se fosse sempre stranco e le spesse sopracciglia curate meticolosamente, il naso dritto e le labbra sottili; le spalle non troppo larghe ed il busto asciutto. Non c’era possibilità di errore, non poteva essere altri che lui. E la presa sulle sue spalle era così reale. Si fissarono per un lungo secondo -… Sono morto?- soffiò Masaki, ed il pensiero lo sollevò. Se la morte era quella, era meglio di quanto avesse sperato.

Le labbra dell'altro si piegarono in un sorriso storto, appena divertito. Si lasciò sfuggire una piccola risata, una ventata di piacere, dolore e forte malinconia insieme -No, scemo. Ma ci mancava poco che succedesse.- sbuffò dal naso e si scostò da lui piano, con misurata attenzione. Sembrava vagamente a disagio.

-Allora sono impazzito.- Masaki sentì spuntare un sorriso ironico sul proprio viso. Si portò una mano ai capelli -Sono impazzito.- constatò. Ma a quel punto, nemmeno la pazzia gli sembrava così tremenda. Almeno prima di morire e trovare pace avrebbe potuto fingere.

Un sospiro esasperato riempì l’aria stantia della stanza -No, sei solo affamato, debole e, fattelo dire, puzzi. Vedi di alzarti.- e un buffetto raggiunse la sua spalla. Reale, tangibile.

Masaki alzò ancora lo sguardo, e adesso sentiva gli occhi pizzicare di incredulità e aspettativa insieme -… Sei veramente tu?- soffiò.

L'altro, che si era alzato, annuì piano.

Masaki si sporse in avanti, stringendo convulsamente la coperta tra le mani -Sei vivo?- domandò inciampando nelle proprie parole, affannato, un piccolo bocciolo di speranza che si schiudeva in mezzo al petto anche se razionalmente era consapevole che tutto quello fosse impossibile. Aveva visto il suo corpo senza vita, lo aveva toccato e vi aveva versato sopra tutte le lacrime che gli avevano permesso di fare uscire prima di portarlo via. Forse era un sogno. Forse al suo risveglio sarebbe stato male, ma voleva goderselo finché possibile.

Lo vide scuotere la testa lentamente -Vai a lavarti, Masaki. Poi ti spiegherò tutto.

La tavola era davvero apparecchiata. Per una persona. Un forte odore di the verde solleticò le narici di Masaki, che nonostante la doccia si sentiva ancora debole e stanco. Si stupiva ogni secondo di quanto gli fosse mancato lavarsi, però. I capelli umidi gli ricadevano disordinati attorno al viso, ed il colletto della maglia di ricambio che aveva indosso era bagnato.

E lui era in cucina assieme alla colazione, appoggiato al lavello nel modo in cui vi si era sempre appoggiato, lo sguardo perso a guardare fuori dalla portafinestra, gli occhi socchiusi.

Si voltò a guardare Masaki, come se ne avesse percepito la presenza prima che lui entrasse -Mangia. Devi rimetterti in forze.- gli impose, ammiccando con il mento alla tavola, dove invece di una normale colazione c'era un vero e proprio pranzo. Lui aveva le sopracciglia aggrottate come se lo stesse rimproverando, e Masaki non riuscì a trovare le parole per ribellarsi. Lo guardava circospetto, il respiro che gli si mozzava in gola ogni qualvolta i loro occhi si incrociavano. Si mise a sedere. Esitò davanti al maiale panato del tonkatsu sul tavolo, alzando lo sguardo -… Cosa sta succedendo?- sentiva lo stomaco brontolare mentre un'insieme di sensazioni contrastanti lottavano per prendere il sopravvento. Da quando aveva visto l'altro, la sua profonda tristezza si era calmata, lasciandolo in una strana condizione di quiete controllata, come se avesse potuto esplodere da un momento all'altro. Si chiedeva ancora se stesse davvero sognando, se fosse impazzito, quanto fosse razionale quello che stava accadendo. Lo viveva come se non lo riguardasse personalmente, come se si trattasse di una parentesi bizzarra che si era frapposta tra lui e la sua voglia di smettere di vivere.

-Se te lo dico prima che tu abbia mangiato, poi non mangerai.- fu la secca risposta.

E quindi Masaki mangiò. Represse le lacrime ad ogni boccone. Era assurdo il modo in cui il sapore fosse lo stesso di sempre, come se non fosse mai successo niente per davvero.

Eppure era successo, quindi tutto quello non era reale. Ma come era possibile?

Mangiò voracemente, come non aveva mai mangiato, perchè voleva delle spiegazioni e perché aveva fame. Poi lasciò andare le posate, sazio. Si sentiva meglio, almeno fisicamente –Allora,- proclamò stancamente, abbandonandosi sulla sedia -sei una mia proiezione mentale? Ho un'aneurisma cerebrale ed i giorni contati?- la distanza tra di loro lo infastidiva. Quella piccola speranza che aveva sentito poco prima continuava a premere ai lati della sua testa.

-Sono morto, Masaki.- fu la risposta, e fece male. Fu abbastanza eloquente. Si sentì soffocare –Non puoi cambiarlo.

-… Sei stato molto chiaro.

-No, io… voglio solo che tu ne sia pienamente consapevole.

La risata amara di Masaki risuonò roca e lo interruppe -Come se non lo fossi.- scrollò le spalle. Si sentiva incredibilmente stanco.

-Sono qui per impedirti di farti del male. Ho i giorni contati, ma ho avuto la possibilità di tornare per un po'. Per aiutarti.- spiegò, lentamente come se stesse misurando le parole, scostandosi dal lavello e sporgendosi verso di lui, le braccia allargate. Il suo viso era piegato in una smorfia che stava tentando di nascondere senza successo.

Fu troppo, per Masaki.

Urlò di nuovo e, alzandosi, gli lanciò contro il bicchiere dal quale aveva bevuto in un gesto istintivo, e l'altro sobbalzò, preso alla sprovvista. Si scansò appena in tempo. Il bicchiere esplose in frantumi contro la parete -Aiutarmi? Tu!?- il tono di Masaki uscì velenoso ed incredulo insieme. Sentiva dolore ai muscoli per il movimento brusco, e anche se aveva cominciato a sentirsi meglio, la debolezza non se ne era andata -Sei morto! È colpa tua e solo tua se ho bisogno di aiuto! Come puoi aiutarmi?- sputò -È colpa tua se sto impazzendo e ti vedo. Ti sento parlarmi! È colpa tua!- l'impeto di rabbia terminò veloce com'era iniziato, svuotandolo. Masaki curvò le spalle -E adesso sto probabilmente lanciando bicchieri al nulla. Non posso fare niente io, figurati tu.- si portò le mani al viso e cercò di abbandonarsi sulla sedia. Inciampò e cadde a terra. Si rannicchiò lì sul posto, scosso dai brividi.

Sentiva la rabbia premergli sullo sterno. Odiava essere così debole, talmente che il suo cervello stava simulando per lui qualcosa di fasullo, che non avrebbe mai più potuto stringere tra le mani.

Ma furono proprio delle mani, reali e tangibili, a stringersi sui suoi polsi e a scostargli le dita dal viso. L'altro entrò nel suo campo visivo, l'espressione sofferente -Sono qui sul serio, Masaki.- e strinse la presa, come a confermare quanto aveva detto -Non sono una fantasia. Voglio solo aiutarti. È l'unica cosa che voglio.- soffiò. Nonostante gli stesse stringendo i polsi, si teneva il più distante possibile. Era così caldo, constatò Masaki. Così vivo e vero. Lo guardò. Socchiuse gli occhi e digrignò i denti reprimendo le lacrime. Lo scansò con un gesto secco –Avrei preferito fossi una fantasia.- mormorò, gli occhi grandi di improvviso dolore. Si alzò barcollando e fuggì in camera sua, chiudendosi dentro senza aggiungere altro.

Fu solo a notte fonda che si decise ad uscire. Forse aveva dormito, non ricordava. Di certo aveva pianto. L'idea di aver sperato che l'altro fosse ancora vivo lo distruggeva. Aveva passato giorni a fare sua la consapevolezza che fosse morto, ed ora aveva distrutto tutto.

Si mosse in punta di piedi, per non disturbare come faceva quando il compagno era ancora vivo. Si diede dell'idiota al pensiero di star facendo attenzione a non disturbare una visione, e quando in un primo momento non lo vide fuori dalla porta, si sentì sollevato ed annientato assieme. Ma poi i suoi occhi si posarono sul divano, al centro del salotto. Lui era seduto lì a gambe incrociate, il viso abbandonato sul palmo della mano, e lo guardava come se fosse rimasto fermo ad osservare la porta della loro stanza per tutte quelle ore.

Si scambiarono un lungo sguardo.

Masaki desiderò ancora più intensamente di morire, mentre con fredda lucidità si rendeva conto di non essere pazzo. Strinse la presa sullo stipite della porta.

-… Quanti giorni?- riuscì a chiedere, la voce ridotta ad un soffio -… Quanti giorni hai?

Lui si tirò dritto con la schiena e si alzò dal divano, cacciandosi le mani in tasca -Venticinque.- rispose.

Masaki trattenne il fiato.

La sua morte sarebbe stata rimandata ancora per un po'.

 

-Giorno 3-

 

-Fudou Akio.- spiegava, scrollando le spalle. Rifiutò il piatto di riso che Masaki gli stava porgendo. "Non ho bisogno di mangiare, o di dormire" gli aveva detto -Così mi presenterò agli altri.

Masaki aggrottò le sopracciglia, interdetto, come se gli altri non fossero più contemplati nella sua vita.

Quella notte aveva dormito per dodici ore, anche se era stato convinto di non poter chiudere occhio. All'ora di pranzo era stato svegliato dall'altro, che aveva di nuovo preparato il pasto per lui. Non era riuscito a rivolgergli parola, perché la sua sola presenza lo attoniva.

Avevano dormito separati, e questo non faceva altro che acuire in lui la sensazione che tutto quello non stesse accadendo veramente.

-Non mi vedono così, gli altri.- continuò.

"E come…" pensò Masaki, prima di tradurre  il suo pensiero in parole. Non era più abituato a parlare ad alta voce -E come ti vedono?- balbettò, circospetto. Si sentiva ancora come se stesse parlando da solo, nonostante fosse stato rassicurato almeno un’altra dozzina di volte che non fosse impazzito.

La mattinata era soleggiata e nonostante fosse gennaio il sole che filtrava dalla portafinestra della cucina portava con sé un piacevole tepore. Masaki era in piedi, intento a sistemare senza motivo gli utensili da cucina che non aveva praticamente mai usato (non lui). Non aveva alcuna intenzione di sedersi faccia a faccia con l’altro al tavolo in mezzo alla stanza.

Lui inclinò il capo, arricciando il naso -Più alto.- cominciò, e le sue sopracciglia si piegarono. Non sembrava contento della cosa -Ho i capelli castani e lunghi, gli occhi grigi. Scuri.- gesticolò, e Masaki si perse in quei movimenti così familiare. Lui se ne accorse e smise immediatamente.

-Non ti somiglia per niente.- constatò il più piccolo, cercando di immaginarselo, invano.

-L'obiettivo è quello.- sorrise sghembo, ed ancora una volta scese il silenzio.

Masaki sentiva lo stomaco ripiegarsi su se stesso in tanti piccoli strati ogni volta che cadeva il silenzio tra loro in quel modo. Capitava in continuazione. Era come se avessero perso la tranquillità che c'era sempre stata nel loro rapporto. Le uniche occasioni in cui lasciavano calare il silenzio, prima, era quando litigavano. O prima di fare l'amore. Ricordarlo gli fece male, e distolse gli occhi, perché guardarlo troppo a lungo lo feriva terribilmente.

Masaki aveva segnato sul calendario i giorni che gli rimanevano da passare assieme. Erano già al terzo, e tra  loro non c'erano state altro che chiacchiere inutili e banali. Per quanto lo riguardava, aveva ripreso a mangiare, a lavarsi, a parlare un poco. Ma ancora non aveva cercato il cellulare e ancora si rifiutava di rispondere al telefono.

-Propongo di dire agli altri che sono, tipo, un vecchio senpai dell'università, o una cosa del genere.

Il più piccolo annuì distrattamente.

-Visto che Fudou Akio ha trentacinque anni.- aggiunse l'altro, pensieroso. Masaki inarcò un sopracciglio -Gli altri ti vedono come un trentacinquenne? Se dico che eri un mio senpai all'università, ti crederanno un fuoricorso eterno.- sbuffò, alzando gli occhi al cielo -Dirò loro che ci siamo conosciuti durante le ore di tirocinio, eri il mio tutore. Ha molto più senso.- scrollò le spalle -Anche se non ho alcuna intenzione di vedere gli altri.- ci tenne a precisare, senza guardarlo. Poteva anche essere tornato, ma ciò non cambiava il fatto che Masaki fosse ancora distrutto, che vedesse la sua intera vita come un castello di carte crollato. Che avesse intenzione di lasciarsi morire una volta rimasto nuovamente solo.

Il tono del più grande divenne freddo come acciaio -Masaki, devi ricominciare a vedere gente. Almeno la tua famiglia.- iniziò, alzandosi in piedi e poggiando i palmi sul ripiano del tavolo -So che è difficile, ma devi provare a ricominciare a—

-Tu non sai quanto è difficile.- ribatté immediatamente il più piccolo, freddamente -Tu sei quello morto. Io sono quello che deve vivere senza di te.- la percepiva come un'offesa, come la terribile insinuazione che lui potesse essere in grado di andare avanti senza di lui. Come se fosse stato possibile immaginare un futuro da solo, o con un'altra persona. Il fatto che fosse proprio lui a dirgli di andare avanti lo feriva più di qualsiasi altra cosa, in quel momento -Sappi già da ora che tutto quello che farai è inutile. Non è possibile che io mi riprenda. Anzi, non ne ho alcuna intenzione.- e lo guardò con risentimento, alzando le braccia e stringendo le labbra.

Nessuno fece più un fiato.

 

 

-Giorno 4-

 

-Non dormirai con me stanotte, vero?- Masaki si appoggiò stancamente allo stipite della porta.

L'altro, che era intento a leggere un libro seduto sul divano, alzò lo sguardo. Era doloroso anche quello. Quante volte Masaki lo aveva invitato a letto in quel modo? Quante volte si era poggiato alla porta e gli aveva sorriso furbo, comunicandogli la sua intenzione di andare a dormire? E ogni volta la reazione del più grande era stata lasciare da parte qualsiasi altra operazione per impedirglielo.

Una debole risata riempì il silenzio -Non ho bisogno di dormire, Masaki.- lo rassicurò, senza però guardarlo negli occhi. Era pallido alla luce soffusa della lampada. Il biancore della sua carnagione, appena diverso da quello che aveva sempre avuto, era l'unica cosa che ricordava a Masaki che fosse morto. Che non fosse lì per rimanere. Come poteva anche solo pensare di convincerlo ad andare avanti se solo guardarlo lo rendeva felice e lo distruggeva al tempo stesso? In che modo avrebbe potuto passare oltre un sentimento simile?

Masaki socchiuse gli occhi -Se non ne hai bisogno tu, allora non ne ho bisogno neanche io.- mormorò, spostandosi la frangia da davanti il viso. Prima che potessero esserci delle repliche, lo raggiunse sul divano, sedendoglisi di fianco, seppur a debita distanza.

-Devi rimetterti in forze. Sei ancora debole. Dovresti— tentò di ribattere.

-Non sei mia madre. Sto bene, e voglio stare vicino a te. Non puoi impedirmelo, sei tu che ti sei presentato a casa mia quando avevo un disperato bisogno di riaverti.- lo guardò intensamente e lui si arrese, tornando titubante a leggere il suo libro, gli occhi ostinatamente puntati sulle pagine.

Non si era mai mostrato così, Masaki. Così palese nel suo desiderarlo. Quando perdi una cosa, dicevano, capisci quanto ci tenessi. Lui lo aveva imparato a sue spese, e aveva tutta l'intenzione di sfruttare quel poco tempo che rimaneva loro. E allora perché sentiva che non era lo stesso per entrambi? Forse con la morte cessava ogni sentimento?

-Non devi… abituarti a questa cosa.- sussurrò il più grande dopo qualche minuto di silenzio.

-A starti vicino mentre leggi? Ci sono già abituato. Lo sai che non sono un tipo a cui piace particolarmente il cambiamento—

-No, intendo, a me. Non abituarti a me.- teneva tra pollice ed indice una pagina del libro, ed aveva posato gli occhi su Masaki. Anche quello era successo tantissime volte. Eppure ora c'era solo distanza in quello sguardo una volta familiare.

Masaki sentì la gola seccarsi improvvisamente -… Non ci sono riuscito senza di te, avendoti con me come speri che faccia?- fuoriuscì come il lamento di un bambino sul punto di piangere.

L'espressione di Atsushi si ruppe per un attimo soltanto, ed allungò una mano verso Masaki, come a volerlo accarezzare. A metà strada ci ripensò e tornò a concentrarsi sul libro, sviando il suo sguardo.

Quel giorno, non parlarono più.

 

 

-Giorno 5-

 

Si era addormentato sul divano di fianco all'altro, alla fine. Non era ancora riuscito a constatare se il suo non avere bisogno di sonno e cibo fosse effettivamente reale e la cosa lo incuriosiva. In quei giorni era facile farsi distrarre da dettagli così inutili.
Fu svegliato dal rumore di mobili che venivano spostati. Grugnì, portando la mano a cercare qualcuno al suo fianco. Ovviamente non trovò nessuno.
Aprì gli occhi, sentendosi totalmente svuotato. Cercò la voglia di alzarsi. Non la trovò.
-… Cosa stai facendo?- gridò a nulla in particolare, abbandonando il capo allo schienale del divano e sospirando con forza.
Sentì la voce del più grande imprecare, qualcosa cadere, quindi il viso dell'altro fece capolino dalla porta della camera da letto -Sistemo, che domande! Masaki, ti pare questo il modo di lasciare casa nostra?- il modo in cui disse nostra fece sussultare Masaki, che improvvisamente trovò lo stimolo per scattare in piedi e raggiungere la stanza incriminata.
All'interno tutto era un insieme di mobili accatastati in un angolo. Il resto della camera era vuoto, ed il suo senpai stava collegando l'aspirapolvere alla presa della corrente. Si era spostato i capelli dal viso con un cerchietto, ed era possibile vedere anche l'occhio destro, di solito nascosto da un ciuffo ribelle di capelli. Era ridicolo, così. Si era infilato una delle sue magliette da casa, come quando facevano le pulizie di primavera. Atsushi era costretto ogni volta ad intimare a Masaki di darsi una mossa, perché a lui non andava mai di pulire. In realtà, osservarlo mentre si dava da fare per far brillare tutto da cima a fondo lo aveva sempre divertito.
Il rumore dell'aspirapolvere interruppe salvificamente i suoi ricordi e sovrastò qualsiasi altro suono, e Masaki si ritrovò costretto ad urlare -Perché stai sistemando?- domandò, guardandolo come fosse fuori di testa.
-Non puoi vivere nello schifo!- gli lanciò un elastico per capelli -Tirati su quei cosi che hai in testa e dammi una mano! E pettinati, sei indecente!- lo rimproverò. La scena era talmente familiare e aliena al tempo stesso che a Masaki girava la testa. Si legò i capelli in un piccolo codino in un gesto automatico. I suoi capelli azzurri dovevano essere cresciuti, non li ricordava così lunghi -Guarda che è inutile sistemare questa stanza! Non riesco a dormirci comunque!- lo avvertì, sbuffando sonoramente.
L'aspirapolvere si spense con un ultimo zzzzz e il più grande lo guardò. Da quando era tornato sembrava una madre costretta a riprendere il proprio figlio in continuazione, piuttosto che il suo ragazzo. Lo aveva guardato in quel modo almeno una cinquantina di volte da quando era arrivato, e Masaki cominciava a trovarlo irritante.
-Non importa se non ci dormi. Non fai un favore né a te né alla mia memoria a lasciare casa nostra in questo stato, se ci devi vivere.- ammiccò alla polvere che ricopriva il pavimento ed evitò di guardarlo -Pensa a quanta fatica ci mettevo a sistemare. Non è rispettoso lasciarla a se stessa in questo modo.- il suo tono aveva la pretesa di essere scherzoso, fintamente offeso.
Masaki, però, si sentì venire meno la terra sotto i piedi -Smettila di scherzarci su. Non c'è niente di divertente in tutto questo.- berciò, indietreggiando appena. L'altro cambiò espressione immediatamente. Da serena divenne una maschera di cera -Odio quando parli di te come se…
-Come se fossi morto?- lo interruppe lui, improvvisamente freddo -Ma io sono morto, Masaki. È bene che te lo metti in testa, questo.- scosse la testa. Smise di guardarlo -Tu puoi occuparti del salotto, se vuoi. Ho gia preparato quello che serve.- sospirò, ma questa volta il suo tono si addolcì appena.
Il più piccolo non rispose. Si limitò a girare i tacchi e ad andare in salotto, le lacrime che gli pungevano gli occhi e un doloroso groppo che premeva alla gola.

 

 

-Giorno 6-

 

Le pulizie andavano avanti. Si erano parlati poco, nel frattempo, un lento e doloroso strazio che Masaki a stento tollerava. Non riusciva a reggere per più di due ore quando litigavano prima dell’incidente, figurarsi ora; ogni cosa che si erano detti fino a quel momento si era trasformata in una discussione senza senso.
Atsushi continuava a comportarsi in modo freddo, senza capire che Masaki non possedeva la facoltà di sopportarlo. Non in quel momento. Forse non l’avrebbe mai posseduta.
Sentiva il cuore in gola mentre finiva di risistemare i mobili nella sala da pranzo, i ricordi che andavano indietro, ai numerosi litigi che avevano avuto. Spesso erano state incomprensioni, stupidaggini di poco conto che a ripensarci, ah a ripensarci, quanto gli mancavano. Piccoli battibecchi che finivano in una risata soffocata, in un bacio. Altri invece, pochi, lo avevano fatto stare così male che ancora ne rimembrava il dolore. Una volta non si erano parlati per giorni, e la voglia di sentirlo e di chiedergli scusa gli aveva rosicchiato lo stomaco ogni momento, e l’assenza di lui lo aveva annientato un poco alla volta. La sua morte aveva avuto lo stesso impatto, moltiplicato per un numero che non riusciva a contare.
In quel momento il più grande era in cucina. Mancava solo quella da pulire e Masaki si affacciò per chiedergli se avesse bisogno di una mano.
Atsushi stava lucidando gli ultimi utensili. I suoi. Quelli con cui aveva sempre preparato da mangiare. Gli era sempre piaciuto cuncinare, sin da quando era bambino. “Ho cominciato guardando mia madre e poi mi sono appassionato”, raccontava sempre “è un modo abbastanza comune di inizare, se ci pensi”.

Era attaccato a quegli strumenti quasi maniacalmente, e Masaki sospettava che avesse dato ad ognuno un nome, almeno nella sua testa. Posato sul ripiano bianco di fianco al lavello, c'era un mestolo praticamente irriconoscibile: ce lo aveva da quando si era trasferito in quella casa, gli aveva raccontato una volta. Glielo aveva regalato sua nonna, assieme a delle presine che Masaki aveva bruciato in una delle sue tante disavventure ai fornelli.
In quel momento, osservarlo pulire con cura oggetti che era sicuramente consapevole avrebbe usato ancora per poco, lasciò a Masaki un macigno di malinconia nello stomaco. Un po' si chiese come doveva sentirsi il più grande. Provò ad immedesimarsi in lui, ma il solo pensare di farlo lo soffocò e gli fece provare una stilettata di rabbia improvvisa. Lasciò perdere.
Entrò in cucina e si affiancò a lui. Lo sentì sobbalzare -Masaki.- mormorò. Sembrò cercare qualcosa da dire.
-Pensavo ti servisse una mano.- rispose Masaki, e allungò una mano verso le posate che l'altro aveva lasciato nel lavello in attesa di essere lavate -Lascia che ti aiuti.- si offrì. L'altro non si scostò, limitandosi a guardarlo in silenzio.
Rimasero a lavare le stoviglie senza dire altro per un po'.
Fu il più grande a parlare per primo -Dovresti usare i guanti, o ti rovinerai le mani.- sussurrò.
-Sai- iniziò Masaki, come se non lo avesse sentito -Potremmo preparare il curry, stasera.- non voglio litigare, intendeva -Ormai so cuocere almeno il riso.- non adesso, voglio godermi ogni momento che abbiamo a disposizione -Possiamo dividerci i compiti. Nel senso, tu cucini e io apparecchio la tavola.- almeno nelle piccole cose, fingiamo che sia come è sempre stato.
Atsushi strinse forte tra le mani il piatto che stava asciugando, le labbra una linea bianca e sottile. Voltò lo sguardo -Va bene.- annuì -Va bene.

 

 

-Giorno 7-

 

Inaspettatamente, avere casa pulita lo aveva aiutato a tranquillizzarsi. Le finestre erano rimaste aperte per tutta la mattinata e in casa c'era ancora il sentore dell'aria fredda di metà gennaio. Inspirò a pieni polmoni e trovò la forza di sorridere appena. Era una settimana che il suo senpai era tornato e cercava di illudersi che tutto fosse, se non di nuovo tornato alla vecchia normalità, almeno molto vicino ad essa.
Quel giorno Atsushi era uscito per fare la spesa. Gli aveva chiesto se volesse accompagnarlo, ma Masaki aveva rifiutato. Era una cosa troppo intima, che avrebbe riportato in superficie ricordi che in quel momento non sarebbe stato in grado di sopportare. Non con il modo in cui si stavano rapportando in quei giorni. Non sapeva quale strategia l'altro stesse utilizzando per "aiutarlo a riprendersi", ma così non credeva avrebbe funzionato granché.

In realtà, le giornate si susseguivano talmente veloci e confuse che a volte faceva fatica ad afferrarne i particolari. Come se cominciasse ad essere effettivamente sveglio solo da un certo punto in poi. Era spesso distratto e faticava a concentrarsi su quello che l’altro diceva. Era quasi sicuro di aver avuto un incubo quella notte, ma non riusciva a ricordarlo. Dimenticava le cose. Era stato convinto fino ad un paio di giorni prima che il telefono fisso del loro appartamento fosse rimasto attaccato alla presa durante le due settimane passate, invece lo aveva trovato scollegato. Atsushi lo aveva costretto a connetterlo di nuovo. Del cellulare non aveva trovato traccia.
In ogni caso, Ranmaru aveva provato a chiamare a casa, la sera prima. E anche quel giorno. Ma lui non aveva risposto, quindi attaccare di nuovo il telefono era stata solo una perdita di tempo.
-Dovresti chiamare Hiroto e Ryuuji.- gli suggerì il più grande, mentre lui cercava un film da vedere. È ora di ricominciare ad occupare le tue giornate con qualcosa. Ti ho dato tregua per una settimana, ma non puoi più limitarti a mangiare e dormire, gli aveva detto. Quindi lui aveva proposto di guardare un film. Così potevano stare vicini con una scusa. Si sentiva poco più di un disperato, ma davvero non riusciva a vergognarsene.
-Cosa vuoi vedere?- rispose ad una domanda con un'altra domanda mentre si avvicinava al mobile del televisore. Lo avevano comprato solo un paio d’anni prima, dopo almeno due settimane di indecisioni. Atsushi teneva così tanto al design di casa loro, anche se a lui non era mai importato molto. Ma era un bel mobile, quello, di legno scuro, e prendeva una buona metà della parete del loro salotto. Oltre a una cassettiera proprio sotto allo spazio per il televisore, posizionato proprio nel mezzo, nella quale tenevano qualche vecchio VHS e i DVD che guardavano di meno, aveva per ogni lato quattro scaffali che arrivavano fino a terra. Da una parte avevano sistemato i loro libri preferiti, dall’altra i film. Al di sopra degli scaffali, per tutta la lunghezza del mobile, quattro sportelli bianchi, quadrati, custodivano album di fotografie e cianfrusaglie varie, forse qualche CD.

Masaki ricordava ancora come il compagno fosse stato entusiasta di rinnovare il loro salotto: aveva spostato il divano proprio al centro della stanza, di fronte al televisore, e aveva sistemato i mobiletti sui quali tenevano le loro cornici e i vecchi trofei dei tornei di calcio dell’università dalla parte opposta della stanza, contro la parete adiacente al corridoio d’ingresso di casa loro.

Ricordare quei momenti gli strinse lo stomaco in una morsa dolorosa.
Sentì l'altro sospirare e si riscosse dai propri pensieri -Scegli tu.- lo sentì dire.
-… Titanic?- propose quindi.
-No, quello no.- fu la secca replica, come se il solo pensiero di vedere Titanic facesse star male Atsushi.
Masaki strinse le labbra. Non si arrese –Ok… Allora…- rovistò tra i DVD allineati con ordine. Scelse il film più drammatico che catturò la sua attenzione e lo mostrò al ragazzo dietro di lui -Volevamo vederlo ma non abbiamo mai avuto il tempo. È un altro film americano.- si voltò verso di lui forzando un piccolo sorriso. Glielo aveva regalato proprio quel Natale, pensò con una fitta di nostalgia. Il suo sorriso rischiò di incrinarsi.
-… Di cosa parla?- domandò circospetto l’altro.
-Oh, vedrai, è una storia divertente.

 

Atsushi era in lacrime. Stringeva convulsamente il cuscino al petto e tirava forte su con il naso mentre la musica dei titoli di coda partiva. Balbettò qualcosa che Masaki non capì dapprima -… Ho detto, sei proprio sleale.- scandì poi. Si voltò a guardarlo con risentimento.
Masaki si strinse nelle spalle. Erano seduti ai due angoli del divano. L'altro sembrava aver paura di scottarsi se solo si fossero avvicinati un poco di più -Cosa, adesso anche…- cercò le parole, le sopracciglia aggottate -quelli come te piangono?
-… I ventisettenni?
Masaki strinse le labbra per un secondo -… I morti.- soffiò, odiandosi per averlo detto ad alta voce.
Il più grande trattenne il fiato e si asciugò le lacrime in fretta, come pentito di avergliele mostrate -Il fatto che sia morto non mi impedisce di provare emozioni, Masaki.- cercò di spiegare, muovendo le mani.
Davvero? Perché a me sembra proprio il contrario, pensò, ma cambiò discorso –Che peccato che alla fine la protagonista si dimentichi per sempre dell’uomo che amava. Terribile la perdita di memoria, non pensi?- rigirò il coltello nella piaga. Un sorriso tagliente gli si dipinse in viso mentre l'espressione dell’altro si scioglieva nella tristezza più assoluta. Provò una fugace soddisfazione nel vederlo così. E questa volta se ne vergognò.
-Avresti dovuto avvertirmi! Lo sai che… che questi film mi facevano piangere.- Atsushi lasciò andare il cuscino.
Ancora una volta aveva parlato di sé al passato. Irrazionalmente la cosa mandava Masaki fuori di testa -Mi avevi promesso di vederlo assieme a me. Adesso hai mantenuto la promessa.- replicò con un’alzata di spalle.
-… E questo ti fa stare meglio?- domandò l'altro in un soffio, sporgendosi involontariamente verso di lui -Che io mantenga le promesse che ti ho fatto prima di morire, ti farebbe stare meglio?- lo incalzò, e sembrava genuinamente sperare che fosse quella la soluzione.
Masaki trattenne un brivido. No, dopo starei peggio –Si, suppongo.- rispose a bassa voce.
Il più grande lo guardava come se fosse il suo ultimo appiglio al mondo, invece che il contrario. Si erano fatti talmente tante promesse che un’intera esistenza non sarebbe bastata per mantenerle tutte, ma non aveva avuto importanza finché erano stati convinti di averne una insieme davanti. A Masaki non importava di dirgli una bugia, o due, o tre o un migliaio se significava poterlo riavere in quel modo almeno per quegli ultimi giorni -Ma guardati, senpai, hai tutti gli occhi rossi. Non ti vergogni?- sbuffò esasperato, ed allungò una mano verso il volto dell’altro senza dargli modo di replicare. Gli asciugò la guancia ancora bagnata passandovi piano il pollice in una carezza, ed Atsushi socchiuse gli occhi, andando a stringergli il polso con la mano. Masaki lo prese come un invito ad avvicinarsi e così fece.
Da solo il pollice, cominciò a passare sul suo viso prima le nocche, poi il palmo della mano. La presa dell'altro sul suo polso si rafforzò –Masaki…- lo chiamò, piano.
Ma Masaki non lo stava ascoltando. Si era avvicinato di più, il respiro bloccato in gola, e le loro labbra quasi si sfioravano, ormai. I titoli di coda del film appena visto continuavano a scorrere incuranti. Attesa, dolore e un inaspettato desiderio gli stringevano lo stomaco. Gli sembrava così strano riuscire ancora a provare emozioni simili quando solo una settimana prima si sentiva del tutto svuotato.
Per un momento sembrò che il più grande si fosse arreso ed i loro nasi si scontrarono.
Poi tutto si ruppe improvvisamente.
-No.- Atsushi si scostò con uno scatto, andando a sbattere con la schiena contro il bracciolo del divano. Masaki sussultò e si ritrasse, il fiato mozzo e le mani tremanti. Gli rivolse uno sguardo carico di risentimento ed incredulità.
-Non lo fare più.- le parole dell’altro lo colpirono come un getto di acqua gelida -Non sono qui per questo, Masaki. Non farti del male.- la sua sembrava quasi una preghiera disperata, ma Masaki non aveva intenzione di ascoltarla.
Si morse il labbro, forte, fino a sentire il sapore metallico del sangue sulla lingua, senza trovare di che rispondere. Voleva urlare e piangere e dirgli di lasciarlo stare, allora, se la sua intenzione era quella di comportarsi come irraggiungibile nonostante fosse a portata di mano, ma non aveva la forza. Si limitò ad allontanarsi, ferito e umiliato.
L'altro lo notò e scosse la testa mortificato -Te l'ho detto, sono qui per aiutarti, e non posso farlo se— tentò nuovamente.
-Non mi stai aiutando affatto.- replicò Masaki a bassa voce, inespressivo.
-Non posso darti una mano facendo… questo.- lui indicò prima se stesso e poi il più piccolo. Spiegò lentamente -Se ti lascio fare, non ti farò altro che male, lo capisci questo? Non posso aiutarti ad abituarti a vivere senza di me se mi comporto come ho sempre fatto. Quando me ne andrò sarà come se morissi una seconda volta. Non lo sopporteresti, così.
Masaki si accorse con sorpresa di star piangendo, le guance che formicolavano e in bocca il salato delle lacrime -Chi te lo dice che sarebbe così.- replicò tanto per il gusto di replicare, anche se da qualche parte nella sua testa riusciva a rendersi conto di quanto avesse ragione. Quando se ne sarebbe andato di nuovo, la sua vita non avrebbe più avuto senso, ancora una volta. Ma non gli importava. Voleva solo godere di quella opportunità che gli era stata concessa.
-Questa non è una seconda possibilità.- come ad aver intuito il filo dei suoi pensieri, il più grande riprese a parlare -Non trattarla come se lo fosse.- poi, dopo aver fatto passare qualche secondo di silenzio, si alzò dal divano e scomparve in cucina senza dire altro. Masaki era già pronto ad appallottolarsi su se stesso e piangere ad alta voce, convinto che l'altro avesse decretato la fine di ogni discussione per quella sera, ma poco dopo lo vide tornare con in mano qualcosa.
Un cellulare. Il suo.
Glielo porse, le ciglia lunghe abbassate sugli occhi, ed ammiccò -Chiama Hiroto e Ryuuji.- suggerì -Sono i tuoi genitori, Masaki. Chiamali.- nel suo sguardo, Masaki lesse tutto quello che non gli aveva detto a parole: “Lo so che ti mancano” e “Sai che staranno morendo di preoccupazione” e ancora “Se è dell'affetto che hai bisogno, cercalo in chi ancora può dartene”. Nonostante il dolore e, suo malgrado, la pungente vergogna del rifiuto, Masaki allungò una mano per prendere il cellulare.
-Dove lo hai trovato?- chiese in un mugugno.
-Sotto il letto, ieri, mentre sistemavamo. L'ho messo in carica. Hai un sacco di messaggi.- ci tenne a precisare, arricciando il naso. Masaki percepì il sangue correre alle guance e farlo arrossire indispettito, un'emozione che non provava da troppo tempo e che lo confuse. Era già capitato che Atsushi si dilettasse ad impicciarsi degli affari suoi, e non gli era mai piaciuto particolarmente.
-Che fai, guardi i miei messaggi? Ti ho detto che mi dà fastidio. Se la tua preoccupazione è che…
-Si è acceso appena ho attaccato il caricabatterie, non li ho guardati di proposito.- si giustificò quello, e voltò lo sguardo, improvvisamente a disagio. Masaki non riuscì a capirlo bene, alla luce tremolante che proveniva dal televisore, ma gli sembrò che il suo collo e le sue orecchie si fossero improvvisamente arrossate -Chiamali, Masaki.- ripeté solo, quindi si ritirò una volta per tutte in cucina, come a lasciargli spazio per fare quello che doveva.
Masaki guardò il cellulare tra le proprie mani, pensieroso. Lo sbloccò, e la forte luce gli fece strizzare gli occhi alla penombra del salotto. Aveva almeno una cinquantina di messaggi da persone diverse e duecento chiamate perse, almeno la metà dei suoi genitori. Deglutì, mentre un calore inaspettato gli inondava il petto e lo stomaco, cogliendolo alla sprovvista. Tutte quelle persone lo avevano cercato.
Represse le lacrime che gli premevano di nuovo agli angoli degli occhi, e prima di permettersi di cambiare idea, compose il numero di casa di Hiroto e Ryuuji, di casa sua.
Il telefono squillò appena una volta. Una voce familiare gli provocò una fitta di nostalgia che gli fece girare la testa -… Pronto?
Prese fiato -Hiroto. Sono Masaki.

 

 

-Giorno 8-

 

Aveva parlato con i suoi tutori fino a notte fonda. Aveva sentito Ryuuji trattenersi dal fargli milioni di domande, rispettando il suo dolore, e lo aveva apprezzato. Aveva raccontato ad Hiroto a grandi linee che stava cercando di riprendersi a modo suo. Non aveva accennato al ritorno del suo defunto fidanzato, ovviamente. E nemmeno al fatto che in realtà non si stava riprendendo per niente.
Avevano domandato di Ranmaru, e lui aveva risposto che ancora non aveva trovato la forza di chiamarlo. Avevano capito. Incredibilmente, sembravano capirlo più di quanto avrebbe creduto possibile, e parlare con loro gli aveva fatto percepire chiaramente quanto gli fosse mancata la loro voce.
-Ti va di vederci, un giorno di questi?- aveva tentato Hiroto, a bassa voce. Masaki sapeva che Ryuuji doveva essere al suo fianco.
-… Vi faccio sapere. Appena sistemo… le ultime cose, ok?- aveva risposto, improvvisamente stanco. Non sapeva quanto si sentisse effettivamente pronto a rivederli.
Dopo averli salutati con la promessa di farsi sentire più spesso (Hiroto aveva tenuto a precisare che ancora un paio di giorni e se non si fosse fatto sentire sarebbero andati a controllare personalmente, perché sparire per tre settimane era fuori dal mondo), Masaki era rimasto in salotto e si era addormentato sul divano, così tanti pensieri per la testa che non aveva avuto nemmeno la forza di elaborarli chiaramente.
Era nel pieno di un sogno in cui aveva comprato una casa e stava cercando di sistemarla quando una voce disturbò il suo sonno -… Masaki?- chiamò, e lui mugugnò in risposta, rannicchiandosi su se stesso.
Uno sbuffo esasperato gli fece aggrottare le sopracciglia, ma non aprì gli occhi –Masakiè ora di alzarsi.- era Atsushi, ovviamente. Ancora insonnolito, Masaki schiuse le palpebre. La sala da pranzo era inondata di luce, eppure lui era riuscito a rimanere addormentato lo stesso.
-… Che c'è? Ho sonno.- replicò con un lamento. Il ricordo del rifiuto della sera prima tornò vivido nella sua memoria. Non aveva le forze per affrontarlo.
-Oggi usciamo.- gli comunicò il più grande con un ampio sorriso.
Masaki arricciò il naso e lo guardò come se fosse pazzo, ma non replicò e si alzò a sedere. Gli doleva il collo. La coperta che aveva addosso scivolò a terra, e solo in quel momento di rese conto di averla addosso. Chi lo aveva coperto quella notte? La risposta non poteva che essere una sola, e gli provocò una piccola fitta allo stomaco, non seppe dire se spiacevole oppure no.
-… Cosa fai quando dormo?- domandò mentre si metteva in piedi e si sgranchiva le gambe, stirandosi la schiena come un gatto. Colse gli occhi bicromi dell'altro su di lui.
Lo vide scrollare le spalle in risposta -… Leggo. Vai a prepararti, dai.- chiuse lì il discorso e scomparve in cucina.

 

-Non sono sicuro di volerlo fare.-  dopo aver mangiato ed essersi preparato, Masaki aveva finalmente realizzato quale fosse stata la proposta del suo senpai.
Non metteva piede fuori dal loro appartamento da quasi un mese, e non sentiva alcun bisogno di farlo. Odiava il pensiero di lasciare quella casa quasi più dell'idea di rimanerci.
L'altro scosse la testa -Invece lo farai. Te l'ho detto, devi ricominciare a comportarti come un essere umano normale.- il suo tono non ammetteva repliche. Era davanti alla porta d'ingresso, che era spalancata.
Masaki esitò, stringendo le spalle nella giacca. Era un regalo del suo ragazzo, ricordò con un brivido. Il regalo di compleanno dell’anno prima. Adorava quella giacca, l’avevano vista di sfuggita un pomeriggio che erano usciti a fare compere, in una vetrina a Shibuya. Era un bomber con il cappuccio, più stretto ai polsi e in vita, ed aveva i colori accesi che a Masaki piacevano di più, il rosa e l’azzurro, sistemati in un motivo patchwork (“un pugno in un occhio” aveva tenuto a specificare Atsushi, ridendo). Ma costava troppo e aveva dovuto rinunciarci. E poi Atsushi gliel’aveva regalata, ed era stato uno dei migliori regali che avesse mai ricevuto. Quella gioia gli sembrava così lontana, adesso.
Recise brusco il filo dei propri pensieri, e fece per replicare che lui una persona normale non lo era mai stata, ma il più grande poggiò il palmo della mano sulla sua schiena prima che potesse farlo. Lui ammutolì, trattenendo il fiato. Non lo aveva mai toccato in uqei giorni, se non un paio di volte. E solo per calmarlo da una crisi isterica. Il calore della sua mano era così vivo che il respiro gli si mozzò in gola.
Ma l'altro non sembrò accorgersene e lo sospinse piano -Vai.- lo disse a bassa voce, suonò come un incoraggiamento.
Masaki non se lo fece ripetere due volte e si scostò da lui e dalla sua mano, in parte dispiacendosi e in parte sospirando di sollievo.
Non fu difficile.
Per davvero, in realtà furono solo due passi.
Fu fuori, e si voltò verso Atsushi che lo guardava soddisfatto da dentro casa. Masaki ebbe la netta sensazione di starlo lasciando indietro e che non lo avrebbe più recuperato, ma prima che potesse soccombere al terrore sordo che cominciava ad arpionargli il cranio e correre di nuovo dentro da lui, quello lo seguì oltre la porta.
Masaki gli strinse forte il braccio, annaspando senza fiato, ma lui parve non capire e gli sorrise.

 

L'aria era fredda e il vento pungeva loro i visi. Masaki si calò il cappuccio sui capelli, infreddolito. Sentiva il naso gelato.
Il suo senpai, però, sembrava stare molto peggio. Era sempre stato il più sensibile alle basse temperature, ed era chiaro si stesse sforzando per non lamentarsi come suo solito.
-Sai, se hai freddo puoi dirlo.- lo riprese Masaki, sospirando. Ruppe così il silenzio che aveva aleggiato tra di loro fino a quel momento, e l'altro sobbalzò appena.
Ridacchiò -Nah, è solo che non ci ero più abituato.- spiegò -… Credo che i morti sentano più il cambio di temperatura—?- diede alla frase una sfumatura di domanda. Masaki non aveva alcuna intenzione di rispondere. Anzi, alzò il capo al cielo terso e limpido di quella giornata ed inspirò a pieni polmoni. Odiava ammetterlo, si odiava anche solo per il fatto di pensarlo, ma era piacevole, molto. Essere fuori di casa, camminare per le strade affollate di Tokyo. Forse era l'illusione di essere di nuovo con Atsushi. O forse si era ostinato a fare finta che non gli mancasse tutto quello per crogiolarsi meglio nel proprio dolore (poteva davvero esistere ancora qualcosa di bello oltre quello?). Non lo sapeva, e non aveva voglia di pensarci in quel momento.
-Quindi,- cominciò, per evitare di pensare -gli altri ora ti vedono come Fudou Akio?- chiese, tornando con lo sguardo di fronte a sé. L'altro annuì. Cercò di immaginarselo più alto e con i capelli di un altro colore, di nuovo, ma proprio non ci riusciva. In ogni caso, le persone per strada si voltavano a guardarlo esattamente come succedeva quando era Minamisawa Atsushi. Masaki non se ne stupì, e gli venne quasi da ridere quando si sentì solleticare da un piccolo e familiare fastidio. Anche in una situazione assurda come quella poteva percepire chiaramente la gelosia pungergli lo stomaco.
-Dove stiamo andando?- si cacciò le mani in tasca, concentrandosi sui propri piedi che avanzavano.
Si voltò quando non sentì l'altro rispondere, e lo trovò a sorridere furbo. Inclinò il capo, socchiudendo gli occhi, lasciando passare qualche altro secondo di attesa -Ci perdiamo.- svelò poi, strizzandogli l’occhio.

E così si persero.

Per Masaki in realtà era sempre stato facile. Non era bravo a ricordare le strade o quale svolta avesse preso; aveva impiegato mesi ad abituarsi alla vista della via di casa loro. Il più delle volte, ricordava con poco orgoglio, succedeva perché era troppo pigro e non aveva voglia di memorizzare nemmeno le informazioni fondamentali. Quante volte il suo senpai lo aveva preso in giro, e quante altre si era invece arrabbiato con lui perché era sparito per ore con il cellulare scarico. Erano ricordi di una vita che gli era temporalmente ancora molto vicina, eppure la sentiva così distante, distaccata, quasi non fosse successo a lui. Era strano aver condiviso così tanto con una persona e poi ritrovarsi all’improvviso ad essere soli, o poco più che sconosciuti. Era come se tutto quel tempo che avevano passato assieme non fosse mai esistito veramente, poco più di un sogno lontano. Un sogno che Masaki desiderava disperatamente riavere indietro, ed era proprio perché sapeva non fosse possibile che aveva deciso di farla finita. Non trovava nulla, tra le cose che la vita fosse ancora in grado di offrirgli, che potesse eguagliare ciò che aveva provato prima che Atsushi morisse. Che senso aveva aspettare la morte per anni?

Non sentiva più le dita dei piedi mentre continuava a camminare al fianco dell’altro, che stava parlando ininterrottamente da almeno un quarto d'ora. Masaki cercava di non perdersi nemmeno una parola, tutto stretto nel suo cappotto. Sentiva il fiato caldo rimbalzare contro la lana dello scalda collo.

Attorno a loro, Tokyo sembrava deserta. Era desolante. Ai lati della strada si apriva una serie di grandi palazzi, alti, ma né fuori né dentro scorse segno di vita -Ieri, al supermercato, c'era questo ragazzino in fila davanti a me. La madre lo ha lasciato a tenere il posto mentre andava a prendere qualcosa che si era dimenticata.- stava raccontando il più grande, gesticolando -Dovevi vederlo, Masaki. Era terrorizzato.- ridacchiò, scuotendo il capo.
Masaki arricciò il naso, sentendosi preso in causa -Bhe? Anche io ero terrorizzato quando succedeva.- balbettò per tutta risposta, calciando a vuoto la neve. Non nevicava da qualche giorno, ma i marciapiedi erano ancora imbiancati. Rabbrividì –Insomma. Pensa se…
-… Se fosse arrivato il tuo turno prima che tua madre fosse tornata?- terminò per lui il più grande. Si guardarono. Il suo viso era arrossato e le sue labbra erano strette nel tentativo di mascherare una risata.
Masaki sgranò gli occhi, indignato -Non provare a ridere! Erano momenti terrificanti, che cosa credi?!- rimbeccò, fermandosi e puntellandosi sui piedi, mentre l'altro scoppiava infine a ridere di gusto. La sua risata sovrastò l' -Atsushi!!- piccato del più piccolo, che senza riflettere si chinò in tutta fretta a raccogliere quanta più neve potesse.
Troppo impegnato a piegarsi sulla pancia a causa delle risa, Atsushi si accorse della palla di neve solo quando lo colpì in testa. Lanciò un versetto stridulo, sorpreso, e barcollò appena all’indietro. Lanciò a Masaki uno sguardo con gli occhi di chi guarda un traditore -… I miei capelli.- sibilò.
Il più piccolo tirò su con il naso, lanciando in aria e riprendendo in mano una seconda palla di neve -Bhe, che peccato.- sorrise appena, lanciando anche quella. Questa volta mancò il bersaglio, perché Atsushi si era piegato a raccogliere della neve per rispondere al fuoco. Non passarono che pochi secondi che venne colpito al fianco. In meno di un minuto, stavano correndo in tondo sul marciapiede giocando a palle di neve. Chiunque fosse passato, avrebbe visto un trentacinquenne e un ragazzo di qualche anno più piccolo ridere ed insultarsi come bambini. Ma non c'era nessuno a parte loro, e le loro voci affannate rimbombavano tra le facciate dei palazzi che circondavano la strada. Corsero a caso per stradine laterali che non conoscevano, incuranti dei pochi pedoni che incontravano. Ora sembrava una fortuna che quella parte di Tokyo fosse così stranamente desolata. Masaki respirò quel gioco stupido ed infantile come aria fresca e si lasciò cullare dalla fuggevole convinzione che un pezzo della sua vita fosse tornato al suo posto. Non era vero, ma per quel momento andava bene così, con la neve gelata ad impiastricciare i capelli ed i vestiti di entrambi. Atsushi tremava di freddo, ma sorrideva e lo prendeva in giro mentre gli lanciava l'ennesimo colpo. Gli gridò qualcosa del tipo "tanto sei sempre stato scarso a questo gioco!" e poi scomparve dietro ad un angolo. Masaki lo seguì in cerca della sua vendetta, correndogli dietro. Si aspettò di trovarlo seminascosto dietro un lampione o un cestino della spazzatura in attesa di un altro scontro mortale; invece per poco non andò a scontrarsi contro la sua schiena. Lasciò cadere la neve che aveva in mano e gli si affiancò, sporgendosi per guardarlo -…  Senpai?- domandò, aggrottando le sopracciglia.
Sembrò che l'altro si accorgesse di lui solo in quel momento, e sobbalzò -Eh? Ah, scusa io…- parve agitarsi e voltò il capo in tutte le direzioni, come fosse indeciso.
-Cosa succede?
-Niente, niente, torniamo…- cominciò, ma ormai Masaki aveva seguito la linea del suo sguardo. Portava ad una piccola sala da the all’occidentale. Niente di che, in realtà, solo un negozio incastrato all'angolo di un palazzo più grande. Aveva un’elegante insegna luminosa lilla che pulsava come se fosse un po' rotta ed era incassato sotto una tettoia che sporgeva oltre l'entrata di almeno un metro e mezzo. Da dentro proveniva una calda luce aranciata.
A Masaki si fermò il respiro in petto -Oh.- commentò solamente, guardandosi i piedi a disagio.
Era il posto dove si erano conosciuti.
Il più grande, però, sembrava il più sconvolto tra i due, ed evitava di tornare con gli occhi al locale -Mi dispiace, Masaki. Non volevo. Torniamo indietro.- nel suo tono c'era una certa urgenza, come se l'idea di avvicinarsi a quel posto gli provocasse una grande sensazione di panico.
-No.- replicò invece Masaki alzando lo sguardo, sorprendendolo. Incassò la testa tra le spalle -Fa freddo, stai gelando. Andiamo a prendere qualcosa.

 

Nonostante si fossero conosciuti lì, Masaki non aveva mai messo piede dentro alla sala da the. All'epoca non ne aveva avuto il tempo. Pioveva, ed il suo senpai lo aveva, a modo suo, salvato dalla pioggia, ricordò con una fitta allo stomaco.

Come dimenticarlo: era l’inverno dei suoi diciotto anni e suo padre Hiroto, impegnato nel suo lavoro all’azienda di famiglia, gli aveva chiesto il favore di andare a Tokyo per una commissione. Masaki si era lamentato tantissimo, soprattutto perché sapeva che avrebbe rischiato di perdersi; ma non era neanche mai stato capace di negare un favore a suo padre e quindi era partito immediatamente per la grande città. Non ci era mai stato, prima. Non era molto distante da Inazuma-Cho, nemmeno un’ora di treno, ma quando era sceso alla stazione di Shinjuku, Masaki era stato così fortemente travolto dai suoni e dalle persone e dal movimento, così diversi da quelli cui era abituato, che gli era sembrato di aver messo piede su un altro pianeta.

Era andato tutto bene fino a quando non aveva dovuto prendere la metropolitana: troppe linee, troppi colori e troppi numeri, aveva finito per perdersi e alla fine, esasperato, era uscito dalle gallerie asfissianti e piene di gente solo per scoprire che fuori diluviava, che non aveva un ombrello e che il suo cellulare era completamente scarico. Doveva prendere l’abitudine di metterlo in carica la notte, dannazione. Indeciso sul da farsi si era rifugiato sotto la tettoia della sala da the dove ora stavano entrando. Atsushi ne era uscito con un terrificante ombrello verde evidenziatore, con il quale senza accorgersene lo aveva colpito. I capelli di Masaki, fradici ed arruffati, vi si erano impigliati, e per almeno due minuti aveva insultato in modo fantasioso l’oggetto e il suo possessore, forte di tutta l’irritazione che aveva accumulato da quella mattina.

Invece di arrabbiarsi, Atsushi lo aveva trovato affascinante (questo glielo aveva confessato mesi dopo), e in un modo o nell’altro era riuscito a far partire una conversazione. Atsushi era più grande di lui di due anni, frequentava l’università lì a Tokyo e, incredibilmente, anche lui veniva da Inazuma-Cho e aveva giocato a calcio. Ancora più incredibile, parlando avevano scoperto di conoscersi già. In realtà, più che conoscersi, si erano scorti ai tornei delle scuole medie. Era uscito fuori che Atsushi avesse frequentato le stesse scuole medie di Masaki, anche se per motivi che all’epoca non gli aveva spiegato, aveva cambiato istituto proprio qualche settimana prima che Masaki vi si trasferisse, per questo non si erano mai visti o parlati. Ciliegina sulla torta, ovviamente Atsushi conosceva buona parte dei compagni che Masaki aveva avuto in squadra (con alcuni dei quali, tra l’altro, era ancora in contatto). A ben pensarci, Masaki ricordava vagamente la storia di un attaccante che aveva mollato la squadra all’inizio del suo terzo anno. Ranmaru lo aveva chiamato fedifrago e traditore.

Utilizzando come scusa l’inaspettato legame che li univa, comunque, alla fine Atsushi aveva invitato Masaki a darsi una sistemata nel suo appartamento (quello che poi era diventato il loro) con la scusa di dover adempiere ai doveri di un bravo senpai, e poi lo aveva accompagnato a concludere la sua commissione.

Si erano scambiati i numeri di telefono e l’e-mail, avevano cominciato ad uscire e Masaki aveva imparato a mettere il cellulare in carica.

Sembrava fosse successo tutto secoli prima.
Masaki tornò alla realtà con un sospiro, guardandosi attorno, ormai dentro la sala da the. Di certo, il locale era più accogliente all’interno che all'esterno.
Il bancone prendeva quasi l'intera larghezza della stanza, e nelle vetrine erano esposte ordinatamente paste occidentali, brioche e fette di torta dall'aria invitante. Piccoli tavolini tondi di legno riempivano il resto dello spazio.
Atsushi, di fianco a lui, era tornato silenzioso, e stringeva forte le mani a pugno, tanto che le sue nocche erano sbiancate. Masaki si stupì e intimamente si dispiacque un poco per il modo in cui si stava sentendo in colpa. Ma, veramente, aveva provato talmente tanta sofferenza in quei giorni, che trovarsi lì non era che il minore dei mali.
Fece per domandare al senpai cosa volesse, ma quello lo anticipò -Quella alle fragole, giusto?- domandò, a bassa voce, e Masaki aprì la bocca per poi richiuderla subito dopo. Annuì. Era la sua preferita. Non aveva idea di come si chiamasse, ed Atsushi lo aveva sempre preso in giro per questo. Lo guardò ordinare e poi fargli cenno verso un posto a sedere. Deglutì e lo seguì.
Si nascosero al tavolino più lontano dal bancone, all'angolo tra la parete e la vetrina del locale. Aleggiava una calma atmosfera di calore ed intimità, e, per la seconda volta in meno di un'ora, Masaki si abbandonò alla sensazione che tutto fosse come prima. Sorrise appena, socchiudendo gli occhi, anche se il petto gli doleva da morire.
Non parlarono per un bel po'. Masaki avrebbe voluto chiedere come mai l'altro sembrasse così turbato, ma non aveva cuore di rovinare il momento, quindi si limitò a mangiare lentamente, come se così fosse possibile rallentare il tempo.
-… Stai bene?- il silenzio fu rotto dalla voce di Atsushi. Aveva parlato velocemente, senza guardarlo. In effetti, pensò Masaki, doveva essere fastidioso per lui che non aveva bisogno di nutrirsi stare a guardare con le mani in mano qualcuno mangiare.
Aggrottò le sopracciglia -Ti ho detto che non c'è problema. Non ti preoccupare.- sbuffò, dopo aver ripulito il cucchiaino di un nuovo pezzo di torta -Cerca di rilassarti, ok? Sembra tu abbia visto un fastasma.- normalmente avrebbe volentieri fatto una battuta al riguardo, ma in quel momentò rabbrividì per la pessima scelta di parole. L'altro gli lanciò un nervoso sorriso di scuse ed iniziò a giocherellare con un tovagliolo.
-È che— è strano, no?
Masaki inarcò le sopracciglia e lanciò al più grande uno sguardo basito. Atsushi lo guardò come se non si fosse accorto di aver parlato ad alta voce e sembrò sbiancare visibilmente nel rendersene conto. Masaki non capiva esattamente cosa ci fosse si così tremendo in quello che aveva detto, ma lo percepiva ancora nell'aria e gli faceva male, ma in un modo diverso da come si era sentito fino a quel momento. L'esclamazione del più grande aveva avuto una sfumatura di conclusione inaspettata, sembrava fosse stato un estraneo a pronunciarla. Non c'era bisogno di dirlo, sapeva perfettamente fosse strano. Deglutì e si costrinse a guardare la poca torta rimasta -È buona.- disse solo, nel disperato tentativo di cambiare discorso. Ci saremmo dovuti venire prima, in questo posto, gli venne da aggiungere. Ma, ancora una volta, si trattenne.


Quando rientrarono era ormai sera, e casa era buia.
Masaki accolse il proprio appartamento con sollievo, come un bicchiere d'acqua dopo un lungo discorso. Ancora una volta si accorse con fastidio come tutto (il rientrare di fianco ad Atsushi, il frusciare dei cappotti sfilati, la luce che si accendeva) fosse perfettamente familiare e insieme assurdamente stonato.
Si trascinò fino al divano e si lasciò cadere a peso morto sui cuscini.
-Allora.- la voce del suo senpai lo riscosse -Com'è stato?- domandò, secco, piazzandoglisi davanti -Uscire di nuovo, intendo.- ci tenne ad aggiungere, come a sottolineare che non fosse di loro due che si stava parlando. Masaki se ne sentì ferito.
Alzò le spalle -Normale. Stancante.- sospirò e reclinò il capo all'indietro, chiudendo gli occhi -Ma c'eri tu. Non vale se ci sei tu, suppongo.- soffiò, esausto per davvero. Non poteva vederlo, ma avrebbe giurato che l'altro si fosse irrigidito.
-Il mio compito è… darti una spinta. Ora, pian piano, senza fretta, comincerai a farlo senza di me e—
-Lo vedi come un compito, il tuo?- Masaki aprì gli occhi e piantò uno sguardo inaspettatamente fermo in quello dell’altro, trovandovi qualcosa di molto simile al proprio dolore.
Atsushi esitò prima di rispondere -È… complicato.- soffiò, in difficoltà, scostando lo sguardo, le sopracciglia aggrottate come se non riuscisse a formulare un pensiero preciso.
E allora Masaki si alzò, senza smettere di guardarlo -Ho sonno, vado a dormire. Buonanotte.- si congedò, non voleva affrontare quella discussione. Utilizzò un tono talmente definitivo che qualsiasi protesta dell'altro sul non andare a dormire senza aver mangiato si spense ancor prima di essere pronunciata.

Che stupido che era stato: quella che tutto fosse come prima era stata solo una fragile illusione.



-Giorno 9-

 

Masaki fissava il cellulare da almeno quarantacinque minuti, assorto.
Atsushi glielo aveva fatto scivolare di fronte agli occhi senza dire nulla. Conosceva il codice di sblocco, era il giorno del suo compleanno.
Il display mostrava il contatto di Ranmaru, fastidiosamente luminoso. Masaki attendeva che si spegnesse, e poi lo sbloccava di nuovo, in un loop senza senso.
Era quasi ora di pranzo, ma il suo senpai non era ancora entrato in cucina per prepararlo. Evidentemente gli stava lasciando il suo spazio. Masaki gliene era grato e lo odiava allo stesso tempo per questo.
In quei quarantacinque minuti, si era fatto un esame di coscienza. Sapeva che Ranmaru non ce l'aveva con lui, che anche se non poteva comprenderlo veramente, aveva comunque capito, a suo modo. Eppure Masaki sapeva di essersi comportato male. Da un punto di vista puramente obbiettivo, aveva tagliato fuori il suo migliore amico. Anche se, effettivamente, aveva tagliato fuori tutti. Persino in quel momento, per quanto morisse dalla voglia di sentirlo, non avrebbe trovato la forza di parlargli. Almeno, non di quello che Ranmaru avrebbe voluto.
Ancora il solo sfiorare il pensiero della morte di Atsushi gli faceva venire da vomitare, anche se lui era nell'altra stanza. Se solo si soffermava a pensarci, sentiva l'impellente bisogno di buttarsi in un angolo e tornare ad attendere la morte. Per un ironico caso del destino, l'unica cosa che glielo stava impedendo era proprio Atsushi stesso.
Non sarebbe stato in grado di parlare di lui con Ranmaru, di sfogarsi. Lo trovava troppo personale, troppo intimo, e temeva che anche solo accennandovi il ricordo potesse svanire improvvisamente, ed anche se era un pensiero irrazionale e senza alcun senso logico, la cosa gli metteva addosso talmente tanta paura che si rifiutava anche solo di ragionarvi tra sé e sé.
Era da un paio di giorni che il suo migliore amico non provava a chiamarlo. Da quasi due settimane nemmeno si faceva vedere più sotto casa sua. Masaki lo aveva visto spesso, dalle tendine della cucina. Una parte infantile di lui sperava che Ranmaru non se la fosse presa (il che, però, sarebbe stato del tutto legittimo), ma conosceva il suo migliore amico talmente bene da sapere quanto invece fosse preoccupato. Probabilmente non dormiva la notte per tutta quella storia, ma per quanto a Masaki dispiacesse, non aveva veramente la forza di pensare anche a quello.
Allungò la mano per sbloccare nuovamente lo schermo del cellulare, e prima di poter cambiare idea pigiò sul tasto della chiamata. Mise in viva voce e allontanò il telefono da sé il più possibile per evitare di ripensarci e attaccare prima che cominciasse a squillare. Ma il telefono non fece che uno squillo prima che la voce familiare di Ranmaru rispondesse.
-Masaki?- non c'era stupore nella voce del suo migliore amico, più del sollievo. Ranmaru dovette ripetere il suo nome un'altra volta, concitato -Masaki?- ora sembrava più che altro perplesso, come se temesse che la chiamata non fosse partita da chi pensava.
-Si, sono io.- replicò lui. Non parlava dalla sera prima, e la voce gli uscì un po' roca. Si sentiva la gola secca, terribilmente. Non sapeva nemmeno cosa dire, quindi rimase in silenzio. Il suo migliore amico lo condivise per una ventina di secondi, prima di tornare a parlare -Stai mangiando?- domandò, secco, e Masaki in un primo momento credette di non capire bene. Strizzò gli occhi, mentre un "eh?" confuso gli sfuggiva dalle labbra.
-Dico, stai mangiando? Ti stai mantenendo in forze?- continuò Ranmaru, imperterrito. La sua voce sottile aveva sempre avuto un effetto calmante su Masaki.
-Mh.- confermò, balbettando -Ieri… ieri sono anche uscito. Per poco.- aggiunse in un sussurro. Improvvisamente si accorse di quanto l'altro gli fosse mancato. Nonostante la situazione assurda in cui si trovava, Ranmaru, che avrebbe dovuto essere furioso con lui, continuava invece a preoccuparsi. Gli si strinse lo stomaco. Certo che aveva compreso. Apprezzò che non gli avesse chiesto come stesse, perché probabilmente lo conosceva talmente bene da sapere già la risposta.

Ranmaru era sempre stato una delle poche persone che sapevano esattamente come gestire Masaki. Probabilmente, il fatto che dovesse essere gestito non andava a suo favore, ma aveva sempre apprezzato questo lato del suo migliore amico. Che poi, non ricordava esattamente quando avessero legato così tanto.

Si erano conosciuti alle scuole medie, al club di calcio. Ranmaru era un suo senpai del secondo anno, e a dirla tutta all’inizio non si erano presi per nulla. Addirittura Ranmaru aveva creduto che Masaki fosse entrato in squadra per sabotare il torneo di quell’anno, che cretino. Per mesi non avevano potuto sopportare la reciproca presenza. Ma da un certo punto in poi le cose avevano cominciato gradualmente a cambiare, con naturalezza, come accadeva sempre quando c’era di mezzo Ranmaru.
Masaki poteva udire un forte rumore, in sottofondo alla chiamata, come se l'amico si trovasse in mezzo ad una folla o su un mezzo pubblico. Lo sentì sospirare di sollievo -Sono contento di sentirlo.- e ancora scese il silenzio, come se stesse cercando i termini giusti da utilizzare. Ranmaru era sempre stato bravo a consolarlo con la sua sola presenza, con le parole non ci sapeva fare particolarmente bene -Lo sai che se hai bisogno di me…- iniziò.
-Lo so.- Masaki abbassò la voce -Mi dispiace.- aggiunse poi. Non sapeva di cosa si stesse dispiacendo, tra le tante cose. Ma si sentiva in dovere di scusarsi.
-Non mi chiedere scusa adesso.- Ranmaru sbuffò forte, in modo quasi comico -Avrai modo di farlo dopo. Quando…- cercò le parole -quando starai meglio, e sarà passata un poco, potrai scusarti. E a quel punto non ci andrò leggero con te, Kariya Masaki.- aggiunse, con una risatina leggera. Masaki sorrise e si strinse nelle spalle, portandosi le ginocchia al petto lì sulla sedia, cingendole con le braccia -Ma per adesso pensa a te, va bene? Fai qualsiasi cosa possa aiutarti, e se sono tra ciò che può farlo, il mio telefono è acceso a qualsiasi ora.- ci fu una piccola pausa -Ti voglio bene.- aggiunse, piano. Masaki lo sapeva, che si stava trattenendo dal fargli domande. Sapeva che, fosse dipeso da lui, sarebbe corso alla porta di casa sua e avrebbe fatto irruzione per controllare che quanto gli avesse detto fosse vero. Come molte altre volte prima di quel periodo, Masaki si stupì di quanta fiducia Ranmaru riponesse in lui. Di come desse per scontato che lui ce l'avrebbe fatta, a superare tutto quello. Si sporse verso il tavolo e riprese il telefono in mano, togliendo il viva voce e portando il cellulare all'orecchio -Ti voglio bene anche io.- rispose -Poco.- ci tenne a precisare poi, e l'altro borbottò qualcosa di incomprensibile in risposta, e poi rise ancora.

Era esattamente come al solito, naturale, perché era Ranmaru ed era sempre così con lui, nonostante tutto. Masaki aveva avuto paura sarebbe stato difficile e doloroso. Lo era ugualmente, ma non in modo esclusivamente spiacevole. Sapere che Ranmaru c’era per lui lo faceva sentire inevitabilmente in colpa, ma lo rendeva anche intimamente felice.
-Lo sai, devi sbrigarti a stare meglio, perché ho cominciato un corso di cucina e adesso so preparare il tonkatsu alla perfezione.- si vantò Ranmaru dall'altra parte della linea, mentre il rumore di sottofondo cessava improvvisamente e si udiva un lieve tintinnare. Probabilmente aveva tirato fuori le chiavi di casa.
-Non ci credo, senpai, non mi prendere in giro!- lo sbeffeggiò Masaki, sentendosi per un attimo più leggero, così, a parlare del più e del meno. Gli sembrò per un momento che fosse tutto a posto, e ne fu grato a Ranmaru. Lo sentì lamentarsi ed aggiungere un "puoi chiederlo a Fei se vuoi, sai! Lui lo ha adorato!". Risero entrambi, e Masaki si lasciò cullare dalla sensazione di familiarità della voce del suo migliore amico che gli raccontava le ultime novità.

 

Attaccò che erano ormai le tre del pomeriggio.
Si accorse di avere fame solo quando alzò lo sguardo dal cellulare ed il suo stomaco brontolò appena. Arricciò il naso e si guardò attorno automaticamente, come ad aspettarsi di veder sbucare Atsushi dal nulla, ora che aveva finito la sua chiamata.
Non si stupì quando lo vide poggiato alla stipite della porta. Aveva il viso inclinato e lo guardava con le sopracciglia alzate, come se si aspettasse un commento da parte sua.
-Cosa è, hai origliato?- domandò, forse più freddo di quanto avrebbe voluto, e vide l'altro irrigidirsi appena.
-Solo la parte in viva voce.- ammise, alzando le spalle, come a giustificarsi. E poi rimase lì fermo, a guardarlo, e Masaki sentì il poco buonumore che aveva recuperato sfumare via nuovamente. Fece per parlare, ma il suo senpai lo precedette -Scommetto che stai morendo di fame.- schioccò la lingua e si scostò dallo stipite della porta, avvicinandosi al frigorifero e dandogli le spalle -Ieri sera non hai cenato, e questa mattina non hai nemmeno fatto colazione.- sottolineò, lanciandogli uno sguardo di rimprovero da sopra la spalla.
Masaki si strinse maggiormente le ginocchia al petto, arricciando il naso -Non avevo voglia di mangiare, ieri, ed oggi ho fatto una cosa più importante.- biascicò con tono infantile, lasciando poi andare la presa sulle gambe e tornando a sedersi normalmente.
Atsushi smise di fare quello che stava facendo e si voltò verso di lui -Ne avevi bisogno, vero?- chiese, e non c'era supponenza nella sua voce. Non era un "te lo avevo detto" che aleggiava tra di loro, bensì un "sapevo che ti avrebbe fatto bene". Lo aveva detto con una strana sicurezza, ed ora sorrideva appena. Sembrava un po' malinconico. Masaki annuì, semplicemente, stupendosi di se stesso. Ne aveva bisogno, come aveva avuto bisogno di sentire i suoi genitori e come aveva avuto bisogno di uscire il giorno prima. Ma nonostante questo, ancora non credeva di poter stare meglio senza Atsushi, proprio perché Atsushi era lì con lui in quei giorni. Non poteva pensare di essere lucido con lui ancora lì, ed era assolutamente sicuro che non appena se ne fosse andato di nuovo la situazione sarebbe tornata al punto di partenza.
-Mi dispiace, per ieri.- sussurrò poi il più grande, lo sguardo basso. Lo colse alla sprovvista. Masaki lo guardò un po' perso, senza afferrare appieno, le labbra semichiuse. L'altro continuò -Non sei un compito, per me. Non voglio che lo pensi.- aggrottò le sopracciglia come se stesse misurando le parole e non volesse farsi sfuggire qualcosa di troppo -È proprio perché sei molto di più che voglio aiutarti.- alzò appena le braccia e si bloccò, non sapendo cosa altro aggiungere.

Masaki strinse forte le labbra -Ogni volta che ne parliamo la cosa mi sembra avere sempre meno senso.- ammise, alzandosi dalla sedia e raggiungendolo dall'altra parte della cucina -Quindi… non ne parliamo più, va bene?- scosse la testa e fece per muovere una mano verso di lui, ma si trattenne, lasciandola ricadere lungo il fianco -Non voglio litigare ogni giorno con te. Qualsiasi sia il motivo per cui tu sei qui, non voglio sprecare questa occasione, e non mi farai cambiare idea.- dichiarò risoluto, prendendo una grande boccata d'aria. Atsushi lo guardava teso, ma alla fine annuì semplicemente. Non sembrava comunque convinto.
-Non mi aiuti se sei lontano.- aggiunse poi Masaki, cercando il suo sguardo.
L'altro esitò -… Sarebbe peggio se facessi il contrario.- per una volta, Atsushi non scostò il proprio. Ma durò solo un paio di secondi, poi si concentrò sul pavimento -Voglio che tu ritrovi la tua voglia di vivere.
C'era qualcosa, Masaki lo sapeva, qualcosa che non riusciva ancora a capire, nel comportamento di Atsushi. Prese coraggio e nuovamente alzò una mano. Si permise di poggiarla sul braccio del più grande, e lui non lo scostò. Inspirò quel breve contatto con sollievo –Allora non essere così lontano. Per favore.- sussurrò. Atsushi si morse il labbro e scosse la testa, sfiorando appena con le dita quelle di Masaki sul suo braccio -Ci posso provare.- concesse, e strinse per un attimo soltanto la presa sulla sua mano.

 

 

-Giorno 10-

 

Quella notte sognò di nuovo di dover comprare una casa. Questa volta, però, nel sogno c'era anche Atsushi.
Erano dentro un appartamento, ma non avrebbe saputo dire come fosse fatto con esattezza, se non che probabilmente fosse più grande di quello in cui avevano sempre abitato. Il sogno era troppo luminoso e non riusciva a distinguere i contorni delle cose attorno a lui.
Il suo senpai si guardava attorno e indicava punti a caso, commentando quel luogo del tutto estraneo a Masaki come se ci fosse già stato. Solo che dalle sue labbra non uscivano constatazioni coerenti alla situazione in cui si trovavano. "Devi continuare a vivere" diceva "lo devi fare per me, me lo devi promettere", poi parlava di una gita al parco che aveva fatto mentre si soffermava vicino ad uno sfocato divano rosso e subito dopo spostava il discorso su Hiroto e Ryuuji mentre apriva delle tende tremolanti. "Non puoi promettermelo, lo so, ma fai uno sforzo. Sono già morto una volta, e ne morirei una seconda se non ti sapessi vivo" poi gli sorrideva e gli indicava una abat-jour chiedendogli di quale colore la preferisse.

 

Si svegliò di soprassalto, la fronte imperlata di sudore ed il cuore che gli martellava nelle orecchie.
Non sapeva dire perché quel sogno lo avesse scosso talmente tanto, ma si sentiva la gola occlusa dalla paura e la testa pesante, come se avesse preso una botta.
Una striscia di luce filtrava dalle tapparelle chiuse male, indicandogli che era ormai mattina, e la constatazione in qualche modo lo terrorizzò.
Scivolò giù dal letto rischiando di cadere sulle gambe ancora addormentate, preso da un'ansia improvvisa, e corse verso il salotto. Sbattè contro lo stipite della porta mentre entrava nella stanza, ma non percepì dolore fino a che i suoi occhi non si posarono sulla figura esile di Atsushi che leggeva un libro seduto sul loro divano. E allora Masaki smise di correre ed affannarsi e si fermò in mezzo alla stanza, il fiatone che gli alzava ed abbassava velocemente il petto. Atsushi alzò lo sguardo, un po' perso, e lo guardò per qualche secondo -… Masaki? È tutto ok?- domandò, una sfumatura di preoccupazione nella voce, chiudendo il libro e poggiandolo con delicatezza di fianco a sé. Fece per alzarsi, ma rimase seduto sul bordo del divano come se non fosse sicuro di doverlo fare ma si preparasse all'evenienza.
Masaki percepì la propria espressione tesa sciogliersi e rilassò i pugni che non si era accorto di star stringendo. Atsushi era ancora lì, non era ancora andato via. Annuì brevemente e strinse le labbra, sentendo il naturale impulso di abbracciarlo come succedeva ogni volta che aveva un incubo e cercava conforto. Le braccia di Atsushi erano sempre state aperte per accoglierlo e farlo stare meglio -Si. Si, solo…- gli sfuggì una piccola risata nervosa -solo un brutto sogno.- soffiò, ed indietreggiò d'istinto, come se se lo aspettasse, che non sarebbe stato come al solito. In più, dopo aver parlato con il senpai il giorno prima, si era ripromesso almeno di tentare di non pretendere troppo per evitare il peggio.
Invece Atsushi si alzò, lanciandogli brevi occhiate incerte. Per un attimo sembrò ripensarci, ma poi avanzò verso di lui. Gli poggiò piano una mano sulla spalla, stringendo piano. La fece scivolare lentamente verso il suo collo e dietro la sua nuca, le dita tra i suoi capelli mentre spingeva piano il suo capo contro il proprio petto.
A Masaki si mozzò il fiato in gola. Rimase immobile, la fronte poggiata al busto dell'altro, che teneva ancora la mano tra i suoi capelli, rigida, come se quella semplice azione gli fosse del tutto aliena e non avesse idea di come gestirla. Era un gesto familiare, piacevole, ma la distanza tra di loro era ancora lì a dividerli nonostante tutto. Eppure Masaki si sentì subito meglio. Non ricambiò il contatto ed aspettò che fosse Atsushi ad interromperlo, dopo un "va tutto bene" sussurrato come fosse un segreto tra di loro. La sua mano scivolò di nuovo sul suo collo, e Masaki dovette trattenersi per non protendersi alla ricerca di altro calore. Quando si scostarono non riuscì a guardare il più grande negli occhi, il viso basso.
-… Hai fame?- gli domandò Atsushi -Ti preparo la colazione?- propose, la sua presenza ancora tesa di fronte a lui.
Masaki annuì in risposta -Per favore.- biascicò, e fu contento quando l'altro scomparve subito in cucina.
Si sentiva il viso ed il collo talmente in fiamme che gli ci volle qualche minuto per riprendersi.

 

Parlarono un po' di più, quella mattina. Di cose futili, perlopiù, niente di serio, profondo o sentimentale. In un certo senso erano giunti ad un accordo, e nonostante Masaki volesse tutt'altro, preferiva sicuramente la situazione corrente a quella tesa che c'era stata fino al giorno prima.
-Sai, sono curioso però.- Atsushi, dopo la colazione, lo aveva costretto a dare una pulita. Nonostante avessero finito di sistemare solo pochi giorni prima, il suo senpai aveva insistito perché "non sei mai stato capace con le faccende di casa. Devi essere in grado di prenderti cura di te e quindi devi imparare a vivere in luogo dignitoso. Impara a pulire." e quindi ora erano in bagno, e Masaki era chinato sul gabinetto con la morte negli occhi. Era l'ultima cosa che gli rimaneva da fare prima di potersi godere il pranzo. Piegò le labbra in una smorfia e si lasciò sfuggire un basso verso di disgusto, cercando di concentrarsi sulle piccole piastrelle color crema del pavimento.

Il loro bagno non era particolarmente grande. Abbastanza da poterci sistemare un lavandino con tanto di mobile, una doccia stretta, i sanitari e la lavatrice. Ah, e la cesta dei panni sporchi, ovviamente. Non rimaneva molto spazio per camminare, a dirla tutta. Vi si accedeva dal salotto, e una delle pareti era adiacente alla cucina.
Atsushi si interruppe nel mezzo di un discorso riguardo alla cucina e alla necessità che Masaki imparasse anche a prepararsi da mangiare. Aggrottò le sopracciglia -Mh?- domandò, fermandosi in mezzo alla stanza, le mani sui fianchi come una governante arrabbiata.
Masaki alzò gli occhi al cielo -Non potresti darmi una mano? Te la prendi un po' comoda, non è che ti diverti a vedermi soffrire?- sbuffò sonoramente, ed incassò il capo tra le spalle quando udì l'altro ridere, biascicando qualche imprecazione.
-Devi imparare tu. Io già lo so fare.- scrollò le spalle l'altro. Masaki ringraziò che non avesse aggiunto un "tanto io non lo dovrò fare mai più visto che sono morto", ma anche solo pensarci gli fece contorcere dolorosamente lo stomaco. Si distrasse pensando che probabilmente stava sorridendo al suo solito modo sghembo, dietro di lui. Si dispiacque di non poterlo vedere.
-Ma ho fame.- si lamentò. Con titubanza, adocchiò i prodotti per la pulizia del bagno che l'altro aveva sistemato vicino a lui, indeciso su quale gli potesse mai servire -Comunque, di Fudou Akio, intendo.- aggiunse, allungando la mano verso un detersivo a caso. Atsushi emise un verso stizzito e gli indicò quello giusto. Lui sbuffò e lo prese, cominciando a pulire a caso. Non che ci volesse una scienza, ma per quanto avesse sempre fatto la sua parte di pulizie in casa, Atsushi si era sempre preso carico del bagno perché "Sei veramente incapace e mi rifiuto di lavarmi in una doccia sporca perché tu non sai pulire", e quindi quella era stata una cosa che non aveva mai avuto bisogno di fare.
-Prima il dovere, poi il pranzo.- lo riprese Atsushi, sbuffando divertito -In che senso?- domandò poi. Masaki si voltò per rispondergli e lo vide sedersi sul cesto dei panni sporchi. Quella mattina l'altro aveva anche deciso che era ora di lavare tutta la roba che Masaki vi aveva accumulato nelle sue settimane di solitudine. Certo, visto che la sua voglia di vivere era stata del tutto inesistente, non si era cambiato poi spesso come al solito, ma comunque la quantità di panni sporchi era notevole. Dentro c'erano anche alcuni vestiti che Atsushi aveva indossato i giorni prima dell'incidente. Masaki non ce l'aveva fatta a tirarli fuori dal fondo della cesta ed era andato a prendersi da bere per evitare di venire schiacciato dal senso di distacco che quella vista gli aveva provocato. Al suo ritorno, Atsushi aveva ormai chiuso la cesta, non sapeva se con i suoi vestiti ancora dentro o meno. Non gli aveva detto nulla, forse per rispetto del suo lutto, o forse perché ancora un po' troppo indulgente con lui. Gli aveva lasciato mettere in moto la lavatrice e poi aveva deciso, per la sua gioia, che si sarebbero occupati del bagno.
-Nel senso che- si riscosse dai suoi pensieri mentre si voltava nuovamente e si sistemava in ginocchio per pulire meglio –sono curioso di vederlo.- borbottò, scrollando le spalle -Voglio sapere come ti vedono gli altri.- concluse, decretando di aver finito anche con il gabinetto e tirandosi in piedi, le mani sui fianchi mentre contemplava il proprio lavoro con una punta d'orgoglio.
Si voltò verso Atsushi quando non lo sentì rispondergli, ed aggrottò le sopracciglia nel vederlo grattatsi il mento pensieroso -… Davvero non te ne sei accorto?- gli domandò, sinceramente perplesso.
Masaki arricciò il naso, stizzito. Non gli piaceva sentirsi stupido, ed era esattamente il suo stato d’animo in quel momento -Di cosa stai parlando?- borbottò, togliendosi i guanti che aveva indosso senza distogliere lo sguardo dall'altro. Quello per tutta risposta si passò una mano sulla nuca con noncuranza, scrollando le spalle -È sempre qui.- replicò semplicemente, e prima che Masaki potesse lamentarsi e intimargli di non parlare per enigmi lo vide indicare con ovvietà lo specchio che si trovava sopra il loro lavandino, dalla parte opposta a dove era seduto.
Masaki lo guardò dubbioso, come se fosse pazzo. Ma in fondo lui era nel bagno di casa sua a parlare con il fantasma (era un fantasma, poi?) del suo defunto fidanzato, quindi non poteva giudicare. Con un paio di passi fu davanti allo specchio, e per poco non gli andò di traverso la sua stessa saliva mentre ne osservava il riflesso.

C'era lui stesso, ovviamente. Ma dietro, seduto sulla cesta dei panni sporchi al posto di Atsushi, si trovava un completo sconosciuto. Probabilmente più alto di Atsushi di qualche centimetro, aveva una cascata di capelli castani che gli cadevano sulla fronte e sulle spalle in modo disordinato e due occhi di un azzurro talmente scuro che pareva quasi grigio. Aveva un viso un po' spigoloso ma per nulla spiacevole. Esattamente come il suo senpai glielo aveva descritto.
I guanti gli caddero di mano. Masaki si voltò velocemente per controllare che l'altro fosse ancora lì, gli occhi grandi come due palline da golf per lo stupore. Ma Atsushi era esattamente al suo posto, e rise di gusto alla sua reazione, incrociando le braccia al petto. Ma Masaki non ci fece caso e tornò a guardare verso lo specchio per esaminare meglio Fudou Akio. Era un bell'uomo, sicuramente. Più vicino ai quarant'anni che ai trenta. Somigliava poco al suo senpai, in realtà. Atsushi aveva il taglio degli occhi verso il basso e le ciglia lunghe, un'espressione a metà tra l'annoiato e il divertito perennemente in viso; Fudou Akio aveva occhi piccoli e attenti, severi, un naso a punta che dava l’idea di arricciarsi spesso e grandi sopracciglia scure che comunicavano l'impressione di una persona perennemente arrabbiata.

-Non ci posso credere.- biascicò Masaki, sfiorando il riflesso con le dita.

-Impressionante, eh?- Atsushi gli rispose con le labbra di Fudou Akio dall'altra parte dello specchio. Masaki sobbalzò. Vedere un perfetto sconosciuto muoversi esattamente come il suo senpai lo fece rabbrividire, e distolse lo sguardo per tornare a guardare il più grande nel suo aspetto abituale.

-Non me ne ero mai accorto.- ammise, borbottando, lanciando brevi occhiate all'altro per accertarsi che non diventasse improvvisamente un'altra persona, e sentirlo ridere di nuovo gli mandò un piacevole brivido giù per la spina dorsale.

Atsushi si alzò dalla cesta dei panni sporchi -Questo perché sei molto distratto, Masaki. Lo puoi vedere in ogni riflesso. Anche in foto mi vedresti come se fossi lui.- lo canzonò, e lui sobbalzò nel ritrovarselo improvvisamente vicino, senza riuscire a replicare. Lo vide allungare il collo e poi fischiare, forte, lanciandogli un sorrisetto soddisfatto -Ma allora sei capace a pulire se ti ci metti!- stava indicando il gabinetto, una posa orgogliosa a raddrizzargli le spalle. Masaki si sentì arrossire fino alla punta delle orecchie per la vergogna e gonfiò le guance nel tentativo di trovare qualcosa con cui replicare, ma ancora una volta il più grande lo precedette e gli premette l'indice sul naso, sorridendo raggiante -Allora te lo meriti, il pranzo~- cinguettò, indietreggiando ed uscendo dal bagno per dirigersi in cucina, improvvisamente di buonumore.

Masaki lo guardò andare via senza parole. Si portò una mano al naso, la testa ad un tratto leggera, e per la seconda volta da quella mattina sentì il viso andargli in fiamme. Imprecò e nascose il volto tra le mani, il cuore che gli martellava nelle orecchie mentre cercava di non pensare alle reazioni che il comportamento dell'altro avrebbe potuto provocargli se solo vi si fosse abbandonato.

 

 

-Giorno 11-

 

-Veramente, come diamine si dovrebbe cucinare questa roba?- Masaki sventolava in aria il contenitore del curry, stizzito -Insomma, è polvere.- sbottò ovvio voltandosi verso Atsushi, che lo guardava con un'espressione a metà tra l'esasperato ed il divertito.
Quel giorno (l'undicesimo che erano insieme, Masaki lo aveva depennato dal calendario quella mattina cercando di ignorare la sensazione che il tempo stesse scivolando via troppo velocemente) aveva acconsentito ad accompagnare Atsushi a fare la spesa. Più che altro era stato costretto, perché il più grande aveva insistito con la storia dell'imparare a cucinare, quindi era tutta la mattina che tentava di spiegargli invano cosa fosse utile comprare e cosa no, ed erano almeno quarantacinque minuti che erano dentro al convenience store sotto casa.

Il suo senpai gli aveva impedito di infilare nel cesto della spesa patatine e merendine adducendo una motivazione scontata come "quelle fanno male” e ci aveva tenuto ad aggiungere “… e poi non si cucinano, non impareresti nulla". Masaki aveva fatto un po' di storie ma poi si era concentrato sulle sue spiegazioni. In realtà, si era concentrato di più su di lui. Non sapeva cosa esattamente fosse cambiato da un paio di giorni, ma l'atmosfera tra di loro era più rilassata. Non come lo era stata prima di tutta quella storia, nemmeno lontanamente, ma almeno continuavano a non litigare. Lui fingeva di starsi impegnando nel riprendersi e Atsushi sembrava crederci. Quei momenti di intimità che fino a pochi giorni prima gli era sembrato impossibile rivivere senza soffrire erano ora tutto ciò che cercava, nel suo tentativo di creare la propria bolla di tranquillità.
Rimaneva tutta una bugia, ma stava decisamente meglio, anche se sentiva di star prendendo in giro Atsushi. Nonostante da quando fosse tornato il pensiero di morire si fosse affacciato alla sua mente solo poche volte, e solo in previsione del giorno in cui il più grande se ne sarebbe andato, Masaki era davvero convinto che il suo senpai fosse lì unicamente per donargli qualche giorno di felicità prima che la facesse finita come aveva programmato, anche se lui diceva tutt'altro. O almeno, era quello che Masaki si ripeteva per evitare di sentirsi troppo in colpa. A volte pensava a quanto Atsushi sembrasse tenere a tutta quella storia del farlo stare meglio, a quanto fosse disperata la sua voglia di aiutarlo, e si sentiva un egoista e stava male. Il dolore ed il senso di colpa avevano rischiato di soffocarlo già un paio di volte. Ma non importava, non quando il dolore della sua perdita era infinitamente maggiore.
Si costrinse a non pensarci. Non adesso. Prima o poi anche l'altro avrebbe capito, comunque, perché Masaki sapeva che al suo posto avrebbe fatto lo stesso.
-È polvere che si mette nel cibo che prepari per dare sapore. Sai, il pollo al curry senza il curry sa solo di pollo.- stava replicando intanto il più grande. Si avvicinò ad uno scaffale per prendere delle alghe essiccate. C'era una ragazza di fianco a lui, che si voltò e rimase incantata qualche secondo a guardarlo prima di afferrare quello che le serviva e filare via.
Masaki strinse le labbra, piccato.
Con la quasi tranquillità di quegli ultimi giorni, sentimenti che prima della morte di Atsushi erano stati del tutto ordinari come la gelosia erano tornati ad intensificarsi, come se fossero rimasti incubati ed indeboliti durante le settimane che Masaki aveva passato da solo. Tornando con lo sguardo al cesto della spesa che aveva in mano, sentì di essere arrossito dalla vergogna. Non era solo la gelosia ad essere tornata. Ripensando al giorno prima, all'effetto che i gesti dell'altro avevano avuto su di lui, sul suo corpo, la testa gli si svuotò nuovamente. Non erano sensazioni a lui estranee, ma le aveva talmente allontanate da sé che tornare a provarle lo aveva destabilizzato, perché aveva creduto non fosse possibile sperimentarle ancora, e non sapeva come doversi sentire al riguardo. Frustrato, probabilmente. Contento? Non lo sapeva. Il fatto di essere ancora in grado di provare, emozioni o pulsioni che fossero, in qualche modo sembrava confermare la fiducia che Atsushi, ma anche i suoi genitori e Ranmaru, riponevano nella sua ripresa. Ma in cui lui per primo non voleva credere. Quindi aveva giustificato le proprie reazioni solo in relazione alla presenza del suo senpai vicino a sé. Non appena Atsushi se ne fosse andato non le avrebbe provate mai più, semplicemente. Era naturale che fosse così.
Atsushi era sempre stato consapevole dell'effetto che aveva sulle persone, comunque, e Masaki si chiese se si fosse accorto del suo risveglio. La cosa lo imbarazzava più di quanto gli fosse mai capitato con il più grande, visto come erano diverse ora le cose tra di loro.
-Sai, trovo assurdo che tu sappia cucinare della pasta e non dei piatti giapponesi. Sei un pessimo connazionale, Masaki.- Atsushi era di nuovo di fianco a lui.
-Sei tu quello che ha sempre cucinato, e visto che lo hai sempre fatto bene, imparare non era nei miei piani.- brontolò per tutta risposta, prendendogli dalle mani la busta di alghe secche e lasciandola cadere insieme al resto della roba nel cestino della spesa.
L'altro arricciò il naso -Tra i due ero decisamente il migliore, te lo concedo.- nonostante la loro tacita tregua, Atsushi non aveva smesso di parlare di sé al passato. Ogni volta Masaki desiderava prenderlo a pugni -Ma ora è una tua necessità, quindi non ti lamentare. Avrai l'ex migliore cuoco amatoriale di Tokyo ad insegnarti.- ammiccò, strizzandogli l'occhio e sorridendo al suo solito modo storto. Masaki sbuffò forte dal naso. Come gli piaceva quel sorrisetto sghembo. Desiderò nuovamente prenderlo a pugni, ma per un motivo diverso questa volta -Ora non tirartela.- alzò gli occhi al cielo mentre infilava di nascosto nel cestino una confezione di mochi -E comunque preferisco guardarti cucinare e basta piuttosto che imparare.- ammise, senza guardarlo.
La sua baldanza, nonostante tutto, non era svanita. Masaki continuava a stupirsi della semplicità con cui riusciva a dire al suo senpai cose che prima non avrebbe mai ammesso nemmeno sotto tortura. Era il suo modo di far arrivare ad Atsushi tutto quello che aveva perso occasione di rendergli noto prima. E gli dava una certa soddisfazione vedere come l'altro venisse sempre preso alla sprovvista da questa sua nuova schiettezza. Almeno aveva un vantaggio su di lui.

E infatti Atsushi parve esitare in mezzo alla corsia del convenience store, le labbra semiaperte e gli occhi fissi su di lui. Durò solo un attimo, durante il quale l'unica arma di Masaki sembrò ritorcerglisi contro mentre il suo senpai arrossiva impercettibilmente e sviava il suo sguardo. Imprecò mentalmente; non gli sembrava di aver detto chissà quale sdolcinatezza, e allora perché l'altro ne sembrava così sconvolto? Smise di guardarlo anche lui, lo stomaco che gli si annodava. Atsushi era veramente sleale.

Ma non aveva veramente voglia di farglielo notare.

 

 

-Giorno 12-

 

Si svegliò con un forte mal di testa.
Le tempie e la nuca gli pulsavano da quanto gli dolevano, e si lasciò sfuggire un basso lamento. Socchiuse gli occhi, rendendosi conto con disappunto che le tapparelle della camera da letto erano chiuse bene –la sera prima, dopo aver passato un'intera giornata ad imparare da Atsushi a preparare cose a caso ed aver rischiato di appiccare un incendio in cucina un paio di volte, era andato a dormire, come sempre da solo, e le aveva chiuse lui. Gli provocava uno strano fastidio non vedere il solito raggio di luce filtrare dalle persiane.
Cercò di alzarsi, ma il dolore lo costrinse a rimanere sdraiato –Ah. Merda.- sibilò stizzito tra i denti, portandosi una mano al viso. Forse era colpa degli incubi che continuava ad avere, a loro volta probabilmente causati dall'ansia che tutta quella situazione assurda gli appiccicava addosso. Ricordava vagamente il solito sogno sulla casa nuova da comprare. Quella volta dentro all'appartamento aveva visto anche Ranmaru, che assieme ad Atsushi lo pregava di non lasciarsi morire. "Non lo sto facendo, maledizione" pensò tra a sé e sé, come a rispondere ad una voce nella sua testa "Non adesso, perlomeno, lasciatemi in pace". Rotolò su un fianco, rannicchiandosi su se stesso e prendendo grandi boccate d'aria alla ricerca di un po' di sollievo. Avrebbe dovuto prendere qualcosa, probabilmente, ma il battere alle tempie si acuì maggiormente e non riuscì a fare altro che mugugnare mentre il dolore gli schizzava giù per la schiena e lo faceva tremare per un attimo soltanto. Si sentì bruciare -Atsushi!- riuscì a chiamare, gli occhi stretti e le sopracciglia aggrottate.
Percepì vagamente i passi leggeri del suo senpai raggiungerlo in camera da letto e fermarsi sulla porta, il viso alla sua schiena, e prima che potesse chiedergli qualcosa lo interruppe con un -Degli antidolorifici— non gli sembrò nemmeno di essere lui a parlare, concentrato com'era sull'improvviso mal di testa. Ancora, sentì i passi di Atsushi per casa, ora concitati. Aprì piano gli occhi, il respiro pesante. C'era una foto sul comodino di fianco al letto, che lo ritraeva assieme ai suoi compagni del club di calcio del liceo. Si concentrò su quella per distrarsi, e sobbalzò quando vide la figura di Fudou Akio comparire sbiadita sul vetro. Trovò la forza di voltarsi, atterrito, ma ovviamente in ginocchio sul letto di fianco a lui c'era Atsushi, un bicchiere d'acqua e delle pastiglie in mano. Senza che Masaki riuscisse a dire nulla, lo vide chinarsi su di lui e infilargliene una in bocca, avvicinandogli poi il bicchiere per farlo bere, sostenendogli con delicatezza la nuca. Deglutì sonoramente ingerendo l'antidolorifico e si lasciò poggiare nuovamente con la testa sul letto mentre richiudeva gli occhi. Percepì qualcosa di morbido e familiare poggiarsi sulla sua fronte, le labbra di Atsushi. Avrebbe voluto imprecare e poter essere abbastanza lucido da potersi godere il momento, ma il dolore era ancora troppo forte -Diamine, Masaki, bruci.- il fiato caldo del suo senpai gli solleticò la pelle, e Masaki schiuse di nuovo gli occhi. Riuscì a farsi sfuggire una risatina ironica -Ehi, sarà colpa tua.- sussurrò, per poi lamentarsi di nuovo, portandosi debolmente la mano al viso.
-Non dire stupidaggini.- la voce dell'altro fu d'un tratto più lontana, il peso del suo corpo sul letto svanì. Masaki trattenne il respiro. Qualche secondo dopo, una coperta venne stesa su di lui e l'improvviso calore lo fece sospirare. Atsushi gli scostò i capelli dalla fronte. Era visibilmente preoccupato e, se Masaki non fosse stato così distratto a guardarlo un po’ perso, avrebbe probabilmente fatto una battuta cretina per dirgli di stare tranquillo. Si sentiva il corpo in fiamme, e all'improvviso lo colse il sonno.
-Cerca di dormire.- mormorò l'altro, di nuovo seduto sul bordo del letto -Ci penso io al resto.- lo rassicurò, le sue dita fresche un sollievo sulla pelle bollente del viso di Masaki. Rise piano in risposta, il mal di testa che si affievoliva appena grazie all'effetto delle medicine, gli occhi semichiusi -Ma come?- biascicò, già mezzo addormentato -Non devo imparare… a cavarmela da solo?- domandò, ma si assopì prima di poter udire la risposta.

 

Fortunatamente, il suo fu un sonno senza sogni. Si risvegliò accaldato e zuppo di sudore, ma almeno la testa non gli doleva come prima. Una pezza imbevuta di acqua fredda gli rinfrescava piacevolmente la fronte -Che… che ore sono?- domandò, la voce gracchiante e la gola secca. Lo aveva chiesto a nessuno in particolare, non aspettandosi un'effettiva risposta. E invece un -Le cinque e mezzo del pomeriggio.- lo colse impreparato. Strizzò gli occhi e si accorse solo in quel momento che il letto era piegato sotto il peso di un'altra persona oltre a lui. Spostò la testa per inquadrare Atsushi, disteso sulla parte di letto che era sempre stata sua, un libro in mano come ogni volta che Masaki dormiva e aveva tempo da perdere. Lo stomaco gli si strinse dolorosamente mentre l'altro si sporgeva appena verso di lui -Ti senti meglio? Ti sei agitato parecchio nel sonno.- per qualche strano motivo, stava parlando a bassa voce, e la cosa, pensò Masaki in un angolo della sua testa, non andava bene per niente. Non se rischiava di avere su di lui effetti imbarazzanti. Gli venne da ridere. Anche nel mezzo della febbre riusciva a preoccuparsi di una cosa del genere.
Scosse la testa in risposta –Si, molto meglio.- replicò, e lo guardò dal basso per qualche secondo prima di essere costretto a distogliere lo sguardo, un lieve calore all'altezza del ventre che sapeva non essere colpa della febbre. Si morse forte l'interno della guancia -Sei rimasto qui tutto il tempo?- domandò, e invece di replicare Atsushi gli porse un bicchiere d'acqua assieme ad un'aspirina. La bevve tutta d'un fiato appena potè, sentendosi immediatamente un poco meglio.
-Dovevo accertarmi che stessi bene.- aggiunse poi il più grande premendogli il dorso della mano sulla guancia -La febbre ti è scesa, per fortuna.- sospirò di sollievo, sorridendo appena -Non ho trovato il termometro, sono uscito a comprarlo.- lo informò, scostando la mano dal suo viso con una leggera carezza. Masaki trattenne il fiato e desiderò scomparire sotto le coperte. Si chiese con quali soldi avesse comprato il termometro, visto che aveva quasi terminato i liquidi. Forse era andato a ritirare? Aggrottò le sopracciglia al pensiero inutile.
-Devi aver preso freddo ieri, ti è salita tutta insieme.- continuò Atsushi tornando a distanza di sicurezza -Te l'avevo detto di coprirti di più.- brontolò, lanciandogli un'occhiata di traverso.
Masaki si mosse a fatica per sistemarsi semiseduto, e vide il suo senpai guardarlo mentre sistemava il cuscino dietro la sua schiena e vi si poggiava con un lamento -Cosa leggevi?- domandò semplicemente, ammiccando al libro che l'altro ancora teneva tra le mani.
-Il Kokinwakashukū.- rispose Atsushi, guardando la copertina rigida del volume, passandovi sopra la mano -Non ricordavo lo avessimo a casa.- ammise -Il fascino dei fiori è ormai sbiadito mentre io trascorrevo le giornate nella noia delle lunghe piogge.- recitò, sorridendo appena -Bhe, non che io possa invecchiare più, comunque.- aggiunse, piano. Masaki tirò su con il naso, gli occhi fissi su di lui. Ad Atsushi era sempre piaciuta la poesia, lo sapeva bene. I waka giapponesi più antichi, Shakespeare e tutte le poesie melense che trovava. Baudelaire, e anche un autore latino di cui non avrebbe mai ricordato il nome che parlava di amare ed odiare una persona al tempo stesso. In quel momento lo sentiva molto vicino.
-Ogni volta che stendo le vesti di mio marito, mi accorgo che il verde dei campi, sotto la pioggia primaverile, si intensifica.- recitò a sua volta Masaki, scuotendo la testa -Ho odiato studiare il Kokinshū. La grammatica era incomprensibile.- sbuffò, e Atsushi rise. Lo guardava in modo strano.
-Eppure te lo ricordi ancora.- sottolineò -Che mi dici di In mezzo alla neve la primavera è arrivata! Ora le lacrime congelate dell'usignolo si staranno…-
-Oh, ti prego.
-Ah, c'è anche Nonostante le persone dicano che la primavera sia arrivata, fintanto che l'usignolo non canta io…
-Atsushi, è ancora inverno, perché stai leggendo i waka della primavera? Sei fatto proprio strano, lo sai?
-Scambiando per fiori i riflessi del fiume, le maniche verranno completamente bagnate dall'acqua che non viene mai spezzata.- continuava a recitare poesie a memoria, e ora rideva piano, a quel suo modo basso e vibrante. Quando Atsushi rideva, sembrava sempre aver colto un dettaglio che agli altri era sfuggito, e nei suoi occhi c'era la promessa che lo avrebbe rivelato a te e solo a te se solo avessi riso con lui.
Quindi Masaki rise a sua volta, scuotendo la testa.
-Chissà se è possibile conoscere il cuore delle persone?…- iniziò poi l’altro. Masaki lo interruppe -… Nel vecchio villaggio, solo i fiori profumano dello stesso profumo di un tempo.- concluse per lui, e poi rimasero a guardarsi per lunghi secondi. Che cosa stupida, guardarsi negli occhi e recitare male delle poesie studiate al liceo. Atsushi era sempre stato romantico in modo quasi ridicolo, eppure era sempre riuscito in qualche maniera a coinvolgerlo nelle sue stramberie. Sembrava giusto fare cose che normalmente gli avrebbero dato il voltastomaco, quando c'era Atsushi con lui. Si sentiva come se non avesse aspettato altro per tutta la vita. Un idiota che cita a memoria dei waka guardandoti come se li avesse scritti tutti per te mentre tu hai la febbre e dovresti solo riposare. Era tutto così tremendamente intimo e familiare. La consapevolezza che in un certo senso tutto quello fosse ormai andato perduto gli strinse il cuore in una morsa. Deglutì a forza le lacrime che premevano per uscire e si sforzò di sorridere appena.
Atsushi si chinò su di lui e gli lasciò un breve bacio sulla fronte.

Masaki lo amò e lo odiò, perché per merito e colpa sua non riusciva a smettere di sperare.

-Riposati, adesso. Di certo devi aver fatto uno sforzo immane per ricordare quei versi.- lo sentì ridere in modo teso mentre si scostava velocemente da lui come se si fosse pentito del gesto appena fatto. Il suo era stato un debole tentativo di stemperare la tensione, ma Masaki rimase in silenzio, quel mezzo sorriso ancora sulle labbra mentre chiudeva gli occhi -Chiudi la porta quando esci, per favore.- sussurrò solo, e si costrinse a non aprirli per osservare la reazione dell'altro. Percepì la sua esitazione mentre indugiava ancora un poco sulla sua parte di letto, ma poi il materasso si piegò mentre si alzava e udì i suoi passi allontanarsi da lui. Se ne sentì annientato. La porta cigolò appena mentre veniva spostata -Ti chiamo per la cena.- la voce di Atsushi era poco più di un bisbiglio. Attese qualche momento, poi chiuse la porta.

E allora Masaki si permise di piangere su quanto fosse patetico.

 

 

-Giorno 13-

 

Da quando aveva parlato con Ranmaru un paio di giorni prima, Masaki aveva ricominciato a scrivergli. Non che si sentissero per l'intero arco della giornata, ma almeno ogni tanto si scambiavano qualche messaggio.

Ma quelle ultime giornate erano passate talmente in fretta, tra la febbre e tutto il resto, che quando un "guarda qui" del suo migliore amico gli fece vibrare il cellulare, ci mise qualche momento a realizzare chi fosse.

Il messaggio, quando sbloccò lo schermo, era seguito dall'immagine di un piatto di tonkatsu fumante. La faccia soddisfatta di Ranmaru faceva capolino nella foto, le dita alzate nel segno della vittoria. Il telefono vibrò di nuovo "guarda che meraviglia che ho preparato".

Mentre Masaki ridacchiava e rispondeva con un "secondo me l'hai fatto fare al ristorante e lo spacci per tuo", vide con la coda dell'occhio Atsushi sedersi di fronte a lui al tavolo della cucina.

-Kirino?- domandò, poggiando il viso sul palmo della mano, un piccolo sorriso ad increspargli le labbra. Nonostante anche lui conoscesse Ranmaru da anni, ancora lo chiamava per cognome.

Masaki annuì con un basso "mh-mh" senza alzare lo sguardo dal cellulare. Si vergognava a guardare Atsushi negli occhi, dopo il giorno prima. Si vergognava di se stesso talmente che gli bruciava lo stomaco. Era sempre stato consapevole, in quei giorni, di star tenendo un atteggiamento penoso, di essere patetico. Ma ora, per la prima volta, si rendeva conto che si stava comportando in quel modo di fronte a una delle poche persone che mai avrebbe voluto lo vedessero in quelle condizioni. Da quando Atsushi era tornato, si sentiva spezzato in due, perennemente. La sua vita era diventata un binomio di contraddizioni. Voleva trattenere Atsushi con ogni mezzo possibile e questo lo spingeva a comportarsi in modo pietoso, eppure allo stesso tempo voleva dimostrargli che con lui e solo con lui poteva essere la versione migliore di se stesso; voleva morire, immediatamente, smettere di pensare alle assurdità della propria vita e allo stesso tempo intendeva attaccarsi a quella stessa vita quel tanto che bastava per non deludere la persona che amava; e infatti lo amava, lo amava da morire, ma sentiva anche di odiarlo per aver sconvolto la sua esistenza tre volte: avendogli regalato amore prima, morendo poi e tornando indietro infine. E lo odiava anche perché ogni cosa ormai era confusa ed aggrovigliata, e Masaki non riusciva a capire nemmeno sforzandosi quale filo andasse tirato per sciogliere la matassa. I primi giorni dal ritorno di Atsushi le proprie intenzioni gli erano sembrate chiare come non mai: godersi quei venticinque giorni, quel miracolo che gli era stato concesso, e una volta terminati tornare ad aspettare la morte, niente di più semplice. Ora invece, non lo sapeva più. Non capiva se fosse la vicinanza di Atsushi a farlo vacillare, o se effettivamente il suo metodo stesse funzionando. Voleva credere di no. Si sentiva in colpa al solo pensiero di poter andare avanti senza di lui.

Ignaro del suo turbamento, Atsushi si sporse per guardare la foto che Ranmaru aveva inviato. Masaki gli lanciò uno sguardo basso, studiandolo. Cosa stava pensando? I suoi occhi di due colori non gli dicevano nulla.

Inaspettatamente, Atsushi sorrise appena, alzò  il viso e gli avvicinò di nuovo il cellulare -Stai parlando con i tuoi genitori?- chiese, guardandolo -Non ti ho sentito più chiamarli.- aggiunse, come per rimproverarlo, anche se sul suo viso non si scorgeva traccia di rabbia.

Masaki arricciò il naso, indispettito. Annuì -Si, ci sentiamo per messaggio. Hiroto mi scrive tutti i giorni.- raddrizzò le spalle nel dirlo, come se aver contraddetto Atsushi lo rendesse particolarmente orgoglioso. Si aspettò che l'altro ridesse, o gli facesse i complimenti, ma invece rimase in silenzio per un po', pensieroso.

Cadde il silenzio, che venne interrotto per un attimo dal ding del cellulare di Masaki. "Non ti preoccupare, quando verrai a casa lo vedrai preparare dal vivo e dovrai inchinarti alla mia superiorità in cucina ;^)", recitava la risposta di Ranmaru. A Masaki sfuggì uno sbuffo divertito.

-Hai pensato ad incontrare i tuoi genitori?- finalmente, Atsushi formulò a voce i propri pensieri. Si scostò lentamente dietro l’orecchio il ciuffo di capelli che gli ricadeva sull'occhio destro, come se fissare Masaki con entrambi gli occhi potesse metterlo più in soggezione.

-No.- fu la risposta secca.

-Non ci hai pensato o non vuoi incontrarli?- insisté, inarcando un sopracciglio. Teneva le braccia poggiate sul tavolo, rilassato. A Masaki ricordò di quella volta che avevano litigato per una stupidaggine e dopo una giornata di silenzio Atsushi si era seduto di fronte a lui e lo aveva obbligato a parlare. Non alzava mai la voce, Atsushi, quando discutevano.

Scrollò le spalle, le sopracciglia aggrottate per il nervosismo -Entrambe. Non voglio vedere nessuno, te l'ho detto.- replicò, gli occhi bassi.

-Però con me ci stai.

-Non c'entra nulla.

-Che significa?

-Tu sei un caso a parte.

Atsushi sospirò forte -Si, in effetti hai ragione. Sono un caso a parte perché sono morto e—

-Non lo dire.- sbottò Masaki, la voce forse un po' troppo alta. Il più grande rilassò le spalle e sospirò di nuovo -Perché sono morto e non dovrei nemmeno essere qui.- riprese la parola -Non valgo come persona con cui passare il tempo, Masaki. Lo sai che devi vedere qualcun altro. Così non ricomincerai mai a vivere.- concluse, e socchiuse gli occhi. Masaki riuscì a sostenere il suo sguardo solo per qualche secondo, poi abbassò di nuovo il  proprio, il sapore di bile in gola.

-Non voglio parlarne.- fu la sua debole replica. Troppe volte ne avevano discusso, non ce la faceva ad affrontare l'argomento ancora una volta.

Ma Atsushi non lo stava ascoltando -Non ti mancano?- gli chiese.

Masaki alzò il viso di scatto, preso in contropiede. -Certo che mi mancano.- si lasciò sfuggire con un singulto. Si sentì, in un angolo remoto del suo cervello, profondamente offeso da quella insinuazione. Fece per aggiungere altro, ma venne interrotto da un -E allora perché non vuoi vederli?

Ancora, cadde il silenzio.

Perché non voleva vederli? Era una bella domanda. A Masaki venne da ridere. Non voleva vederli perché aveva paura. Cosa dire loro, come affrontarli? Cosa avrebbe dovuto raccontare? Come avrebbe potuto parlare del suo dolore?

E poi, se ne avesse parlato con loro, se vedendoli si fosse reso conto che allora valeva la pena vivere, come avrebbe fatto? In qualsiasi modo mettesse la cosa, il pensiero di infliggere ad Atsushi un torto simile gli toglieva il respiro. Non valeva la pena vivere senza di lui. Non ne valeva la pena. Giusto?

Come se gli avesse letto nel pensiero, Atsushi tornò a parlare -Se lo fai per me, stai facendo una cosa stupida.- riprese, piano -Non devi nulla a me. Non esisto più. E poi, che tu vada avanti è quello che voglio. Sono qui per questo.- ci fu una pausa, durante la quale Masaki sentì montare irrefrenabile la rabbia. Come poteva dire una cosa del genere? Ma si esaurì in un soffio -Il mio ultimo desiderio prima di andarmene. Non significa nulla per te?- mormorò Atsushi, lentamente. Si guardarono.

A Masaki venne improvvisamente da piangere. Diviso in due, ecco come lo faceva sentire. Voleva essere egoista, lo voleva con tutto il cuore. Ma poteva negare alla persona che amava l'unica cosa che desiderava prima di lasciarlo per sempre?

Strinse i pugni -… Non voglio vederli. Non ce la faccio.- mormorò. Non lo guardava più. Si vergognava enormemente di se stesso. Non poteva guardarlo.

Sussultò però quando la mano di Atsushi si posò sulla sua e la strinse forte -Va bene se non ce la fai. È normale.- sospirò ancora, ma stavolta Masaki percepì apprensione nel suo tono -Però non negartelo, Masaki, ti scongiuro. Sono qui per aiutarti. Ti puoi appoggiare a me. Ma devi voler andare avanti, o il mio contributo sarà del tutto inutile.

Masaki voleva scostare la mano, ma non ce la fece -Non adesso. Per favore.- mugolò. Un altro ding dal cellulare.

La stretta di Atsushi si strinse di nuovo per un attimo solo -Ci penserai, almeno?- domandò.

Masaki trattenne il fiato -… Ci penserò.- replicò.

E mentre Atsushi scostava la mano, non seppe dire se avesse mentito o meno.

 

 

-Giorno 14-

 

Alla fine ci aveva pensato sul serio.

Quella notte aveva dormito poco, rigirandosi nel letto per riflettere sulle parole di Atsushi e su come si sentiva al riguardo. Aveva pensato ai suoi genitori, a Hiroto e Ryuuji che vivevano in un'altra città a poco meno di un’ora di treno da Tokyo e da lui. Come dovevano sentirsi, loro, riguardo tutta quella storia? Sicuramente stavano morendo di preoccupazione, e Masaki non avrebbe voluto questo. Come dovevano sentirsi, a crederlo sull'orlo del suicidio? si era chiesto poi. Si era rannicchiato sotto le coperte senza fiato quando aveva infine constatato quanto anche per loro dovesse essere doloroso.

Aveva pensato anche a Ranmaru. Al modo in cui il suo migliore amico lo stava supportando con discrezione, lasciandogli i suoi spazi e senza insistere. Si era persino azzardato a chiedersi come stessero i suoi vecchi compagni della squadra di calcio. Non li aveva più visti dopo il funerale, ed anche prima non è che avessero modo di incontrarsi spesso; molti di loro gli avevano lasciato dei messaggi che non aveva ancora avuto il coraggio di leggere. Aveva sentito lo stomaco stringersi di malinconia nel ricordarsi ad uno ad uno i volti dei suoi amici. Suoi e di Atsushi. Chissà come stavano Norihito, Tsukasa, Hakuryuu, i migliori amici di Atsushi. L'ultima immagine che aveva di loro erano volti rigati di lacrime. Ma era tutto molto vago, perché anche lui stava piangendo in quel momento e aveva visto e vissuto tutto come in un sogno, tremolante e sfocato. Nemmeno lo ricordava bene. Per quanto si sforzasse, tutto gli sembrava indistinto ed incerto. Come era arrivato? Chi lo aveva portato? Quella mattina era riuscito a vestirsi da solo, davvero? Quanto era durata la cerimonia?

Poi aveva pensato ad Atsushi. Per la prima volta in due settimane, si era obbligato a prendere sul serio il motivo per cui era tornato.

Il mio ultimo desiderio prima di andarmene. Non significa nulla per te?, gli aveva detto con una semplicità disarmante. In parte, Masaki se ne sentiva ferito. Puntava forse a farlo sentire in colpa? Era quella la sua tattica? Eppure sapeva che la preoccupazione di Atsushi fosse genuina. Ed era forse proprio per questo che non riusciva ad accettare il nuovo ruolo che aveva assunto nella sua vita. Non voleva passare del tempo in più, seppur poco, con lui? Non valutava il loro legame tanto quanto faceva lui, che avrebbe preferito morire piuttosto che non averlo accanto?

Cazzo, aveva pensato poi a un certo punto, come colto da un'improvvisa illuminazione, sono proprio un cazzo di egoista.

Erano tutte scuse sterili, le sue, vero? Voleva morire per amore di Atsushi o perché aveva paura di vivere senza di lui? Quale delle due era quella giusta? Forse entrambe. Forse era semplicemente un vigliacco.

Ma quella notte non aveva trovato una risposta alle proprie domande.

Era scivolato nel sonno proprio al culmine del ragionamento.

E dal sonno era caduto nel solito incubo –quello della casa nuova da comprare.

Ma questa volta si trovava in casa sua, quella dove aveva sempre vissuto. Non sapeva dire come facesse ad essere lo stesso sogno, eppure ne era certo. Non c'era Atsushi, né Ranmaru, né nessun altro a parte lui. Era da solo.

Girovagava per le stanze confuso. In cucina, sul frigo, era attaccato un bigliettino "l'appuntamento con l'arredatore è alle 15:00, non fare tardi". Andò alla porta, perché, secondo lo strano scorrere del tempo nei sogni, dovevano essere quasi le tre e doveva uscire. Eppure la porta non si apriva, per quanto provasse. Tirava, spingeva, la prendeva a calci, e quella seguitava a non aprirsi. Fu colto dal panico e corse di nuovo in cucina, ma era stranamente tutto buio. La portafinestra che dava sul balconcino sul quale si affacciava la stanza era completamente murata. Affannato, corse nelle altre camere. Tutte le finestre erano svanite o erano bloccate e non riusciva ad aprirle. Quando ripassò per il soggiorno, la porta d'ingresso era scomparsa. Gridò, ma nessuno gli rispose. Il telefono non funzionava, non trovava il cellulare. Corse a rifugiarsi in camera sua. Lì la finestra era bloccata da semplici assi di legno, uno spiraglio di luce addirittura sfuggiva al loro muro e disegnava una linea sottile nel buio. Ma quella finestra dava troppo in alto, sarebbe morto uscendo da lì, non ce l'avrebbe fatta. Si rannicchiò su se stesso, gli occhi a quell'unico spiraglio di luce.

Poi, improvviso, dall'esterno udì una sgommata e un forte schianto, come di una macchina che sbanda e colpisce qualcosa.

Affondò la testa nelle ginocchia e cominciò a piangere, ora nel buio più assoluto.

 

Gridava ancor prima di svegliarsi.

La prima cosa che cercò con gli occhi non appena li aprì fu lo spiraglio di luce che passava dalle tapparelle quando era Atsushi a chiuderle. Lo trovò e, semiseduto, ci si aggrappò per calmarsi.

Aveva chiuso lui le finestre la sera prima. Senza rendersene conto le aveva chiuse come era solito chiuderle Atsushi. Non riuscì a sentirsi stupido per questo.

Un lieve bussare alla porta lo distolse dai suoi pensieri -… Entra.- concesse, la gola secca mentre scostava lentamente le coperte. Si sentiva come se stesse nuotando in un mare di gelatina, aveva tutto il corpo indolenzito. Rabbrividì. Faceva freddo.

Il capo di Atsushi fece capolino dalla porta -… Stai bene?- domandò, le sopracciglia aggrottate. Masaki aveva notato che ogni volta che cercava di non mostrarsi troppo preoccupato per lui (probabilmente per non dargli illusioni o qualche stupidaggine del genere) aggrottava le sopracciglia così tanto che quasi gli si toccavano al centro della fronte -Ti ho sentito gridare.- aggiunse, e si permise di aprire un poco di più la porta, poggiando tutto il peso del proprio corpo sullo stipite.

Masaki aprì la bocca un paio di volte per rispondergli, il ricordo del sogno ancora vivido e impresso nella mente. Non poteva parlargliene, non voleva. Inclinò il capo, ormai in piedi di fianco al letto, e allargò le braccia -Cucino io, oggi.- disse solo, stupendosi lui per primo.

L'espressione di Atsushi mutò in un attimo e un grande sorriso gli comparve in viso.

Era la prima volta dal suo arrivo che Masaki prendeva un'iniziativa.

 

Quindi Masaki preparò la colazione, quella mattina.

Niente di speciale, del caffè e qualche fetta di pane tostato, però ci riuscì senza far esplodere niente.

Non sapeva cosa lo spingesse a comportarsi così. Forse le parole del più grande del giorno prima, oppure quel briciolo di orgoglio che gli era rimasto. Ma l'idea del proprio egoismo gli dava tutto insieme il voltastomaco, quindi provare non gli sarebbe costato nulla. E comunque non significava niente. Non aveva cambiato idea. O meglio, non era riuscito ancora a sbrogliare la matassa della propria confusione, quindi il significato dei suoi gesti non era chiaro a lui per primo. Ma, a quel punto, tanto valeva dare ad Atsushi questa mezza soddisfazione.

Atsushi era talmente entusiasta che bevve il caffè e mangiò una fetta di pane con burro e marmellata anche se non ne aveva bisogno. Il pane era un po' troppo bruciacchiato, ma comunque lo addentava con talmente tanto gusto che Masaki si perse a guardarlo e dimenticò si mangiare la propria parte.

-Non ci posso credere, è la prima volta che riesco a mangiare qualcosa preparato da te senza rischiare un'intossicazione alimentare!- esclamò Atsushi una volta finito, poi arricciò il naso -Cioè, non che ora possa averne una, ma comunque!- e si allungò a prendere un'altra fetta di pane, prendendo a spalmarci sopra del burro.

Masaki non sapeva se sentirsi lusingato o offeso dalle parole del suo senpai, ma per piacere personale decise di considerarle un complimento -Grazie.- borbottò, e sentì le guance farsi calde. Doveva essere arrossito un bel po', constatò, anche perché Atsushi lo stava fissando, adesso.

Tirò forte su con il naso, lanciandogli un'occhiata di soppiatto -Mmh, Atsushi.- balbettò, cercando di non concentrarsi troppo sul proprio interlocutore. Gli occhi bassi, si indicò il viso all'altezza dell'angolo delle labbra, schiarendosi la voce.

Cadde uno strano silenzio imbarazzato, durante il quale Atsushi strabuzzò gli occhi e per poco non si strozzò con la sua fetta di pane (anche se, chiaramente, non avrebbe potuto davvero strozzarsi). Tossì, forte -Eh?- domandò, le guance improvvisamente tinte di rosso.

Masaki sussultò. Avrebbe voluto gridare "ma che cavolo ti arrossisci adesso?" e tirargli il pane rimasto per nascondere l’imbarazzo che improvvisamente sen  tiva coglierlo, ma più lo guardava e più sentiva lo stomaco svuotarsi, per non parlare del fatto che lì sotto… raddrizzò la schiena di scatto -Sei sporco di marmellata qui, Atsushi!- sbottò, tornando ad indicarsi il viso. Poi tornò con gli occhi al proprio caffè e si sforzò di concentrarsi su quello. Aveva paura gli fumassero le orecchie per quanto gli bruciavano.

-… Eh?- fu l'intelligente risposta di Atsushi, che si passò un dito all'angolo delle labbra per constatare le parole dell'altro. Strinse le labbra e tirò su con il naso a sua volta, pulendosi con un tovagliolo -Ah. Grazie. Ah.- e gli sfuggì una risatina nervosa. Masaki lo guardò di traverso. Cosa aveva da ridere? -E io che pensavo…- lo vide socchiudere gli occhi e sorridere appena.

-Pensavi…?- lo incalzò Masaki, interdetto. Finì di bere il suo caffè d’un sorso.

-Nulla, nulla.- rise piano Atsushi, quindi si alzò -Su, è già tardi. È proprio ora di uscire, che dici? Grazie per la colazione.

 

Constatando che la porta di casa non fosse sparita nottetempo come nel proprio sogno, Masaki si sentì sollevato quando finalmente uscirono di casa.

Dovevano (doveva) comprare qualcosa per pranzo e del detersivo per la lavatrice.

Inspirò a pieni polmoni l'aria fresca di fine inverno e gli venne un poco da sorridere, così, senza un motivo.

-Hai pensato a cosa fare con i tuoi genitori?- domandò ad un certo punto Atsushi, le mani affondate nel cappotto e il viso seminascosto nello scalda collo. Masaki gliene aveva prestato uno dei suoi, e gli stava un po’ largo.

Masaki scrollò le spalle -Ci sto pensando. Ho… bisogno di un po' di tempo.- ci fu un momento di pausa. Poi alzò le braccia e gesticolò -Ma ci sto pensando. Davvero.

Atsushi fece riemergere il viso dalla spessa lana dello scalda collo e gli sorrise. Masaki sentì le gambe farsi molli mentre il più grande gli poggiava una mano sulla spalla -Ci credo, Masaki.

 

 

-Giorno 15-

 

Sulla scia del proprio successo in cucina del giorno prima (era riuscito a preparare del riso con delle verdure come contorno, per cena, e ne era orgogliosissimo), Masaki aveva cucinato anche il pranzo, quel giorno. Atsushi aveva dovuto aiutarlo due o tre volte per evitare che si affettasse un dito o che facesse saltare in aria casa aprendo il gas sul fornello sbagliato.

Ancora riso, ma questa volta era riuscito ad aggiungere un po' di carne. Non era proprio buono, ma perlomeno era commestibile.

Atsushi aveva preso ad assaggiare tutto quello che cucinava, per curiosità, supponeva Masaki. Quando il suo senpai si sistemava vicino a lui e lo osservava trafficare ai fornelli tutto tornava per una mezz'ora a come era stato prima, e Masaki era grato per quei momenti di intimità. Non appena finiva di cucinare e di mangiare, però, veniva assalito da un forte senso di malinconia. Talmente forte che a volte gli dava la nausea.

Sorprendentemente, però, in quei momenti raramente il dolore faceva capolino tra i suoi pensieri. La vicinanza di Atsushi lo era ancora, dolorosa, indubbiamente. Però c'erano volte in cui tutto era stemperato dalla nostalgia, e Masaki non sapeva davvero spiegarsi cosa potesse significare. Lo atterriva il solo pensiero che potesse accettare la sua situazione così com'era: lui, privato della presenza di Atsushi, per il resto della propria vita.

Quel pomeriggio, dopo aver oziato un po' per casa e aver provato a leggere un libro senza successo, Atsushi gli aveva proposto di uscire di nuovo. Masaki aveva declinato, perché dal giorno prima continuava a sentirsi indolenzito un po' ovunque e non se la sentiva particolarmente; "Però possiamo uscire domani, tutto il giorno, a farci una passeggiata" aveva proposto, e Atsushi ne era stato entusiasta.

Durante le ore successive, mentre il più grande se ne stava sdraiato sul divano a leggere l'ennesima raccolta di poesie, Masaki aveva deciso di ammazzare il tempo sistemando la loro camera. Aveva aperto tutte le finestre per far entrare un po' d'aria e aveva anche ritirato i panni che aveva messo a fare quella mattina. Li aveva stesi con ordine e poi era passato al salotto. Atsushi lo aveva osservato in silenzio tutto il tempo. Non avevano parlato molto, però l'atmosfera, tra di loro, era nettamente migliorata. Durante il primo pomeriggio, Masaki si era sentito trascinato indietro nel tempo, in un silenzio intimo e condiviso con la persona che amava che tanto gli era mancato. Aveva cercato di immergercisi con tutto se stesso, il più possibile.

Stava sistemando qualche libro sugli scaffali dei mobili del salotto quando Atsushi ruppe il silenzio idilliaco con un -Ho un'idea.

Non prometteva proprio nulla di buono, questa idea, ma Masaki si voltò comunque a guardarlo con aria interrogativa. Atsushi si alzò e lo raggiunse vicino al mobile della televisione, alzandosi sulle punte per prendere qualcosa. Non era mai stato particolarmente alto, quindi dovette saltellare due o tre volte per riuscire ad afferrare quello che gli serviva da entro uno degli sportelli bianchi. Masaki aggrottò le sopracciglia quando gli vennero mostrati tre grandi album colorati -… Che cosa vuoi fare?- domandò, incerto, anche se le intenzioni del suo senpai gli erano ormai abbastanza chiare.

-Credo che ti farebbe bene rivedere qualche vecchia foto.- convinto, Atsushi tornò al divano, sedendosi a gambe incrociate e poggiandosi gli album in grembo. Poi battè la mano un paio di volte sul cuscino di fianco a sé per invitare Masaki a sistemarsi di fianco a lui.

Masaki, la bocca aperta in una replica che non arrivava, alla fine si arrese e lo raggiunse. Dopo aver cercato senza successo una posizione comoda, indico gli album -Non credo di essere pronto per questa cosa.- ammise, sinceramente. Guardare foto di lui e di Atsushi quando ancora la loro vita era normale e felice non gli avrebbe messo addosso altro che tristezza. E dolore. Non poteva sopportare una cosa del genere.

Gli venne in mente che era curioso come, nonostante Atsushi fosse lì con lui, spesso gli riuscisse difficile fare finta di nulla. Il passato e il presente erano inevitabilmente divisi dal terribile muro della sua morte e lui non riusciva a fare nulla per sistemare le cose nemmeno adesso che il suo senpai era di fianco a lui.

-Io credo invece che tu debba cominciare ad affrontare questa cosa più direttamente.- lo contraddisse Atsushi, aprendo con cura il primo album. Aveva la copertina azzurra, di cartone, ed era parecchio rovinata sui bordi -Va bene uscire, va bene ricominciare ad occuparsi di te stesso e della casa e va bene anche sentire di nuovo i tuoi amici e la tua famiglia.- e qui, gli lanciò uno sguardo significativo. Masaki schiuse le labbra, senza parole. Senza rendersene conto, in due settimane la sua situazione era veramente cambiata. Volente o nolente, aveva fatto dei progressi. Ancora una volta, non sapeva come sentirsi al riguardo. Mentre rimuginava, assorto, Atsushi riprese a parlare -Ma devi cominciare anche a…- cercò le parole con cura -staccarti, da me.- mormorò, le mani immobili sulla prima pagina dell'album. Era vuota. Lasciavano sempre la prima pagina vuota, senza un motivo particolare.

Masaki rabbrividì e istintivamente si allontanò da lui -Cosa stai dicendo?- soffiò forte dal naso come un gatto, preso in contropiede. Le parole di Atsushi lo avevano colpito come uno schiaffo in pieno viso.

Ma lui non si scompose e scosse il capo -Non fraintendermi, Masaki.- lo guardò, dritto negli occhi, e fece male per un momento -Non dico che tu debba dimenticarmi…

-Non posso dimenticarti.

-Dico solo che, piano, senza fretta, devi cominciare a renderti conto che non posso più essere una parte fondamentale della tua vita.- inclinò il capo. Masaki non riusciva a scorgergli il viso da quella posizione. Ogni cosa che diceva era come un ago infilato nella carne, un dolore lieve ma continuo, fastidioso.

-Non puoi non esserlo, Atsushi. Non mi prendere in giro…- sentiva le lacrime pungergli gli occhi. In fondo, quegli ultimi due giorni di pace erano stati solo un'illusione, giusto? Atsushi programmava di abbandonarlo sin dall'inizio. Il pensiero gli fece girare la testa.

-Masaki, quando me ne andrò, non lo sarò più. È un dato di fatto, lo capisci questo?- spiegò pacatamente Atsushi, ed allungò una mano verso quella inerme di Masaki, che non riuscì a scansarlo. Si odiò per aver bisogno di quella mano anche nel momento in cui era colui che la possedeva a fargli del male -Non l'ho voluto io e non lo vuoi tu, ma sarà così. E devi cominciare a fare tua la nuova situazione in cui ti troverai.- continuò, paziente.

Adesso Masaki piangeva in silenzio. -Non voglio.- mormorò, singhiozzando una sola volta. Strinse forte la mano di Atsushi, e inaspettatamente, lui ricambiò la stretta. Sembrava volesse dire qualcosa, ma non diede voce ai suoi pensieri. Si sporse solo appena verso di lui -Ti puoi aggrappare a me adesso, però.- disse, continuando a guardarlo. Nei suoi occhi di due colori Masaki scorgeva forse per la prima volta una profonda tristezza -Finché sono qui, puoi fare affidamento sul mio aiuto. Posso accompagnarti in questa cosa.- scosse la testa -Forse non dovrei essere io, a farti capire che senza di me puoi andare avanti- e rise appena, come a dire "com'è ironico il destino!" -ma così è e voglio fare tutto quello che posso. Non sei da solo.- gli assicurò.

-Ma quando te ne andrai…- il pianto di Masaki adesso era interrotto da forti singhiozzi. Inerme, si portò la mano libera al viso e soffocò come poteva le lacrime, inutilmente.

Poggiando gli album di fotografie sul bracciolo del divano di fianco a lui, Atsushi gli si fece vicino e gli scostò quasi con timore i capelli dal viso -Non sarai solo.- riprese -Anche adesso, non hai solo me.- prese fiato come se gli costasse enorme fatica pronunciare le parole che seguirono -Non sono la sola persona presente nella tua vita. È un'altra cosa che devi capire.- si lasciò sfuggire un "mh?" mentre cercava contatto visivo con Masaki, che continuava a piangere, incapace di dare voce ai proprio pensieri e alla propria confusione. Odiava che il discorso di Atsushi avesse senso, lo odiava. Razionalmente, era molto semplice da capire. Ma non era mai stata una questione di ragione. Era da quando era arrivato che il problema si era concentrato solo ed unicamente in questo: la sua effettiva capacità di sopravvivere alla perdita di Atsushi -Non sono in grado.- ammise, scuotendo forte la testa -Non sono in grado per niente.

-Invece lo sei. Guarda quanta strada hai fatto in due settimane.

-È perché ci sei tu, Atsushi. Quando… quando te ne andrai…- non riusciva a parlare. Si strinse su se stesso più che poteva, come a cercare di trattenere il dolore. E allora Atsushi schioccò la lingua, in un gesto così familiare ma estraneo a quel contesto che Masaki per un momento smise di singhiozzare. Piano, come per paura di romperlo, Atsushi sciolse la presa con la sua mano e gli circondò le spalle con le braccia, in un abbraccio che per la prima volta non sembrava né forzato né goffo. Lo sospinse con delicatezza verso il proprio petto, lasciandolo senza fiato. Masaki rimase atterrito da quanto caldo il suo senpai fosse.

-Quando me ne andrò starai male, Masaki. Non potrai non stare male.- e come se stesse parlando di caramelle, rise appena -Mi dispiace che, qualunque cosa riuscirai a fare mentre sono ancora qui, poi soffrirai comunque. Ma evitarti di soffrire del tutto è fuori dalle mie capacità.- poggiò il mento sul capo del più piccolo, che aveva ripreso a piangere senza rendersene conto -Ma so che sarai in grado di affrontare la tua vita senza di me. Perché, diciamocelo, fino ad ora sei stato davvero un disastro.- e rise ancora. Masaki si ritrovò a ridere senza motivo in mezzo alle lacrime. Si strinse ad Atsushi, in cerca di conforto. Inaspettatamente, stupendosi di se stesso, stava chiedendo conforto ad Atsushi. Non lo aveva mai nemmeno sfiorato l'idea di affidarsi a lui, in quei giorni. Non ce n'era stato motivo, perché motivo non c'era di vivere oltre lui. Eppure, se ora ne cercava il conforto, cosa poteva significare? Se cercava consolazione per la sua perdita, non era forse perché voleva trovare sollievo, voleva stare meglio? E per cosa si poteva voler stare meglio se non per continuare a vivere? Possibile che Atsushi avesse sempre avuto ragione?

-Lo so, sai, che fino ad ora non mi hai mai preso sul serio.- continuava intanto il più grande -Sono bello, ma questo non significa necessariamente che io sia stupido. Ti conosco come le mie tasche, Kariya Masaki.- prese ad accarezzargli i capelli con movimenti lenti, e sul capo di Masaki sostituì al mento la fronte. Masaki se lo poteva figurare benissimo, gli occhi chiusi mentre parlava a bassa voce. Gli si strinse il cuore -Ma vorrei che prendessi davvero in considerazione il motivo per cui sono qui. È proprio perché ti conosco che so che non è vero che vuoi arrenderti così. Devi vivere Masaki, devi vivere per te stesso.- le sue parole, identiche a quelle del sogno che turbava le notti di Masaki da giorni, ebbero un effetto calmante sul più piccolo, che con un sospiro tremolante smise di piangere.

Cadde il silenzio.

Rimasero abbracciati così per un tempo che parve infinito, ancora una volta un momento familiare ed estraneo al tempo stesso.

-… Masaki?- domandò ad un certo punto Atsushi, in un sussurro, come se volesse rivelargli un segreto. L'altro non rispose, e lui continuò -Masaki, vuoi davvero morire?

Ci fu una pausa -Non lo so più, Atsushi.- rispose infine e questa volta, era sincero.

-E allora, se non lo sai, puoi almeno provare?- sembrava di essere tornati a due giorni prima, quando gli aveva chiesto di pensare o meno ad incontrare i propri genitori.

Masaki sospirò forte, e si permise di affondare il viso nell'incavo del collo di Atsushi, gli occhi chiusi -Ci posso provare.- concesse -Ma non ti prometto nulla.- aggiunse.

Atsushi lo strinse appena di più e sorrise tra i suoi capelli -… È abbastanza.

 

Il primo album era un'insieme di foto che non avevano alcun legame l'una con l'altra. Era il primo che avevano fatto insieme, Masaki se lo ricordava bene. Il giorno in cui avevano attaccato le foto pioveva a dirotto, ma a lui era venuta davvero voglia di raccogliere insieme le loro fotografie e alla fine erano usciti a comprare l’album nonostante l'acquazzone. Tornati a casa avevano rovesciato la scatola piena di immagini sul pavimento del salotto e avevano scelto le più belle. Però non ricordavano di tutte la data precisa, quindi alla fine ne era uscito un libro di ricordi un po' mescolati tra loro. Però a Masaki era sempre piaciuto così, disordinato. In fondo non era la disposizione a determinare l'importanza dei loro ricordi, e trovava molto più stimolante riviverli in ordine sparso.

Per attaccare le foto al primo album ci avevano messo tre giorni, perché ogni volta ad entrambi tornavano alla memoria aneddoti e racconti collegati alle immagini e finivano a ridere come due cretini dimenticandosi del lavoro.

-Mi ricordo quando abbiamo scattato questa.- sussurrò Masaki, indicando un Atsushi terrorizzato che si aggrappava ad un pilastro -Eravamo alla Tokyo Tower e tu non volevi avvicinarti ai bordi perché eri spaventato a morte.- ricordò con un sospiro. Atsushi sbuffò forte -Senti, non te ne è mai fregato nulla della mia paura per le altezze! Hai anche finto di spingermi giù.- borbottò.

Masaki sorrise. Non sapeva perché, ma Atsushi non aveva fatto un fiato quando, una volta sciolto l'abbraccio e deciso di provare a guardare gli album, gli si era stretto vicino e aveva poggiato la testa sulla sua spalla. Ora, Atsushi gli circondava la vita con un braccio con tranquillità, come se aver chiarito (o almeno, aver tentato di chiarire) la situazione lo avesse messo più a suo agio. Oppure glielo stava concedendo per tirarlo un po' su di morale, non poteva saperlo. Lo sentiva ancora distaccato, nonostante il gesto familiare, ma non era per nulla male potergli stare di nuovo così vicino.

Guardarono molte foto quel pomeriggio. Di quando erano andati ad Osaka per il capodanno, o di quella volta che erano stati a Venezia, in Italia, e si erano persi per i vicoli della città come due imbecilli. C'erano foto di pranzi con gli amici, della festa di carnevale di un paio di anni prima, quando si erano vestiti da sale e pepe e tutti li avevano presi in giro. Il secondo album era disordinato come il primo, ma le foto riportavano date, luoghi ed anche qualche commento. In una, "Atsushi piange. Che bambino!", il più grande era in lacrime dopo l’ennesima visione del Titanic. Datata a luglio dell'anno prima, Masaki era vicino al telescopio del planetario e alzava i pollici in segno di vittoria: "attenzione al nerd delle stelle!". In un’altra ancora erano presenti entrambi, seminudi e aggrovigliati nelle coperte che dormivano come due bambini: "Tsukasa non si fa i fatti suoi e ci tiene a fotografarci. Grazie, Tsukasa" risalente ad un viaggio di tre giorni e due notti che avevano fatto in montagna. Masaki aveva cominciato a piangere da un bel pezzo quando arrivarono ad una foto dove erano presenti anche la sua famiglia e quella di Atsushi "Il matrimonio di Miura e Maki. Che gentili ad aver invitato anche la famiglia Minamisawa!". Tutti guardavano in camera e sorridevano. Masaki mugolò ed allungò una mano verso i propri genitori. Hiroto ammiccava come un cretino, i capelli rossi striati di grigio e la montatura degli occhiali storta; Ryuuji sorrideva candidamente e poggiava una mano sulla sua spalla, il completo elegante e i capelli lunghi raccolti in una coda. Le dita di Masaki si mossero verso la famiglia di Atsushi, piano -Ti mancano?- domandò in un soffio, disegnando il contorno della signora Minamisawa, una bella donna sui cinquant'anni dal viso un po’ allungato e gli occhi sorridenti, gli ondulati capelli scuri tirati su in un elegante chignon.

-Non sai quanto.- ammise Atsushi, che a sua volta passò la mano sull'immagine, assorto -Ma loro non mi è concesso di vederli.- sospirò -Ci sarebbero tante cose che avrei voluto dire loro, ma non ne ho avuto il tempo.- abbassò gli occhi.

Nel silenzio, Masaki tirò su con il naso. Si allungò a prendere l'ennesimo fazzoletto (Atsushi, previdente, ne aveva presi un paio di pacchetti) e se lo soffiò. Poi, di malavoglia, si scostò da Atsushi. Senza guardarlo, stese le gambe, stiracchiandosi -Sai,- cominciò, scostandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio -ci ho pensato.- continuò, ed Atsushi si voltò verso di lui guardandolo curioso -Ai miei genitori.- sospirò Masaki, scrollando le spalle -In fondo, che io voglia morire o meno è indifferente, dovrò pur vederli prima di prendere la mia decisione, giusto?- borbottò, fissandosi i piedi.

Atsushi rise, una risata genuina e leggera -Ma smettila! Che vuoi dire?- gli domandò con un sorriso. Sembrava un po’ malinconico.

L'altro si morse il labbro e ci pensò ancora una volta. Atsushi era morto e non avrebbe mai potuto dire ai suoi genitori quello che pensava o come si sentiva. Lui, nonostante tutto, aveva ancora quella possibilità. Hiroto e Ryuuji erano due delle persone più importanti nella sua vita e, a fronte della decisione di provare che aveva preso poco prima, non poteva permettersi di lasciarli all'oscuro sul percorso che, volente o nolente, aveva intrapreso. Non si sentiva in grado di incontrarli, aveva paura e sapeva che molte cose sarebbero potute andare male -Mi devi promettere che mi starai vicino, però.- pose, guardando il più grande di soppiatto, le labbra strette.

-Sai che sarà così.- gli assicurò Atsushi, socchiudendo gli occhi ed allargando il sorriso.

Masaki prese fiato e alzò lo sguardo al soffitto -… Pensavo di invitarli a cena.- ammise, scrollando le spalle.

Atsushi non rispose niente. Battè le mani e, entusiasta, lo prese per le guance e gli schioccò un bacio in fronte.

 

 

-Giorno 16-

 

Ryuuji per poco non si era messo a piangere quando Masaki lo aveva invitato a cena. -Mi dispiace per il poco preavviso…- aveva detto ai suoi genitori al telefono, ma loro gli avevano risposto che non c'era veramente alcun problema. Sarebbero venuti in macchina, quindi era tutto a posto.

-Sono contento di sentirti, Masaki.- in effetti non aveva ancora parlato a voce con Ryuuji, aveva ricordato -Come vanno… le cose?- aveva chiesto. Masaki si era tenuto sul vago, ma gli aveva assicurato che stava uscendo e che stava cercando di vivere alla giornata. Ryuuji aveva sospirato di sollievo.

-Senti, mh… papà.- aveva poi continuato Masaki -So che forse vi sembrerà strano, ma… c'è una persona che in questi giorni mi sta aiutando molto—

-Parli di Kirino?- la voce di Ryuuji aveva assunto la tipica sfumatura da interrogatorio del genitore apprensivo.

Anche se non poteva vederlo, Masaki aveva scosso la testa -No, è… una persona che ho conosciuto all'università, sai… quando ho fatto tirocinio.- mentire così spudoratamente ai suoi genitori lo faceva sentire tremendamente in colpa, ma non avrebbe potuto fare altrimenti. La risposta di Ryuuji fu un basso "mh-mh" di assenso. Continuò -Vorrei che… lo conosceste. Ovviamente la cena sarebbe solo tra di noi ma… vi dispiacerebbe se stesse in nostra compagnia durante la giornata?- aveva chiesto tutto d'un fiato.

Ryuuji era rimasto in silenzio qualche secondo, poi aveva sospirato ancora di sollievo -Ed io che mi preoccupavo. Certo, non c'è alcun problema, Masaki. L'importante è vederti.- c'era stata una pausa -Ci manchi tanto.

Masaki aveva sorriso alla cornetta -Mi mancate tanto anche voi.

E così si erano messi d'accordo per due giorni dopo.

Masaki era andato a letto stranamente euforico, ma durante la notte aveva avuto ancora il solito incubo: imprigionato dentro casa sua, senza alcuna via d'uscita.

Si svegliò turbato, e turbato uscì dalla propria stanza per andare a preparare la colazione. Erano solo due giorni che ci pensava da solo, eppure era già diventato un gesto automatico. Era fiero di se stesso e insieme un po' triste al riguardo.

-Cosa prepari questa mattina?- domandò Atsushi, comparendo alla porta.

Masaki sussultò, il disagio del sogno ancora addosso, e si voltò a guardarlo -Ah?!- si lasciò sfuggire. Poi si schiarì la voce -Mmh, niente di che. Non ho molta fame. Un po' di caffè.- ovviamente, visto che Atsushi era un perfezionista, aveva tenuto a comprare una macchinetta del caffè tradizionale invece che quella che andava a cialde. E Masaki combinava sempre pasticci quando cercava di mettere il caffè all'interno.

Mentre sorbiva il suo caffè, Atsushi si sedette di fronte a lui, aspettando.

-Pensavo di fare una passeggiata fino a pranzo e poi tornare a casa.- se ne uscì ad un certo punto Masaki, non dimenticando la promessa che aveva fatto il giorno prima. Atsushi annuì alle sue parole, quindi poggiò la guancia sul palmo della mano, guardandolo -Che ne dici di provare ad uscire un po' da solo, questo pomeriggio, poi?- e, all'espressione sconcertata che l'altro gli riservò, rise -E dai, non fare quella faccia. Ti sto sempre tra i piedi, forse ti farebbe bene. Sento che in questi giorni c'è qualcosa che ti turba.- si prese un momento per cercare le parole -Al di là della situazione in generale, intendo.- aggrottò le sopracciglia e continuò a fissarlo come se si aspettasse una confidenza.

Masaki si limitò a scrollare le spalle. In realtà, aveva pensato di parlare ad Atsushi dei suoi continui incubi, ma in un certo senso se ne vergognava. Irrazionalmente, era vero, ma non avrebbe saputo da dove cominciare -Non lo so. E se mi perdo?- domandò. La domanda aveva senso. Il suo senso dell'orientamento era pessimo, d'altronde.

Atsushi rise ancora -Dai, puoi passeggiare sotto casa. Non devi per forza allontanarti. È solo per vedere come va.

-Perché quando te ne andrai dovrò per forza passeggiare da solo?

-Detta così è un po' brutale.

Masaki sostenne lo sguardo che il più grande gli lanciò, quindi sospirò. Non avrebbe voluto perdere del tempo che poteva passare con Atsushi, però l'idea non gli sembrava del tutto malvagia -Si, credo si possa fare. Ma se mi perdo mi vieni a recuperare.- lo indicò, ammiccando con il mento.

-O puoi utilizzare il GPS del cellulare.- suggerì l'altro. Rise per la terza volta quando Masaki lo fulminò con lo sguardo -E va bene, concesso. Ti vengo a salvare io, se ti perdi.

 

Il cielo era sereno, quella mattina. Stretto nel suo sgargiante cappotto preferito, Masaki respirò l'aria pungente con piacere. In quegli ultimi giorni uscire di casa lo metteva sempre più a proprio agio, specialmente dopo i suoi incubi.

Per quanto riguardava la meta della loro passeggiata, si limitò a seguire Atsushi. Presero la metropolitana fino ad un certo punto, poi camminarono per circa un quarto d'ora. Non parlarono molto durante il tragitto, ma fu comunque gradevole.

-Dov'è che andiamo, di preciso?- domandò ad un certo punto il più piccolo, alzando il viso agli alti edifici che li circondavano. Dovevano essere a Shibuya, o almeno, così gli sembrava. Non era mai stato un quartiere che frequentasse molto. Atsushi scrollò le spalle -Non lo so, giriamo a caso.- replicò -Tanto Tokyo è grande, dovunque andiamo c'è qualcosa di nuovo da vedere, no?- e gli lanciò un'occhiata. Masaki lo guardò perso per un paio di secondi, poi scoppiò a ridere di gusto.

-Eh? Cosa c'è?- il più grande si strinse nella giacca, inclinando il capo interdetto.

-Lo sai, mi è sempre piaciuta questa cosa di te.- ammise Masaki, affiancandoglisi e facendo scontrare scherzoso le loro spalle -Non ho mai capito se lo fai per altruismo nei miei confronti perché mi perderei a prescindere, o se ti piace e basta.

Atsushi, dapprima preso in contropiede, si ritrovò a sorridere -Penso mi piacesse e basta.- ammise -Trovare te è stata una fortuna. Seguendoti potevo perdermi con facilità.- rise -Sai, dopo un po' che sei a Tokyo, ti abitui alle strade e tutto diventa più familiare, se sei una persona normale, e perdersi diventa più difficile.- spiegò, senza guardarlo.

Senza rendersene conto, Masaki arrossì. Lo stomaco gli si era completamente svuotato ed ora era annodato in una piacevole stretta. Avrebbe voluto allungare la mano ed afferrare forte quella di Atsushi. Invece, riuscì a replicare solo con un debole -Ehi, mi stai prendendo in giro?!- a cui l'altro rispose con un ghignetto. Ricevette un'altra spallata, più forte, come risposta.

Parlarono del più e del meno per l'ora che seguì, camminando totalmente a caso. Presero poi di nuovo la metropolitana e scesero alla stazione di Shinjuku, quella dove scendeva Masaki quando tornava dalle sue visite ad Inazuma-Cho.

La stazione gli era così familiare, anche se era da mesi che non ci metteva piede.

-Scendono qui i tuoi genitori, domani?- chiese Atsushi mentre passavano per il corridoio che li avrebbe condotti fuori. Era un corridoio riempito solo da qualche macchinetta per i biglietti, un ATM e una piccolo giornalaio. Su una parete c'era un grande specchio pulito e lucido, affiancato da qualche cartellone pubblicitario. Masaki conosceva bene quel corridoio, lo aveva percorso spesso, anche quando era sceso a Tokyo la prima volta.

Scosse la testa in risposta -Vengono con la macchina di Hiroto. Così è più facile per il ritorno.- spiegò.

Atsushi annuì. Poi, scostandosi in un gesto familiare un ciuffo di capelli da davanti il viso, domandò -Hai mai pensato di tornare a stare da loro, per un po' di tempo?-

Quando il più piccolo si fermò in mezzo al corridoio, lo imitò.

-No.- ammise -Stare a casa nostra… era l'unico modo per, sai.- ridacchiò, nervoso -Insomma.- ecco, ci voleva così poco per fargli venire da piangere. Si sentiva proprio stupido -Sembravi più vicino.- o meglio, stando a casa loro aveva avuto la fallace impressione di starlo aspettando. Che Atsushi fosse stato vivo e dovesse tornare a casa da lui, o che fosse l'incarnazione della sua morte che giungeva per portarlo via, stando a casa loro non aveva avuto che da attendere.

Il più grande gli sfiorò una spalla con la mano. In quei giorni il contatto fisico tra di loro era diventato più frequente e Masaki ne era davvero grato.

-Volevi trasformare casa nostra in una prigione?- gli chiese con semplicità.

Masaki parve accorgersi della folla attorno a loro solo in quel momento. Le persone passavano di fianco a loro velocemente, ignare del loro discorso. Prese dalla fretta per i loro appuntamenti, dalla frenesia della metropoli, correvano senza conoscere la storia di Masaki ed Atsushi. In un certo senso, a Masaki sembrò che fossero soli, loro due, nonostante tutta quella gente.

La domanda del più grande però gli fece venire in mente altro -Sai, Atsushi, ultimamente faccio spesso lo stesso incubo, tutte le notti.

Sul volto di Atsushi si disegnò una ruga di preoccupazione -È per questo che gridavi, ieri mattina?- Masaki annuì.

-Cosa sogni?

Masaki esitò, prima di parlare. Non sapeva perché avesse introdotto il discorso -All'inizio eravamo solo io e te dentro… una nuova casa. Cercavamo casa.- sorvolò sui dettagli, sulle voci che lo imploravano di non lasciarsi morire, di andare avanti -Ma ultimamente ci sono solo io. In casa nostra. E… non c'è la porta, e le finestre sono tutte murate o bloccate.- man mano che raccontava, sentiva una forte sensazione di disagio impadronirsi di lui -E poi…- gli si mozzò il fiato in gola. La testa improvvisamente gli girava -C'è… il rumore di una macchina… che- che si schianta, e…- si sentiva debole tutt'a un tratto. Barcollò, perdendo forza nelle gambe, e rischiò di cadere. Mugolò, confuso, senza riuscire a capire cosa gli stesse capitando.

-Masaki? Ti senti bene?- Atsushi lo sorresse da dietro, per le spalle, la voce piena d'ansia e spavento -Ehi, Masaki?- chiamò, scuotendolo con forza.

Prima di svenire, gli occhi gli caddero sul grande specchio alla parete.

-Credo sia proprio la macchina che ti ha ucciso.- riuscì a mugugnare, senza fiato.

Come una maledizione, a ricambiare il suo sguardo assente dallo specchio, al posto di Atsushi c'era Fudou Akio.

Perse conoscenza.

 

Fu il rumore a svegliarlo.

Steso su una superficie dura e scomoda, si lasciò sfuggire un forte verso gutturale. La testa gli girava, e quando tentò di schiudere le palpebre, la luce gli ferì gli occhi.

-… asaki.- i suoni gli giunsero ovattati per qualche secondo, ma poi finalmente riuscì a mettere a fuoco il viso preoccupato di Atsushi e a sentire la sua voce che lo chiamava ansiosa -Masaki? Svegliati, Masaki.- si sentì schiaffeggiare il viso e allora fu completamente sveglio. Si rese conto in un secondo momento che, oltre ad Atsushi, attorno a lui si era formato un capannello di persone che lo guardavano apprensive -Masaki, rispondi.- continuò il più grande. Al che, finalmente, Masaki riuscì ad articolare un -Cosa è successo?- confuso.

Sentì il forte sospiro di sollievo di Atsushi, che prima di rispondergli gli allungò un pezzetto di cioccolato. Chissà dove l'ha preso, si chiese Masaki -Hai avuto un calo di zuccheri. Hai mangiato troppo poco questa mattina. Tieni un po' di questo.

In realtà aveva un po' di nausea, ma prese comunque il cioccolato e lo masticò lentamente. Si sentì subito meglio, però.

-Vuole che chiami un'ambulanza?- domandò qualcuno degli spettatori. Masaki alzò una mano e disse di non preoccuparsi, che già stava meglio. Ringraziò mentre la maggior parte delle persone si disperdeva.

Atsushi lo aiutò a rialzarsi e ringraziò a sua volta gli ultimi rimasti. Poi gli offrì il braccio per aiutarlo a camminare e, anche se Masaki si sentiva perfettamente in grado di farlo da solo, vi si appoggiò -Mi hai fatto prendere un colpo.- gli confidò il più grande, stringendogli piano la mano.

-Mi dispiace.- fu tutto quello che riuscì a replicare Masaki, mentre Atsushi gli allungava una bustina di zucchero (chissà da dove aveva tirato fuori anche quella) -Manda giù anche questa, che non si sa mai. Meno male che non eri da solo.- balbettò. Sembrava veramente turbato.

-Ehi, Atsushi, sto bene, veramente. Sono in piedi, ce la faccio.- assicurò l’altro, ma il più grande non sembrava per nulla sollevato.

-Facciamo che per oggi pomeriggio rimani a casa e ti riposi.- aggiunse infatti.

-Mhm, ok.

-E mangia di più, la mattina, che sei proprio deboluccio.- tentò di stemperare la tensione Atsushi. Masaki rise debolmente -Alla fine, almeno, non dovrai venirmi a raccattare da qualche parte perché mi sono perso.- pose. Anche Atsushi rise, appena più tranquillo. Ma per tutto il tragitto fino a casa non lasciò il suo braccio neanche per un momento.

Nonostante tutto, Masaki si sentì intimamente felice di quella loro vicinanza, anche se non riusciva a togliersi di dosso la forte sensazione di disagio provocatagli dal ricordo del suo incubo ricorrente.

Che peccato, pensò mentre, rientrato a casa, Atsushi lo aiutava a sedersi sul divano, alla fine non erano riusciti a parlarne.

 

 

-Giorno 17-

 

L'appuntamento con Hiroto e Ryuuji era stato fissato per le due del pomeriggio, subito dopo pranzo.

Masaki non avrebbe mai pensato di potersi sentire così in ansia all'idea di incontrare i propri genitori.

Atsushi (o meglio, Fudou Akio, almeno per quella giornata) non era a casa con lui. "I tuoi genitori potrebbero farsi delle domande a trovarmi qui sin da subito, e non penso tu avresti molta voglia di rispondere" gli aveva spiegato la sera prima, e quella mattina lo aveva salutato dandogli appuntamento per le quattro del pomeriggio. Nonostante le sue parole avessero senso, Masaki lo maledì per non essere lì con lui in quel momento. Aveva le mani sudate ed era almeno la quarta volta che faceva il giro della casa a grandi passi per cercare di calmarsi.

Era la prima volta che Hiroto e Ryuuji andavano a trovarlo a casa ed Atsushi non era con lui. Il pensiero lo rattristava moltissimo. Agli occhi dei suoi genitori quella non era più casa loro, ma casa sua. Si sentiva stupido a preoccuparsi di farne gli onori, ma era tutto ciò a cui riusciva a pensare in quel momento: che l'appartamento fosse presentabile. Lo aiutava a non soffermarsi su quanto vuoto fosse tornato da quando Atsushi era uscito quella mattina.

Nei giorni precedenti aveva parlato a Ranmaru dell'incontro che ci sarebbe stato, e il suo migliore amico ne era stato contento. Non si era lamentato perché ancora non avevano avuto modo di vedersi loro due, gli aveva anzi fatto i complimenti per essersi finalmente deciso a compiere questo passo: "per qualsiasi cosa, sono sicuro che conosci il mio numero a memoria" aveva aggiunto poi. Masaki non aveva potuto sentirsi altro che grato nei suoi confronti.

Quando furono le due meno cinque il citofonò suonò, facendolo sobbalzare. Per poco non inciampò nelle proprio ciabatte mentre andava a rispondere. Ci impiegò un paio di secondi prima di riuscire a balbettare un "… si?" incerto alla cornetta. Gli rispose la voce di Hiroto -Siamo noi.

Il tempo che intercorse dall'apertura del portone a quando i suoi genitori premettero il campanello sembrò infinito, dilatato. Oltre ad avere ansia ed un po' di paura, Masaki era trepidante. Sapeva che gli mancavano, ma non pensava così tanto.

Mentre apriva la porta per un momento dimenticò sia l’ansia che la paura, dimenticò il dolore. Ci fu spazio solo per la dolce incredulità nel ritrovarsi di fronte Hiroto e Ryuuji, uguali a com'erano l'ultima volta che li aveva visti, ormai più di un mese prima. Come se fino a quel momento l'idea di incontrarli fosse rimasta nient'altro che un'idea e averli di fronte a sé in carne ed ossa fosse incredibile. Ad una prima occhiata sembravano solo un po' più tesi, ma quando i loro sguardi incontrarono quello di Masaki, rilassarono le spalle. Rimasero tutti in silenzio, perché non avevano niente da dire. Poi, come guidati da una mano invisibile, si mossero tutti e tre all'unisono, intruppando contro lo stipite della porta d'ingresso mentre si cercavano per abbracciarsi. Masaki si tuffò in quell'abbraccio, stringendo forte le braccia attorno ai fianchi dei suoi genitori, e loro ricambiarono con altrettanta forza, come a voler recuperare tutte insieme le volte in cui non avevano potuto farlo.

Ryuuji e Hiroto erano diventati suoi tutori quando aveva compiuto quindici anni. Prima di quello, Masaki aveva vissuto in un orfanotrofio ad Inazuma-Cho, il Sun Garden. I suoi genitori, quelli di sangue, lo avevano lasciato lì quando aveva nove anni perché non erano in grado di prendersene cura, e per anni Masaki era cresciuto con la convinzione che non sarebbe mai stato importante per nessuno. Quella convinzione si sarebbe potuta trasformare in rabbia ed annientarlo lentamente, ma al Sun Garden aveva trovato degli amici. Hiroto e Ryuuji erano le persone che più gli erano state vicine durante quel periodo della sua vita e Masaki sapeva che senza di loro probabilmente sarebbe stato perduto. Anche loro avevano vissuto al Sun Garden, da ragazzi, per questo andavano spesso a fare visita, e così avevano conosciuto Masaki. La sorellastra di Hiroto, Hitomiko, aveva comprato l’orfanotrofio non appena era diventata abbastanza grande per farlo e adesso si occupava a tempo pieno della sua gestione. Anche lei era una persona importante, per Masaki. Chissà come stava, si chiese con una fitta di nostalgia.

Con gli anni lui e quelli che all’epoca erano solo due quasi adulti si erano avvicinati molto, e quando Hiroto e Ryuuji gli avevano proposto di adottarlo, dopo tanto tempo Masaki si era sentito di nuovo e completamente voluto da qualcuno. Aveva accettato ed era stato felice, anche se nessuno dei tre all’inizio aveva idea di come gestire una situazione così nuova. Alla fine era andato tutto bene, comunque, e Masaki non poteva essere più grato alla vita per avergli concesso una famiglia così meravigliosa. Ora che ci pensava, non aveva mai detto queste cose ad alta voce.

La gola stretta da un'improvviso sollievo, Masaki sentì gli angoli degli occhi pizzicare. Sopra di lui, Ryuuji si lasciò sfuggire un piccolo singhiozzo di sollievo. Uno dei tre rise, o forse tutti e tre insieme. Si separarono dopo un tempo che parve interminabile e tornarono a guardarsi.

Hiroto sembrava al settimo cielo -Sai, ero arrivato con l'idea di sgridarti per bene, e invece…- la sua espressione si incrinò dietro gli occhiali, storti come sempre sul naso dritto, e sporgendosi verso di lui gli prese il viso tra le mani, posandogli un bacio sulla tempia e abbracciandolo di nuovo -Sono così contento di vederti, Masaki.- mormorò, e, se non l'avesse conosciuto così bene, Masaki avrebbe scommesso stesse piangendo. Ryuuji si asciugò gli occhi con il pollice e gli circondò le spalle con un braccio, carezzando intanto con movimenti leggeri la schiena di Hiroto con l'altra mano -Entriamo, su, che fuori si gela.- suggerì. Ma Hiroto si rifiutò di lasciare la presa e Masaki dovette barcollare all'indietro trascinandolo con sé per evitare che rimanesse sulla soglia. Quando finalmente Masaki gli assicurò che non si sarebbe buttato di sotto nel momento in cui avrebbe allentato la stretta, si decise a sciogliere l'abbraccio. Da bravo padrone di casa Masaki li invitò a togliersi i cappotti, che sistemò con attenzione sull'attaccapanni dell'ingresso, sotto i loro occhi incuriositi. Poi, in imbarazzo, si voltò verso di loro, concedendosi qualche secondo per osservarli.

Quel giorno, Ryuuji portava il suo maglione rosso a collo alto preferito su un paio di comunissimi jeans. Era così raro vederlo vestito casual. Aveva lasciato i lunghi capelli verdi sciolti sulle spalle, forse per proteggersi dal freddo. Gli incorniciavano il viso ovale in contrasto con la carnagione olivastra. La frangia gli cadeva ordinata sopra gli scuri occhi a mandorla un po’ lucidi. Esibiva un piccolo sorriso sulle labbra fine che gli illuminava il volto. Aveva la faccia di un ragazzo su un corpo da adulto, era sempre quella l’impressione che gli aveva dato; Hiroto, di fianco a lui, indossava un maglione decorato di un motivo a rombi su un paio di pantaloni fin troppo eleganti per quell'abbinamento. Aveva cambiato montatura degli occhiali, notò Masaki. Sembrava un po’ più pallido del solito, anche se dall’ultima volta che l’aveva visto doveva aver messo su peso, perché il viso pareva più pieno. Ma i suoi occhi verde chiaro, quasi azzurro, piegati all’insù in un’espressione di perenne curiosità erano accesi di interesse come al solito. Tra i capelli rossi spettinati, Masaki notò qualche filo grigio, più di quanti ne ricordava. Gli tornò un groppo alla gola. Ora che li guardava bene, sembravano invecchiati.

Ancora una volta si guardarono in silenzio. Poi, Ryuuji fece per prendere la parola, alzando un dito, severo -Masaki, lo sai che ci hai fatto davvero preoccupa—

-Mi dispiace immensamente!- lo anticipò il diretto interessato, che con un movimento veloce si piegò in un inchino di scuse di fronte ai genitori. 

Nel silenzio, si immaginò perfettamente i due uomini che si guardavano interdetti, in cerca delle parole per rispondergli.

-Masaki…- era la voce di Hiroto.

-So di essere stato egoista!- continuò il più piccolo, a voce forse un po' troppo alta. Aprì gli occhi, ma tutto quello che riusciva a vedere era il pavimento di casa sua -E sono veramente rammaricato nel dirvi che probabilmente continuerò ad esserlo ancora per un po'! Vogliate scusarmi! Non è mai stata mia intenzione farvi del male, e sto facendo del mio meglio! Abbiate pazienza per favore!- e rimase lì immobile. Le mani tese lungo i fianchi e gli occhi stretti, attese qualsiasi reazione si sarebbe meritato.

Inaspettatamente, però, la sua risposta fu una grossa risata. Da parte di entrambi i suoi genitori.

-… Eh?- alzò lo sguardo su di loro. Hiroto era piegato sulla pancia e si reggeva al compagno per evitare di cadere, mentre Ryuuji cercava di soffocare il proprio riso nel palmo della mano aperta. Masaki aggrottò le sopracciglia -Ehi…- biascicò, senza però tornare dritto con la schiena. Attese paziente che il momento di ilarità dei suoi genitori terminasse.

Fu Hiroto a parlare, le tracce delle sue risate ancora nella voce -Da quando in qua utilizzi il linguaggio formale?

-Non siamo mai riusciti a farti formulare delle scuse appropriate per tutta la tua vita, da dove l'hai tirato fuori?- gli diede mano forte Ryuuji, gli occhi socchiusi in un'espressione di puro divertimento.

-Sembri proprio una brava persona così, non farci prendere certi spaventi!- aggiunse ancora l'altro, e al secondo "ehi!!" di Masaki scoppiò a ridere di nuovo. Gli si avvicinò e gli scompigliò forte i capelli, in un gesto così antico e familiare che la rabbia di Masaki evaporò immediatamente, sostituita da una profonda dolcezza.

Sospirò forte, la voce tremante dall'emozione -Ma mi dispiace veramente. Mi dispiace tanto.- ammise, mordendosi forte il labbro per evitare di piangere.

Hiroto si abbassò sulle gambe per riuscire a guardarlo in viso e gli sorrise -Sai, dispiacersene ora non ha proprio senso. Tant'è che non ce l'abbiamo con te. Vero, Ryuuji?- domandò.

L'altro sospiro -Non che non ce l'abbiamo con te. Se fossi sparito per sempre ce l'avremmo avuta con te. Lo sai quanto siamo stati in ansia quando sei scomparso per settimane…

-Anche se fossi sparito per sempre non ce l'avremmo avuta con te, non lo stare ad ascoltare.- rise ancora Hiroto. "Che cretino", gli rispose Ryuuji, e rise piano anche lui. La loro risata gli era mancata così tanto, pensò Masaki. Ormai aveva cominciato a piangere sul serio.

-Alzati, su. Non ce n'è bisogno.- gli assicurò Ryuuji.

-L'importante è che tu sia qui e stia bene.- aggiunse Hiroto.

Allora Masaki si raddrizzò, gli occhi bassi. Ingoiò il groppo che aveva in gola e poi rivolse lo sguardo ai suoi genitori, che erano pronti ad accoglierlo nonostante tutto. Singhiozzò forte -Mi siete mancati.- ammise, per una volta senza vergogna o imbarazzo -Mi siete mancati tanto.- ripeté. Andava ormai per i trent'anni, eppure in quel momento non si sentiva più che un bambino che si era perso per tutto il pomeriggio e che a stento era riuscito a ritrovare la strada di casa.

Per fortuna, i suoi genitori lo avevano aspettato.

 

Gli mostrò la casa con entusiasmo. Loro cercavano di non darlo a vedere ma era ovvio quanto fossero increduli di vederla in ottime condizioni. Era chiaro si fossero aspettati un disastro di appartamento e un disastro di Masaki e, se Atsushi non fosse tornato, probabilmente sarebbe stata quella la situazione che avrebbero trovato.

-E quindi ora cucini anche?- domandò Ryuuji, sinceramente colpito.

Si erano messi comodi sul divano in salotto ed erano ormai quasi due ore che chiacchieravano del più e del meno. Masaki chiese loro come stessero, cosa avessero fatto durante quelle settimane, come andasse il lavoro, come se la passassero Maki e Miura (avevano avuto da poco un bambino, se non ricordava male). Si riscoprì avido di informazioni su quel pezzo di vita dei suoi genitori che si era perso, e loro non si trattennero sui particolari. Era grato della loro compagnia come un assetato che trova un'oasi nel deserto.

Masaki, cercando di nascondere l'orgoglio, annuì -Non sono bravo, ma riesco a sopravvivere.- ammise. Quella mattina, quando Atsushi lo aveva lasciato a casa da solo, si era fatto una promessa: godersi quella giornata con i suoi genitori. Lo sapeva che, nel momento in cui se ne fossero andati, sarebbe ricaduto nel dubbio e nel senso di colpa nei confronti del suo senpai. Per quanto lui gli dicesse che vederlo felice senza di lui fosse tutto ciò che voleva, gli era difficile adeguarsi.

Ma per un po' non se ne sarebbe preoccupato.

-Questo signor Fudou di cui ci hai parlato deve essere… non lo so, una sorta di angelo custode, per essere riuscito a farti addirittura cucinare.- scherzò allora Hiroto, e Masaki gli sorrise in risposta -Si, diciamo di si.

-E come ha finito per aiutarti, hai detto?- si informò Ryuuji, sporgendosi verso di lui.

Masaki aprì la bocca e la richiuse, a corto di scuse. Si schiarì la voce -Bhè… quando l'ho conosciuto… al tirocinio, intendo. Ecco, lui aveva, mmh…- si guardò attorno, nervoso -aveva perso da poco la sorella, si!- esclamò, schioccando le dita. Accorgendosi della reazione un po' troppo entusiasta, assunse il tono più grave che riuscì -Per lui è stato molto difficile.- aggiunse, lo sguardo basso. Lanciò uno sguardo di soppiatto ai genitori, sperando di essere stato convincente.

Ryuuji si era portato una mano alle labbra -Mi dispiace tantissimo.- Hiroto annuì di fianco a lui.

Masaki represse un sospiro di sollievo e riprese a parlare -E quando ha saputo che io…- si interruppe. Per un secondo cadde un silenzio opprimente. Ma poi si riprese -Insomma, visto che ci era già passato si è offerto di aiutarmi. E, ecco- allargò le braccia -sto facendo quello che posso.

Entrambi i suoi genitori sorrisero, e nelle loro espressioni c'era così tanto sollievo, così tanta gioia, che gli si strinse il cuore. Avrebbe voluto abbracciarli ancora e dire loro che era tutto ok, non sarebbe successo nulla di male. Ma purtroppo, ancora non ne era del tutto sicuro, quindi non lo fece.

-È fantastico, Masaki. Che tu abbia trovato questa persona.- Hiroto gli prese la mano e la strinse appena.

Ryuuji annuì -Vorrei che ti sentissi libero di parlare di qualsiasi cosa anche con noi.- ammise -Ma non ti preoccupare. L'importante è che tu faccia quello che serve per stare bene. Noi ti sosterremo comunque.- gli assicurò. Masaki annuì, e sorrise a sua volta, il petto caldo di una gioia che non provava da tempo.

-Potete chiedermi quello che volete.- si azzardò poi -Qualsiasi cosa vogliate sapere.- continuò, poi cercò le parole -Non so se sarò in grado di rispondere a tutto, ma voglio provarci.- prese fiato -Anche davanti a Fudou-san, non è un problema. Lui sa già tutto.- mormorò. Dopo averci pensato a lungo aveva preso la decisione di parlare con i suoi genitori. Meritavano di sapere come stesse e come si sentisse. Quando lo aveva detto ad Atsushi, lui aveva concordato che fosse la cosa migliore da fare se voleva essere chiaro con loro.

Hiroto e Ryuuji gli lanciarono sguardi a metà tra l'incredulità e l'immensa gratitudine. Hiroto fece per parlare.

Poi, il citofono suonò di nuovo.

Masaki scattò in piedi -A-Ah! Deve essere lui!- annuì senza un motivo particolare e scomparve a rispondere. Un paio di minuti più tardi, Atsushi bussò alla porta.

Incredibilmente sollevato di vederlo tornare a casa, Masaki gli lanciò un sorriso enorme. Il più grande gli scoccò un'occhiata indecifrabile, poi inarcò le sopracciglia ed ammiccò, come a chiedere come procedesse. Masaki annuì brevemente, poi con tono forse un po' troppo forzato lo salutò con un -F-Fudou san! È un piacere vederti!!- aveva provato questa semplice battuta tra sé e sé per tutta la notte, ma nonostante questo si sentiva un idiota. Atsushi probabilmente dovette trattenersi dal ridere con tutte le proprie forze, perché i suoi occhi erano piegati agli angoli in un'espressione di grande divertimento, ma rispose a proprio agio -Buongiorno, Kariya. Quante volte ti ho detto di non utilizzare gli onorifici, ormai siamo buoni amici, giusto?- e gli strizzò l'occhio. Masaki alle parole "buoni amici" aveva sentito l'impellente bisogno di correre a vomitare, ma il comportamento rilassato del suo senpai lo mise a proprio agio.

Come aveva fatto per Ryuuji ed Hiroto, lo invitò a togliersi il cappotto e, dopo aver chiuso la porta, gli fece strada verso il salotto. Poteva percepire la curiosità dei suoi genitori attraverso le pareti. Non era altro che un attore poco dotato su un palcoscenico talmente familiare che recitarvi all'interno pareva stonare.

Forse si era aspettato che si accorgessero del trucco e riconoscessero nel fantomatico Fudou Akio nient'altro che Minamisawa Atsushi, e invece i suoi genitori, nel vedere il nuovo ospite, si alzarono immediatamente dal divano per stringergli la mano. Era proprio vero, allora, che tutti gli altri non potessero rendersi conto della sua vera forma.

Masaki non aveva mai visto un tale spreco di inchini da parte di Ryuuji. Hiroto ci mancò poco che lo abbracciasse. Perfino Atsushi ne era chiaramente sbalordito. Entrambi si presentarono e lo ringraziarono accoratamente.

-È un immenso piacere fare la sua conoscenza. La ringraziamo tanto per l'aiuto che sta dando a nostro figlio. Non sappiamo come esprimere la nostra gratitudine.- gli sorrise Hiroto. Ryuuji gli diede man forte annuendo con forza.

Incredibile, si ritrovò a pensare Masaki, come entrambi affrontassero la situazione senza porsi troppe domande. Probabilmente, come nel caso di Ranmaru, si fidavano di lui talmente tanto che ritenevano il suo un buon giudizio anche in una situazione del genere. Per quanto ne sapevano, Fudou Akio poteva essere un criminale, un drogato o un membro della yakuza. Ma se Masaki si era affidato a lui ed in lui aveva trovato un confidente e un amico allora non poteva che essere un tipo a posto. In un certo senso gli sembrò strano, ma chi era lui per fare domande? Andava bene così, e comunque, Fudou Akio era una bravissima persona. O almeno, così lo aveva immaginato.

Atsushi sorrise di una contentezza che Masaki non riuscì a comprendere -Il piacere è mio.- si inchinò a propria volta -Vi assicuro che non sto facendo nulla che meriti i vostri ringraziamenti. Io e Kariya ci aiutiamo a vicenda. È sempre bello avere una persona con cui condividere un dolore che viene pienamente compreso. Dovrei essere io a ringraziare lui, perché mi permette di offrirgli questo scambio.- e guardò il diretto interessato, senza perdere il sorriso.

La situazione era delle più assurde: i suoi genitori vedevano un trentacinquenne alto, con i capelli scuri e gli occhi grigio azzurri che aveva perso una persona molto cara; lui vedeva l'unica persona che avesse mai amato nella sua vita che con un sorriso meraviglioso lo ringraziava perché gli stava permettendo di aiutarlo a superare la propria morte. Gli si seccò la gola. Atsushi era così bello nella sua piccola gioia che gli faceva quasi male, vederlo fingere così. Se tutto fosse andato per il meglio (e ancora aveva dei dubbi al riguardo), nessuno avrebbe mai saputo che Kariya Masaki era stato aiutato da Minamisawa Atsushi. Il suo sforzo e la sua gioia sarebbero stati attribuiti ad una persona che non esisteva, di cui solo lui conosceva la reale identità.

Il pensiero gli mise addosso un'improvvisa tristezza.

I suoi genitori sembrarono prendere Fudou Akio in simpatia sin da subito. Hiroto alla fine si permise anche di abbracciarlo, nonostante lo conoscesse da poco e normalmente sarebbe stato maleducato. Masaki non ricordava l'ultima volta che aveva visto Hiroto e Ryuuji così felici. Era incredibile come l'accertarsi che lui stesse bene li avesse sollevati e calmati a quel modo. Gli si strinse il cuore ed il senso di colpa gli attanagliò lo stomaco. Li aveva fatti preoccupare così tanto. Ancora una volta, si sentì tremendamente egoista. Avrebbe chiesto ancora scusa, ma tutti sembravano così a loro agio, e i suoi genitori gli avevano assicurato che tutto era a posto. La consapevolezza dell'affetto che provavano per lui sciolse qualcosa nel suo petto. Era stato uno stupido ad averlo dimenticato.

Dopo aver chiacchierato per una mezz'ora (tempestarono Fudou di domande: quanti anni avesse, dove lavorasse, se avesse famiglia, e Atsushi rispose a tutte in modo così naturale che Masaki si domandò quando avesse avuto il tempo di pensarci) decisero di andare a passeggiare fuori vista la bella giornata.

Per le strade di una Tokyo affollata, anche a Masaki furono fatte molte domande.

Cosa avesse fatto quei giorni, quando lui e Fudou avevano scoperto di potersi aiutare, se avesse sentito Ranmaru.

Masaki cercò di rispondere il più onestamente possibile a tutte quante.

-Con Ranmaru ci sentiamo quasi tutti i giorni.- spiegò loro -Mi sta dando il tempo che mi serve. Gliene sono molto grato.- ammise. Poi fece una pausa -… Ma non diteglielo, per favore. O quello si monta la testa.- risero tutti. Anche Atsushi, che era da un po' che non parlava. Forse si sentiva a disagio, in mezzo alla famiglia di Masaki. Aveva sempre avuto un rapporto particolare con i suoi genitori, soprattutto con Hiroto. Con Ryuuji avevano legato immediatamente, sin dall'inizio, quando Masaki lo aveva presentato alla famiglia, e suo padre aveva tentato di avere verso di lui quel tipico comportamento da genitore apprensivo che mantiene un certo distacco, anche se raramente ci era riuscito, perché trovava Atsushi davvero simpatico e brillante. Con Hiroto era stato più difficile. Poichè lo aveva trovato insopportabile sin dall'inizio, aveva rifiutato ogni tipo di confronto con lui che non fosse un saluto. Forse era stato perché l'idea che Atsushi fosse la causa del distaccamento di Masaki dalla famiglia non gli andasse a genio, o perché semplicemente non era riuscito a farselo andare a genio. Qualunque fosse stato il motivo, nel rispetto per la scelta di Masaki e per mantenere un'atmosfera di pace tra tutti, per molto tempo non si era sprecato a rivolgergli più di qualche parola. Poi il rapporto si era pian piano trasformato in una guerra passivo aggressiva tra i due. Discutevano per ogni cosa ed ogni argomento era motivo di dibattito. Masaki e Ryuuji lo avevano sempre trovato un fenomeno affascinante, anche perché solitamente i loro bisticci non avevano portato da nessuna parte. A pensarci ora, erano stati solo uno spasso per chi aveva assistito.
Alla fine, dopo cinque anni di conoscenza, il loro legame era diventato uno strano miscuglio di odio, affetto e rispetto, come quando si ha un cuginetto insopportabile a cui però non si può evitare di voler bene. Ecco, si, questo era il modo in cui Hiroto doveva sentirsi nei confronti di Atsushi. Quindi, indubbiamente, aveva imparato a volergli bene, e a conti fatti era diventato "uno di famiglia". E Atsushi, che da parte sua aveva sempre sperato in un riconoscimento del genere da parte di Hiroto (anche se non lo avrebbe mai ammesso), andava in giro dicendo di essere orgoglioso di come fosse riuscito a fargli cambiare idea sul proprio conto (al che, puntualmente, Hiroto replicava con un "Non ho mai cambiato idea, sei ancora insopportabile"). Ma, nonostante questo, Hiroto non aveva mai apertamente dichiarato l'affetto che provava per Atsushi. Per orgoglio, o forse per abitudine. Quindi colse tutti un po' alla sprovvista quando a mormorò -Certo che fa un po' strano che non sia qui con noi adesso.- lo disse sovrappensiero, guardandosi indietro come se lo stesse cercando. Non pronunciò il suo nome, ma tutti capirono a chi si riferisse. Si strinse nel cappotto elegante. Poi si rese conto delle sue parole e rivolse uno sguardo di scuse a Masaki -Mi dispiace. Non volevo introdurre il discorso.-
Masaki lo trovò così ironico: Atsushi era proprio lì con loro, ed Hiroto non poteva saperlo -Non ti preoccupare, papà.- prese fiato -È strano anche per me.- socchiuse gli occhi -Più che strano è doloroso.- ammise con un mezzo sorriso, affondando il viso nella sciarpa che portava al collo. Sentì lo sguardo di Atsushi su di lui, ma non si voltò a ricambiarlo.

Cadde il silenzio per qualche momento. L'aria era piena del vociare della gente, dei rumori delle macchine, del fumo degli autobus.

-Sai- riprese Hiroto, si fissava le scarpe mentre camminava -Non so quanto valga dirlo ora, ma era ormai una presenza scontata nella mia, nella nostra vita.- alzò il viso e inspirò a pieni polmoni l'aria fresca. Rise -Manca proprio qualcosa adesso. Non ho più nessuno con cui battibeccare. Ryuuji non riesce a rimanere arrabbiato per più di cinque minuti.- cercò forse di stemperare l'atmosfera triste che era improvvisamente andatasi a creare. Ryuuji gli lanciò uno sguardo dolce, ed allungò una mano per stringere la sua.

-So che il tuo dolore non è quantificabile, Masaki.- riprese Hiroto, come se il sostegno del compagno vicino a lui gli avesse dato forza -Ma quando ti diciamo che non sei solo, è perché, a modo nostro, comprendiamo quel dolore.- lo guardò. Masaki non sapeva come rispondere, e rimase in silenzio. Espirò piano, e una nuvoletta di condensa si formò davanti al suo viso. Un groppo gli strinse la gola tutt'a un tratto.

Hiroto sbuffò divertito -So che detto da me deve suonare proprio strano.- incassò il capo tra le spalle -Ma manca anche a noi. Gli volevamo bene.- e mentre lo ammetteva, Masaki sentì le lacrime pungergli li occhi. Fudou (Atsushi) si irrigidì di fianco a lui.

-Forse avrei dovuto dirglielo. Mi pento di non averlo fatto.- concluse, un'espressione turbata sul viso.

A Masaki tremavano le labbra -Grazie, papà.- si sentì in dovere di dire -Sono sicuro che lo sa.- aggiunse, ed Hiroto gli rivolse uno sguardo talmente sollevato che parve ringiovanire di dieci anni.

-Quello che Hiroto vuole dire- aggiunse Ryuuji -È che Atsushi era una persona importante anche nelle nostre vite. E che anche per noi è strano immaginarle senza di lui d'ora in avanti.- sospirò e scosse la testa -E ti mentirei se ti dicessi che riuscirai a colmare il vuoto che ti ha lasciato. Ma imparerai a conviverci, lo trasformerai in forza e lo ricorderai con affetto per tutta la tua vita. Anche se ora sembra un ostacolo insormontabile.- gli sorrise a sua volta.

Masaki piangeva silenziosamente.

Dette da Atsushi queste parole avevano avuto un affetto diverso. Ora, pronunciate dai suoi genitori, poteva quasi sentire un'eco di dolcezza al pensiero dei suoi giorni passati con lui. Era lì e condivideva lo spazio con il dolore, alleviandolo appena.

Ryuuji gli si avvicinò e gli poggiò una mano sulla spalla. Si fermarono in mezzo al marciapiede, e, incurante dei passanti, Masaki sfogò il suo pianto proprio come aveva fatto solo poco tempo prima con Atsushi. Pianse il suo dolore, pianse l'ansia, pianse tutte quelle cose che a voce non sarebbe riuscito a dire, e lo fece nelle braccia dei suoi genitori, così come avrebbe dovuto fare già da molto tempo -Mi manca.- singhiozzò tra le lacrime -Mi manca da morire.- ammise, ed anche se lui era lì in quel momento, era la verità.

I suoi genitori lo ascoltarono e aspettarono che lasciasse uscire tutte le sue lacrime, pazienti. Erano lì con lui, vivi, carne e ossa e sangue. Erano rimasti oltre ad Atsushi e lui, ad un certo punto del suo dolore, lo aveva dimenticato.

Fudou (Atsushi) cercò la sua mano. La trovò, la strinse forte.

E, per un momento, sembrò quasi che quello in cerca di conforto fosse lui.

 

Quando si salutarono, dopo aver mangiato in un ristorante vicino casa, Masaki si sentiva più leggero.

Ryuuji gli aveva lasciato un bacio sulla fronte e lo aveva pregato di farsi sentire, Hiroto lo aveva abbracciato e gli aveva detto che erano felici di averlo rivisto e di aver chiarito molte cose. Il fatto che si fosse aperto con loro aveva significato tanto.

Masaki aveva detto loro che li amava e che aveva capito tante cose grazie a loro, poi si erano detti arrivederci.

Quando salì a casa, Atsushi lo aspettava seduto sul divano.

Si era diviso da loro poco prima di cena con una scusa per lasciarli di nuovo soli.

Teneva le ginocchia al petto, immobile. Sembrava affondare nella calma più assoluta, nella stanza immersa nell'ombra. Masaki non accese la luce.

Lo raggiunse e si mise seduto di fianco a lui. Allungò una mano verso il suo viso e Atsushi vi si abbandonò stancamente. La sua guancia era bollente contro le sue mani fredde -È andata bene?- domandò, a voce bassa, guardandolo. Sorrise appena.

Masaki annuì -Grazie a te, si.- sorrise a propria volta -Grazie, Atsushi.- mormorò.

Atsushi allargò il sorriso -Stai cominciando a capire?- lo chiese in un sussurro.

Trattenne il fiato per qualche secondo -… Forse si.- ammise Masaki. Dirlo gli fece male in un modo che non si seppe spiegare.

Atsushi non rispose. Si limitò a sciogliere la propria posizione, mettendosi seduto per bene. Allargò un poco le braccia.

Il cuore di Masaki gli balzò in gola mentre coglieva l'invito e si sporgeva verso di lui, cingendogli la vita con le braccia e poggiando il capo sul suo petto, semisdraiato sul divano.

Il più grande prese ad accarezzargli piano i capelli -Masaki?- lo chiamò poi.

-Mh?- rispose lui. Un deja-vu.

-Lo sapevo che Hiroto mi voleva bene. L'ho sempre detto.-

Risero entrambi.

Si addormentarono così.

 

 

-Giorno 18-

 

Si svegliò nel proprio letto.
Quella notte non aveva sognato e si sentiva riposato come non lo era da molto tempo. Non sapeva se per via dei chiarimenti del giorno prima con i suoi genitori o per merito del calore di Atsushi, che gli sembrava di sentire ancora pizzicare piacevolmente sulla pelle.
Si concesse di bearsi di quella sensazione di pace per un po', prima di alzarsi.
Si diresse in cucina affamato, sperando di trovarci Atsushi, e la prima cosa che notò fu il calendario appeso al frigorifero. Vi si avvicinò cauto e vi passò sopra le dita. Contò a bassa voce i giorni che aveva cerchiato di rosso.
Diciassette.
Quindi quello era il diciottesimo giorno che Atsushi passava con lui. Mancava poco più di una settimana e se ne sarebbe andato.

Rimase immobile a fissare i segni di pennarello sul calendario come se quelli avessero la facoltà di rivelargli i misteri dell'universo.

-Ehi, di' un po', ma lo sai che ore sono?- la voce divertita di Atsushi lo fece sobbalzare. Si voltò verso di lui, le labbra semiaperte come a volergli dire qualcosa. Ma riuscì solo ad aggrottare le sopracciglia confuso.

Il più grande rise di gusto ed ammiccò all'orologio appeso sopra la portafinestra. Segnava l'una e un quarto del pomeriggio. Masaki sgranò gli occhi -Non ci credo. Ho dormito quattordici ore.- mugugnò, strofinandosi gli occhi come se così potesse vedere meglio.

Atsushi lo raggiunse dall'altra parte della cucina e gli diede un buffetto sulla spalla -Evidentemente ne avevi bisogno.

-Già.- concordò lui, grattandosi la nuca -Però così…- si morse il labbro.

-Mh?

-Niente, è che così mi sembra di perdere tempo.

-Non è che tu abbia tutte queste cose da fare, figurati.

-No, intendo dire che così perdo il tempo con te.

Si guardarono per qualche secondo senza dire nulla. Atsushi sembrava essere stato preso in contropiede. Arrossì, e questa volta Masaki se ne accorse. Arrossì a sua volta senza un motivo ben preciso -Non devi preoccuparti del tempo con me…- balbettò il più grande, aggrottando le sopracciglia. Prese a gesticolare, come gli capitava sempre quando non sapeva cosa dire.

Masaki scosse forte la testa -Ho accettato (circa) il tuo aiuto e sto facendo del mio meglio. Significa che devo fare ancora più tesoro di questo poco tempo. E non potrai dire nulla che mi faccia cambiare idea.- lo precedette, alzando l'indice e lanciandogli un'occhiataccia quando tentò di replicare. In realtà si sentiva morire al solo pensiero che mancasse così poco prima di essere di nuovo da solo. Come se lui fosse un fiore e Atsushi l'acqua e il sole che gli permettevano di sopravvivere: temeva che, volente o nolente, una volta che fosse scomparso, lui sarebbe appassito.

Atsushi però annuì alle sue parole, lentamente, e Masaki si sentì particolarmente orgoglioso di aver avuto la meglio. Raramente gli capitava con lui. Di solito perché il suo senpai trovava modi poco corretti per vincere i loro battibecchi. Ma non voleva approfondire il ricordo in quella sede, o avrebbe rischiato… interessanti reazioni che sarebbero state fuori luogo in quel momento.

Per pranzo (ormai per la colazione era tardi) preparò del the verde e un paio di panini imbottiti con uova e maionese. Atsushi gliene rubò un morso.

-Sai, quella passeggiata che dovevi fare da solo l'altro giorno.- suggerì ad un certo punto il più grande -Quella che non hai potuto fare perché sei svenuto come uno scemo alla stazione…

-Ehi, ti ricordo che quello che stava morendo di preoccupazione eri tu, non io.- replicò Masaki piccato, a bocca piena. Atsushi alzò gli occhi al cielo -A parte che tecnicamente non potrei morire di nuovo,- ignorò l'occhiataccia dell'altro -ma il punto è che, preoccupazione o non preoccupazione…

-No, veramente, eri bianco come un cencio. Mi hai riempito tutta la sera di caramelle e the zuccherato per farmi riprendere. C'è mancato poco che avessi un'indigestione, senpai.- infierì il più piccolo, rivolgendo all'espressione spazientita di Atsushi un sorriso angelico.

-Non ci si preoccupa mai abbastanza… Ma Masaki, sto cercando di dire…

-Aah, eri preoccupato per me?

-Da morire, perché pensi che io…- cadde il silenzio. Atsushi, per la seconda volta dopo poco tempo, aggrottò le sopracciglia. E per la seconda volta arrossì anche. Si portò una mano al viso per nasconderlo -Aaah, ma che ti prende oggi, Masaki?- domandò, senza guardarlo.

Per tutta risposta, Masaki scoppiò a ridere. Sentiva il cuore in gola per quanto gli batteva forte, e le guance calde -È divertente.- si giustificò -Solitamente è il contrario, no?- alzò le spalle. In effetti era vero: prima che…  prima dell'incidente, era Atsushi che si divertiva a stuzzicarlo con l'intenzione di metterlo in imbarazzo. Masaki si sentiva molto appagato ad avere il coltello dalla parte del manico, per una volta. E stranamente Atsushi sembrava più vulnerabile del solito a cose del genere.

-Per questo ti domando cosa ti prende.- borbottò quello, sbuffando.

-Fa parte del processo. Mi fa stare meglio, lasciamelo fare.- sghignazzò Masaki.

-Aah, ora lo prendi sul serio, eh!- rise di gusto Atsushi, scuotendo la testa. Masaki si perse a guardarlo ridere e si dimenticò per un paio di secondi come si respirava.

Ingoiò un boccone di sandwich e fissò gli occhi sul piatto. Atsushi non lo sapeva, ma alla fine aveva comunque vinto lui -Allora, su, che volevi dire?- biascicò.

Il più grande si sistemò i capelli con un gesto veloce e poggiò il mento sulle mani -Dicevo, oggi è una bella giornata, potresti fare oggi quella passeggiata.

-Da solo?

-Da solo.

Masaki ponderò la proposta -Ma non mi va di non stare con te.- ammise, arricciando il naso. Vide Atsushi cercare le parole. Non lo guardava in faccia.

-E… ti ringrazio per questo, ma…

-Tu non vuoi stare con me il più possibile?- lo incalzò quindi Masaki. Forse era la forza della disperazione a guidarlo, visto che mai nella vita si sarebbe permesso di dire cose del genere, prima. Però non era più il momento di stare in silenzio. A ragionare bene, il fatto che Atsushi fosse tornato poteva essere per lui l'occasione giusta per dirgli tutto quello che non gli aveva detto prima. Ci pensava da quando aveva sentito Hiroto parlarne.

Non poteva più fare la persona difficile e farsi corteggiare, era arrivato il momento di farsi avanti, anche se la situazione era non solo disperata, ma anche assurda.

Atsushi sembrava aver preso troppo sole, per quanto era diventato rosso -Non è di questo che dovremmo preoccuparci…

Masaki scosse la testa -Va bene, preoccupiamoci di me. Non mi va di perdere tempo a camminare da solo. Senza di te…

-Si ma, ricordi, il fatto di doverti abituare a starci, da solo?

-Starò da solo quando te ne andrai.

-Almeno prova.

-No.

-Per favore.

-Ho detto no.

-Masaki…

-Allora tu esci con me e potrei riconsiderare la cosa.

Per la terza volta rimasero in silenzio. Atsushi aveva gli occhi grandi come due dischetti da hockey. Lo aveva totalmente colto di sorpresa. Masaki attese, nervoso. Non aveva programmato di chiedergli una cosa del genere, in verità. Avrebbe voluto scomparire sotto migliaia di metri di terra.

Atsushi aprì la bocca. La richiuse. La riaprì. La richiuse. Deglutì -Mi stai chiedendo un appuntamento.- era più un’affermazione che un’effettiva domanda.

-Mh-mh.

-Ti… ti pare davvero il caso?- la tono di Atsushi si fece sottile ed acuto verso la fine della frase, come se gli fosse andata di traverso la saliva.

-Ho qualcosa da perdere?- Masaki cercò di non dare a vedere l'imbarazzo che gli stava stringendo lo stomaco in una morsa. Forse questo comportamento aggressivo era sbagliato. Come si flirtava con le persone? Di solito era Atsushi a fare tutto il lavoro.

Atsushi gli lanciò un'occhiata di sbieco. A Masaki, inaspettatamente, venne da sorridere. Lo conosceva abbastanza bene ormai da conoscere le sue più piccole espressioni, il suo modo di dimostrare col corpo le emozioni che provava. Era lusingato, ci stava pensando.

Attese la sua risposta.

 

Quindi quel pomeriggio Masaki si ritrovò ad uscire da solo.

Era riuscito a strappare una cena fuori ad Atsushi, che tecnicamente era già il suo ragazzo e praticamente era… non era più vivo, ma non poteva essere più felice di così. Fissata a due giorni dopo perché "magari capisci che è inutile e cambi idea", cosa che Masaki non aveva alcuna intenzione di fare. La sua bella nottata di sonno era stata coronata da una notizia ancora più bella.

Decise di concentrare il suo girovagare vicino casa sua, per evitare di perdersi. Ormai quella zona gli era talmente familiare che non avrebbe dovuto incontrare problemi.

Prese quella passeggiata solitaria come un'occasione per pensare alla propria situazione.

Era vero che in quei giorni la sua visione della vita (o della morte, a essere più precisi) stesse lentamente mutando. Atsushi stava compiendo il miracolo. A ripensare alla sua situazione del primo giorno, Masaki si chiedeva come avesse fatto il più grande a tirarlo fuori dallo schifo in cui si era volutamente rinchiuso.

Certo, ancora faceva fatica a concentrare i pensieri sul momento in cui Atsushi sarebbe dovuto andare via ma, inevitabilmente, dopo aver parlato con lui, aver rivisto i propri genitori e aver cominciato a tirarsi su riempiendo le proprie giornate con tante cose diverse, sentiva di star cambiando idea. Sentiva anche di star cambiando come persona. Intimamente, sperava in una migliore versione di se stesso.

Si sentiva in colpa, comunque. Checché ne dicesse Atsushi, non poteva non stare male all'idea di sopravvivergli. Il fatto che stesse cambiando idea non mutava il fatto che senza Atsushi la sua vita sarebbe stata desolatamente vuota della sua presenza, non sarebbe stata più la stessa. Stava accettando di poter andare avanti non tanto perché fosse forte, ma perché si era reso conto che la sua vita era popolata anche da altre persone, e che quelle persone erano altrettanto importanti. E poi, c'era da considerare come sarebbe stato quando effettivamente Atsushi se ne fosse andato. Sarebbe potuto ripiombare nello sconforto a prescindere, non poteva saperlo. Ma, nel caso, aveva deciso che si sarebbe impegnato il più possibile, per Atsushi e per le persone importanti attorno a lui che continuavano a sostenerlo nonostante il suo egoismo. Avrebbe portato con sé il senso di colpa, lo avrebbe sopportato, inglobato e reso suo, come aveva detto Ryuuji. Contava di trarne forza e carburante per vivere al meglio, per se stesso e la persona che amava, anche se non sarebbe stata più al suo fianco.

In realtà pensare a tutto questo lo fece deprimere tremendamente. Vederla in modo così positivo non era ancora nelle sue corde.

Sospirò e cacciò fuori dalla tasca del cappotto il cellulare. Istintivamente cercò il contatto di Ranmaru. Strinse il telefono tra le mani, indeciso per un secondo. Poi scrisse: "hai un'ora libera domani mattina?" e glielo inviò prima che potesse pentirsene. Da solo non sarebbe mai venuto a capo dei suoi problemi e di confidarsi con Atsushi riguardo ai propri sensi di colpa non se ne parlava, perché già poteva immaginare le sue risposte. L'unico che poteva aiutarlo era il suo migliore amico.

Nel mentre che aspettava una risposta, prese a scorrere la lista dei messaggi ricevuti. Adocchiò una panchina un po' più avanti sul marciapiede e la raggiunse per sedersi.

Scorse con gli occhi i contatti che gli avevano scritto. Gli ultimi messaggi erano con Ranmaru e i suoi genitori. Più in basso, i suoi amici della squadra di calcio delle medie. Aveva già letto quei messaggi, che gli erano arrivati durante le sue settimane di buio, ma non aveva ancora trovato il coraggio di rispondere a nessuno.

Sospirò.

Che egoista che era.

Occupò il resto del pomeriggio a rispondere a tutti i i messaggi ricevuti. A Tenma, il capitano della squadra di calcio delle medie, che non solo gli aveva chiesto come stesse ma lo aveva anche invitato a vedere qualche amichevole che giocava con la squadra che aveva tirato su nel suo quartiere. Che modo strano di tirarmi su di morale, pensò Masaki con una risata. Era proprio da Tenma. Lo ringraziò e gli rispose che stava cercando di tirarsi su. Lo stesso rispose agli altri compagni: Kyousuke, Takuto, Shinsuke. Aoi, una delle sue amiche più strette al liceo. Da quando si era sposata con un certo Taiyou e si era trasferita a Kyoto si erano sentiti molto di meno. "Mi dispiace risentirci in questa spiacevole situazione" gli aveva scritto "non posso nemmeno immaginare cosa tu stia passando. Ti sono vicina. Ti mando un forte abbraccio". Masaki le chiese scusa per il ritardo nella risposta e per sommi capi le raccontò i propri progressi. Non sapeva perché, ma si sentiva di farlo.

Persino Hikaru, un altro dei suoi migliori amici che in quel momento giocava in una squadra di calcio italiana, gli aveva scritto. Lo conosceva bene, perché non gli aveva chiesto come stesse. Gli aveva scritto anche lui che gli era vicino. Poi ogni tanto gli aveva mandato qualche foto dei posti che aveva visitato in Italia "non è molto, ma sono bei paesaggi. Spero possano aiutarti", scriveva.

Aveva cominciato a piangere commosso già da un pezzo, quando, terminati i messaggi dei suoi amici della squadra di calcio delle medie (anche Taichi, Norihito, Gouichi e gli altri gli avevano scritto) e quelli alcuni amici del liceo, lesse quelli delle persone che si erano prese cura di lui sin da quando era stato lasciato in orfanotrofio da bambino.

Hitomiko, la proprietaria dell'orfanotrofio, non aveva nemmeno provato a chiamarlo: "so che non risponderesti. Per favore pensa a me come una tua confidente in qualsiasi momento tu ne senta il bisogno. Ti voglio bene, Masaki. Un bacio". Maki e Miura gli avevano scritto insieme. Una settimana prima gli avevano inviato la foto del loro bimbo appena nato. Sembrava una patata "Abbiamo litigato tantissimo per dargli un nome. Non vede l'ora di conoscerti!". E ancora Reina, Osamu, Haruya, Fuusuke. Tutti quelli che erano stati suoi compagni di giochi e lo avevano cresciuto fino ai quindici anni, prima che Hiroto e Ryuuji decidessero di adottarlo.

Rispose a tutti, uno per uno, ringraziando e chiedendo scusa, facendo domande e chiedendo delle loro vite. Ancora, si accorse di essersi perso così tante cose belle, rinchiuso com'era nel proprio dolore, e se ne dispiacque moltissimo, la forte sensazione di essere rimasto indietro che gli stringeva le tempie. Si trovò a pensare senza rendersene conto che doveva recuperare. Voleva recuperare.

Ebbe la conferma di quante persone tenessero a lui, ma, ancor più di tutto, del bene che lui stesso provava nei confronti di tutte quelle persone.

Quando finì di rispondere, non aveva più lacrime. Si sentiva svuotato di ogni energia. Sospirò. La sua era una stanchezza piacevole. Si sentiva in pace con se stesso e al contempo in trepidante attesa di qualcosa. Si chiese cosa.

Come a rispondergli, il cellulare vibrò.

"Per te ne ho anche due, di ore libere."

Ranmaru gli aveva risposto.

 

 

-Giorno 19-

 

Purtroppo la pace era durata solo per una notte, perché quando si era addormentato era tornato il solito incubo, più vivido che mai. Era sempre più opprimente. Non solo la porta, anche le finestre scomparivano, notte dopo notte. Persino l'appartamento sembrava rimpicciolirsi, piegarsi su se stesso nel tentativo di soffocarlo.
L'unica finestra che gli permetteva di sperare nella luce era quella della loro camera, sua e di Atsushi. Il raggio di sole che riusciva a svicolare tra le assi di legno gli teneva compagnia. Ma anche lui sembrava affievolirsi sempre di più. Più che un incubo, era un sogno avvilente.
Poi, erano ricominciate le voci. Forse era stato influenzato dai messaggi di quel pomeriggio, ma questa volta erano stati Tenma ed Hikaru a pregarlo di non morire. In realtà, aveva supposto fossero loro, perché nel sogno continuava ad essere solo, le voci permeavano l'aria che lo circondava. Qualcuno (forse Aoi?) lo aveva persino incoraggiato: "stai andando bene, hai quasi capito come fare. Vivi". Ma nonostante tutto, Masaki si sentiva profondamente turbato.
Pensava a questo, seduto sulle scale di fronte al palazzo dove abitava Ranmaru.
Si erano dati appuntamento per la mattina.
Quando si era svegliato, Masaki non aveva trovato Atsushi in casa. Si era spaventato a morte, e per un momento aveva creduto fosse andato via senza avvertirlo, lasciandolo solo per sempre. Ma per fortuna era solo andato a svolgere delle commissioni: "devo comprare un paio di cose, torno presto", aveva scritto su un bigliettino che aveva poggiato sul tavolo della cucina.
Nonostante il dispiacere di non poterlo salutare come ogni mattina, Masaki aveva deciso di uscire comunque. E poi, se fosse uscito mentre Atsushi era fuori era probabile sarebbero rientrati insieme. Sarebbe stato inutile aspettarlo e uscire una volta che fosse tornato, avrebbe perso del tempo prezioso. Si era chiesto con curiosità cosa dovesse comprare.
Aveva voltato il bigliettino che l’altro aveva lasciato e aveva scritto sopra un veloce "mi vedo con Ranmaru per un'oretta. Torno per pranzo". Aveva disegnato alla fine una faccina sorridente. Poi, ripensandoci, l'aveva cancellata. E infine l'aveva disegnata una seconda volta.
Prima di uscire, aveva lasciato un paio di fette di pane tostato e un bicchiere di thè verde freddo sul tavolo della cucina. Altrimenti Atsushi si sarebbe perso l'assaggio di quella mattina.
Nel ricordarlo si diede dell'idiota e si sentì arrossire. Atsushi nemmeno aveva bisogno di mangiare, figurarsi. Sperò non lo prendesse per un cretino. Anche se, conoscendolo, sicuramente l'avrebbe trovato adorabile e ne sarebbe stato contento. Lo stomaco gli si sciolse in una piacevole sensazione di dolcezza e si ritrovò a sorridere. Si strofinò il naso con il palmo della mano -Che cretino.- biascicò, improvvisamente in imbarazzo.
-Ed ecco che Kariya Masaki, ormai del tutto impazzito, comincia a parlare da solo! Con chi ce l'ha, signor Kariya, vuole rivelarlo alle telecamere?- lo riprese ironica una voce familiare. Masaki sobbalzò ed alzò lo sguardo. Ranmaru lo guardava dall'alto. Gli sorrise mentre chiudeva il portone del proprio palazzo.
Masaki si sentì arrossire dal collo alle orecchie. Che figura -Piantala! Scemo.- borbottò, gonfiando appena le guance. Ranmaru rise buttando indietro la testa e coprendosi le labbra con le mani -Non ti aspettavo così presto.- rispose solo poi, sedendosi di fianco a lui sulle scale.
Faceva meno fresco, quella mattina. Sembrava che tutt'a un tratto la primavera incalzasse l'inverno affinché terminasse prima.
-Hai detto a qualsiasi ora, quindi mi è sembrato logico che più presto fosse, meno ti avrei fatto dormire.- replicò Masaki scrollando le spalle. Lanciò all’amico una fugace occhiata per poi concentrarsi sulle proprie scarpe.
-Che stronzo.- commentò Ranmaru, fingendosi sbalordito da tanta maleducazione.
-Lo sai che mi piace darti fastidio.- si giustificò infine Masaki, ed entrambi risero.
Ranmaru si sporse verso di lui e gli mollò una spallata innocua -Non dai fastidio.- gli assicurò, e il tono della sua voce si addolcì.
-Grazie.- Masaki si risolse a guardarlo ed incassò il capo tra le spalle. Era da un paio d'anni che Ranmaru portava i capelli rosa corti, contrariamente a come era stato solito fino agli anni del liceo (talmente lunghi che li aveva legati per anni in due bassi codini, che sfigato), ma doveva averli tagliati ancora. Gli incorniciavano il viso nascondendo le orecchie, folti e disordinati. Sembrava più grande, gli occhi azzurri circondati da lunghe ciglia. Quelli, insieme alla carnagione color porcellana e le labbra delicate, avevano fatto si che negli anni venisse spesso scambiato per una ragazza. Lo avevano sempre preso in giro per questo (anche Masaki, agli inizi della loro amicizia), ma Ranmaru diceva che faceva parte del proprio fascino e che ne era orgoglioso (e poi, aveva ragione). Indossava una sciarpa molto lunga ed un maglioncino di lana bordeaux che doveva essere due volte la sua taglia su un paio di jeans neri. I suoi stivali erano orribili.

-Nemmeno tu dai fastidio.- concluse Masaki.
Questa volta Ranmaru gli riservò uno scappellotto sulla nuca e Masaki scoppiò a ridere divertito -Ma guarda questo!
Poi il suo migliore amico gli cinse le spalle con il braccio in una sorta di abbraccio -Sono contento di vederti da queste parti, Kariya.
Masaki gli tirò una piccola schicchera sul capo -Anche io sono contento di essere capitato qui, Kirino-senpai.- gli resse il gioco chiamandolo al modo in cui era solito fare alle medie, appena conosciuti -Anche se non programmavo di incontrarti, mannaggia. E ora come faccio?
Risero insieme una seconda volta. Poi Masaki aggiunse, a bassa voce -No, davvero. Sono contento di essere qui.- gli poggiò una mano sulla spalla -Mi dispiace, Ranmaru, sarei dovuto venire prima.- perse del tutto il tono scherzoso, ed anche il suo interlocutore si fece più attento -Mi… sei mancato.- ammise infine Masaki, stringendo appena la presa.
Ranmaru ritrovò il sorriso. Gli posò una mano sulla testa e gli scompigliò con forza i capelli. Quand'ebbe finito, tra le proteste di Masaki, tirò un forte sospiro di sollievo -Pensavo che non mi volessi più come tuo amico, mi ero spaventato.- il suo sorriso si incrinò per un secondo, imbarazzato.
-Ranmaru…
-Sono contento di vederti.- non gli diede il tempo di replicare e gli battè il pugno sulla spalla, delicatamente -Ti chiederei un abbraccio, ma forse dopo che hai detto che ti sono mancato è troppo.- ma non c'era malizia nella sua voce, era solo il suo modo di fargli capire che, più o meno, le cose erano a posto. Che era aperto al chiarimento.
-Che deficiente.- si lamentò Masaki, alzando gli occhi al cielo ed allargando le braccia. Poi gli sorrise ancora -Un abbraccio solo però, che non voglio si sappia in giro.

 

Masaki odiava parlare di cose importanti da fermo. Sentiva sempre il bisogno impellente di muoversi, come se farlo gli conciliasse il discorso. Ranmaru lo sapeva bene, quindi si era alzato non appena avevano finito di salutarsi e lo aveva invitato a passeggiare per la strada di fronte casa sua.
Era mattina presto, quindi non si vedevano molte persone in giro. Probabilmente erano tutti a lavoro, o a scuola. Ma la strada semideserta sembrò a Masaki il posto perfetto dove parlare con il suo migliore amico.
-Masaki, non correre, ho una certa età.- si lamentò Ranmaru, tirandolo per il cappuccio del cappotto. Il più piccolo replicò con un "eh?" poco intelligente. Poi gli chiese scusa. Era più forte di lui, non riusciva a camminare lentamente. Si era dimenticato che per Ranmaru invece era la norma. Cercò di mantenere un'andatura a metà per non perderselo per strada.
In quei giorni aveva camminato moltissimo, si ritrovò a pensare con stupore, senza un motivo particolare. Atsushi teneva il suo passo senza problema.
-Non cambi mai, eh?- rise Ranmaru. Teneva le mani nella tasca del suo maglione (non aveva freddo?) e non lo guardava. Quando si voltò verso di lui, fu per correggersi -Anche se c'è qualcosa di diverso. Non saprei dire cosa.- e sorrise in modo forse un po' malinconico, come se gli dispiacesse essersi perso il cambiamento del suo migliore amico.

Masaki si sentiva cambiato, in effetti. Prese una grande boccata d'aria prima di parlare, come per prepararsi.

Da cosa cominciare? Non poteva certo rivelargli che il suo defunto ragazzo fosse tornato per aiutarlo a superare il lutto, lo avrebbe preso per pazzo -Sto…- si morse l'interno delle guance. Percepì lo sguardo di Ranmaru spostarsi da lui, come se l'amico sapesse che altrimenti gli avrebbe messo addosso troppa pressione. Lo ringraziò mentalmente -Sto facendo del mio meglio.- cominciò, ed era la verità.

Ranmaru rispose con un basso mh-mh di assenso.

-C'è questa persona—Fudou, te ne ho parlato…

-Il tuo tutor dell'università?

-Mh, si. Mi ha aiutato molto.

-Si, me lo hai detto.

Ancora, il tono di Ranmaru lasciò trapelare del rammarico. Masaki poteva quasi sentire i suoi pensieri "io non sono riuscito ad aiutarti, invece". Si morse il labbro con forza -Sto uscendo. Mi cucino da solo (poco, non sono bravo lo sai). Ho incontrato i miei genitori.- erano tutte cose che aveva già detto al suo migliore amico, per messaggio o via chiamata. Ma sentiva di doverlo fare anche di persona -Ieri ho preso il telefono ed ho risposto ai messaggi di tutte le persone che mi hanno scritto nelle ultime settimane.- sentì la lingua sciogliersi piano, man mano che andava avanti -Mi ha scritto persino Hikaru dall'Italia.- rise piano -Mi sono sentito davvero uno schifo. Voi siete… avete tutti pensato a me. Mi siete rimasti vicino nonostante tutto. Ed io vi ho ripagati comportandomi come un cretino.- scrollò con forza le spalle ed aggrottò le sopracciglia -Mi dispiace di averlo capito solo adesso. Atsushi- e prese fiato -è…- si fermò in mezzo al marciapiede. Teneva gli occhi fissi sulle proprie scarpe. Ranmaru si fermò di fianco a lui nel momento stesso in cui, deglutendo, si correggeva -era la persona più importante della mia vita.- il cuore gli si strinse in una morsa che minacciò di soffocarlo e per un attimo a Masaki sembrò di aver sognato quelle ultime settimane, la sensazione che Atsushi non fosse a casa ad aspettarlo. Per un attimo la sua morte fu nuovamente reale, tangibile, e Masaki realizzò che era effettivamente avvenuta. Sentiva che avrebbe potuto finire schiacciato dal peso di quella consapevolezza, ma si sforzò di pensare ai suoi genitori, ai suoi amici, a Ranmaru lì fermo di fianco a lui e trovò la forza di andare avanti -Ma questo non significa che fosse l'unica. La mia vita è piena di persone importanti, e io l'avevo dimenticato. E sono stato uno stupido…- ed alzò lo sguardo a cercare quello di Ranmaru, incapace di comunicargli a parole quello che stava cercando di dire. Lo trovò, e la morsa nel suo petto si sciolse piano nello scoprirvi comprensione. Ranmaru, come continuava a dimostrargli, capiva.

-Te lo sei ricordato, però, non è vero?- gli domandò, le mani in tasca. Gli sembrò ringiovanito di dieci anni, il Kirino Ranmaru dei tempi delle medie.

-Me lo sono ricordato. Ed è questo che mi sta aiutando più di qualsiasi altra cosa. Le persone importanti della mia vita.- e gli rivolse un sorriso tremolante. Sentiva di poter piangere da un momento all'altro, specialmente quando vide l'espressione di Ranmaru sciogliersi. Era evidentemente nella sua stessa situazione -Masaki, mi dispiace se non sono riuscito… io…- balbettò, sporgendosi verso di lui nel tentativo di formulare il suo pensiero- Pensavo di non essere abbastanza…

-Senza di te sarebbe stato tutto più difficile. Cavolo, Ranmaru, non ti rendi conto di quanto tu mi abbia aiutato. Solo essendoci. Sei stato l'unico collegamento con la realtà che ho avuto fino a una settimana fa. Hai avuto più pazienza di quanto chiunque altro avrebbe sopportato, hai creduto in me. È grazie alla tua fiducia in me che io sto provando a reagire, non devi… non scusarti neanche per scherzo.- sentì le lacrime riempirgli con forza gli occhi. Anche Ranmaru stava piangendo, silenziosamente. Annuì, a confermargli che aveva compreso. Sembrava così sollevato, ed anche Masaki si sentì più leggero.

-Dimmi solo che va bene, adesso, per davvero. Che stai meglio sul serio. Non voglio più vederti così male, non… non te lo meriti.- balbettò il suo migliore amico, senza smettere di guardarlo. Era così strano vederlo piangere. Non era mai stata una persona facilmente interpretabile, e l'essersi aperto in questo modo non faceva altro che confermare la fiducia che riponeva in Masaki. E Masaki se ne sentì rafforzato. Annuì e gli poggiò le mani sulle spalle, a fargli sentire che era lì in quel momento, vivo, e ci stava provando -Sto facendo del mio meglio.- gli confermò -Prima… si, prima avrei voluto solo morire.- ammise, e strinse le labbra -Ma sarebbe stato davvero vigliacco da parte mia, non è vero?- rise senza divertimento, scuotendo la testa. Stava realizzando cose a cui mai era arrivato fino a quel momento -È difficile, ma sto arrivando alla consapevolezza che…- si fermò di nuovo, sgranando gli occhi, incredulo. Il respiro gli si fermò in gola. La testa gli girava un poco -io sono in grado di vivere senza Atsushi. Io sono in grado vivere contando sulle mie proprie forze.- ma era una consapevolezza dolorosa. Aveva cominciato a piangere, ma sorrise comunque -Non dipendo da altri se non da me stesso e…- la voce gli si incrinò. Guardò Ranmaru totalmente spaesato, annientato da quella nuova realizzazione.

Si era costruito un castello di certezze durante i suoi anni assieme ad Atsushi, durante le settimane successive alla sua morte, un castello robusto e fortificato. Ed ora, grazie anche allo stesso Atsushi, quel castello si stava sgretolando velocemente, ed era come se gli mancasse all'improvviso la terra sotto ai piedi.

Barcollò. Fu la stretta di Ranmaru a salvarlo. Lo strinse forte in un abbraccio che urlava "ci sono io", che gridava "nonostante questo ti puoi appoggiare a me, non sei da solo", e lui ci si aggrappò con forza. Strinse la presa sul maglioncino del suo migliore amico mentre balbettava -Mi sento così in colpa, Ranmaru. Non voglio lasciarlo indietro. Ho paura.

Ranmaru aveva preso a passargli con delicatezza la mano tra i capelli in una lieve carezza. Aveva smesso di piangere, ed il suo petto era un peso stabile contro la sua guancia -Hai paura per te stesso, o per lui?- fu la sua quieta domanda.

Masaki trattenne il fiato. Improvvisamente, non conosceva la risposta a quell’interrogativo. Aveva paura per la propria vita senza Atsushi, o per la vita (la morte?) di Atsushi senza di lui? Il suo era mero egoismo o un contorto atto di altruismo? Per un attimo temette che Ranmaru sapesse tutto: di Atsushi che era tornato e tutto il resto. Ma poi il suo amico continuò a parlare, senza smettere di accarezzargli i capelli. Sospirò -Sai, forse non te ne rendi pienamente conto, ma lui ti amava da morire.- rise piano, e a Masaki salì il cuore in gola -Come potrebbe, una persona che ti ha amato così tanto, volere che tu non vada avanti con la tua vita? Ovviamente non avrebbe nulla in contrario.- detto da qualcuno diverso da Atsushi stesso quelle parole lo colpivano in modo diverso. Non sapeva cosa rispondere. Ranmaru lo scostò dall'abbraccio, tenendolo per le spalle -Nessuno ti chiede di lasciarlo indietro, sai?- sussurrò, sorridendo appena -Solo, deve essere qualcosa che ti sproni a vivere la tua vita al meglio, e non il contrario.- concluse. Masaki lo guardò, perso. Annuì debolmente, comprendendo pian piano quello che l'altro gli stava dicendo.

Atsushi lo aveva amato. Lo amava. Al suo posto, Masaki cosa avrebbe fatto, se non tentare con tutte le sue forze di farlo vivere? Per la seconda volta, la nuova consapevolezza gli strinse la trachea in un nodo di commozione. Atsushi come si era sentito in quelle settimane?

Ma i suoi pensieri vennero bruscamente interrotti -E comunque, non se ne andrebbe mai veramente.- borbottò Ranmaru, alzando gli occhi al cielo -Quello appiccicoso era e appiccicoso rimane.- concluse con una risata di cuore come Masaki non gliene sentiva fare da tempo, mentre gli arruffava nuovamente i capelli.

E lì in mezzo al marciapiede Masaki, vicino al suo migliore amico in una mattinata di fine inverno, fu contagiato da quella risata e rise fino alle lacrime, grato per la prima volta da settimane di essere vivo.

 

Quando rientrò a casa per l'ora di pranzo, Atsushi era tornato.

-Non male la colazione di oggi, davvero. Com'è andata con…- cominciò a dire, ma Masaki non gli diede tempo di finire. Lo abbracciò così all'improvviso che Atsushi ammutolì. Masaki nemmeno si era tolto il cappotto.

-Grazie.- disse solo, il naso premuto contro la sua spalla. Lo strinse forte e non lasciò la presa nemmeno quando Atsushi, senza chiedere spiegazioni, ricambiò la stretta poggiando la testa contro la sua tempia.

 

 

-Giorno 20-

 

Masaki era elettrizzato. Mettendo da parte gli interrogativi che gli erano ronzati in testa sin dalla chiacchierata con Ranmaru, quella notte non aveva chiuso occhio. Più tranquillo di quanto avrebbe mai potuto pensare di essere dopo tutto quello che era accaduto, non aveva potuto fare altro che pensare e ripensare all'appuntamento che era riuscito a strappare ad Atsushi.

Forte delle sue nuove consapevolezze, poco prima di cenare, senza farsi vedere, aveva mandato un messaggio a Ranmaru per chiedergli un favore e aveva chiamato per prenotare un tavolo per due in un ristorante dove non erano mai stati: non voleva fosse una cena che ricordasse ad entrambi come erano stati prima. Le cose erano cambiate e lo aveva accettato, quindi si sarebbe distaccato dal passato quanto gli fosse stato possibile.

Per tutta la notte si era girato e rigirato tra le coperte, impaziente e nervoso come se quello fosse il primo appuntamento che avessero mai avuto.

Mentre lavava i piatti che aveva adoperato per il pranzo Masaki si chiedeva, cercando di non andare nel panico, come sarebbe stato meglio vestirsi. Forse avrebbe dovuto pettinarsi, avrebbe fatto una figura migliore.

Gli venne da ridere. Atsushi lo vedeva tutti i giorni e lo conosceva da una vita, era davvero stupido preoccuparsi di cose del genere. Però per una sera, si disse, poteva concederselo. Non pensare a nulla se non alla serata stessa.

Che poi, di solito era Atsushi ad organizzare quel tipo di appuntamenti. Masaki era più tipo da lunghe passeggiate e cioccolate calde in bar nascosti dentro stradine sconosciute, non sapeva nulla di cene o di come comportarsi. Corteggiare una persona in quel modo non gli era mai riuscito particolarmente bene. Si sentì arrossire fino alla punta delle orecchie. Che stupidaggine, corteggiare Atsushi. Era davvero una stupidaggine. Ma al solo pensiero gli veniva da sorridere.

-Pensavo che potremmo uscire un paio d'ore prima per farci un giro.- convinto di averlo solo pensato, scrollò le spalle e si voltò verso Atsushi, che leggeva distrattamente un libro seduto al tavolo della cucina.

Quello non sembrò per nulla colto alla sprovvista dalla domanda, come se stesse solo aspettando che Masaki ne parlasse. Non lo guardò subito e si schiarì piano la voce, le ciglia lunghe appena abbassate sugli occhi -Quindi… uhm, non hai cambiato idea.- mormorò, voltando pagina, inarcando le sopracciglia. Masaki avrebbe giurato fosse solo scena.

-Non ho alcun motivo per cambiare idea.- replicò soltanto, mantenendo gli occhi fissi su di lui. Atsushi sembrava schiacciato dal peso del suo sguardo. Si schiarì la voce una seconda volta. Alzò lo sguardo, infine, scostandosi con un gesto veloce e familiare la frangia dal viso -Ok.- disse solo, tirando su con il naso.

-Ok?

-Ok usciamo un po' prima.- concesse, ammiccando, quindi tornò al suo libro senza aggiungere altro. Masaki la prese come una vittoria e gli sorrise. Atsushi sembrò farsi ancora più piccolo nella sedia.

Il primo pomeriggio si trascinò anche troppo lentamente. Masaki non riusciva a stare fermo: pulì il bagno, spolverò i mobili del salotto e sistemò i ripiani della cucina per ben due volte.

Quando furono le tre annunciò ad Atsushi che era ora di prepararsi e si chiuse in bagno. Tanto, ad Atsushi non serviva. Ne uscì che era passata mezz'ora, lavato e profumato. Si era messo quelli che considerava i suoi vestiti migliori, niente più che un paio di pantaloni scuri e stretti e un maglione beige che gli stava forse un po' grande di maniche sopra una semplice maglia grigia a maniche corte. Si era pettinato i capelli con cura, e aveva deciso di legarli in una piccola cipolla sulla nuca, lasciando sciolti quelli sulle spalle. La frangia gli era cresciuto troppo, avrebbe dovuto tagliarla.

Si passò nervoso le mani sui calzoni guardandosi attorno alla ricerca del suo accompagnatore. Lo chiamò, quello fece capolino dalla loro stanza in una scena talmente familiare che a Masaki girò la testa. Strinse forte i denti tentando di scacciare i pensieri negativi -Scusa, non trovavo i vestiti che volevo. Non mi ricordavo dove fossero.- si giustificò Atsushi, passandosi una mano dietro al collo mentre lo raggiungeva in salotto.

Masaki si irrigidì come un manico di scopa, improvvisamente ancora più nervoso di prima. Eppure non c'era nulla di strano: Atsushi indossava un paio di jeans scuri appena scoloriti sulla coscia ed un cardigan nero a coste che gli aveva visto indossare decine di volte. Ma nonostante questo lo stomaco gli si contorse in una morsa piacevole, un calore familiare che però non provava da quando il suo ragazzo era morto. Cavolo, se era bello. Enormemente. Ogni volta che lo guardava, Masaki riusciva a ricordare perfettamente come si era sentito la prima volta che lo aveva visto: confuso e affascinato al tempo stesso. E arrabbiato, ma quello perché aveva l’ombrello di Atsushi impigliato nei capelli. Avrebbe voluto prendergli le mani tra le proprie e dirglielo, ma si limitò a balbettare versi sconnessi gesticolando verso la porta. Inaspettatamente anche Atsushi sembrava in difficoltà. Non lo guardava, ma non in un modo del tipo "non ti guardo perché questa situazione mi mette a disagio"; più in uno da "sono nel panico come te e non ho idea di come si gestisca questa situazione", cosa che non fece altro che renderlo ancora più bello agli occhi di Masaki.

Perfetto, nemmeno avevano messo piede fuori di casa e già la situazione era tragica.

Ancora in silenzio, si diressero verso la porta senza guardarsi ulteriormente, l'imbarazzo tangibile tra di loro. In effetti doveva essere una cosa nuova anche per Atsushi, avere un appuntamento da… insomma, nella sua situazione.

Masaki si offrì di infilargli la giacca, prendendola dall'appendiabiti all'ingresso in un gesto fin troppo plateale e porgendoglielo. -Ah.- fu la risposta di Atsushi, che si passò una mano sul viso (Masaki giurò fosse arrossito), ma lo assecondò -Grazie.- biascicò a mezza bocca.

-Di niente.- balbettò Masaki in risposta, indossando il proprio cappotto.

Neanche una volta scesi in strada riuscirono a parlare granché.

-Allora… dove andiamo?- domandò quindi Atsushi, cercando di stemperare la tensione. Sembrava assorto, concentrato, come se stesse camminando in un campo colmo di mine pronte ad esplodere da un momento all'altro e cercasse il modo di evitarle.

Masaki deglutì, cacciandosi le mani in tasca -Per favore, cerca di rilassarti.- rispose solo, fissandosi i piedi. Atsushi lo guardò ma non disse nulla, quindi continuò a parlare -Non ho intenzione di mangiarti. Cioè voglio mangiare con te. Non te. Insomma…- balbettò -stai calmo.- gesticolò, non sapendo esattamente se si stesse rivolgeno a lui o a se stesso, sentendo le orecchie farsi calde man mano che andava avanti.

Dopo qualche secondo di silenzio, incredibilmente, Atsushi scoppiò a ridere. Masaki ne fu così grato che si sarebbe messo a piangere dalla gioia.

-Scusa. No, io— Atsushi cercò di calmare le risate -scusami, davvero.- la sua espressione si addolcì -È che, te l'ho già detto, non voglio che tu…

-Si, si, l'ho capito. Non mi devo creare false speranze e tutto il resto.- sbuffò Masaki, tirando un calcio al nulla -Ma per una sera, una sera soltanto, posso uscire con la persona che mi piace senza sentirla blaterare?- borbottò, guardandolo piccato. Questa volta non se lo perse. Il viso di Atsushi prese colore immediatamente. Il più grande sgranò appena gli occhi e schiuse le labbra come per dire qualcosa. Masaki lo interruppe prima di pentirsene -Una sera sola, fai finta che ti abbia incontrato, che ne so, in università e ti abbia chiesto di uscire e tu mi abbia detto si. Come se ci fossimo conosciuti questa mattina o una cavolata del genere. Non devi dimostrarmi niente, sono io che ti ho chiesto di uscire ed io che devo…- mosse una mano in un largo semicerchio come se il gesto potesse spiegare quello che intendeva dire -fare del mio meglio per impressionarti o quello che è. Quello nervoso devo essere io, non tu.- concluse, e si tirò lo scalda collo fino al naso per non far notare all'altro il forte rossore che gli aveva colorato le guance. Cavolo, aveva appena detto una delle cose più imbarazzanti della sua intera vita.

Rimasero in silenzio per un po', poi Atsushi si permise un basso -Certo che sei diventato proprio intraprendente.-

Masaki squittì e gli mollò una spallata non particolarmente delicata, profondamente in imbarazzo, ma non gli sfuggì lo sguardo che l'altro gli aveva lanciato: confuso e affascinato al tempo stesso.

 

In realtà Masaki non aveva preparato un itinerario per quel pomeriggio. Ogni luogo che gli era venuto in mente portava con sé ricordi della loro vita insieme e passarvi del tempo sarebbe stato solo controproducente. Ovviamente questo ad Atsushi non lo aveva detto, e gli aveva proposto di perdersi come aveva fatto lui i primi giorni. Come in realtà Atsushi aveva fatto spesso, in vita.

-Che fai, mi copi le idee?- aveva riso il più grande. Lui si era limitato a rispondere con una scrollata di spalle -"Fintanto che siamo insieme…- lo aveva scimmiottato, disegnando delle virgolette in aria -… non importa quello che facciamo."- lo aveva guardato e si era portato il dorso della mano alla fronte in modo melodrammatico. Era scoppiato a ridere. Atsushi aveva sbuffato nuvolette di condensa in risposta; lo aveva guardato man mano sempre più curioso, attento, come se ci fosse qualcosa che gli sfuggisse, come se il Masaki che aveva davanti non fosse esattamente quello che ricordava. Ma non doveva essere una brutta cosa, visto che alla fine piegava sempre le labbra in un piccolo sorriso.

La tensione si era sciolta senza che se ne fossero resi conto e avevano parlato tanto, come forse non avevano fatto in quei giorni. Avevano parlato di qualunque cosa passasse loro per la testa: Masaki gli aveva confidato dei messaggi dei suoi compagni di squadra, di Ranmaru e di come avessero chiarito (tralasciando i punti che ancora non riusciva ad esprimere ad alta voce). Atsushi gli aveva fatto moltissime domande, come se le avesse tenute per sé per tutte quelle settimane in attesa del momento giusto per porgliele. L'argomento non aveva mai sfiorato la sua morte, forse per rispetto della richiesta di Masaki.

Era meraviglioso, si ritrovò a pensare ad un certo punto il più piccolo, come nonostante fossero passati anni (di relazione, di convivenza, di vita) riuscissero ancora a parlare senza esaurire gli argomenti. Entrambi avevano sempre saputo anche quando rimanere in silenzio, certo, ma, dopo tutti quei giorni di tensione, affrontare dei discorsi come persone normali (e non come un fantasma ed il suo ragazzo ancora in vita) era una vera boccata d'aria fresca.

Masaki sperò per tutto il tempo che le ore passassero il più lentamente possibile. E invece, contrariamente a quanto aveva dovuto attendere quella mattina prima di uscire, il tempo sembrò passare in un battito di ciglia: alle sei, Masaki guidò Atsushi alla fermata della metro più vicina.

Il più grande sembrava a disagio -Sei sicuro…- cominciò, ma fu interrotto.

-Non è che ogni volta che metto piede in metro io debba svenire. Dai, sbrigati, dovevamo essere lì già dieci minuti fa!- lo incalzò, tirandolo per la manica della giacca.

Continuarono a parlare, in metro, ma Masaki non volle dire ad Atsushi dove stessero andando. Scesero alla loro fermata, e solo una volta usciti il più grande aggrottò le sopracciglia, sull'attenti -Ehi, questo posto lo conosco. Non è dove…

Masaki rise e si avviò senza aspettarlo. Cacciò fuori dalla tasca il cellulare, mandando un messaggio, mentre Atsushi lo raggiungeva lamentandosi -Certo, facciamo i misteriosi.- borbottò e Masaki non riuscì proprio a trattenersi dal ridere di nuovo quando lo vide mettere su un piccolo broncio. Gli riservò un sorrisetto soddisfatto mentre attraversavano all'ennesimo incrocio.

-Devo sorprenderti, senpai, fammi fare.-

Atsushi roteò gli occhi, alzando le braccia in un gesto di finto disappunto -Come minimo deve essere un ristorante di otto piani tutto d'oro, se devi essere così enigmatico.

Un'altra risata -Senpai, la cena è prenotata per le nove, non stiamo andando al ristorante.

-E allora dove…

Masaki si fermò di fronte al portone  d'ingresso di un’ordinariapalazzina incastrata tra tante altre ordinarie palazzine. Si sporse per suonare al citofono.

-Ora mi ricordo! Questa non è casa di…- Atsushi non fece in tempo a finire che il portone si aprì prima che Masaki potesse premere alcun pulsante e ne uscì nessun altro che Ranmaru, che si appoggiò con un forte sbuffo allo stipite della porta. Masaki lo vide lanciare un'occhiata curiosa oltre di lui prima di rivolgergli un sopracciglio alzato, inquisitorio -Dovevi arrivare venti minuti fa.

-Cos'è, mi hai aspettato sul pianerottolo fino ad ora?

Ranmaru alzò gli occhi al cielo, poi si sporse con la testa -Non ci presenti?- domandò, lanciando un'occhiata a Masaki. Sapeva che doveva star morendo di curiosità, ma non erano lì per quello. Si schiarì la voce e si voltò verso Atsushi. Sorrise della sua espressione un po' persa -Ranmaru, lui è Fudou Akio, la persona di cui ti ho parlato. Fudou san, ti presento Kirino Ranmaru, il mio migliore amico.- dichiarò solenne. Atsushi lo guardò come se si aspettasse che qualcuno urlasse da un momento all'altro "è una candid camera!", ma poi avanzò di un paio di passi -Uhm. Piacere.- aggrottò le sopracciglia e strinse la mano che Ranmaru gli porgeva.

Masaki si sentì portato indietro nel tempo. In realtà, Atsushi e Ranmaru si conoscevano già da un po' quando Masaki era entrato nelle loro vite. Non erano ciò che si definisce amici, ma si rispettavano l'un l'altro, o almeno così avrebbe definito la loro relazione. In ogni caso, Ranmaru aveva esattamente lo stesso sguardo di quando Masaki gli aveva presentato Atsushi come suo ufficiale ragazzo: "fagli male e dovrai vedertela con me". Era assolutamente divertente. Alla fine, però, lo vide rilassarsi e sorridere -È un piacere conoscere la persona che è stata di così tanto aiuto a Masaki. Mi ha parlato molto di te.- concesse, ed Atsushi annuì, rivolgendo a Masaki uno sguardo stupito ed anche un po' lusingato, il più piccolo ci avrebbe scommesso.

Masaki scrollò le spalle e sviò il suo sguardo, improvvisamente in imbarazzo -Si, ok, tutto bello, ma siamo già in ritardo quindi…- borbottò.

-E chissà per colpa di chi, vero?- il tintinnare di qualcosa di metallico attirò l’attenzione di Masaki. Ranmaru gli avvicinò un mazzo di chiavii -Ti giuro, se solo me la graffi

-Sei il miglior amico del mondo.- tagliò corto Masaki, indietreggiando e tirando di nuovo la manica della giacca di Atsushi -Vieni, da questa parte.- gli intimò -Te la restituisco domani mattina!- gli gridò, ma già si era avviato lungo il marciapiede.

-I caschi sono nel bauletto!- riuscì solo a gridargli il suo migliore amico prima di aggiungere un -È stato un piacere, Fudou san!- e chiudersi la porta alle spalle.

Atsushi non aveva fatto un fiato, probabilmente troppo confuso per parlare. Seguì Masaki fino ad una piccola discesa poco lontano dalla palazzina, dove erano parcheggiate diverse auto e qualche moto -Masaki, ma che cavolo?- domandò, perplesso -Devo forse preoccuparmi—?

Masaki non gli rispose fino a che non si trovarono di fronte ad una bella moto nera lucidata come fosse nuova. Spalancò le braccia -TA-DAA.- esclamò, facendo tintinnare le chiavi che aveva in mano -Indovina chi si sposterà in moto questa sera?- sghignazzò, particolarmente soddisfatto dell'espressione incredula che andò disegnandosi sul volto del suo accompagnatore.

-Non ci credo.- biascicò quello mentre Masaki tirava fuori dal bauletto posteriore un paio di caschi -E Kirino te l'ha lasciata? Intendo… così?- domandò, sfiorando il fianco del veicolo.

-"Ranmaru, voglio davvero ringraziare Fudou san per tutto l'aiuto che mi ha dato, ti prego, non posso raggiungere il posto dove voglio portarlo senza un mezzo di trasporto come si deve!"- ripeté Masaki, strizzandogli l'occhio. Si allacciò il casco e salì in sella. Rilassò le spalle. Aveva sempre amato le moto. Suo padre Hiroto ne aveva sempre avuta una e, appena aveva potuto, Masaki aveva preso la patente apposita, anche se non aveva mai avuto i soldi per permettersene una e quando si era trasferito a Tokyo con Atsushi non aveva avuto più modo di guidare spesso. Ma qualche volta era riuscito a farsi prestare quella di Ranmaru, come adesso. Era da davvero troppo tempo che non guidava, e la familiare sensazione del sellino sotto di lui e delle mani sui manubri lo fece sorridere -Monta su.- fece cenno ad Atsushi, voltandosi verso di lui.

L'altro ci mise un paio di secondi a capire, lo sguardo un po' perso fisso su Masaki. Poi abbassò gli occhi e balbettando un -Si.- indossò velocemente il casco. Salì dietro di lui -Sei davvero tremendo, comunque.- rise piano. Forse esitò un secondo, ma poi gli circondò la vita con le braccia e a Masaki si drizzarono i peli sulla nuca per l'improvviso e piacevole contatto. Espirò piano, quindi girò la chiave ed il motore partì senza intoppi.

-Mi fido, si?- domandò Atsushi alzando la voce  per sovrastare il rombo della moto, e sentirla così vicina colse di sorpresa Masaki, che arricciò il naso -È già capitato che ti portassi in giro in moto, ed è sempre andato tutto bene!- ribattè, piccato.

-Lo so, scherzavo, sei bravo a guidare.- rise ancora Atsushi, in tono scherzoso, e Masaki alzò gli occhi al cielo.

Uscì dal parcheggiò e risalì in strada. Poi, avvolto dalle piacevoli sensazioni della moto in movimento e delle braccia di Atsushi attorno al busto, partì.

 

Il cielo era scuro da un bel pezzo, quando arrivarono.

Avevano viaggiato poco più di un'ora (forse aveva superato un poco i limiti di velocità in un paio di punti, ma non importava). Masaki aveva amato la sensazione dell'aria fresca sulla pelle.

Ogni tanto Atsushi gli aveva fatto qualche domanda, ma non erano riusciti a parlare molto bene, tra il rumore del traffico e quello del vento. Ma era stato bello anche stare in silenzio e godersi il viaggio, nonostante con il buio non avessero potuto ammirare il panorama; le luci dei lampioni dell’autostrada prima e delle strade strette del centro abitato poi, però, erano state una piacevole compagnia.

-Siamo ad Hakone.- constatò Atsushi mentre scendeva dalla moto. Incredibilmente, riusciva ad essere elegante anche in questo. Masaki spense il motore e scese a sua volta, sfilandosi il casco. I capelli gli si erano completamente appiattiti sul capo. Vi passò una mano. Il suo accompagnatore, invece, li aveva perfettamente in ordine. Ovviamente.

-Wow, sai leggere i cartelli stradali, senpai.- sorrise in risposta Masaki, riponendo i caschi di entrambi nel baule. Per un momento cadde un silenzio calmo e piacevole. Fu Masaki a riprendere la parola -Ci sono venuto spesso, da bambino, con i miei genitori. È pieno di ryokan da queste parti e ci passavamo le vacanze. E la cucina è ottima. E poi, se non mi sbaglio avresti sempre voluto venirci, giusto?- spiegò, voltandosi a guardarlo.

Atsushi, alla luce dei lampioni, sorrise -Si, mi sarebbe piaciuto.- parlò al passato. Ma poi abbassò lo sguardo, si corresse -Ho sempre voluto venirci.- aggrottò le sopracciglia. Masaki, che si era poggiato alla moto, se ne scostò e lo raggiunse, dandogli un innocuo buffetto sulla spalla, il suo modo di ringraziare -Abbiamo ancora mezz'ora. Passeggiamo un po'?- propose, ed Atsushi acconsentì.

L'atmosfera era più calma rispetto a quella del pomeriggio. Forse era per la vicinanza del monte Hakone, ma l'aria sembrava molto più fredda rispetto a Tokyo. Alle spalle avevano il monte, di fronte, il lago (Masaki non ne ricordava il nome), sul quale si affacciavano molti templi shintoisti. Masaki ne aveva visitati alcuni, da bambino.

Si trovavano proprio sulla strada che costeggiava la sponda dello specchio d'acqua; alla loro sinistra, si aprivano negozi di souvenir, di noleggio barche o piccoli centri termali. A Masaki sembrava di vedere tutto come in un sogno. Il posto era meraviglioso, ma non riusciva davvero a concentrarsi su quello.

-La tua idea era portarmi ad Hakone sin dall'inizio?- domandò ad un certo punto Atsushi. Masaki lo guardò. C'era molta distanza fra di loro. Almeno, molta di più rispetto a quella che c'era sempre stata e che avevano tenuto quel pomeriggio. Forse era il freddo di Hakone.

-Ti piace?- replicò soltanto.

-Mh-mh.- ammise il più grande -Moltissimo. Non me l'aspettavo così.- e dopo un paio di secondi di silenzio, rise appena -Eppure è così vicina a Tokyo. È un peccato che…- si morse il labbro e si interruppe.

-Che non ci siamo andati prima?- concluse per lui Masaki. Atsushi sobbalzò, come se quelle parole lo avessero colpito fisicamente. Annuì.

Ancora silenzio.

Masaki prese fiato. Si era ripromesso di non pensarci, eppure non riusciva -Atsushi, come stai?- mormorò, il viso di nuovo nascosto nello scalda collo.

Atsushi si fermò e per un attimo lo guardò con un'ombra di disperazione negli occhi, come se l’interrogativo lo avesse ferito. Durò un attimo -Che significa? Sto bene.- sorrise al suo solito modo un po' storto, inclinando il capo come se la domanda di Masaki fosse del tutto fuori contesto.

-Non lo so, te lo sto chiedendo.- fece una pausa -Sai, mi sono reso conto…- si grattò il naso -Queste settimane è stato sempre un continuo "io, io, io".- incassò il capo tra le spalle, colpevole -C'è stato spazio solo per me e… sai, insomma, tutta la storia del mio andare avanti e tutto il resto. Però…- aggrottò le sopracciglia -Tu? Come… come stai?- domandò, guardandolo negli occhi. Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Forse la domanda era stupida. Forse Atsushi sarebbe scoppiato a ridere e gli avrebbe detto che non c'era nulla di cui preoccuparsi.

Ma Atsushi sospirò e sviò il suo sguardo per un attimo, prima di scuotere la testa e tornare a sorridergli -Non avevi detto che per questa sera non avremmo dovuto pensare a questo? Così vanifichi i miei sforzi di essere un bravo senpai e assecondarti.- rise e socchiuse gli occhi. Oh. Vederlo così, stretto nel suo cappotto mentre le luci dei lampioni gli illuminavano il viso, il lago sullo sfondo. Masaki avrebbe potuto innamorarsi di lui altre infinite volte solo guardandolo.

-No, io, volevo solo…- balbettò, non sapendo come esprimere quello che gli passava per la testa. Non gli fu difficile dimenticare quella preoccupazione che lo aveva colto per un attimo soltanto.

-Solo per stasera.- ripeté piano Atsushi, quindi si voltò verso il lago e senza aggiungere altro andò a poggiarsi alla balaustra che vi si affacciava. Masaki lo raggiunse e gli si affiancò. Non era molto alto, il lago era appena sotto di loro.

Masaki lo guardò per un po', torturandosi le mani: Atsushi rimaneva in silenzio, gli occhi puntati sull'acqua. -È un bell'appuntamento?- gli chiese quindi. Gli si avvicinò un poco di più, il cuore che gli martellava forte nel petto. Non avrebbe saputo dire cosa ci fosse di diverso quella sera rispetto a tutte le altre sere che avevano passato insieme in quelle settimane. Il più grande gli sembrava così vulnerabile, come se fare finta di niente, per quella sera, per lui significasse lasciar cadere le proprie difese. Masaki lo ringraziò mentalmente e promise a se stesso che avrebbe fatto di tutto per rispettare quella fiducia e non approfittarne, anche se l'idea gli faceva male.

Atsushi, ancora, rise -Non me lo puoi mica chiedere prima di cena.- si voltò verso di lui, la guancia poggiata al palmo della mano -Hai ancora qualche ora per rovinare tutto.- lo prese in giro, e Masaki arrossì come un cretino. Lo colpì con uno schiaffetto insignificante sulla spalla, cosa che fece solo ridere di più l'altro, che glielo restituì. Cominciarono così a giocare come due bambini, come avevano fatto con le palle di neve uno dei primi giorni in cui Atsushi era tornato. Masaki si lamentava e rideva insieme -Dai, ti ho sorpreso, dovresti almeno ammetterlo questo!- borbottò, ma Atsushi non aveva intenzione di dargliela vinta e scosse la testa -Non lo saprai fino a che non saremo tornati a casa.- gli tirò piano la manica della giacca. Ridevano entrambi, piano, come se fosse un segreto.

-E se io decidessi di non tornarci? Guido io ti ricordo.- minacciò il più piccolo trattenendo a stento un sorriso, e provò ad arruffargli i capelli. Atsushi gli fermò la mano e gli lanciò un'occhiataccia: i capelli no -E allora non lo sapresti mai.

-Ma dai.- Masaki sbuffò e sciolse delicatamente la presa della mano di Atsushi sulla sua, cercando il suo palmo con il proprio ed intrecciando le dita alle sue prima che l'altro potesse ritrarsi -Almeno, ti sta piacendo?- abbassò la voce nel chiederglielo, perché non sapeva come adesso erano molto più vicini di prima.

Atsushi era ammutolito. Ma non si ritrasse -… Non è male essere corteggiati, per una volta.- ammise, e la sua espressione si addolcì. Era una dolcezza malinconica, però. Masaki perse un battito quando sentì l'altro ricambiare la stretta e piegare le dita sulla sua mano -Non è male.- ripeté, mantenendo il tono basso.

Masaki si morse forte il labbro. Poi, si permise di avvicinarsi ancora un poco. Atsushi lo guardava attento, valutando se scostarsi o meno, ma il più piccolo non fece nulla di più che poggiare la fronte sulla sua. Il contatto con la pelle fresca del viso del più grande lo fece rabbrividire. Trattenne il fiato, ed anche l'altro lo fece, lo sentì -Non è solo per me.- mormorò Masaki, chiudendo gli occhi -È per tutti e due. Voglio che tu stia bene, stasera. Ti farò stare bene.- promise e, quando li aprì di nuovo, vide passare nello sguardo di Atsushi quell'ombra che aveva colto poco prima. Ancora, durò solo un attimo, perché, dopo aver rilasciato un sospiro, il più grande sciolse la presa sulla mano di Masaki e indietreggiò. Gli sorrise, vacuo -Se non ci sbrighiamo faremo tardi, però. E perdere il tavolo sarebbe un ottimo modo per rovinare l'appuntamento, sai?- gli strizzò l'occhio e Masaki gli sorrise, più che per vero divertimento, per assecondarlo -Va bene.- concesse, e insieme si avviarono, la luna e il lago alle loro spalle.

 

Mangiarono udon e okonomiyaki, e anmitsu per dessert, e anche Atsushi si permise di averne a sazietà, anche se non ne aveva bisogno.

Uscirono dal ristorante satolli e sorridenti, come se il buon cibo li avesse aiutati a rilassarsi. Camminarono ancora e ancora parlarono, poi rimasero in silenzio e in silenzio concordarono di tornare a casa.

Per tutto il viaggio di ritorno il peso di Atsushi sulla sua schiena tenne a Masaki caldo e lo confortò, anche se non sapeva per cosa dovesse essere confortato.

Arrivarono a casa che la mezzanotte era passata da un bel po', ridendo piano quando Masaki rischiò di inciampare sul primo scalino della rampa di scale che conduceva al loro appartamento, al terzo piano. Tutto era andato esattamente come un normale appuntamento sarebbe dovuto andare: l’imbarazzo, il parlare piano, la cena che dura troppo perché si cerca di non farla finire. Quando si chiusero la porta alle spalle, Atsushi vi si poggiò. Sorrideva, aveva le guance arrossate per il freddo e gli occhi grandi di divertimento. Masaki, per l'ennesima volta quel giorno, lo guardò e per un secondo anche il mondo attorno a loro tornò alla normalità, come era stato prima e come sarebbe dovuto essere. Allungò una mano e scostò piano una ciocca di capelli dal viso del più grande, che lo guardò più preso alla sprovvista che turbato -Allora?- gli domandò -Com'è andata?- ancora una volta sussurrò, complici la notte e il silenzio.

Atsushi abbandonò la guancia alla sua mano -Sono stato bene.- disse -Grazie.- mormorò. Prese la mano che Masaki teneva sulla sua guancia tra le sue -Grazie.- ripeté, e si aprì in un sorriso talmente triste che Masaki percepì un buco aprirsi nel proprio stomaco.

Masaki sorrise a sua volta, con l'improvvisa voglia di piangere, e si scostò da lui facendo affidamento su tutta la forza di volontà che aveva. Ma Atsushi strinse forte le sue mani -Masaki.- lo chiamò, a voce appena più alta, come per paura che non potesse sentirlo.

-Mh?- riuscì solo a rispondere il più piccolo, respirando piano con la bocca, come se non riuscisse ad inalare abbastanza aria. Gli formicolavano le punte delle dita. Il battito del cuore gli rimbombava nelle orecchie.

-Solo per questa sera è un normale appuntamento con un ragazzo che ho conosciuto all'università.- Atsushi tornò ad abbassare la voce.

Masaki sentì le gambe farsi molli come gelatina -Solo per questa sera.- confermò, annuendo lentamente.

-Ti prego. Solo per questa sera.- ripeté ancora Atsushi, e Masaki non sapeva dire se lo stesse pregando per lui o per se stesso. I loro nasi si trovavano incredibilmente vicini, così, ad un tratto, e si sfioravano quasi -Domani sarà tutto come al solito.- aggiunse solo il più grande e, prima che potesse ricevere una risposta, poggiò la fronte su quella di Masaki ed i loro nasi si scontrarono. Atsushi espirò forte sulla sua bocca e Masaki inspirò tremante il bacio che seguì. Le labbra di Atsushi trovarono morbide le sue come tante altre volte era successo e fu talmente improvviso che gli girò la testa. Lo aveva desiderato così tanto, eppure non avrebbe mai pensato che potesse confonderlo a questo modo. La testa gli ronzava piacevolmente e lo stomaco sembrava essersi come ribaltato. Le gambe non erano altro che pesi morti, quindi strinse le spalle del più grande per non cadere. Le spostò piano tra i suoi capelli mentre muoveva le labbra sulle sue impacciato. Non era passato poi così tanto tempo dall'ultimo bacio che si erano dati, ma già si era dimenticato come si faceva. Atsushi si aggrappò al suo viso, tenendolo tra le mani come se avesse paura che potesse scappare. Il fruscio dei loro cappotti era l'unico suono che riuscivano a sentire. Si scostarono solo quando non ebbero più fiato, il respiro corto. Atsushi teneva ancora le mani sul suo viso, e strofinò la fronte contro la sua. Masaki sentiva gli occhi pizzicare, quindi li tenne chiusi e si beò di quegli ultimi momenti. Non era stato niente più che un breve contatto, eppure c'era stato qualcosa di disperato in quel bacio che lo aveva completamente annientato.

Atsushi prese fiato, tremante -Ti ringrazio per avermi riaccompagnato a casa.- disse, sorridendo appena. Anche lui aveva chiuso gli occhi.

Masaki rise, ma gli uscì più un singhiozzo -Non potevo lasciarti tornare da solo a piedi, al buio.- lo assecondò. Ora stringeva forte i suoi polsi -Potremmo…- si morse talmente forte il labbro che sentì il sapore del sangue in bocca -Potremmo rifarlo, se ti va. Una sera di queste.

-Una sera di queste.- percepì Atsushi annuire piano contro la propria fronte.

Rimasero in silenzio solo qualche altro secondo. Qualche altro secondo ancora.

-Buonanotte, Masaki.- sussurrò infine Atsushi, quasi impercettibile.

-Buonanotte, Atsushi.- non volle guardarlo in viso. Si alzò in punta di piedi per lasciargli un breve bacio sulla fronte, poi si voltò e, senza nemmeno sfilarsi il cappotto, fuggì in camera sua, loro, la pressione delle labbra di Atsushi ancora impressa sulle proprie.

 

 

-Giorno 21-

 

Gli incubi non lo lasciarono in pace nemmeno quella notte.

In realtà, ogni volta, quando ci pensava lucidamente da sveglio, il suo sogno ricorrente non sembrava così tremendo, ne aveva avuti di molto peggiori durante la propria vita. Però la sensazione di essere completamente solo in casa propria era opprimente. Certo, c'era sempre qualcuno che lo chiamava e lo pregava di vivere, il che doveva significare che del tutto da solo non doveva essere, ma le loro voci erano troppo insistenti e lo spaventavano.

Questa volta, il sé del sogno provò ad affacciarsi dalla finestra della propria stanza, da quell'unico spiraglio che faceva filtrare luce tra le assi di legno. Ma la luce era così forte fuori da ferirgli gli occhi e cadde all'indietro gridando. In quel momento le voci si fecero più forti e si sentì soffocare. Gridava nell'inutile tentativo di sovrastarle e si trascinò all'angolo della stanza, tra il letto e l'armadio, chiudendo gli occhi e tappandosi con forza le orecchie con le mani, rannicchiandosi su se stesso nel tentativo di farle smettere, quelle ed il forte stridio della macchina che slittava fuori dalla finestra e che colpiva qualcosa, qualcuno, con violenza, ma che quella volta non fece in tempo ad arrivare.

Si svegliò nel mezzo del sogno al suono delle proprie urla, sudato fradicio. Gli doleva l'intera parte sinistra del corpo e mentre cercava di mettere a fuoco la propria camera, si agitò su se stesso, trovandosi impigliato in qualcosa. Si mosse ancora, andando a sbattere contro una superficie dura alla sua destra -Cazzo- biascicò, tenendosi il naso mentre il panico si faceva strada nel suo stomaco, stringendoglielo in una morsa. La testa gli girava per l'ansia che il sogno gli aveva appiccicato addosso e per l'improvviso terrore che provava: dov'era?

Prima che riuscisse a fare altro udì una porta aprirsi e qualcuno accese la luce -Masaki?- chiamò allarmata una voce: era Atsushi. Masaki si rilassò immediatamente e si guardò intorno. Gli ci vollero almeno dieci secondi prima di capire di essere nella propria stanza. Era sul pavimento, semi avvolto nelle proprie coperte. Aveva sbattuto il naso contro la base del letto. Era a casa sua, non c'era niente di cui preoccuparsi.

Prese una grande boccata d'aria e si passò una mano sul viso, sentendosi profondamente stupido. Dove altro sarebbe dovuto essere? Il ricordo della luce accecante del sogno, però, lo fece rabbrividire.

-Masaki?- chiamò ancora Atsushi, e lui in risposta alzò una mano, biascicando un "sono qui"; lo sentì camminare attorno al letto e comparire sopra di lui.

-Che ci fai sul pavimento? Stai bene?- domandò il più grande, chiaramente preoccupato, abbassandosi per aiutarlo a districarsi dalle coperte. Anche Masaki cercò di liberarsi come meglio poteva. Tenne ostinatamente lo sguardo basso per tutto il tempo, sia perché si vergognava profondamente di essersi fatto trovare così, sia perché i ricordi della sera precedente gli erano tornati con prepotenza in mente. Non avrebbe saputo affrontare Atsushi adesso.

Ma l'altro non sembrava curarsi di questo, perché quando gli diede una mano a tirarsi su sostenendolo per il braccio, gli lanciò uno sguardo sospettoso -È l'incubo di cui mi parlavi?-

Masaki si scostò delicatamente dalla sua presa e si mise a sedere sul letto. Non aveva veramente voglia di parlarne con lui, in quel momento -Che ore sono?- chiese invece.

Atsushi rimase in piedi di fronte a lui per qualche secondo prima di sedersi al suo fianco -Lei sei meno venti.- poi si passò le mani sui calzoni, guardandosi attorno indeciso. Si alzò, scomparve oltre la porta e tornò con un bicchiere d'acqua in mano -Tieni.- gli offrì -Allora?- lo incalzò. Masaki ringraziò a bassa voce e bevve d'un fiato, sollevato. Sentiva il suo sguardo addosso e si mosse a disagio sul posto. Annuì -Mh-mh.- rispose solamente, e si permise di lanciargli un'occhiata: Atsushi aveva l'espressione che assumeva sempre quando era profondamente turbato. Non era un buon segno. Diventava davvero pedante se era preoccupato sul serio. Insomma, già lo aveva largamente dimostrato con tutta quella storia dell'aiutarlo ad andare avanti, quindi non era una sorpresa. Ma vederlo entrare ancora di più nella modalità "genitore iperprotettivo" lo metteva ulteriormente a disagio.

Ma non gli chiese altro. Attese in silenzio che Masaki aggiungesse qualcosa, come se fosse perfettamente consapevole che alla fine avrebbe ceduto. Era uno di quei lati di Atsushi che Masaki non sapeva dire se apprezzasse o meno. Spesso portava avanti questo silenzio, in attesa. La maggior parte delle volte era per dare a Masaki il tempo di elaborare e trovare il modo giusto di comunicargli quello che aveva da dire. Masaki era sempre stato parecchio permaloso, ma allo stesso tempo molto chiuso in se stesso, ed era stato difficile per lui imparare ad aprirsi con Atsushi. Aveva avuto molto tempo e tutta la pazienza del più grande dalla sua, ma anche una volta abituatosi a essere completamente sincero con lui c'erano state volte in cui aveva preferito tenere per sé alcune cose, incapace di esprimersi. Atsushi questo lo sapeva e semplicemente attendeva fino a che non fosse stato pronto. E questo Masaki lo aveva sempre apprezzato.

A volte, però, aveva usato questa tattica durante i loro litigi. Nonostante tutto, tra i due era Masaki quello che, sentendosi messo alle strette, parlava senza pensare. Molte volte dalla sua bocca erano uscite parole di cui si pentiva tutt'ora. Atsushi, invece, non alzava praticamente mai la voce e cercava sempre di analizzare la situazione in modo obbiettivo. Le rare volte in cui si erano scontrati in litigi pesanti e Masaki aveva esagerato, Atsushi aveva finito per negargli la parola, Masaki non aveva mai saputo se per evitare di essere cattivo a sua volta o perché si sentiva enormemente ferito. Masaki odiava quel modo di fare, anche se con il senno di poi si rendeva conto che nemmeno lui stesso si sarebbe parlato. Spesso però tutto si risolveva in fretta, con Masaki che ritirava immediatamente quello che aveva detto o che chiedeva scusa. Poi anche Atsushi chiedeva scusa. A volte piangevano come cretini o facevano l'amore. Ripensarci in quel momento gli tolse il fiato.

Atsushi manifestava con il silenzio sia il suo sostegno che il suo disappunto e questo lo aveva sempre confuso. Quel momento non faceva eccezione.

Masaki si fissò le mani ancora per un po', prima di aprire bocca -Te l'ho già detto, è un po' di tempo che lo faccio. Non succede niente di che.- scrollò le spalle. Atsushi non smetteva di guardarlo.

-La casa senza vie d'uscita?- gli chiese in un mormorio.

Masaki annuì -Solo la finestra di questa camera è bloccata con delle assi di legno.- la indicò -Potrei uscire da lì, ma cadrei giù e rischierei di morire, quindi rimango dentro per tutto il sogno.- continuò, torturandosi le dita.

Atsushi gli poggiò una mano sulla spalla. Era calda. Masaki sobbalzò impercettibilmente -Hai detto… il suono di una macchina che slitta, vero? L'altro giorno? Lo hai sentito anche oggi?- chiese, lentamente. Era evidente non volesse turbare Masaki più di così.

Non ci stava riuscendo particolarmente, ma Masaki apprezzò il tentativo -Non oggi. Mi sono svegliato prima.- abbassò il capo. Non voleva parlarne, si vergognava. Era un sogno stupido. Si odiava per aver introdotto il discorso, giorni prima. Atsushi lo avrebbe preso per scemo. Ma la sua bocca parlò come se fosse indipendente dal resto del corpo -Di solito…- si fermò. Non sapeva come dirlo senza sembrare pazzo.

Atsushi strinse appena la presa, a confermargli che era lì. Ma non disse nulla, ancora.

Masaki si sentiva come se un grosso mattone gli si fosse fermato in mezzo allo stomaco. Sapeva che l'unico modo per sbarazzarsene era parlare e sfogarsi, ma non lo trovava affatto facile -Sento sempre… ah, diamine, qualcuno che parla.- ammise. Non alzò lo sguardo per controllare l'espressione dell'altro -Prima eri solo tu. Poi Hiroto e Ryuuji. Pian piano si sono aggiunte altre voci– sono voci, io sono da solo in casa. Mi dicono…- si passò una mano sul viso, nervoso -Mi dicono di resistere, di continuare a vivere, non lo so più. A volte si confondono e non capisco.- prese a giocherellare con il bordo del bicchiere che teneva tra le dita -E continuo a non capire. Io sto facendo del mio meglio, no?- aggrottò le sopracciglia. Era proprio quello il punto -Ho deciso di farmi aiutare, sto cercando di non lasciarmi andare e tutto il resto. Ti sto dando ascolto, sto capendo. Perché continuano a tormentarmi? Non sto facendo abbastanza?- trovò il coraggio di guardare Atsushi e lo vide per la prima volta apertamente sofferente. Stringeva forte le labbra e si fissava i piedi in silenzio.

-È una stupidaggine, ok, mi passerà.- liquidò quindi in fretta Masaki, muovendo una mano all'aria -Non devi…

Atsushi scosse la testa e si voltò a guardarlo -Stai… Masaki, hai fatto dei progressi impressionanti.- continuò. Gli prese il bicchiere dalle dita e lo poggiò a terra, circondandogli poi le mani con le proprie -Non ti rendi conto di come eri solo tre settimane fa. Hai fatto più del tuo meglio, non devi dubitarne. È di questo che sei preoccupato?- chiese. Masaki si agitò nella sua stretta, a disagio -Sembra quasi tu sia un dottore e stia parlando ad un paziente.- riuscì solo a biascicare in risposta –Così… sembri un estraneo.- soffiò.

L'altro sembrò congelare. Per un attimo la presa sulle mani di Masaki si indebolì -Non intendevo… scusami, non volevo sembrasse così.- si morse il labbro -Forse è colpa mia.- sussurrò invece, cogliendolo del tutto alla sprovvista -Forse ti ho fatto troppa pressione?- domandò, più a se stesso che a lui, le sopracciglia aggrottate.

Masaki, improvvisamente, sentì la rabbia montare dentro di sé. Fu lui questa volta a scostarsi dal più grande -Atsushi, ma che diamine stai dicendo?- sbottò, e lo sguardo di pura incredulità che gli fu dato in risposta non fece altro che indisporlo ancora di più -Ma ti senti quando parli? Come può essere colpa tua?- alzò le braccia in aria, e vide Atsushi indietreggiare un poco e balbettare un "che cosa?" senza fiato.

-L'hai detto tu, no? Tre settimane fa non ero nient’altro che un… disperato, al solo ripensarci mi faccio schifo. Mi fa schifo che tu abbia dovuto vedere come mi ero ridotto. Mi fa schifo il solo pensiero di non aver provato a fare qualcosa prima che tu arrivassi.- si sporse verso di lui e lo prese per le spalle, scuotendolo -Lo sai quante cose mi sono perso? Le persone attorno a me sono andate avanti con la loro vita mentre io aspettavo di perdere la mia. Dio, Maki e Miura hanno un bambino adesso, ed io nemmeno sono andato a trovarli. Ero diventato esattamente tutto ciò che mai avrei voluto essere di fronte a te.- aveva alzato la voce senza nemmeno accorgersene, e Atsushi lo guardava con gli occhi sgranati, incapace di dire niente -Se non ci fossi stato tu, Atsushi, mi sarei perso molto altro. Sarei morto a questo punto, se non ci fossi stato tu.- sentiva le guance calde per l’improvvisa apprensione -Forzato? Ci ho messo anche troppo tempo a capirlo. Fa un male cane, dio, mi sembra di impazzire ogni momento che penso che tra poco tu non ci sarai più di nuovo,- era a corto di fiato -ma ho capito. Ci sono arrivato. Fa male ora e lo farà dopo, ma ho scelto consapevolmente di affrontarlo, e solo perché sei arrivato tu!- strinse la presa sulle spalle di Atsushi -Non venirmi a dire che hai delle colpe quando tutto quello che hai fatto è stato solo cercare di tirarmi fuori dallo schifo in cui mi ero andato a cacciare. Sei tornato e mi hai aiutato. Cazzo, deve esserti sembrata una tale perdita di tempo, una persona patetica che non ha nemmeno la forza di reagire— le mani di Atsushi si posarono sul suo viso all'improvviso -Masaki— disse, ma lui non stava ascoltando.

-Dovrei scusarmi io. Sono così egoista che sei dovuto tornare da qualsiasi posto tu fossi per riuscire a fare qualcosa. E nonostante riconosca di essere un egoista non riesco a sentirmi del tutto in colpa perché! Ehi! Ancora per poco tu sei qui, con me, e posso toccarti, ed è talmente incredibile.- spostò le mani sulle sue braccia come a dimostrare le sue parole.

-Masaki.

- Ho avuto fin troppa fortuna così, per quanto sono stato stupido forse avrei davvero meritato di morire e invece…

-Masaki!- gridò Atsushi, e fu lui a scuoterlo con forza per le spalle per farlo smettere, questa volta.

-… e invece mi hai salvato.- concluse il più piccolo in un soffio. Non si era nemmeno accorto di star piangendo. Che scena patetica doveva essere. Abbassò lo sguardo, tentando di ingoiare il groppo che aveva in gola. Poi Atsushi lo tirò a sé con forza, premendo la faccia di Masaki sul proprio petto, e lui finalmente riuscì a piangere tutta l'ansia e il disagio che il suo incubo gli aveva messo addosso, tutto il senso di colpa che provava da qualche giorno. Lo fece rumorosamente, singhiozzando, aggrappandosi convulsamente alla maglia di Atsushi che era ancora lì, ed era stabile e caldo contro la sua guancia, vivo, ancora per un po'.

Il suo abbraccio era stretto e sicuro attorno alle sue spalle, e Masaki si sentì libero di sfogarsi come un bambino della paura che percepiva appiccicata addosso, si sentì libero di stare meglio. Atsushi gli carezzava delicatamente la schiena in ampi cerchi -Grazie.- gli disse, premendo la fronte contro il suo capo, la voce appena soffocata dai capelli del più piccolo -Grazie per avermelo detto.- gli sussurrò.

Cullato dalle sue braccia, Masaki pianse finché non ebbe più lacrime e si addormentò.

 

 

 

-Giorno 22-

 

-Io credo che sia arrivato il momento.- disse semplicemente Atsushi.

Forse era giunto a quella conclusione perché dal giorno prima a quella mattina tardi Masaki non aveva fatto nient'altro che poltrire a letto, era una sottospecie di punizione. Però Atsushi era rimasto vicino a lui tutto il tempo a non fare nulla, quindi non era giusto. Non aveva dormito con lui, comunque, e non era giusto neanche quello. Però quando si era svegliato gli aveva chiesto se avesse avuto di nuovo gli incubi. Masaki non ne aveva avuti, fortunatamente. Sembrava che la loro chiacchierata avesse aiutato. O almeno, era quello che sperava.

E ora se ne stavano davanti all'armadio che era in camera sua (loro), di fianco al suo (loro) letto, fermi come due statue. Masaki aveva da poco finito di mangiare e il pranzo rischiò pericolosamente di tornargli su -Io non credo, invece.- rispose, lo sguardo fisso di fronte a sé.

Atsushi sorrise appena, un po' malinconico (lo guardava di soppiatto) -Sai benissimo che avresti dovuto farlo, prima o poi.

-Meglio poi.

-Masaki,- lo riprese il più grande, voltandosi verso di lui -hai detto tu di aver scelto di affrontarlo. Disfarti delle mie cose è uno dei modi.- parlò, piano, e Masaki si morse forte l'interno delle guance. Aveva ragione, lo sapeva, ma questo non rendeva la cosa più semplice. Abbassò le spalle, arrendendosi. Forse era meglio farlo quando Atsushi era ancora lì con lui che non quando se ne sarebbe andato, pensò. Ma gli faceva stringere lo stomaco comunque.

-Non devi buttare tutto.- continuò il più grande -Solo quello che… è inutile.- fece un passo nella sua direzione, ma poi sembrò ripensarci e tornò indietro. Dopo il contatto fisico del giorno prima (e di quello prima ancora), nonostante gli fosse stato vicino, Atsushi aveva completamente evitato di toccarlo. Sembrava che tra di loro ci fosse di nuovo una specie di muro invisibile. Masaki non lo sopportava.

Si strofinò la fronte con le dita, gli occhi stretti, come a cercare di schiarirsi le idee. Quando lì aprì, sospirò forte. L'idea continuava a dargli la nausea, ma Atsushi aveva ragione: aveva accettato di provarci e l'avrebbe fatto fino in fondo, anche se gli girava la testa solo a pensarci -Va bene.- disse solo -Va bene.- ripeté, alzando le mani. Ma non lo guardò.

Atsushi rimase in silenzio per qualche secondo. Poi si voltò di nuovo verso l'armadio -Vuoi… una mano?- domandò semplicemente.

Masaki contemplò la richiesta. Avrebbe voluto dirgli di si -No.- rispose solo -No, devo farlo da solo.- concluse, e farlo gli costò un'enorme fatica. La gola gli doleva nel tentativo di ingoiare il groppo che vi si era formato -Non sarebbe giusto se… sai…- provò a gesticolare, ma alla fine lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Dopo il discorso che gli aveva fatto il giorno prima, non poteva appoggiarsi a lui anche per quello. Avrebbe voluto, moriva dalla voglia di chiedergli di rimanergli vicino mentre lo faceva, ma così non avrebbe fatto alcun progresso. E avrebbe fatto ancora più male, probabilmente. Doveva riuscirci da sé.

-Mh-mh.- annuì velocemente Atsushi (lo vide di sfuggita) -Hai ragione.- parlò velocemente, come se si fosse reso conto di avergli chiesto una cosa stupida -Vado a farmi un giro, allora. Torno tra un paio d'ore.- continuò, e lo guardò in attesa. Forse che cambiasse idea.

Masaki annuì e trovò il coraggio di guardarlo -Facciamo… facciamo per cena. Ho… bisogno di un po' di tempo.- parlare gli riusciva difficile. Si sentì ancora peggio nel dirglielo guardandolo negli occhi. Per un momento gli sembrò che tra i due quello più annientato dalla cosa fosse Atsushi, anche se il più grande non ebbe alcuna reazione particolare alle sue parole se non un "va bene, allora ci vediamo dopo". Lo vide avviarsi verso la porta della camera da letto.

-… Atsushi?- lo chiamò.

-Si?- si voltò lui, forse troppo velocemente.

-C'è qualcosa in particolare che vorresti io tenessi?- chiese. Gli parve una domanda un po' inutile.

Infatti Atsushi rispose con un sorriso privo di entusiasmo -No, niente. Non mi servirebbe, comunque, giusto?- poi, dopo avergli lanciato uno sguardo indecifrabile con i suoi occhi di due colori, si chiuse l'uscio alle spalle.

Masaki attese in silenzio di udire il rumore della porta d'ingresso che si chiudeva, quindi rilasciò il fiato che non si era accorto di aver trattenuto.

 

Aveva preso tre scatoloni. Li aveva trovati sul piccolo balcone della cucina. Erano troppo piccoli, forse, ma non se ne curò.

Cominciò dai vestiti.

Aprì l'armadio, la parte di Atsushi. La gola gli si chiuse dolorosamente quando il profumo del più grande gli giunse alle narici più forte di quel che avrebbe pensato. Limone e vaniglia. I suoi abiti ne erano impregnati e, senza accorgersene, Masaki gemette come un animale ferito.

L'ultima cosa che voleva era allungare una mano per prenderli e metterli via, ma si costrinse a farlo, le dita tremanti. Non se ne vergognò, ma chiuse gli occhi quando tolse dalla stampella il primo maglione. Era blu scuro e aveva uno scollo a V. Atsushi lo aveva indossato spesso durante gli anni dell'università, Masaki se lo ricordava bene. Anche a lui era sempre piaciuto quel maglione, e un paio di volte lo aveva anche preso in prestito. Lo piegò con cura e lo ripose nello scatolone. Lo guardò, fermo sul fondo in cartone, e aggrottò le sopracciglia. Le mani gli prudevano, avrebbe voluto tirarlo fuori e metterlo di nuovo al proprio posto, ma si voltò nuovamente verso l'armadio.

Prese un cardigan beige, quello che Atsushi aveva indossato al loro primo appuntamento. Avevano girato senza meta per la città e si erano infilati nel primo ristorante di tonkatsu che avevano trovato, quel giorno. Che scemo, Atsushi aveva chiesto a Ranmaru quale fosse il piatto preferito di Masaki per fare bella figura (e ovviamente Ranmaru lo aveva detto a Masaki subito dopo). Era passato tantissimo tempo da quel giorno, Masaki ancora nemmeno aveva compiuto vent'anni.

Si portò il cardigan al viso, lasciandosi andare al suo profumo per qualche secondo. Poi piegò anche quello e lo ripose nello scatolone.

Continuò.

Prese un altro maglione, uno che Atsushi aveva smesso di mettere da moltissimo tempo. Era un regalo dei suoi genitori, se non ricordava male. Masaki scosse la testa e lo poggiò sul letto: lo avrebbe ridato alla madre e al padre di Atsushi appena possibile.

Atsushi era pieno di vestiti, e Masaki non seppe dire quanto tempo gli ci volle per svuotare l'armadio. Non lasciò nulla. Piegò con cura i pantaloni, le maglie nei suoi cassetti. Mise via anche la biancheria, i calzini, il completo buono di Atsushi. Non si rese conto di aver cominciato a piangere in silenzio. Ad un certo punto, semplicemente, lacrime calde avevano cominciato a rigargli le guance.

Non era un pianto disperato come quello della sera prima. Non era solo dolore, non era solo paura. Ogni indumento che piegava, però, era come un passo in avanti, lontano dal fianco di Atsushi. Erano lacrime di malinconia per momenti che non avrebbe più vissuto, per quella parte della sua vita in cui, con i suoi alti e bassi, era stato felice con la persona che amava. Piangeva perché aveva accettato le condizioni necessarie per ricominciare a vivere.

C'era una calma dolcezza nei suoi gesti, come se stesse dicendo addio ad Atsushi proprio in quel momento. E forse era così. Salutava i rimasugli della loro vita insieme, uno ad uno, e se ne sentiva annientato. Ma non si fermò.

Si asciugò le lacrime, anche se continuavano a scendere, e cominciò a stipare nel secondo scatolone libri, dischi, fotografie di Atsushi e dei suoi genitori, del giorno della sua laurea. Lasciò fuori solo qualche volume, tra cui il Kokinshu, e la sua tesi di laurea. Dalle cornici del salotto sfilò le foto di loro due (quella volta che erano stati alle terme in Hokkaido, o quando erano andati a Venezia, e anche la foto di una delle loro visite al planetario) e le ripose con cura negli album di fotografie che avevano sfogliato qualche sera prima. Quelli non li avrebbe messi via.

Non mise via nemmeno alcuni degli utensili da cucina di Atsushi: un paio di presine e qualche mestolo. Il resto lo avrebbe restituito ai suoi genitori, comunque lui non sapeva utilizzarlo in alcun modo.

Ripose alcuni cappotti, le sciarpe e i guanti che aveva regalato al suo ragazzo durante gli anni. Ne tenne un paio, perché gli piacevano. Poi andò in bagno e svuotò l'armadietto di fianco al lavandino delle creme e dei prodotti per capelli che Atsushi aveva sempre usato. Portavano il suo profumo anche quelli, in un certo senso, ma Masaki non ne avrebbe fatto nulla, quindi resistette all'impulso di lasciarli al loro posto e riempì una busta.

Non avrebbe mai potuto eliminare l'impronta di Atsushi da quella casa e non voleva nemmeno, perché quella era anche casa sua. Eppure, già solo mettendo via qualche altro libro di testo o qualche suo souvenir, a Masaki quell'appartamento in cui aveva vissuto per anni parve desolatamente vuoto, e un grande senso di sconforto gli strinse lo stomaco.

Chiuse gli scatoloni e le buste che aveva riempito e con un pennarello indelebile disegnò un segno su quelle che avrebbe dovuto spedire ai genitori di Atsushi. Le sistemò vicino all'ingresso e rimase a guardarle per un tempo che gli parve infinito.

Aveva ricominciato a piangere sommessamente. Ci avrebbe messo tantissimo tempo a riempire il vuoto che la perdita di Atsushi stava lasciando dentro di lui e nel loro appartamento. Non ci sarebbero più state risate o litigi stupidi o tapparelle chiuse male. Non avrebbe più sentito l'odore del curry provenire dalla cucina quando si svegliava tardi la mattina, o i cuscini del divano bagnati di lacrime perché Atsushi non riusciva a guardare film drammatici senza piangere. Non ci sarebbero più stati fare l'amore nella penombra della loro stanza, o sussurri nel mezzo della notte dopo un incubo, e abbracci caldi quando fuori nevicava.

Era tutto lì, in quegli scatoloni.

Una grande parte di Atsushi era lì dentro, stipata dentro del cartone. La sua passione per il teatro e per la cucina, o per i maglioni con le fantasie a rombi, era ammucchiata dentro delle semplici scatole.

Masaki sapeva, però, e fu un sollievo, che gran parte di Atsushi sarebbe rimasta per sempre nella sua memoria anche senza le sue cose. Casa loro vibrava del suo ricordo, del loro ricordo e, per la prima volta, non gli sembrò doloroso ed anzi gli diede conforto.

Si avvicinò a una scatola e l'accarezzò, perso nei propri pensieri.

Poi andò in cucina a preparare la cena.

 

Quando Atsushi rientrò trovò il tavolo in cucina apparecchiato per due. Si mise a sedere in silenzio, mentre Masaki preparava i piatti. Niente più che del riso e qualche verdura.

-… Come stai?- domandò cercando lo sguardo di Masaki, che lo tenne ostinatamente sulle proprie mani.

-… Starò meglio.- rispose a bassa voce. Poi, trovò il coraggio di alzare gli occhi su di lui. Atsushi sembrava provato, e stanco. E triste. Enormemente triste. A Masaki si strinse il cuore. Eppure, aveva la stessa espressione di sempre. Era successo qualcosa quel giorno oppure era sempre stato così, da quando era tornato, e Masaki non se ne era mai davvero accorto?

Masaki si permise di allungare una mano per stringere quella di Atsushi -Tu stai bene?- chiese a sua volta, cercandolo.

Ma questa volta fu Atsushi a sviare il suo sguardo. Non ricambiò la stretta -Meno male.- sorrise un sorriso tremolante -Sono contento, Masaki.- mormorò -Sono veramente felice che tu ce la stia facendo.- quindi scostò la mano dalla sua e cominciò a mangiare senza aggiungere altro.

 

 

-Giorno 23-

 

Casa quel pomeriggio era silenziosa.

Doveva aver cominciato a piovere, perché il picchiettio delle gocce sulle finestre si udiva fino al divano sul quale Masaki era seduto a fare nulla. Quella mattina era uscito a fare la spesa ed Atsushi aveva declinato il suo invito ad accompagnarlo. Tornato a casa, aveva preparato un pranzo veloce e poi si era piantato sul divano in contemplazione mentre il suo senpai leggeva un libro di fianco a lui. L'atmosfera era pesante, pigra e grigia.

Non avevano parlato molto, e questo non faceva altro che aumentare il turbamento di Masaki. Dal giorno prima, quando si era accorto di quanto triste Atsushi sembrasse, non era riuscito a concentrarsi su altro. La domanda che si poneva era sempre la stessa da ore: era stato davvero così cieco da non accorgersi che ci fosse qualcosa di strano in lui, oppure era successo qualcosa di recente? Non riusciva a venirne a capo, anche se l'istinto premeva verso la prima opzione. Il che avrebbe significato che lui, concentrato com'era stato su se stesso e sui propri problemi, non si fosse reso conto di un disagio (non trovava altro modo di chiamarlo) che Atsushi stava provando da molto tempo. Certo, di qualcosa si era già accorto qualche sera prima quando erano usciti assieme, ma non aveva pensato potesse andare avanti da così tanto tempo. La constatazione lo faceva sentire un inetto.

Lanciò uno sguardo di fianco a sé, all'altro che leggeva assorto. La stanza era quasi in penombra, eppure non si era alzato per andare ad accendere la luce. A dire la verità, non sembrava nemmeno poi così concentrato. Era da interi minuti che Masaki non lo sentiva sfogliare le pagine.

Il più piccolo strinse le labbra, lasciando vagare lo sguardo sul più grande per qualche altro secondo: sulle spalle dritte e rigide, sugli occhi che parevano un po' cerchiati, tristi esattamente come li aveva visti il giorno prima. Non poggiava la schiena sul divano, e l'impressione generale era quella di una persona a disagio. Fuori luogo. Minamisawa Atsushi non era mai stato fuori luogo in casa loro, nemmeno una volta.

Questa improvvisa consapevolezza spinse Masaki ad alzarsi dal divano con un movimento veloce, che sembrò attirare l'attenzione di Atsushi. Il più grande lo seguì con lo sguardo, interdetto, mentre accendeva la luce e tornava al suo posto in silenzio. Continuò a guardarlo anche quando Masaki rimase in silenzio a fissare un non meglio definito punto di fronte a sé, come se si aspettasse che stesse per succedere qualcosa (lo conosceva davvero troppo bene).

E infatti Masaki non deluse le sue aspettative. Si voltò verso di lui, cercando i suoi occhi con insistenza -Che cosa sta succedendo?- chiese, in un soffio, talmente basso che temette per un attimo che l'altro non avesse sentito. Ma il viso di Atsushi si contrasse appena in una smorfia interrogativa. Lì, alla luce del lampadario, i suoi occhi sembravano ancora più incavati, il viso ancora più smunto -Che cosa?- chiese soltanto, a bassa voce. Il libro che stava leggendo giaceva ora sulle sue gambe.

Masaki strinse le labbra e si avvicinò di più a lui, spostandosi sul divano -C'è qualcosa che non va… vero?- sussurrò. Sentiva gli occhi incollati alla figura del più grande, incapaci di spostarsi, in cerca di un qualsiasi segno che gli dimostrasse che invece tutto andava bene. Non ne trovava. Non se ne era mai accorto, vero? La persona che amava era stata male, stava male, e lui non ci aveva fatto caso. Doveva averne conferma. Il dubbio gli stringeva lo stomaco in modo terribile.

Atsushi sembrò ritrarsi, farsi piccolo. Rise. Una risata piccola e debole. Scosse la testa, lentamente -Cosa dovrebbe esserci che non va? Piuttosto tu, ti senti bene?- il suo sorriso tremolò agli angoli -Ti fai troppe paranoie, Masaki.- gli assicurò, tornando a rivolgere l'attenzione al libro che aveva sulle ginocchia.

Il più piccolo si accostò a lui ancora un poco -Non è vero, non funziona così.- disse solo. Si sentiva come se a parlare fosse un'altra persona e non lui, troppo concentrato a studiare le reazioni di Atsushi. Era sbiancato.

-Mh?- chiese quello, inarcando le sopracciglia in un gesto esagerato, facendo per voltare pagina. Masaki si sporse e pose la mano sul libro, interrompendo il movimento del più grande -Non funziona che solo io parlo dei miei problemi.

-Non ho alcun problema.- replicò l'altro, scostandogli con delicatezza la mano. Non lo guardava -Non devi preoccuparti.-

-Non funziona che solo tu riesca a capire quando ho qualcosa che non va. È una cosa reciproca, e io non sono stupido.- continuò testardo Masaki, senza distogliere gli occhi da lui. Sentiva che le mani gli tremavano, e ringraziò che Atsushi non potesse vederle, adesso. Non era mai stato bravo nei confronti. Aveva cominciato a imparare con lui, e ormai lo conosceva talmente bene che sapeva di non sbagliarsi. Qualcosa non andava, e sapere che probabilmente non andava dal momento in cui si erano rincontrati gli faceva venire da vomitare. Certo, non aveva nessuna conferma che fosse così, ma in qualche modo ne era convinto. Non si era mai trattato solo di se stesso. Erano sempre stati in due, ed Atsushi poteva essere anche morto, ma in quel momento era lì con lui, era stato lì con lui per più di venti giorni dopo la sua morte, e per forza si era trattato anche di lui. Pure in quel momento trattava anche di lui. Masaki non lo aveva capito, troppo concentrato sui propri problemi e sulla rabbia e la tristezza che provava. Ancora una volta, aveva mostrato ad Atsushi una versione di sé assolutamente pessima.

-Masaki…- iniziò il più grande, roteando gli occhi al cielo esasperato -Ti dico che…

-Atsushi.- lo interruppe l'altro, le sopracciglia aggrottate e le labbra piegate in una piccola smorfia -Ti conosco, sai? So quando…

-Non ho niente, smettila per piacere. Stai esagerando, veramente.- gli parlò sopra Atsushi, la voce affilata come un coltello, scuotendo nuovamente il capo. Ma stava stringendo il libro con forza e le nocche gli erano sbiancate. A Masaki non sfuggì e si sporse verso di lui facendo per sfiorargli la mano con la propria - Non tagliarmi fuori. Mi hai aiutato fino ad ora, permettimi di…

Arrivò improvviso. Atsushi scacciò via la sua mano con un movimento veloce, tirandosi indietro sul divano, la schiena contro il bracciolo -Non— non toccarmi.- disse solo, le labbra strette in una linea sottile. Sgranò poi gli occhi, come se si fosse reso conto solo dopo del gesto, il braccio ancora a mezz'aria. Masaki lo guardava in silenzio, le labbra semiaperte. Si teneva la mano, stringendola con l'altra senza sapere cosa dire, i pensieri sospesi nell'incredulità.

Atsushi non lo stava più guardando. Tornò composto. Si portò indice e pollice agli occhi chiusi, massaggiandoli -Merda. Scusa.- il suo tono era sofferente -Senti, è meglio se vado a farmi un giro.- fece per alzarsi dal divano, ma Masaki si allungò prendendolo per il braccio per fermarlo. Lo sguardo che Atsushi gli lanciò era sorpreso, irritato e stanco. Terribilmente.

-Atsushi,- disse, guardandolo deciso -non sei da solo.

-Masaki, non voglio parlare. Non c'è niente di cui parlare.

-Me lo hai insegnato tu. Non puoi fare l'ipocrita adesso… dimmi cosa sta succedendo.

-Lasciami. Per piacere.- era chiaramente nervoso, e sviava il suo sguardo. Masaki percepiva la sua irritazione, ma non lasciò la presa.

- Permettimi di aiutarti.- sussurrò solo, il tono quello di una preghiera.

Ancora una volta, Atsushi si divincolò dalla sua presa in modo brusco. Si alzò di colpo e il libro cadde a terra mentre allargava le braccia -Masaki, sei l'ultima persona che può aiutarmi! Non c'è nulla che tu possa fare!- e rise appena, guardandosi attorno come a dimostrare le sue parole. Si passo una mano sul viso, sospirando forte -Per favore, non insistere.- lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Fermo lì, con le spalle incurvate e gli occhi cerchiati, sembrava più vecchio di quel che era. Masaki sentiva le dita formicolare, la strana impressione che Atsushi potesse davvero invecchiare tutto insieme lì davanti a lui, farsi piccolo ed incartapecorirsi fino a scomparire, lui che in realtà non poteva invecchiare più di così. Rabbrividì e si alzò in piedi a sua volta -Sai che insisterò. Qualsiasi cosa sia sai che puoi parlarne con me.- gli assicurò. Almeno aveva ammesso ci fosse un problema.

Masaki non sapeva cosa fare, come gestire la situazione. Raramente Atsushi non gli aveva detto qualcosa che lo turbava. Non aveva mai dovuto premere per farlo sfogare e, comunque, in una situazione normale, avrebbe aspettato. Ma in quel momento non c'era tempo, o qualcun altro con cui Atsushi potesse parlare.

-Se provi un minimo di affetto per me, non lo farai.- minacciò il più grande gesticolando lentamente, come stesse cercando di ragionare con un animale selvatico. Aveva gli occhi appena lucidi. Indietreggiò.

Masaki lo seguì, il cuore che perdeva un battito alle sue parole. Si morse il labbro con forza -Non farmi essere egoista, Atsushi.- replicò, e prima che l'altro potesse ribattere, riprese a parlare -Tra due giorni— la voce gli si incrinò pericolosamente, ma riuscì ad andare avanti -Tra due giorni tu non ci sarai più, lo sai bene. Non puoi lasciarmi con la consapevolezza di non essere riuscito ad aiutarti. Di averti lasciato… così.- mormorò, indicandolo con entrambe le mani.

Atsushi scosse la testa. Sembrava smarrito, spaventato -Non puoi farmi questo. Non è giusto.- soffiò. Nell'indietreggiare, batté la schiena contro il muro del salotto. Rimase fermo lì -Sei sleale, Masaki.- strinse le labbra e i pugni.

-Non ti fidi di me?- chiese allora il più piccolo, alzando le spalle -È questo il problema?- cercava di non dare a vedere quanto la situazione facesse stare male anche lui. In quel momento, riusciva solo a pensare che doveva aiutare Atsushi. Essere per lui il supporto che non era stato in quei giorni. Se l'atmosfera non fosse stata così pesante, avrebbe riso: per Atsushi era stato disposto a lasciarsi morire, quando non era in grado neppure di essere il suo compagno e stargli vicino. Che schifo.

-No, Masaki, no che non è così…- balbettò Atsushi. I suoi occhi vagavano per la stanza senza concentrarsi su un punto preciso, febbrili -Non dovresti preoccuparti di questo, da adesso…

-Come posso non preoccuparmi? Atsushi…

Parlarono assieme, uno sopra l'altro. Masaki concluse la frase con un "rimani la persona più importante della mia vita" disperato, in un respiro. Atsushi, invece, gridò -Da adesso in poi la tua vita sarà senza di me! In qualsiasi modo tu voglia vederla, dopodomani sarà tutto finito, non ci vedremo più!

Cadde il silenzio. Per qualche secondo, il respiro affannato di Atsushi fu l'unico suono udibile. Il suo petto si alzava e abbassava velocemente. Sviò lo sguardo di Masaki -Dopodomani. Tra poco più di quarantotto ore dovrò andare via.- mormorò. Sgranò appena gli occhi, come se non ne fosse mai stato veramente convinto e dirlo ad alta voce glielo avesse confermato in modo assoluto. Di nuovo le sue spalle si abbassarono, le braccia gli caddero lungo i fianchi -E sarò morto. Per davvero.- aggrottò le sopracciglia, come se ad aver pronunciato quelle parole fosse qualcun altro. Si portò una mano alle labbra come per soffocare la voce ed impedirsi di dire altro, e Masaki lo vide abbandonare tutto il proprio peso contro il muro. In silenzio, non riusciva a fare null'altro che stare fermo a guardarlo, il corpo d'improvviso pesante come se la gravità fosse aumentata tutta insieme.

Fece per muoversi, ma Atsushi riprese a parlare, gli occhi fissi al pavimento. La sua voce gli giunse soffocata -Il mio tempo è scaduto. Wow.- rise piano, le labbra sottili piegate in uno dei suoi soliti sorrisi storti. Osservò le proprie mani -Credevo di averlo accettato, ho avuto tempo per farlo. Di solito la gente non ha questa possibilità, vero?- alzò lo sguardo su Masaki come in cerca di una conferma, ma non gli diede il tempo di formularne una -Di solito la gente muore e basta, non ha nemmeno bisogno di accettarlo.- strinse e rilasciò i pugni. A Masaki fischiavano le orecchie in modo fastidioso, un ronzio basso e pesante.

Atsushi continuò -Se ci penso, dico, va bene, è ok, giusto? Ho avuto una vita breve, ma è stata una vita felice. Ho fatto tante cose— scrollò le spalle e sorrise di nuovo -Però…- gli si incrinò la voce -poi ci ripenso e in qualsiasi modo io lo faccia, non ne vengo a capo…- alzò ancora gli occhi su Masaki. Erano lucidi ed arrossati. Sembrò crollare contro il muro, le gambe piegate come se fosse costretto a portare un peso più grande di lui.

-Non è giusto.- soffiò, tornando a fissare il vuoto, incredulo.

Masaki si sentì morire. Per un attimo gli sembrò che le proprie gambe non potessero sorreggere il corpo e dovette appoggiarsi al bracciolo del divano, gli occhi sgranati. Il ronzio nelle orecchie aumentò. Cercò nuovamente di avvicinarsi al più grande, incapace di proferire parola, ma quello sembrò riprendersi tutt'a un tratto, e raddrizzò la schiena -Ma va bene, anche se non è giusto, penso poi.- aggiunse, gesticolando piano -Posso sopportarlo, è il prezzo da pagare, no? Per essere tornato qui ed aver avuto l'occasione di mettere a posto le cose, di poter passare altro tempo con te.- sorrise ancora, ma ormai stava piangendo. Così raramente Masaki lo aveva visto piangere apertamente di fronte a lui. Non era come quando piangeva di fronte ad un film o per un libro, quello era un tipo di pianto che non aveva mai avuto problemi a mostrargli. Ma quelle lacrime erano diverse e facevano male ancora di più, anche a lui, che per tutto quel tempo aveva ignorato le reali condizioni di Atsushi. Lui che mai si era interrogato davvero su come il più grande stesse vivendo tutta quella situazione.

-Poterti aiutare e vederti fare tutti i progressi che hai fatto fino a questo punto mi ha reso felice, davvero.- lo guardò, e subito dopo abbassò lo sguardo -Però…- e poi, ancora, premette la mano sulle proprie labbra, questa volta come ad impedirsi di andare avanti, e le lacrime scesero prepotenti dai suoi occhi. Masaki sembrò riacquistare controllo del proprio corpo. Trattenne un singhiozzo, la gola che gli doleva incredibilmente mentre con voce tremante si costringeva ad incalzare l'altro con un -Però…?- basso e grave. Non voleva sentire le sue parole, ne era terrorizzato. Sentiva di poter piombare di nuovo nello stato in cui l'altro lo aveva trovato appena arrivato. Combatté questo pensiero con forza: Atsushi aveva bisogno di questo, aveva bisogno di parlare, Masaki lo sapeva bene. Accolse la fiducia che l'altro gli stava concedendo e si obbligò ad attendere in silenzio tutto ciò che si sentiva di dire.

La voce di Atsushi uscì sottile tra le dita della mano che teneva ancora sulla bocca -… Però allo stesso tempo… il pensiero che quando me ne sarò andato la tua vita continuerà e io non potrò essere lì per condividerla— le sue spalle tremarono e socchiuse gli occhi, singhiozzando -mi uccide.- balbettò. Non lo guardava. Scivolò ancora contro il muro. Masaki dovette sedersi sul bracciolo del divano. Piangeva silenziosamente, le mani abbandonate in grembo e le spalle incurvate.

-Tu andrai avanti e farai tantissime cose e conoscerai tantissime altre persone mentre io— rimarrò fermo in questo punto, e alla fine mi supererai, e qualcuno… prenderà il mio posto.- lanciò un lamento mentre si sedeva a terra, le braccia a coprire il viso -E io voglio che sia così, è giusto che sia così, meriti che sia così, perché non puoi… rimanere fermo anche tu, sono tornato proprio per evitarlo. Ma fa così male.- ammise, i singhiozzi sempre più forti -È stato così difficile starti lontano in questi giorni, e so di averti ferito più di una volta, e ogni volta mi ha ucciso un po' di più, ma ho dovuto, non potevo…- nascose ancora di più il viso. Gesticolò -E mi sento così… egoista— è ipocrita da parte mia dirti questo dopo tutta la fatica che hai fatto per riprenderti, per questo non volevo— un altro lamento interruppe le sue parole. Masaki si alzò lentamente, le lacrime che scendevano copiose sulle sue guance.

Atsushi continuava a parlare, incapace di fermarsi, adesso -Ma non è nemmeno giusto che io te lo tenga nascosto, a questo punto, no?- Masaki si avvicinò piano e si accucciò di fronte a lui in silenzio -E mi dispiace anche di averlo fatto fino ad ora, perché di sicuro ti sembrerà che io non mi fidi di te, ma non è così, è solo che…- si interruppe quando sentì le mani di Masaki stringergli delicatamente il braccio. Singhiozzò, sviando il suo sguardo, inerme lì di fronte a lui.

-Sono qui.- disse solo Masaki, incapace di smettere di piangere -Sono ancora qui.- gli assicurò, e Atsushi gli rivolse uno sguardo talmente disperato eppure talmente riconoscente al tempo stesso, che sentì la testa girargli.

Al più grande tremò il respiro -Ho paura.- mormorò, come fosse un segreto. Masaki si sentiva pronto a mantenerlo e cercò con le mani il suo viso, carezzandolo piano. Era bagnato di lacrime. L'espressione di Atsushi crollò nuovamente -Ho paura quando penso che ad un certo punto della vostra esistenza tu, i miei amici, i miei genitori— accetterete questa cosa completamente. Ho paura di rimanere fermo a questo punto. Oh, quante cose vorrei fare ancora…- chiuse gli occhi e pianse senza freni. Masaki lo imitò, poggiò la fronte contro la sua e lo lasciò fare, prendendo quella tristezza e quella paura rendendosi conto che erano lo specchio esatto di quello che aveva provato lui per tutto quel tempo. Aveva creduto scioccamente che Atsushi non potesse comprendere il modo in cui si sentiva e invece era stato l'opposto. Piansero insieme, Atsushi lavando via tutti quei pensieri che lo avevano tormentato per giorni e Masaki incapace di trovare parole per consolarlo. Perché in realtà non esistevano, e questo lo annientava. Sperò che la sua presenza fosse abbastanza.

Si destò dai suoi pensieri quando percepì la mano di Atsushi sulla propria spalla. Alzò le palpebre e lo guardò, aveva gli occhi gonfi di pianto e le labbra strette nel tentativo di fermare altri singhiozzi -Mi dispiace.- gli disse -Mi dispiace che sia successo tutto questo.- balbettò, mentre Masaki scuoteva la testa -Non è mai stata colpa tua.- mormorò.

-Mi dispiace che sia andata così.- continuò il più grande -Mi dispiace di non esserti stato vicino come speravi in questi giorni, mi dispiace tu abbia pensato che per me non contassi o che non fosse come prima.- soffiò.

-Ero triste ed arrabbiato, e non ho capito. È a me che dispiace. Perdonami se non sono stato il compagno che avrei dovuto essere.- ammise, e fu lui a singhiozzare questa volta.

Atsushi sorrise appena tra le lacrime. Che scena patetica, vero, loro due che piangevano rannicchiati contro il muro del salotto. Masaki era certo che lo stessero pensando entrambi, eppure era anche sicuro che a nessuno dei due importasse -Adesso però sei qui.- il più grande ripeté le sue parole e lui annuì contro la sua fronte -Anche tu sei qui, adesso.- rispose, e strinse la presa sulle sue braccia, come a dimostrare le proprie parole. Atsushi era caldo contro di lui, come sempre. Caldo e vivo. Forse per poco ancora, ma in quel preciso momento non c'era niente o nessuno che potesse affermare il contrario.

-Per il tempo che ci resta,- parlò, e la sua mano andò a stringersi piano tra i capelli di Masaki -e solo per il tempo che ci resta, te ne prego…- si interruppe, ma Masaki comprese perfettamente quello che voleva dire. Solo per poco più di quarantotto ore, ti prego, torniamo come eravamo. Dimentichiamo la rabbia e la tristezza e facciamo tesoro di questo tempo che ci rimane. Masaki sentì il petto gonfiarsi di riconoscenza per la fiducia che Atsushi gli stava dando. Annuì -Per il tempo che ci resta.- assicurò.

Atsushi singhiozzò un’ultima volta e pianse ancora per un poco -Grazie.- disse. Masaki si sporse verso di lui e gli lasciò un piccolo bacio sulla guancia, le mani ora nei suoi capelli, e quello sfiorò con il naso la sua tempia. Masaki lo percepì abbandonarsi alla sua presa, le braccia che gli cingevano leggere i fianchi.

-Non smetterò mai di essere innamorato di te.- gli sussurrò il più grande, il respiro caldo che gli sfiorava le guance -Non avrei mai voluto ne dubitassi.- ammise, e le sue parole fecero bene e male al tempo stesso. Masaki lo guardò, gli carezzò le guance sorridendo un sorriso piccolo e tremolante, incapace di rispondere senza che l'emozione gli rompesse la voce in pianto ancora una volta. Qualsiasi cosa sarebbe successa in futuro sapeva che sarebbe stato così anche per lui, e sapeva che Atsushi poteva leggerglielo negli occhi. Respirò quel momento con forza, nel tentativo di imprimere ogni attimo nella propria memoria. Poi soffiò sulle labbra di Atsushi e chiuse la distanza che li separava con un bacio.

 

 

-Giorno 24-

 

Quella notte fecero l'amore.

In camera loro, sussurrando e ridendo e dicendosi stupidaggini, come era sempre stato. Masaki non ricordava come ci erano arrivati, ma aveva ben in mente tutto il resto: Atsushi che diceva cose al suo orecchio e che lo tirava piano per la manica mordendosi il labbro per non sorridere e lui che non riusciva a resistere nemmeno per un minuto e rideva sulle sue labbra prima di baciarlo ancora e ancora e ancora. A quello era abituato, anche se non se ne sarebbe mai potuto stancare.

Allo stesso tempo, però, c'era stato qualcosa di diverso. Forse la consapevolezza del poco tempo che rimaneva loro, o l'essersi finalmente chiariti, avevano velato tutto di una sfumatura di dolcezza e malinconia che era sempre stata loro estranea. Durante gli anni che erano stati insieme il sesso era stato eccitante, spesso divertente e talvolta arrabbiato, ma mai quasi disperato come lo fu quella notte. Masaki non ricordava di aver mai stretto Atsushi così tanto. Non ricordava nemmeno che ci fosse mai stato tra di loro così tanto silenzio mentre facevano l'amore. Ma non era stato spiacevole, ed anzi era sembrato giusto non dirsi nulla, una volta che Atsushi lo aveva attirato sopra di sé sul loro letto ancora sfatto da quella mattina. Le tapparelle quella notte erano rimaste semiaperte, lasciando filtrare la debole luce della luna, e per la prima volta dopo settimane Masaki aveva provato solo contentezza nel percepire casa loro come era stata prima della morte di Atsushi. Alla contentezza si era sovrapposto poi un dolce senso di malinconia, ma mai per un momento si era sentito triste. C'era stata una silenziosa promessa tra di loro, che non avrebbero perso tempo a piangere ancora su quanto fosse ingiusta la loro condizione, e così era stato tutta la notte e fu al loro risveglio.

Fu familiare: la luce del sole che entrava dalle tapparelle che Atsushi si era dimenticato di chiudere svegliò Masaki. Di solito a questo punto si voltava sulle coperte e si rendeva conto che l’altro non era di fianco a lui, probabilmente in cucina a preparare la colazione. Ma quella mattina Atsushi gli era ancora accanto. Gli carezzava piano i capelli, la tempia poggiata al suo capo.

Masaki sorrise e si girò placidamente verso di lui, circondandogli il ventre nudo con il braccio. Sentì la voce di Atsushi vibrare tra i propri capelli -Ben svegliato.- disse solo. Lo percepì sorridere e lasciargli un piccolo bacio.

-Hai dormito?- domandò Masaki stringendo appena la presa, temendo potesse scivolare via improvvisamente.

-No.- replicò Atsushi, ridendo piano -Sai che non ne ho bisogno.- gli ricordò, inclinando il capo.

-E che cosa hai fatto tutta la notte?- domandò allora il più piccolo, lasciando andare un’altra piccola risata.

-Ti ho guardato tutta la notte dormire, ovviamente.- Atsushi si scostò da lui per guardarlo negli occhi, cercando di trattenere un sorriso scherzoso.

Masaki si sentì avvampare e gli diede una leggera spinta -Inquietante.- borbottò, stropicciandosi un occhio.

Ed Atsushi rise, come non lo sentiva ridere da settimane. Il cuore di Masaki si tuffò nel suo stomaco e lui sentì la testa farsi leggera. Le orecchie gli fischiavano.

-Hai sognato, stanotte?- gli domandò poi il più grande, interrompendo il filo dei suoi pensieri. Prima di rispondere, Masaki si tirò su a sedere di fianco a lui, passandosi una mano tra i capelli arruffati per via del sonno e del sesso -No.- replicò, sorridendo soddisfatto -No, ho dormito benissimo.- ammise. Quella notte nessun incubo era andato a fargli visita e si sentiva riposato come non lo era da tempo. Poi, probabilmente aveva fatto la sua parte anche la notte con Atsushi, ma sentiva le giunture dolergli in modo piacevole, come quando al liceo terminava gli allenamenti di calcio e le gambe gli rimanevano indolenzite tutta la sera. Era  piacevole perché sapeva che il dolore derivasse dall'essersi impegnato. Arricciò il naso. Ok, si era impegnato quella notte, ma forse non era esattamente la stessa cosa. Si sentì arrossire e si passò una mano sul viso, scuotendo impercettibilmente la testa. Poi alzò le braccia e si stiracchiò, sbadigliando.

Atsushi, di fianco a lui, rise per l’ennesima volta, sporgendosi per cingergli i fianchi e attirarlo verso di sé in un abbraccio. Masaki lo lasciò fare e poggiò la testa sul suo petto (sempre così incredibilmente caldo), passando distrattamente la mano sul suo addome in una carezza. Il più grande rabbrividì al suo tocco, sospirando piano.

-Suppongo tu debba ringraziare me, per questo.- pose a bassa voce, e Masaki alzò gli occhi al cielo. Ma poi sbuffò -Si, suppongo di si.- alzò la testa e gli lasciò un veloce bacio sulle labbra -Grazie.- gli sorrise.

Vide Atsushi trattenere per un attimo il fiato. Aveva ancora gli occhi un po' gonfi dopo aver pianto il giorno prima, ma era raggiante. Sorrise e poggiò la fronte alla sua. Poi lo baciò una, due, tre volte, e Masaki rise.

-Allora, cos'è che vuoi fare oggi?- gli chiese poi, scostandogli una ciocca di capelli dietro l'orecchio con un movimento lento.

Masaki aggrottò le sopracciglia, spingendo il viso verso la mano di Atsushi -Non saprei. Tu vuoi fare qualcosa?- domandò, e si morse il labbro per trattenere un sorriso.

L'altro sembrò pensarci su, quindi scosse la testa -… Nah. Ti va di rimanere a letto tutto il giorno a fare niente?- propose.

A Masaki si illuminarono gli occhi. Annuì -È una buona proposta.- concesse, tirandosi nuovamente su a sedere -Tutto il giorno a letto, ci alziamo solo per mangiare.- pose.

Il più grande ammiccò e prima di dire altro si spostò cavalcioni sulle sue gambe. La coperta gli scivolò addosso e rimase nudo sopra di lui. Rideva -Se riuscirai ad alzarti per andare a mangiare.- inclinò il capo, scoccandogli un'occhiata carica di sottintesi, e Masaki percepì chiaramente la testa svuotarsi e le orecchie avvampare. Si agitò -Sei proprio un cretino.- balbettò, gesticolando, ma non fece in tempo ad aggiungere altro che Atsushi gli prese le guance tra le mani e lo baciò. Trovò ragionevole arrendersi ed alzò le mani prima di allacciare le braccia attorno al collo del compagno ed attirarlo ancora di più a sé.

Non era possibile abituarsi ai baci di Atsushi, veramente, gli davano talmente alla testa che ogni volta gli sembrava di non riuscire a ricordare esattamente come fosse, come se non riuscisse ad afferrare la sensazione e gli sfuggisse non appena si scostavano. Di certo gli piaceva da morire. Aveva un modo di muovere le labbra sulle sue talmente sicuro che a volte rasentava il possessivo. Segretamente, Masaki lo trovava talmente indecente da adorarlo, ma questo non lo aveva mai detto.

Si divisero che Masaki aveva già il fiatone, più per i propri pensieri che per il bacio in sé. Alzò un indice -Non penso mangeremo, oggi.- concluse, la voce piccola.

Ed Atsushi rise ancora, buttando indietro la testa. Spostò le mani sul suo collo, i pollici che gli carezzavano piano le guance -Oh, tu.- disse solo, scuotendo la testa e sporgendosi a lasciargli un bacio sul naso. Masaki ammutolì, il petto gonfio di gioia. Atsushi era così bello in quel momento, mentre rideva forte e lo baciava piano, nudo senza imbarazzo alcuno di fronte a lui. Una volta questo pensiero lo avrebbe imbarazzato, invece adesso riusciva solo ad esserne contento. Atsushi aveva deciso di farsi vedere così da lui e lui soltanto. Sorrise. Lo prese per i fianchi e gli posò un bacio sulla linea della mascella. Lui sospirò di nuovo tra le risa e si aggrappò alle sue spalle. Masaki lo prese come un invito a continuare e scese con le labbra al suo collo, lasciandovi piccoli baci.

Atsushi espirò forte e lo lasciò fare. Ma dopo qualche secondo premette sulle sue spalle e lo allontanò con delicatezza da sé.

Masaki aggrottò le sopracciglia -Mh?- lo guardò, interrogativo, la paura di aver fatto qualcosa che non doveva che gli stringeva lo stomaco. Ma Atsushi si mordeva le labbra ed aveva le guance arrossate e sembrava tutto fuorchè scontento, quindi si tranquillizzò. Lo sentì deglutire e schiarirsi la voce prima di iniziare a parlare -Prima che cominci a fare le tue cose e mi dimentichi.- iniziò, facendo ridere Masaki. Gli allacciò le braccia al collo -Mentre dormivi, sai…- continuò, guardandolo -Il sogno che fai.-

Masaki roteò gli occhi -Vuoi davvero parlarne? Adesso?- domandò, ammiccando, le sopracciglia inarcate.

L'altro trattenne un sorriso -No, ascoltami.- incalzò -Hai detto che la finestra della nostra camera- quando utilizzò la parola "nostra", Masaki perse un battito -è l'unica via di uscita, giusto? Solo che ha delle assi di legno che la chiudono.- ragionò.

Il più piccolo inclinò il capo, non capendo dove l'altro volesse arrivare -Mmm, si. Però sono troppo in alto per saltare.

-Si, mi ricordo…- Atsushi sembrò pensarci su qualche secondo, poi si aprì improvvisamente in un grande sorriso e avvicinò il volto al suo -Ci ho pensato e penso proprio che dovresti toglierle e saltare.- concluse.

Masaki si lasciò sfuggire un verso sorpreso -Cosa? Ma è alto!- protestò, alzando le braccia in protesta.

Atsushi scosse la testa -Ma se non ci provi rimarrai per sempre chiuso, no?

-Mmm…- ragionò il più piccolo.

-Promettimelo.

-… Cosa?

-Promettimi che la prossima volta che farai quel sogno proverai a saltare.

-È veramente così importante, adesso?

-Della massima importanza.

Masaki sospirò con forza -E va bene.- concesse -La prossima volta salterò.- Atsushi gli lanciò uno sguardo di sbieco e lui aggiunse un -Lo prometto! Che diamine.- borbottando, e l'altro ridacchiò ancora una volta annuendo soddisfatto. Poi si sporse verso di lui, accostando i loro visi -Bene, adesso credo proprio che dovremmo occuparci di qualcos'altro della massima importanza.- soffiò, sorridendo sghembo, e piano strusciò il bacino contro quello del più piccolo.

Masaki squittì ed arrossì, sgranando gli occhi.

Ma non ebbe di che obiettare.

 

 

-Giorno 25-

 

L'alba arrivò troppo velocemente. Il sole allungò i suoi raggi attraverso le tapparelle, che erano rimaste semiaperte anche quella notte.

Masaki non aveva chiuso occhio. Nemmeno Atsushi, di fianco a lui. Avevano provato a parlare il giorno prima, arrivata la sera, ma ogni discorso era caduto a metà. Alla fine si erano decisi a rimanere vicini, in silenzio.

Quando il primo raggio di sole sfiorò le coperte Masaki si strinse al compagno, aggrappandosi alle sue spalle. Atsushi fece lo stesso, respirando forte.

Dopo il giorno prima, così piacevole e senza pensieri, durante il quale era sembrato loro così facile ignorare la scadenza della permanenza di Atsushi che gravava su di loro come la lama di una ghigliottina, quella paura che gli attanagliava lo stomaco sembrava a Masaki troppo estranea per poter essere provata.

Avevano ancora l'intera giornata, fino alla mezzanotte, così aveva detto Atsushi. Avevano ancora del tempo, si ripeté Masaki come una nenia.

Troppo poco, però.

Quel giorno si trascinarono stanchi per casa. Fecero la doccia assieme, mangiarono assieme e parlarono poco, rimanendo vicini, come se così il tempo potesse scorrere più lentamente.

Il tramonto giunse ancora più veloce dell'alba.

L'ansia stringeva lo stomaco di Masaki con forza e gli faceva girare la testa. Piangeva, in silenzio, mentre Atsushi gli carezzava i capelli e gli lasciava piccoli baci sul capo.

Lo schermo del cellulare segnò le dieci di sera, poi le undici.

Atsushi gli aveva detto che se ne sarebbe andato dalla porta, così come era arrivato. Non sarebbe scomparso nel nulla e non sarebbe passato attraverso il muro del salotto. Avevano provato a ridere all'idea, ma nessuno dei due ci era riuscito veramente.

Le undici e mezzo.

Mezzanotte meno un quarto.

Era come aspettare il treno. Atsushi se ne stava fermo di fronte alla porta di casa come in attesa di entrare in un vagone pieno di gente con la promessa che si sarebbero rivisti presto. Ma non aveva valigie con sé, o parole di arrivederci. Aveva già pianto, quel giorno. Adesso invece sorrideva, forse per farlo sentire meno peggio, meno in colpa, pensava Masaki.

Lo vide allargare le braccia, lentamente, e corse ad abbracciarlo, i calzini che scivolavano sul pavimento del loro appartamento.

Anche in quel momento, Atsushi era incredibilmente caldo e vivo. Ancora dieci minuti, ancora dieci minuti.

-Vivi la tua vita, Masaki. Sii felice.- disse tra i suoi capelli. Lo stringeva come se non volesse farlo andare via.

-Non… Atsushi, per favore…- singhiozzò Masaki, aggrappandosi alla sua maglia. La sua presa era debole. Piangeva da quella mattina, incapace di frenarsi, e la stanchezza gli piegava le spalle.

Cinque minuti. Il cuore pareva volergli scoppiare.

-Andrà tutto bene. Hai molte persone che ti amano e ti saranno vicine.- continuò il più grande.

Masaki lasciò andare un verso disperato. Ma ingoiò le proteste. Non avrebbe reso quel momento ancora più difficile. Strinse la presa sulla maglia di Atsushi -Lo so.- balbettò -Ce la farò. Te lo prometto.- ma non smise di piangere. Alzò la testa, drizzò la schiena e guardò la persona che amava con orgoglio -Mi mancherai terribilmente.- non trattenne i singhiozzi.

L'espressione di Atsushi si incrinò per un momento, un momento soltanto -Anche tu.

Due minuti.

Si cercarono, goffi, maldestri, si baciarono. Fu un bacio terribile, umido e disordinato, ma per un momento, un ultimo momento, tutto fu normale. Al posto giusto.

Si scostarono.

Un minuto.

Si sorrisero. Masaki piangeva ancora.

Trenta secondi.

-Sono felice di aver avuto questo tempo con te. Non potrò mai ringraziare abbastanza per l'occasione che mi è stata concessa.

-Anche io. Senza di te non ce l'avrei fatta. Hai fatto per me così tanto. Oh, Atsushi…- Masaki si portò la mano alle labbra, le spalle che tremavano.

Dieci secondi.

Atsushi si diresse verso la porta, la mano sulla maniglia. Lo guardò un ultima volta. Continuava a sorridere, ma adesso stava piangendo anche lui -Ti amo, Masaki. Non dimenticarlo. Non dimenticarmi.

Masaki scosse la testa con forza -Non accadrà mai. Mai. Ti amo anche io.-

Atsushi annuì, aprì la porta e fece per uscire.

Masaki lo raggiunse, lo trattenne per un braccio. Ma la presa era debole, e lasciò cadere la mano lungo il fianco.

Si guardarono un'ultima volta, ed un'ultima volta  Atsushi gli sorrise. Fu un sorriso grande e bello, un sorriso felice.

-Addio, amore .- disse.

Poi la porta si chiuse così come si era aperta il primo giorno e cadde il silenzio.

 

Masaki pianse per un tempo che gli parve infinito.

Aprì la porta di casa solo una volta per controllare che Atsushi se ne fosse andato davvero. Quando ne ebbe la conferma la chiuse a chiave, distrutto.

Tra le lacrime, incredibilmente, si ricordò della cesta dei panni sporchi in bagno. Singhiozzando disperato decise di aprirla per controllare se gli abiti di Atsushi fossero ancora lì. C’erano. Trovò finalmente il coraggio di svuotarla degli ultimi vestiti che Atsushi aveva indossato prima del giorno della sua morte. Andò in camera loro, alzò le tapparelle e spalancò la finestra. Li buttò uno ad uno giù, lasciandoli cadere, seguendo con lo sguardo la loro discesa fino al marciapiede. Urlò, gridò alla notte il suo dolore e il suo amore perduto per sempre.

Ma andava bene. Era distrutto, disperato, triste, ma andava bene. Sapeva sarebbe successo, ma adesso aveva la consapevolezza che sarebbe andata meglio. Aveva detto addio ad Atsushi, ma non lo avrebbe dimenticato mai. Sarebbe rimasto con lui per sempre, in quell'appartamento. E quando sarebbe andato via da lì, sarebbe rimasto con lui nella sua memoria, nel suo cuore, nei suoi sentimenti.

Sospirò forte e pianse finché ebbe lacrime.

Alla fine, vinto dalla stanchezza, si addormentò.

Ma sorrideva.

Quella notte sognò di nuovo. Casa sua era completamente vuota, la porta scomparsa, le finestre anche. E poi, eccola là, quella della sua camera, l'unica rimasta, coperta dalle assi di legno come ogni volta.

Masaki è da solo, non sente più alcuna voce, non quella dei suoi genitori, non quella dei suoi amici, non quella di Atsushi. È spaventato, ma si avvicina alle assi alla finestra e scorge la solita fessura da cui filtra un po' di luce. Vi avvicina gli occhi, provando a sbirciare fuori, e grida quando la luce glieli ferisce. Indietreggia, le mani al volto, e cerca un posto dove nascondersi, ma casa è vuota di qualsiasi cosa.

Piange. Singhiozza. Perché la luce gli fa così male? Fuori è peggio che dentro? Eppure, starsene così da solo, murato dentro casa sua, non può essere di certo meglio.

Tra le lacrime, si ricorda che ha promesso ad Atsushi di provare a buttarsi. Potrebbe morire, lo sa. Ma questa volta sa che non è quello che vuole. Qualsiasi cosa gli si possa presentare oltre quelle assi, che sia la luce troppo forte o l'altezza da lì a terra troppa, ormai ha capito che vuole vivere. Ecco perché non sente più voci, pensa, perché ormai non ha più bisogno di essere convinto. Vuole vivere, e combatterà con le unghie e con i denti per riuscirci.

Ancora piangendo si avvicina di nuovo alla finestra, a grandi passi. Le sue unghie si scontrano con le assi di legno, e tira per sbarazzarsene. Si scortica i polpastrelli e fa un male cane, ma non si ferma. La prima asse si libera dalla presa dei chiodi. La getta a terra e si avventa sulla seconda. La luce svicola dall'apertura, forte, mentre lui spezza la nuova asse, si ferisce le mani. Urla, butta via anche quella. La luce è intensa e aumenta sempre di più mentre lui schioda con forza tutte le assi che rimangono.

Alla fine, le mani rovinate e sanguinanti e la luce che gli ferisce prepotente gli occhi, lascia andare un singhiozzo: la finestra è davanti a lui, le tapparelle alzate.

Timoroso si avvicina, schermandosi gli occhi con la mano. Tremante, ma risoluto nelle intenzioni, stringe la maniglia della finestra.

La apre.

La luce, incredibilmente, si fa ancora più insopportabile, e Masaki urla per il dolore.

Fa male e non vede niente, ma se non passa di lì rimarrà chiuso per sempre, per sempre da solo.

Inspira con forza l'aria che arriva da fuori, fresca, e si arrampica sul bordo della finestra.

Rimane in piedi solo per qualche secondo ancora, poi guarda giù.

Sorride, perché è riuscito a liberarsi.

Poi si butta giù, immergendosi nella luce.

 

 

 

 

La luce è accecante.

Gli ferisce gli occhi e non riesce a mettere a fuoco nulla.

È bianca e forte, gli fa girare la testa.

Non capisce da dove provenga, e tutt'a un tratto si sente spaventato.

Ma non dura molto, le palpebre sono pesanti, e anche se cerca di combatterlo, si chiudono ancora e la luce scompare.

 

La seconda volta, macchie colorate dipingono l'interno delle sue palpebre prima ancora che apra gli occhi e la luce lo colpisca.

Ma questa volta, in qualche modo è appena meno fastidiosa, e figure indistinte vi si delineano nel mezzo.

Oltre alla luce, questa volta nota altri particolari: la testa gli duole, le orecchie gli fischiano, qualcuno lo sta chiamando (stanno chiamando lui, vero?), ma non fa in tempo a capire chi, gli occhi si richiudono troppo in fretta e non riesce ad impedirlo.

 

La terza volta, la luce è sopportabile.

Quanto tempo passa da una volta all'altra? Dove si trova?

Forse continuano a chiamarlo, e qualcuno gli tocca il viso. Qualcosa di fianco a lui fa rumore, un rumore lento e incessante, ma non riesce ad afferrare cosa.

Torna a dormire.

 

Si sveglia ancora, questa volta perché si sente chiamare distintamente.

La luce è ancora fastidiosa, ma riesce a tenere gli occhi ben aperti. Spalancati. Il sonno gli appesantisce il corpo, non sente le braccia, le gambe, un nodo gli stringe la gola, ha paura.

Piano, le figure indistinte che ha già scorto cominciano a definirsi.

-Va tutto bene, è tutto a posto.- dice qualcuno.

Conosce quella voce. È terribilmente familiare, ma non riesce ad associarla ad un viso -Masaki, riesci a sentirmi?- lo chiamano ancora. Chi parla?

Una nuova luce, più forte della precedente, lo colpisce all'improvviso alle pupille. Vuole parlare, dire che è fastidiosa, ma non è in grado di far uscire alcun suono dalla propria gola. È secca, rasposa, non riesce a muovere la lingua.

-Non sforzarti, va tutto bene.- gli dicono ancora. Gli fanno male le orecchie, gli fa male la testa.

Comincia di nuovo a scivolare nell'incoscienza. Prova a combatterla, cerca di muoversi, ma anche il più piccolo movimento del capo è terribilmente doloroso. Ecco, riesce a gridare. Ma, più che un grido, è un basso lamento.

Non capisce cosa stia succedendo. Cosa succede?

-Masaki, se puoi sentirmi, è normale tu sia confuso in questo momento. È tutto a posto. Hai avuto un incidente e hai subito un trauma cranico, ma stai bene, non preoccuparti. Sono il tuo dottore, mi chiamo Fudou Akio.-

La paura e l'incredulità gli occludono la gola, sente il sangue andare al cervello, cerca di guardarsi attorno ma non riesce a muoversi, non riconosce nulla intorno a lui. Non riesce ad afferrare i propri pensieri, non riesce nemmeno a pensare, vorrebbe piangere. Ma la stanchezza ha la meglio, socchiude gli occhi. Si lascia sfuggire un altro lamento, il cuore che batte velocissimo nel petto e gli rimbomba nelle orecchie con forza.

Prima di soccombere al sonno, un uomo dalla carnagione chiara, gli occhi grigi e i lunghi capelli castani entra nel suo campo visivo -Va tutto bene, riposa, Masaki.-

Si addormenta.

 

Il 15 di gennaio Kariya Masaki è stato investito da una macchina mentre si affrettava  assieme al suo ragazzo per andare a controllare la casa nuova che avrebbero voluto comprare. Il giorno prima aveva nevicato e la strada era scivolosa. L'auto ha slittato e lo ha colpito in pieno sul marciapiede, Masaki è letteralmente volato per qualche metro ed ha battuto con forza la testa, subendo un trauma cranico ed entrando in stato di coma per venticinque giorni, tre ore ed undici minuti.

Il 26 di Gennaio ha riaperto gli occhi per la prima volta.

Masaki è sul proprio lettino di ospedale. È sveglio da più di due ore e non ha visto nient'altro che medici. Non riesce ancora a parlare o a muovere tutto il corpo. Il suo dottore, Fudou Akio, gli ha detto che è normale, non è più abituato. Ma con un poco di fisioterapia tornerà tutto come prima.

Se ne sta fermo lì, lasciando che gli facciano esami e lo controllino, mentre cerca di dare un senso a ciò che succede, confuso e dolorante.

Fissa il vuoto.

Vorrebbe fare delle domande, ma non è in grado di articolare suoni diversi da lamenti, ancora. Gli hanno detto che i suoi familiari sono andati a trovarlo mentre ancora dormiva. Quando si è svegliato la prima volta c'era il suo amico Kirino Ranmaru di fianco a lui. Non se ne era accorto.

Aveva dormito per venticinque giorni, tre ore e undici minuti.

Ripete quei numeri in continuazione e intanto desidera di poter muovere le mani per tenersi il viso e dimostrarsi di non star sognando.

Non gli hanno dato altre informazioni. Non sa nulla di più sull'incidente. Solo che si stava affrettando verso casa con il suo ragazzo. Venticinque giorni, tre ore, undici minuti. Si affrettava verso casa con Atsushi, il suo ragazzo era Atsushi. Atsushi è morto in un incidente il 15 di Gennaio, colpito da una macchina che ha slittato sulla strada bagnata di neve sciolta. Lui ha perso la voglia di vivere perché Atsushi è morto. Venticinque giorni, tre ore, undici minuti. Si stava lasciando morire, ma Atsushi è tornato per aiutarlo, e ha avuto venticinque giorni di tempo. Venticinque giorni, tre ore, undici minuti. Hanno litigato, ma lui ha capito di voler vivere alla fine, hanno fatto l'amore e poi Atsushi se ne è andato. Venticinque giorni dopo. Lui ha pianto. Per tre ore e undici minuti. Il sogno. Ha sognato la casa, la finestra bloccata. L'ha aperta venticinque giorni, tre ore e undici minuti dopo. Ha aperto la finestra, ha aperto gli occhi, si è svegliato da un coma durato venticinque giorni, tre ore e undici minuti.

Cosa è reale, cosa non lo è? Non riesce a fermarsi su un pensiero per più di dieci secondi. Atsushi è morto? È morto e basta e non è mai tornato per aiutarlo? Ha sognato tutto o sta sognando adesso?

Fudou Akio, il suo dottore, Fudou Akio è ciò che la gente vede al posto di Atsushi, perché se vedessero Atsushi si spaventerebbero, perché Atsushi è morto. Ma Fudou Akio è il suo dottore, gli sta parlando adesso, gli dice che comincerà la seduta di fisioterapia domani, quella di logopedia stasera. Gli chiede di guardare una luce, gli fanno altre analisi. I macchinari fanno rumore attorno a lui.

Sta pensando tanto, gli fa male la testa.

Fudou Akio, Atsushi, il suo dottore, gli dice che stanno arrivando per fargli visita.

Chi? Non lo sente, cerca di rimanere sveglio per scoprirlo, ma ha sonno.

Dopo venticinque giorni, tre ore e undici minuti ha ancora sonno.

Chiude gli occhi.

Ha paura che Atsushi non sia mai tornato da lui dopo essere morto e che non riuscirà mai ad abituarsi alla sua perdita e che si lascerà morire e tutto ricomincerà da capo.

Ha paura di avere un sacco di messaggi a cui rispondere e di dover ricostruire di nuovo da capo il rapporto con i propri genitori. In questo momento i loro nomi gli sfuggono come acqua tra le dita, deve ripeterli più e più volte nella sua testa. Mi-do-ri-ka-wa Ryu-ji. Hi-ro-to Ki-ra. Gli sfuggono ancora dopo averli ripetuti tre volte.

Qualcuno sta entrando nella sua stanza, chi è?

Non lo sa, torna di nuovo a dormire.

 

Si sveglia sempre fuori dall'orario delle visite, gli dicono. È passata una settimana, forse.

Ha ricominciato a parlare, un po’. Muove le braccia. Una volta ha visto di sfuggita i suoi genitori Hiroto e Ryuuji, lo hanno abbracciato forte ed hanno pianto. Un'altra volta è passata la sua amica Aoi. È riuscito a dirle ciao. Oggi dovrebbe venire a trovarlo anche Ranmaru. Manca poco all'orario delle visite e lui è fiducioso di riuscire a rimanere sveglio fino ad allora.

Non ha chiesto di Atsushi. Ha paura a chiederlo, perché ancora non capisce bene cosa sia reale e cosa no. Non ha più sognato.

Sta ricominciando a trovare ordine nei propri pensieri, non dimentica più i nomi dei propri genitori. La logopedista gli fa vedere un sacco di cartoncini colorati e gli chiede di leggerli. A volte i caratteri si confondono, ma comincia ad avere meno problemi. Il fisioterapista gli chiede di muovere le dita dei piedi. Quando riuscirà a muoverle lo porteranno a fare un giro fuori con la sedia a rotelle, glielo hanno promesso. Oltre al trauma cranico, si è fratturato una gamba e incrinato tre costole. Ma sono guarite ormai, dopo venticinque giorni, tre ore ed undici minuti.

Hanno detto che, se vorrà, quando tornerà a parlare bene potrà vedere uno psicologo. Ha scrollato le spalle. Forse può dirgli se sta sognando. Ma i ricordi che ha di prima dell'incidente sono gli stessi di quelli che aveva quando ad essere stato investito era solo Atsushi, quindi capire quale sia la realtà è ancora più difficile.

La prima cosa che ha fatto quando è riuscito a muovere le braccia per bene è stato davvero toccarsi la faccia, e sembrava vera. Si è pizzicato le guance ed ha fatto male, e pian piano si sta convincendo che questo non sia un sogno.

Che abbia sognato invece tutto il resto.

In quale mondo i fantasmi ti aiutano a superare la loro morte, si chiede tra sé e sé da giorni.

-… È morto?- chiede a Fudou Akio, il suo dottore, quel pomeriggio. La voce fa male quando esce, ma la gola non è più rasposa come all'inizio e riesce a muovere la lingua come vuole. È il primo giorno che riesce a stare sveglio per quasi dieci ore. È un po' stanco, ma non vuole dormire.

Fudou Akio sta sistemando qualcosa.

Ha sempre la flebo attaccata al braccio, ma negli ultimi due giorni ha cominciato a bere e mangiare da solo. Il mangiare fa schifo, ed è liquido. Fa ancora più schifo, ma non si lamenta.

-Di chi parli, Masaki?- domanda il dottore. Lo chiama sempre per nome. Non gli dà fastidio la confidenza, sente di conoscerlo da un sacco di tempo. Forse è così.

-Atsushi.- risponde. Si guarda le mani. Sono più piccole di come ricordava. È dimagrito, a quanto pare.

-Intendi Minamisawa?- chiede Fudou Akio.

Ma come, chiama per nome lui e ad Atsushi lo chiama per cognome? Perché? Forse è morto sul serio, per questo lo chiama per cognome. Sente tornare su la terribile minestra che gli hanno dato per pranzo. Comunque, annuisce.

Fudou Akio sorride, un po' perplesso -Perché mi chiedi se sia morto?

Gli hanno chiesto più di una volta cosa è successo durante quei venticinque giorni, tre ore ed undici minuti, se è successo e se ha sentito qualcosa. Non lo ha detto a nessuno, non vuole essere preso per pazzo. E poi lo imbarazza, sono cose personali. Non vuole parlarne adesso e sa che Fudou Akio invece gli sta chiedendo proprio quello.

-L'incidente. C'eravamo tutti e due.- risponde quindi -È il mio compagno.-

-Lo so.- Fudou Akio gli sorride di nuovo e lui abbassa lo sguardo. Credeva di averlo solo pensato.

Fudou Akio gli si avvicina, si siede di fianco a lui sul letto.

Il sorriso non scompare, gli prende le mani.

-No che non è morto, Masaki.-

 

Il 15 di gennaio anche Minamisawa Atsushi è stato colpito dalla macchina che ha slittato sulla neve sciolta. Era di fianco a Masaki quando è successo, ed è stato il primo a essere colpito dall'automobile. Non ha sbattuto la testa, ma entrambe le sue gambe si sono rotte, si è slogato un polso ed anche lui ha avuto la sua dose di costole incrinate. Forse cinque, non ha memorizzato quell'informazione. Le sue gambe erano messe talmente male che hanno dovuto operarlo, proprio il giorno in cui Masaki si è svegliato. Per questo non è andato a fargli visita in quegli ultimi giorni, perché ancora non poteva camminare e i dottori lo volevano a letto.

Sono nello stesso ospedale, e in questo momento Masaki è abbastanza lucido da riuscire a pretendere di vederlo. Non riesce a gridare, non gli esce la voce, ma vuole una sedia a rotelle, vuole andare a vedere, accertarsi con i suoi occhi che non lo stiano prendendo in giro.

Non è possibile, si dice, era morto, l'ho visto, ho urlato. Possibile che abbia sognato? E se invece non è vero ed è morto, cosa faccio, cosa succede? Gli formicolano le mani, non sa se per l'emozione o se ancora per il coma, ma si agita mentre Fudou Akio lo tiene fermo per le spalle e gli dice che non può alzarsi adesso, deve riposare, Atsushi lo potrà vedere poi.

Mi prende in giro, pensa, non è vero che non è morto, mi prende in giro e non vuole lasciarmi andare per paura che io lo scopra, ragiona. Ma è un ragionamento assurdo, perché Fudou Akio dovrebbe mentirgli?

Senza accorgersene comincia a piangere, e tutta la faccia gli fa male -Vi prego, fatemelo vedere adesso.- dice solo, e odia come la sua voce suoni debole e indecisa. Non riesce a opporsi alla presa del dottore, non ha abbastanza forza nelle braccia. Si sente debole e inerme, e odia la propria condizione. Si porta le mani al viso e singhiozza con forza. Non sa se per il sollievo o per la propria impotenza, ma per la prima volta da quando si è svegliato piange ed è così liberatorio, così vero. Si sente così vivo.

È come se lo avessero svegliato una seconda volta. Atsushi non è morto, e si aggrappa a questo con tutte le sue forze, d'un tratto più lucido. È vivo, è stato ferito, sta male. In quale ala dell'ospedale si trova? Può riuscire a raggiungerlo da solo? Probabilmente no, non ha abbastanza forza. L'orologio segna le quattro meno cinque, mancano cinque minuti e arriverà Ranmaru per fargli visita. Può chiedere a lui di aiutarlo.

Fudou gli batte piccole pacche sulla schiena, un po' a disagio forse, fino a che non smette di piangere pochi secondi dopo. Si asciuga con rabbia le lacrime, vergognandosi di essersi lasciato andare così -Quando posso vederlo?- domanda a fatica, guardando il proprio dottore.

Gli occhi grigi di Fudou Akio sembrano addolcirsi un poco -Non lo so, non è un mio paziente. Vado a chiedere, se vuoi.- si propone. Ecco perché prima lo ha chiamato per cognome, perché non è un suo paziente.

Riluttante nel doversi affidare ad altri che non siano se stesso per questa cosa, annuisce. Fudou Akio si alza.

-Non penso ce ne sia bisogno, dottore.- dichiara una terza voce. Sia lui che Fudou voltano lo sguardo verso l'entrata della stanza. C'è Ranmaru, in piedi, che sorride. Sembra commosso, e la sua voce si spezza appena -Ciao, Masaki.- dice solo. Sta spingendo una sedia a rotelle. Atsushi è seduto lì, le mani arpionate ai braccioli, le gambe ingessate, gli occhi sgranati. Non dice niente, Masaki non dice niente, si guardano.

Fudou Akio sorride ed abbassa il capo. Non aggiunge altro e raggiunge Ranmaru fuori dalla porta proprio mentre lui si china verso Atsushi per chiedergli se ce la fa da solo. Lui annuisce, e Ranmaru alza gli occhi su Masaki -Ci vediamo tra poco.- assicura. Fa per chiudere la porta, ma prima aggiunge un -Mi sei mancato, Masaki.-

È come un deja-vu, come il sogno che Masaki ha vissuto per venticinque giorni, tre ore ed undici minuti.

Improvvisamente è tutto chiaro, le voci che lo chiamavano negli incubi e gli chiedevano di sopravvivere, Fudou Akio che compariva negli specchi ogni volta che Masaki stava male, Atsushi che lo pregava di non lasciarsi morire e lo spingeva a cercare la sua voglia di vivere.

È stato il suo flebile collegamento con la realtà, il suo contatto con tutte le persone che avevano sperato nel suo risveglio. Gli si stringe il cuore.

La porta si chiude piano e poi l'unico rumore che Masaki sente è quello della sedia a rotelle di Atsushi che si sposta. Torna a guardarlo, in silenzio fino a che non si è avvicinato al suo lettino. Vorrebbe essere capace di muovere le gambe, lo vorrebbe con tutto se stesso.

Per un paio di minuti non parlano, non sanno cosa dirsi. Si guardano e basta, senza parole.

È Masaki il primo a rompere il silenzio -Pensavo tu…

-Lo sapevo.- lo interrompe Atsushi. La sua voce è sembra vera, bassa e calda come sempre. Tiene gli occhi appena socchiusi, le guance congestionate -Lo sapevo che ti saresti svegliato.- dice -Non ne ho mai dubitato, nemmeno per un momento.

-Atsushi…- Masaki è senza fiato, completamente annientato dalla consapevolezza di averlo lì davanti a sé, incapace di elaborarlo dopo venticinque giorni, tre ore ed undici minuti in cui ha creduto di doverlo perdere per sempre.

-Sono venuto tutti i giorni, prima dell'operazione. Non potevo stare molto, i dottori non volevano mi muovessi troppo, avevo le gambe ingessate…- spiega il più grande. Dice altro, qualcosa sulla curiosa coincidenza tra il suo risveglio e la sua operazione, ma Masaki non afferra tutto -Ti ho parlato, tutti ti abbiamo parlato, i dottori dicono che di solito le persone in coma sentono quello che succede intorno a loro, e…

-Ti ho sentito.- sussurra Masaki, incantato. Non riesce a focalizzarsi, come se avesse bisogno di essere sintonizzato sulla giusta frequenza.

-Davvero?- domanda Atsushi, e ricomincia a parlare. Dice qualcosa su Aoi, Tenma e Shindou e Tsurugi, su Hikaru che è venuto dall'Italia a trovarlo, delle notti che Hiroto e Ryuuji hanno passato di fianco al suo letto dopo aver pregato i dottori di lasciarli rimanere.

Ma Masaki si sente fuori fase, guarda Atsushi e ancora non capisce se sia un miraggio o una proiezione del suo cervello malconcio. In fondo ha preso una bella botta in testa.

E Atsushi intanto parla e parla ancora, e la sua voce sembra davvero, davvero vera.

-È… è reale?- domanda poi Masaki, interrompendolo. Lo guarda. Ha paura di scoprire sia tutto finto.

Atsushi aggrotta le sopracciglia -… Cosa?

Masaki inclina il capo, cerca le parole. Non le trova subito -… Tutto questo…- domanda -È reale?- ripete. Sposta gli occhi sull'altro, e riesce a concentrarsi su di lui. I loro sguardi si incatenano.

È improvviso, ma Atsushi si muove, si sporge verso di lui, gli afferra la mano con la propria e stringe la presa.

Masaki sobbalza appena, e farlo gli fa dolere tutto il corpo: la mano di Atsushi è calda. Calda e viva. Sgrana gli occhi.

-È tutto reale.- mormora Atsushi -Io sono reale, tu sei reale, e sei sveglio e vivo e potrei morire dalla gioia che provo in questo momento. È—

-Sei vivo.- Masaki lo interrompe di nuovo, finalmente sintonizzato sul giusto canale. Si porta una mano alla bocca, singhiozza, comincia a piangere -Sei qui.- balbetta, e stringe le sue mani quanto può.

Anche Atsushi sta piangendo. Ora che Masaki si sente tornato davvero in sé, sulla giusta frequenza, nota gli occhi cerchiati e la carnagione un po' più pallida del solito del suo compagno. Ma non è triste, è raggiante. Perché sono insieme e nessuno di loro due rimarrà indietro in alcun modo, Masaki respira questa consapevolezza come aria fresca.

-Sono qui.- gli conferma Atsushi, sorridendo tra le lacrime -Ho avuto così paura che non lo sapessi, mentre dormivi. Che non te ne accorgessi, e credessi di essere da solo. Io— non lo sei mai stato Masaki, nemmeno un giorno.- gli assicura, scuotendo la testa.

Per quando riesce, Masaki si sporge verso di lui nel tentativo di far incontrare le loro fronti. In qualche modo ci riesce, anche se si fanno un po’ male.

-Lo so.- gli dice.

Atsushi ammutolisce, sembra interdetto. Porta le mani al viso di Masaki, lo accarezza piano, lo guarda con attenzione, come a voler recuperare tutto il tempo che non ha potuto farlo in quei giorni.

Il respiro di Masaki trema. Cerca a sua volta con le mani il viso di Atsushi e lo sfiora, incantato, anche se le braccia gli fanno male da morire e non dovrebbe muoverle troppo. Sorride. Anche lui è raggiante.

-Mi hai salvato.- sussurra -Mi avete salvato tutti.

In venticinque giorni, tre ore ed undici minuti.

 

 

 

 

 

 

**

 

Allora. Prima di tutto, se siete arrivati fin qui, cOMPLIMENTISSIMI!! Apprezzo tantissimo la vostra forza d’animo e vi sarò eternamente riconoscente

Ok. Wow. Sto sudando tantissimo perché non riesco a credere di star effettivamente scrivendo le note di questa fan fiction.

In fondo al mio cuoricino temevo che non sarei mai riuscita a finirla, e sono proprio felice di esserci riuscita. Non è poi così lunga, ma ci ho impiegato un anno e qualche mese per terminarla, rivederla e postarla qui, e per me è un grandissimo traguardo e nIENTE SONO PROPRIO FELICE!!!!!

In ogni caso, prima di lasciarvi liberi, e spero mi perdoniate, avrei qualche parola da dire.

Ok sto improvvisando mentre scrivo quindi al momento ho solo una gran confusione in testa, ma comincio dicendo che tengo molto a questa fan fiction. A dire la verità, è partita come un enorme sfogo, perché l’AtsuMasa è la coppia a cui mi sento più legata nel fandom di Inazuma Eleven e volevo dedicarle qualcosa di consistente. Ammetto di aver scritto soprattutto per sfizio personale, per togliermi qualche soddisfazione e raccogliere un po’ tutti gli headcanon che ho su questi due poveri disagiati. In più, non penso che, a parte magari qualche long lasciata ancora in sospeso o qualche one shot già completa che ho nella cartella del pc, mi capiterà di scrivere ancora per questo fandom (ammesso e non concesso che nella vita non si sa mai), quindi sono contenta di “chiudere” con una AtsuMasa, sulla quale ho sempre desiderato scrivere qualcosa di sostanzioso. La storia è supertragica, o almeno, lo è per i miei standard (e infatti finisce bene ;^)) vi ci ho fatto cascare tutti, eh!! COME SONO FURBA), e sono perfettamente consapevole che il clichè del coma/sogno/cose sia, appunto, un clichè, ma è stato veramente interessante svilupparlo. Non so se, a posteriori, si sia notato, ma per tutta la fan fiction ho seminato piccoli indizi sul fatto che Masaki stia sognando. Ok, sono proprio indizi piccolissimi, ma non potevo certo far capire tutto, altrimenti il colpo di scena finale non avrebbe avuto l’effetto sperato (che spero non sia quello di prendermi a pizze—). Specialmente per quanto riguarda Fudou Akio (perdonatemi lo reputo il mio colpo di genio più geniale anche se è una grandissima stupidaggine quindi andrò a spiegarlo comunque per fare la figa). Se avete notato (eheheh ;^) ), ogni volta che quel povero martire di Masaki sta male, prima di andare lungo come un sacco di patate o sentirsi meglio, invece di Atsushi vede Fudou riflesso in qualche superficie. Questo pERCHÈ ANCHE NELLA REALTA’ MASAKI SI STA SENTENDO MALE E IL FUDOU AKIO DOTTORE SI STA OCCUPANDO DI LUI!!! Quindi mondo reale e sogno si intersecano per un attimo. Lo stesso capita con gli incubi di Masaki. Ogni voce che ascolta nel sogno non è altro che la voce di qualcuno del mondo reale che effettivamente lo prega di sopravvivere al suo coma. Vab, sono stupidaggini e ce ne sono molte altre disseminate per la fan fiction, ma visto che sono proprio piccoli dettagli mi faceva piacere spiegarli (?)

Un ultima precisazione prima di liberarvi una volta per tutte, durante la fan fiction viene citata un’opera giapponese, il Kokinwakashū (collegamento alla pagina di Wikipedia allegato) (si capisce che mentre scrivevo quella parte stavo preparando l’esame di filologia giapponese? oPS) e qualche poesia. Sono tutte prese dal primo libro, uno dei due dedicati alla stagione della primavera. Le traduzioni sono quelle che abbiamo fatto in classe, abbiate pietà di me se non sono del tutto precise—

Per quanto riguarda i piatti giapponesi citati, il tonkatsu è una cotoletta impanata (strabuona), gli udon sono noodles molto spessi e molto viscid- ahem, l’okomiyaki è… non so come spiegarlo se non come un insieme di tanta roba buona cotta sulla piastra e in fine l’anmitsu è un dessert con gelatina di alghe, fagioli azuki e topping a piacere.

Ok, spero di aver detto tutto (?)

Infine, vorrei ringraziare con tutto il cuore _heliantus, questo meraviglioso essere umano che per un anno e quattro mesi mi ha sopportata e mi ha aiutata con questo disastro di fan fiction. Grazie dal profondo del cuore, senza il tuo supporto e la tua pazienza di sicuro sarei ancora in alto mare. TI ABBRACCIO FORTISSIMO.

Bene, credo di poter concludere qui. Credo siano uscite delle note un po’ confuse, spero vogliate perdonarmi—

Grazie ancora per aver letto questa fan fiction ed essere arrivati fino a qui.

Un forte abbraccio e tante sacher torte per voi

 

Greta.

 

  
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