10
Nei tuoi occhi, il male
Uno scalpiccio
nel corridoio strappò Ledah a un sonno breve e inquieto. La
luce grigia della mattina non poteva filtrare attraverso la pietra, ma
lui sapeva che il sole era sorto: da quando era lì dentro,
aveva sviluppato la capacità di misurare lo scorrere del
tempo in base alle visite che riceveva e al tipo di silenzio che lo
attorniava. Si concentrò quindi sul rumore di passi in
avvicinamento, cercando di associare quell'andatura marziale a un viso
noto. Tuttavia, la sua attenzione venne presto calamitata, di nuovo,
dallo sgocciolio che proveniva da un angolo della cella, ai margini del
suo campo visivo. In quell'istante, come accadeva sempre non appena
quel suono ipnotico prendeva possesso delle sue orecchie, le voci
tornarono a farsi sentire, sussurrando maligne nella sua mente.
Ledah, dove scappi?
Pensi davvero che basti ignorarci per mandarci via?
Ingenuo.
Stupido.
Codardo.
“Perché non state mai zitte?!”
All'improvviso, una voce familiare si insinuò nella sua
coscienza e lo riscosse dalla catalessi.
- Buongiorno, corvetto. - lo salutò Brandir, entrando nella
stanza.
Sotto un mantello verde scuro, indossava l'armatura nera del loro primo
incontro, con le daghe elfiche che tintinnavano contro gli alti
schinieri ad ogni passo. All'altezza della gola, dove la lama di Airis
lo aveva colpito, biancheggiava la cicatrice che, come una collana di
spine, gli deturpava il collo.
- Non mi tratterrò a lungo, sono solo venuto a vedere come
stavi. Mi sembri in forma, nonostante tutto. Le guardie mi hanno
riferito che sei stato un po' inquieto negli ultimi giorni, addirittura
riottoso. Qualcosa non va? -
Ledah sollevò stancamente il capo e fissò lo
sguardo in quello del suo vecchio compagno d'armi. Aveva gli occhi di
un verde slavato, opachi come quelli di un morto.
- Non hai voglia di parlare un po'? Sei solo da parecchio tempo,
rinchiuso in una gabbia di simboli magici e silenzio, lasciato a
impazzire, dovresti morire dalla voglia di scambiare due chiacchiere
con qualcuno, no? Oppure non ti ricordi più come si fa? -
- Cosa vuoi? - gracchiò Ledah con un fil di voce.
Il sapore acre del sangue gli riempì la gola e l'odore
dell'umidità gli permeò il naso, impedendogli di
percepirne altri all'infuori di quello del suo corpo, che puzzava di
sudore e sporcizia. Si protese verso Brandir, tirando le catene quel
poco che bastava per avvicinarsi. Le rune sugli anelli, come si
aspettava, non si attivarono.
- Speravo di ottenere una confessione. - rivelò il
visitatore.
- Una... confessione? -
- Esatto. Non guardarmi con quell'aria trasognata, corvetto, sai di che
cosa parlo. C'è solo una cosa che desidero udire dalle tue
labbra e non capisco perché tu non sia stato il primo a
chiedere alle guardie di farmi venire a chiamare. A breve
finirà tutto, tu smetterai di esistere e il Mondo Nato dal
Nulla rinascerà una seconda volta. Il tuo fato è
segnato, non c'è nessuna possibilità di salvezza.
Non ti resta più niente se non le ceneri ancora calde di
ciò che hai distrutto. Perciò confessa e chiedi
perdono per tutto il male che hai causato. -
- Ho già pagato per i crimini che ho commesso, ma forse
Lysandra non te ne ha reso partecipe: il nostro popolo mi ha esiliato,
Aiwen mi ha disconosciuto e ho vissuto a Llanowar come un reietto. -
- Non dovresti pronunciare il suo nome, anche se era tua sorella. Non
osare mai più nominarla, hai capito? Non dopo quello che ci
hai fatto! - ringhiò ostile, stringendo i pugni e
cominciando a girargli attorno come un lupo pronto a balzare sulla sua
preda, - Se non fosse stato per te, per la tua codardia, a quest'ora
niente di tutto questo sarebbe accaduto: io non sarei morto e la mia
bambina, la mia Vyndra, avrebbe un padre! -
- Non potevo consegnarmi a Lysandra! Lei non è la donna che
credi, non lo è mai stata. Haldamir non avrebbe mai tentato
di eliminare un'innocente. Se non credi alle mie parole, guarda ai
fatti. I nostri fratelli del Consiglio... -
- I membri del Consiglio? Loro sono colpevoli tanto quanto te, Ledah.
Mi sono sempre domandato come avessero fatto i nostri Anziani a non
capire quanto fossi pericoloso. -
- Brandir, non sono io il nemico. Apri gli occhi! -
- Aprire gli occhi? L'ho già fatto, caro il mio corvetto.
Sai, da quando sono diventato un Risvegliato, la verità mi
è stata svelata in ogni dettaglio. Ora tutto mi appare
limpido, chiaro, così semplice. - sospirò
sorridendo, passeggiando avanti e indietro di fronte a Ledah, - La
corruzione striscia ovunque senza risparmiare nessuno, né
elfi né umani, o qualsiasi altra razza. In passato gli
Alati, i figli prodighi di Yggrasil, furono puniti per la loro
insolenza, per essersi opposti al volere del loro Padre, ma
è evidente che la storia, la madre di tutti i mali, non ci
ha insegnato nulla. Adesso è il momento che il Caos prevalga
sull'Ordine, affinché dalle ceneri di questo mondo ne
rinasca uno migliore, più giusto, più
equilibrato. -
Mentre lo ascoltava parlare, Ledah si rese conto che Brandir credeva
davvero a ciò che diceva. Lo capì dallo sguardo
folle che gli aveva acceso lo sguardo e dalla fermezza che gli induriva
la voce. Sembrava un pazzo, impressione accentuata dal pallore del suo
viso, dalle pupille dilatate e le palpebre cerchiate di rosso.
- Brandir, non capisci che Lysandra ti sta ingannando? Ti ha manipolato
e reso suo schiavo. Ascoltami, te ne prego, non darle retta. Qualsiasi
cosa ti abbia detto, è stata soltanto per ammansirti e
trasformarti in un suo fedele servitore. Il Consiglio non avrebbe mai
mandato i loro migliori guerrieri a morire in una missione suicida, non
con una guerra in corso. Hanno sempre pensato al bene del nostro
popolo, sono sicuro che non fosse loro intenzione... -
- Ti volevano morto, Ledah! - sbottò diretto, esasperato
dalla sua cocciutaggine, - Eri considerato un nemico e da tempo avevano
pianificato di ucciderti. Non potevano condannarti a morte per il
sangue che ti scorreva nelle vene, eri pur sempre il figlio di Elladan
e, anche se col matrimonio con Haldamir lei aveva perso il diritto al
trono, rimanevi pur sempre un membro della famiglia reale, un
discendente diretto della stirpe Arawan. Nessuno avrebbe osato alzare
un dito su di te. Per questo era necessario un pretesto valido,
qualcosa che ti inchiodasse senza via di scampo. -
Brandir si spinse fino al limitare del cerchio di rune e si
piegò appena, scoccandogli dall'alto un'occhiata derisoria e
crudele.
- Però non avevano messo in conto una variabile di una certa
importanza: tu non sei un elfo normale, sei nato da una donna morta e
tuo padre è un dio. Si potrebbe dire che la vita sia stata
più che generosa con te, molto più che con gli
altri suoi figli. E tu, invece di accogliere questo dono e sacrificarti
per un futuro migliore, cosa hai fatto? Sei scappato. Non hai onore,
Ledah, tutta la tua vita è uno oltraggio! -
Ledah scoppiò a ridere e la sua voce raschiante
sembrò il cupo gracchiare di un corvo.
- Cosa ci trovi di divertente? - sibilò Brandir tra i denti.
- Vuoi davvero saperlo? - strinse i pugni, trattenendosi dallo
strattonare le catene, - Rido per non piangere. Perché
quello che ho davanti non è più l'elfo che ho
conosciuto, il mio più caro amico, un druido costretto a
vestire i panni del soldato per servire la patria. No, tu sei un
macellaio che si sta facendo manipolare da una Lich, il cui unico
obiettivo è mettere in ginocchio il mondo al fine di
agevolare un dio a distruggerlo! Non ti chiederò mai
perdono. Forse in passato lo avrei fatto, la prima volta che ci siamo
rivisti ti ho scongiurato di fermarti, ma ora ho capito: tu non sei
Brandir, ma un sacco di carne che di lui ha conservato solo la faccia.
Una brutta, cadaverica faccia. -
Trasse un profondo respiro, parlare per tutto quel tempo lo aveva
sfiancato, ma i pensieri galoppavano più veloci di qualsiasi
sensazione fisica e si riversavano fuori dalle sue labbra come un fiume
in piena.
Brandir lo fissò per un lungo momento e Ledah sostenne
fieramente quello sguardo: aveva la sensazione che se avesse incanalato
tutto il dolore negli occhi, il suo amico avrebbe potuto percepirlo
sulla pelle mentre gli scavava nella carne viva, fino ad addentrarsi
nelle ossa. Forse allora avrebbe capito che non gli stava mentendo.
Entrambi avevano perso qualcuno di caro.
Negli occhi di Brandir, tuttavia, c'era solo furia cieca, che gli
distorceva i lineamenti delicati del viso e lo trasfigurava in una
bestia. Gli bastò un passo per attraversare il cerchio di
rune e arrivargli vicino, tanto che Ledah poté inalare
l'odore marcescente che scaturiva dal suo corpo. Brandir gli
afferrò violentemente il cuoio capelluto, tirandolo indietro
e obbligandolo a mostrare la gola in segno di sottomissione. Poi gli
prese il mento e lo costrinse a venire avanti con uno strattone, che
fece pulsare i simboli sulle catene.
- Tu non sai cosa vuol dire perdere qualcuno che ami, non hai mai amato
nessuno a parte te stesso. - sibilò invelenito a un palmo
dal suo naso.
Ledah si contorse quando una scarica di dolore si irradiò in
tutta la faccia, una ragnatela ardente che gli fece venire le lacrime
agli occhi e gli arroventò le orecchie, mentre il cervello
si svuotava.
Cosa poteva dire? Che anche lui aveva amato? Quello che provava per
Airis cos'era?
“Non importa, tanto ormai lei non c'è
più.”
A quel pensiero, le voci lo aggredirono ancora, sovrapponendosi l'una
all'altra in un caos di parole.
Non c'è più motivo di combattere.
Vieni con noi, starai bene.
Il dolore passerà, non sentirai più
nulla... avrai pace.
Quell'ultima frase scivolò nelle sue orecchie come miele.
Socchiuse le palpebre e si immaginò come sarebbe stato
abbandonarsi al torpore, che da un angolo della mente premeva per
fagocitare la sua coscienza e la sua volontà. Si rese conto
che sarebbe stato semplice, e forse finalmente avrebbe trovato la pace
che tanto agognava fin da quando era stato esiliato. Era stanco, stufo
di arrancare e trascinarsi su una strada che portava verso il baratro.
Arrendersi era una proposta molto allettante.
Non seppe da dove provenne la voce che rispose a Brandir, era la sua e
allo stesso tempo non lo era.
- Ti sbagli, c'è stata una persona che ho amato, una donna
piena di segreti con la quale non ho passato che poche settimane della
mia vita, nient'altro che frazioni di secondo in confronto ai secoli
che mi porto sulle spalle. Eppure so di averla amata. Ciononostante,
quello che ho perso non è abbastanza per farmi capitolare.
La sofferenza non è una scusa sufficiente per lasciarmi
schiacciare nel fango e convincermi ad abbandonare ciò per
cui ho lottato per tutti questi anni. - puntò gli occhi
lucidi di febbre in quelli dell'altro e curvò le labbra in
una smorfia amara, - Sono felice che né Aiwen né
Vyndra possano vederti adesso, non ti riconoscerebbero. -
Brandir lo fissò, per la prima volta senza parole
dall'inizio della conversazione. Poi gli sferrò un pugno che
gli strappò il fiato, e con esso i pensieri. Non
soddisfatto, si accanì sempre di più, lo
colpì ancora e ancora, grugnendo e urlando come un
disperato. Non era la metodica crudeltà di un carnefice a
guidare il suo corpo, quanto la lacerante consapevolezza di aver perso
tutto.
Ledah incassò senza tentare di ribellarsi o schivare,
poiché sarebbe bastato un movimento più brusco
degli altri per attivare le catene. A dispetto del dolore, mantenne la
testa alta e la bocca serrata, in modo tale che il suo aguzzino non
venisse premiato nemmeno da un singolo gemito.
Quando le guardie arrivarono richiamate dal trambusto, stava
già cedendo all'incoscienza. Però udì
fino alla fine le grida di Brandir, lo vide contorcersi nel tentativo
di aggredirlo nuovamente da dietro il velo rosso che gli copriva lo
sguardo. Prima di svenire, frastornato dalle botte e del panico che si
era scatenato nella prigione, Ledah captò un ultimo
particolare che lo fece sorridere vittorioso: la linea di sangue del
cerchio di rune, quella più esterna, si era rovinata.
Era mattina presto quando Ledah si svegliò. I
raggi obliqui del sole entravano dalle finestre smerigliate, delineando
i contorni del letto e della cassettiera sul muro opposto. L'elfo
allungò le braccia stiracchiandosi e si guardò
intorno con la vista ancora annebbiata dal sonno.
La notte precedente era tornato relativamente tardi alla
Reggia dei Ginepri, ma nessuno sembrava essersi accorto del suo rientro
tardivo, anche se sospettava che un paio di guardie avessero scorto
quantomeno la sua ombra.
Si mise a sedere e dopo un lungo sbadiglio scese dal letto. I
vestiti della sera prima erano appoggiati sulla sedia, impilati
ordinatamente gli uni sugli altri, mentre l'armatura luccicava sulla
rastrelliera, assieme al mantello verde scuro che aveva indossato
durante il viaggio. Aveva il lembo sinistro leggermente strappato:
avrebbe dovuto farlo riparare prima di partire in missione a Sheelwood,
ma gli era passato di mente.
Sulla scrivania di legno scuro, un bigliettino piegato in
quattro era stato infilato sotto il vaso di fiori, in modo che solo un
angolo fosse visibile. Con un'espressione corrucciata, lo prese e lo
aprì. Riconobbe subito la calligrafia di Brandir, le lettere
vergate con una tale eleganza e precisione potevano essere solo che sue.
Oggi io e te abbiamo un impegno. Appena finito il colloquio,
seguimi.
B.
P.s: nell'armadio troverai ciò che ti serve e non
dimenticare di farti la treccia rituale.
Ledah inarcò un sopracciglio, perplesso e allo
stesso tempo divertito. Quindi andò in bagno e si
fermò davanti allo specchio. Osservò con
espressione critica e quasi di sfida le ciocche ribelli che gli
ricadevano sul viso e rilasciò un sospiro affranto.
Dopodiché impugnò il pettine con cipiglio
battagliero e arricciò le labbra, pronto a districare un
nodo particolarmente tenace sulla nuca.
A Llanowar era usanza portare i capelli lunghi per dimostrare
il legame con il Padre della Foresta, e Haldamir aveva sempre preteso
che Ledah si adeguasse agli usi e costumi della foresta del Nord, anche
se questi odiava dover perdere minuti preziosi ogni mattina per
pettinarli. A distanza di anni dalla sua morte, però,
nonostante si fosse ripromesso più volte di farlo, non li
aveva mai tagliati.
Trovò strano che gli fosse tornato in mente suo
padre, da diversi anni non ripensava a lui. Del resto, non avevano mai
avuto un bel rapporto, Haldamir era sempre stato molto scostante e
Ledah un ribelle. Più di tutto ricordava il suo sguardo
severo, che aveva il potere di farlo sentire insignificante come un
verme. Eppure non poteva biasimarlo per essersi comportato in quel
modo, aveva avuto le sue ragioni. Solo quando era spirato, Ledah si era
reso conto del vuoto che aveva lasciato. Non poteva dire di averlo
amato, semmai il contrario. A differenza di Aiwen, non aveva versato
nemmeno una lacrima mentre i capi tribù lo smembravano. Nei
giorni a seguire era tornato spesso al cimitero per osservare i resti
del suo corpo e, mentre i corvi e gli animali della foresta
banchettavano con ciò che rimaneva del suo cadavere, Ledah
aveva osservato la scena in religioso silenzio, finché non
erano rimaste che ossa rotte e schizzi di sangue rappreso sull'erba.
Non sapeva se l'anima di Haldamir avesse trovato pace. Forse
i corvi lo avevano guidato nel paradiso in cui tanto credeva per
aiutarlo a diventare parte della natura, e qualora si fosse perso
durante cammino che conduceva all'Elwing Telperiën, avrebbe
potuto reincarnarsi e vigilare sul suo popolo.
“Spero davvero che alla fine tu abbia trovato la
serenità che in vita ti è stata
preclusa.”
Prese un cofanetto di noce appoggiato allo specchio e
tirò fuori delle piume di falco e un nastro verde muschio,
per poi dividere i capelli in varie ciocche e cominciare a intrecciarli
fin dalla cute, aggiungendo di tanto in tanto le decorazioni che aveva
appoggiato sul ripiano.
Una volta terminata l'acconciatura, rientrò in
camera e aprì l'armadio. Dentro c'erano un paio di calzoni
scamosciati nei toni del verde e una tunica corta con inserti in seta e
ricami sulle maniche svasate. Ad accompagnare il tutto, degli stivali
in pelle nera, con un'edera che si arrampicava lungo tutto il polpaccio.
“Almeno non è un abito.”
Ricordò con un sorriso il giorno dell'investitura
di Aiwen, in cui suo padre costrinse lui e Brandir a indossare una
lunga veste dorata e un cerchietto d'argento sulla testa, come si
addiceva ai familiari e al promesso sposo di una candidata al
Consiglio. A Brandir non era dispiaciuto, anzi, agghindato in quel
modo, con i capelli stretti in una coda e la punta delle orecchie
adornata con orecchino d'onice, sembrava un druido dei boschi, proprio
quello che sarebbe diventato se la guerra non avesse preteso i suoi
servigi. Per Ledah, invece, era stato uno strazio: si era sentito
ridicolo con gli occhi truccati in modo da farli sembrare ancora
più sottili, e per di più la veste gli andava
stretta sulle spalle e sulle braccia.
Si avvicinò allo specchio e si sistemò
il colletto e la treccia, assicurandosi che qualche ciocca non fosse
sfuggita alla costrizione delle piume e del nastro. Infine
uscì dalla camera, diretto alla sala dalle udienze.
La Reggia dei Ginepri, così era stata
soprannominata la corte del re e della regina di Sheelwood, era una
struttura che sorgeva al penultimo piano del Padre della Foresta.
Somigliava a un castello principesco. Si estendeva per quattro piani ed
era ornato con pinnacoli, balconate, sculture ornamentali e numerose
torri che svettavano orgogliose con più di duecentosessanta
piedi di pietra bianca. Su quella più alta, sita sul lato
ovest, sventolava la bandiera della casata reale, una foglia dorata
inscritta in una rosa dei venti. La prima volta che Ledah era andato a
Sheelwood, l'aveva vista solo da fuori, ma già all'epoca era
rimasto colpito dalla magnificenza delle statue e dei bassorilievi che
decoravano le bifore e le trifore dai vetri coloratissimi.
L'interno rispecchiava la stessa spettacolare opulenza
dell'esterno. Aveva sentito dire che ci fossero oltre duecento camere,
incluse quelle della servitù e dei soldati della guardia
personale del re e della regina. Gli alloggi del suo gruppo erano
nell'ala est, vicino al cortile interno, con una piccola serra privata
dove le dame passavano la maggior parte del tempo a parlare di cose
frivole e di poco conto.
Con passo svelto, Ledah si orientò nei corridoi e
raggiunse la Sala delle Udienze. Quando si avvicinò alla
porta, le due guardie lo squadrarono da capo a piedi.
- Chi va là? -
- Sono uno dei guerrieri di Llanowar. Sono stato convocato
dal re. - si annunciò.
L'elfo sulla sinistra, che sfoggiava una cicatrice sul labbro
e un occhio glauco, si prese un momento per studiarlo, prima di
rivolgere un cenno al suo compagno e farsi da parte. Ledah
passò oltre a testa alta.
La Sala delle Udienze era imponente e ampia. Le tre arcate
che la circondavano sui tre lati culminavano in un'abside, dove si
trovava il trono di rovere. Lo schienale, intagliato nell'effige di un
antico albero, si innalzava verso il soffitto, per poi fondersi con
esso sfaldandosi in radici nodose che, come una ragnatela, penetravano
nella pietra. Merli e cardellini svolazzavano in qua e là,
per poi tornare a rifugiarsi nel loro nido, nascosto chissà
dove nell'intrico di rami e foglie.
Ledah fissò incantato quella struttura, che
sembrava tutto fuorché un semplice sfoggio di opulenza. Se
avesse chiuso gli occhi, ne era certo, avrebbe percepito il respiro del
legno e l'odore della clorofilla che lo irrorava e vivificava.
I suoi compagni già presenti, tutti vestiti con
abiti eleganti, gli rivolsero un cenno di saluto. Brandir gli
riservò una smorfia che voleva dire “sei sempre in
ritardo”, ma Ledah lo ignorò deliberatamente e si
accinse a prendere posto con aria innocente, sapendo che avrebbe fatto
arrabbiare l'amico.
Re Meidras e sua moglie, la regina Vedra, sedevano
affiancati, lui sul trono intagliato in un albero, lei su uno scranno
di legno bianco, con rami esili e penduli che si allungavano verso
l'alto intrecciandosi tra loro e con quelli dell'altro trono. Avevano
entrambi la pelle ambrata, in un curato contrasto con i capelli corvini
e gli occhi finemente truccati. Vedra stringeva la mano del marito,
mentre quest'ultimo abbracciava la sala con lo sguardo, vagando da un
viso all'altro con un'espressione ansiosa a indurirgli le labbra. Non
appena vide che Ledah si era allineato con gli altri, si
schiarì la voce e iniziò a parlare.
- Bene, ora ci siete tutti. Benvenuti a Sheelwood, stimati
guerrieri. Mi dispiace avervi fatti venire per questioni
così poco piacevoli, ma, come di sicuro saprete, la guerra
è giunta fin qui. Immagino che il Consiglio vi abbia
già edotti sul nemico che ci sta insidiando. -
- Sì, vostra maestà, ho conferito ieri
pomeriggio con i vostri Anziani. Non credevo che tra gli uomini ne
esistessero anche alcuni capaci di usare la magia e di essere allo
stesso tempo così scaltri. Il comandante del manipolo
accampato a oriente è molto più furbo di quanto
mi aspettassi. - rispose prontamente Brandir.
- Proprio per questo vi abbiamo chiamati. Siamo preoccupati.
Sebbene il Padre della Foresta sia celato alla vista dai nostri
migliori incantesimi di occultamento, non possiamo escludere che questo
mago sia in grado di tracciarne la posizione. Se così fosse,
saremmo tutti in pericolo. - il re trasse un profondo respiro e si
massaggiò la radice del naso, gli occhi adombrati
dall'agitazione e dall'angoscia, - So che al Nord siete riusciti
più volte a respingere l'avanzata degli umani e
ciò fa di voi i candidati più adatti alla
missione. Abbiamo perso fin troppe foreste per permetterci di
sottovalutare la minaccia. -
Ledah si stupì a quelle parole. Tra Llanowar e
Sheelwood non correva buon sangue da ormai molto tempo: gli abitanti
della foresta del Sud reputavano quelli del Nord dei barbari ancora
tenacemente attaccati alle tradizioni più antiche del loro
popolo. Quando avevano perso le prime foreste, l'Assemblea dei Pari
aveva mandato una delegazione da Meidras per offrire loro una mano, ma
questi aveva rifiutato, troppo orgoglioso per accettare un'alleanza.
Perciò sentirgli pronunciare un discorso del genere che
nascondeva una chiara richiesta di aiuto lasciò di stucco
tutti, persino la stessa regina.
- Saremmo onorati di assistervi, maestà. Quando i
vostri guerrieri torneranno dalla spedizione, parlerò col
loro comandante per organizzare un piano efficace. Sappiamo cosa
aspettarci, abbiamo combattuto abbastanza per provare a prevedere le
mosse dei nemici. Per quello che riguarda il mago, conto di ricevere
notizie a breve sulle sue capacità. Sapere se è
un Dominatore o un Arcanes ci aiuterebbe molto. - disse Brandir.
Il re annuì con aria affranta, intrecciando le
dita con quelle della moglie. Un sorriso affiorò sulle
labbra dell'elfo e, quando incrociò gli occhi della sua
amata, la paura che li oscurava si dissolse, sostituita da una
scintilla di speranza.
- Il ritorno di Baraja è previsto tra poco
più di una settimana. Non appena sarà qui, la
manderò subito da voi, comandante. Per ora prendetevi del
tempo per riposare. Deve essere stato un lungo viaggio. -
proferì Meidras.
- Grazie, maestà. -
- Bene, siete congedati. -
Tutti si inchinarono, compreso Ledah. Per tutto il colloquio,
la regina non gli aveva staccato gli occhi di dosso, neanche per un
istante. Anche mentre si allontanava, gli sembrava di sentire il peso
del suo sguardo sulla nuca, come se volesse trafiggerlo da parte a
parte. Quando le porte si chiusero alle loro spalle, per Ledah fu un
sollievo.
Ad un certo punto, Brandir invitò i commilitoni ad
avvicinarsi.
- Avete la giornata libera, ma ricordatevi di non ubriacarvi,
sia mai che si lamentino della nostra maleducazione. -
- Non preoccupatevi, siamo dei bravi ragazzi. - gli rispose
ridacchiando Gerania, la loro compagna più giovane, - Dai,
andiamo, questo incontro mi ha fatto venire sete. -
- Anche a me. - concordò Ràl, -
Seguitemi, ho visto una locanda al secondo piano del Padre. Se ci
andiamo adesso, forse non troviamo troppa gente. -
Ledah abbozzò un sorriso divertito. Prima che
Gerania potesse proporgli di accodarsi a loro, le fece un cenno di
diniego con la testa. Aveva già bevuto abbastanza la sera
addietro, per quel giorno era a posto.
Rimasti soli, Ledah studiò Brandir di sottecchi,
cercando di non farsi notare. L'amico si comportava in modo strano da
quando erano arrivati a Sheelwood e il fatto che non avesse voluto
condividere con lui i dettagli che gli Anziani gli avevano riferito era
solo uno dei suoi numerosi atteggiamenti sospetti. Anche mentre parlava
con i sovrani era apparso teso.
“Cosa mi stai nascondendo? Cosa ti turba
così tanto da farti tenere la bocca chiusa?”
- Corvetto, puoi smetterla di fissarmi? È
irritante. -
Brandir gli schioccò le dita davanti al naso per
risvegliarlo dai suoi pensieri. Sorrideva come sempre, ma Ledah sapeva
che c'era qualcosa che non andava. Si sforzò di ricambiare
il sorriso e di mostrarsi disinvolto, nonostante il nervosismo e la
tensione.
- Sì, scusami. È che sei
così... colorato. Un pavone a confronto è un
canarino sgraziato. -
- Lo prenderò come un complimento. - gli diede un
pugno sulla spalla e gli fece strada lungo il corridoio, - Forza,
cammina, anche noi abbiamo un impegno. -
- E tu odi fare tardi, lo so. - sospirò Ledah, le
mani affondate nelle tasche dei calzoni, - Piuttosto, hai intenzione di
dirmi di cosa si tratta, oppure devo indovinarlo? -
- Sono quasi tentato di tenertelo nascosto ancora un po'
facendoti rodere il fegato, ma credo sia giusto che tu lo sappia. -
- Ecco, adesso sono preoccupato. -
Brandir ridacchiò e dopo un istante di esitazione
dichiarò: - Io e Aiwen ci sposiamo oggi e tu ci farai da
testimone. -
Ledah lo fissò a bocca aperta, a corto di parole.
Sapeva che prima o poi avrebbero compiuto il grande passo, era
nell'aria, ma non immaginava che avrebbero compiuto il grande passo
proprio quel giorno. Brandir aveva sempre detto che avrebbero aspettato
la fine della guerra, così da poter indire una grande festa,
sia a Llanowar che a Sheelwood, ma erano passati quasi quarant'anni e
Ledah immaginava che fossero stanchi di attendere. Dopo essersi
ripreso, lo abbracciò e gli assestò poderose
pacche sulla schiena.
- Finalmente! L'idea di avere una sorella zitella mi ha
sempre tormentato, ma forse ora potrò mettermi il cuore in
pace. -
Brandir scoppiò a ridere, imitato da Ledah, e le
loro risate felici rimbalzarono sulle pareti di marmo bianco,
richiamando l'attenzione degli elfi che passeggiavano per i corridoi.
Essi si girarono a guardarli con disapprovazione, e quando Brandir e
Ledah passarono vicino a uno di loro, che se ne stava con il naso
arricciato come se ci fosse un cattivo odore nell'aria,
l'ilarità crebbe assieme all'entusiasmo e scacciò
via i cattivi pensieri.
Corsero fuori dalla reggia e attraversarono i ponti d'ambra
continuando a scambiarsi battute, senza che il riso li abbandonasse
mai. Incuranti della gente che sbirciava incuriosita nella loro
direzione, scesero fino al piano di mezzo e si infilarono nei sentieri
che si districavano sui rami dove sorgevano case, funghi variopinti e
statue dedicate a divinità elfiche. Giunsero in
prossimità di un ramo spesso e robusto, che sembrava
invitarli a entrare in un gazebo avvolto da una veste sgargiante di
clematidi e ipomee in fiore. Brandir si fermò al centro,
mentre Ledah si appoggiò allo steccato, le braccia
incrociate sul petto e il cuore in fermento. Di lì a poco,
un'elfa agghindata con un semplice abito bianco e una spada di
cristallo nero di Valhalla tra le mani arrivò da una
stradina laterale, una delle tante che si snodava nei rami periferici
del Padre della Foresta. Al suo fianco, nascosta da un mazzo di fiori
troppo grande, c'era una bambina con le trecce rosse e gli occhi dello
stesso azzurro dei fiumi di montagna, mentre alla sua sinistra avanzava
un elfo con i lunghi capelli bianchi e delle leggere rughe ai lati
della bocca e sulle mani screpolate.
Ledah e Brandir li fissarono finché non arrivarono
ai primi scalini e lo sposo trasse un profondo respiro, prima che Aiwen
lo affiancasse. Accarezzò la testa della bambina e, con un
sorriso che gli illuminava gli occhi, le sussurrò qualcosa
all'orecchio che Ledah non capì, ma che fece sorridere la
diretta interessata. Poi, saltellando, quella si appiccicò
allo steccato, affondando il viso nel mazzo di fiori.
Non appena anche Ledah si fu avvicinato, il sacerdote diede
inizio alla cerimonia. Verso la metà, gli sposi disegnarono
con la spada l'Amashta, il cerchio magico che, secondo la tradizione,
li avrebbe protetti dagli spiriti maligni. Aiwen percorse la prima
metà del cerchio, poi passò la spada a Brandir,
gli occhi sprofondati in quelli dell'altro e il sorriso più
felice che Ledah avesse mai visto. Nel frattempo, ripetevano le parole
del sacerdote a bassa voce, scambiandosi le promesse.
Accolgo la tua protezione con la spada di Celebrinda
nel fuoco dell'amore e nei quattro elementi,
sotto le stelle del firmamento e sotto gli dei antichi e
nuovi,
e giuro sul sangue che ciò che provo
è più puro della Verità
Assoluta.
Il sacerdote compì un gesto con la mano e dal
legno emersero delle candele. Brandir prese una stecca d'incenso dalle
tasche e accese la prima, che per magia si dissolse in un vortice di
petali rossi che il vento fece turbinare sul cerchio sacro. Aiwen gli
si accostò e intrecciò le dita con le sue, prima
di accompagnare la sua mano verso la seconda e la terza candela.
Bastò un momento perché anche queste si
sparpagliassero ovunque creando un tappeto floreale rosso, blu e giallo.
Tuo è il potere di Yggrasil, il sommo Padre,
tua la virtù di Galathien la saggia,
tua la fede di Lash'ar il mite
tue le gesta degli eroi che furono, sono e saranno
tua l’eleganza di Calimie la bella
tua l'indole del paziente Selindrior,
tua l’audacia di Tariel la cacciatrice,
tuo il fascino di Xana l'incantevole.
Tu sei la delizia d’ogni giorno,
la luce del sole appena nato,
il focolare acceso nelle notti gelide,
la stella più lucente che guida i marinai,
la prima spiga di grano,
il cervo che danza sui monti,
la grazia della colomba della pace,
il desiderio più profondo e anelato,
l'anima più gentile che il Padre mi ha concesso.
A questo punto, il sacerdote prese in custodia la spada e
passò agli sposi un pugnale dalla lama ondulata, che
catturava la luce come un piccolo sole. Aiwen strinse le dita attorno
all'elsa e, dopo momento d'esitazione, si incise il polso destro. Il
suo viso non tradì alcun dolore o paura, c'era solo
determinazione, fiducia e amore. Brandir, non appena ella gli porse il
pugnale, fece lo stesso, lo sguardo fisso in quello della sposa. Quando
il sacerdote legò attorno ai loro polsi una striscia di
stoffa bianca, che non tardò a macchiarsi di sangue, le loro
voci si unirono per cantare un inno.
Ora il laccio che ci lega non si spezzerà
più.
Imparerò da te ciò che la Vita non mi
ha insegnato
e lo stesso sia per te, finché ciò che
abbiamo cresca
e ciò che ci manca ci venga concesso.
Quel che ho amato, prometto d'amarlo sempre,
finché il Padre non ci prenderà con
sé.
Il mio cuore sarà per te,
la mia anima sarà per te,
il mio amore sarà per te,
ora e per sempre.
Quando anche l'ultima nota si spense, Brandir e Aiwen si
scrutarono in attesa, impazienti di ricevere dal sacerdote il segnale
che la cerimonia si era conclusa. Non appena questi annuì e
sorrise, Brandir sollevò Aiwen tra le braccia,
affondò le dita tra i suoi capelli e baciò la sua
risata.
Angolo Autrice:
Hello folks!
Oggi si è concluso il Giveaway e abbiamo un vincitore,
finalmente u.u Nelle prossime due settimane mi impegnerò per
mettere online la Os che vi ho promesso. Non vi dico ancora su chi
sarà, ma vi assicuro che non appena la leggerete, vi
verrà subito l'illuminazione u.u Bon, la prossima
pubblicazione di fuoco è spostata all'11 giugno, ci si vede
per allora!
Hime