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Autore: lillabulleryu    17/05/2017    0 recensioni
Lance McKlain ha un sogno: diventare un famoso attore di teatro! Una possibilità interessante sembra presentarglisi, ma dovrà collaborare con Keith Kogane, pianista hipster patito di jazz e caffè...
(Come molti potranno perspicacemente notare, la fanfic è ispiramente liberata al quasi omonimo film La La Land. Quello che si sono sbagliati a darci l’Oscar come miglior film, per intenderci. Che ne ha comunque vinti un casino, era candidato per almeno quattordici.
Non contiene: tip tap, citazioni di musical d’epoca, Frédéric Chopin, attrici che diventano famose e parlano francese per fare più le fighe, glutine
Contiene: snobismo, parolacce, frutta a guscio, jazz, tai chi, cose inventate, cose non inventate, glutine
Potrebbe contenere tracce di Franz Liszt e nicotina.)
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Gunderson Pidge/Holt Katie, Kogane Keith, McClain Lance, Takashi Shirogane, Un po' tutti
Note: AU, Lime, Movieverse | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
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Chiunque abbia frequentato almeno uno dei molti teatri di Dandyville o la sua Accademia sa chi sia Shiro.
Nella memoria collettiva di tutti gli studenti si era andato a creare un mito.
Un talento fuori dal comune, che lo distingueva fin dall’infanzia, gli aveva consentito una borsa di studio; dalla Svezia si trasferì a Dandyville per coltivarlo e metterlo a frutto.
Alcuni sostenevano che conoscesse tutto Shakespeare a memoria, altri che avesse appreso la Commedia dell’Arte in Italia, che avesse studiato il Nori, il Kabuki, la narrazione di Kamishibai… e, ovviamente, li padroneggiasse tutti.
Si era indotti a crederci facilmente perché Shiro aveva fatto di tutto:  contraddistinto da una volontà ferrea, si impegnava nelle tecniche, nelle cause sociali, nei movimenti d’avanguardia culturali.
Una volta entrato da professionista nel mondo del teatro, aveva continuato a proporsi come figura di riferimento nella formazione degli apprendisti e dei dilettanti. Non esisteva ambito in cui si risparmiasse. Come facesse, aveva quasi dell’incredibile.
La notizia del suo ritiro fu il fulmine del cielo sereno di qualche anno prima. Di spiegazioni pubbliche o private non ne rilasciò: era tornato da dove era venuto, in Svezia, per poi sparire nel nulla. Così come prima era dovunque, ora non era in nessun posto.
Agli occhi di un fervido ammiratore come Lance, fu uno shock. Lo adorava al punto da tenere una locandina del suo Amleto appesa in camera. Vederlo interpretare Neottolemo nel Filottete gli aveva annodato lo stomaco. Quando aveva vestito i panni di Bruto nel Giulio Cesare, si era ritrovato a compatirlo come se fosse stato lui a beccarsi le coltellate nella schiena.
Aveva solo undici anni in più di Lance ed era già un attore eccezionale: plastico come creta, prendeva le fattezze, i modi e l’espressività di qualunque personaggio. Rivendicava quella fibra fisica e morale per sé, come se non avesse mai vissuto o parlato altrimenti. Bastava il suo primo passo sul palco che vi potevi vedere riflesse le fatiche di una vita intera, una frivolezza spensierata, dolori da scarnificare l’anima, tormenti d’inferno.
Il suo ritorno doveva essere qualcosa di grandioso.
Fece un profondo respiro e una miriade di brividi dalle zampette di ragno gli risalirono fino alla bocca dello stomaco. Hunk si fermò davanti all’ingresso del locale e si voltò a guardarlo.
- Ci sei? – gli chiese, serio.
Anche lui era teso. Si capiva dal fatto che avesse continuato per tutto il tragitto ad asciugarsi i palmi delle mani sui pantaloni.
Lance annuì rigidamente, badando di non deporre il contenuto del suo stomaco prima ancora di entrare.
L’amico lo incitò in silenzio con un pugno chiuso e uno sguardo determinato, poi spinse la porta.
Li accolse la luce soffusa giallo-rossastra di un’ampia sala stile anni ’50 e l’eleganza vivace di un clarinetto che si esibiva nello swing di sottofondo.   
Il Circolo Braun era un jazz club molto noto tra i teatranti: insieme a buona musica dal vivo, spesso offriva spazi in affitto alle compagnie bisognose di luoghi dove provare.
Riconobbero Shiro, seduto a uno dei tavolini in fondo alla sala. Dava le spalle a una folla colorata di manifesti, fotografie, autografi incorniciati e quadri che arrivavano fino al soffitto. Non sembrava in attesa di qualcuno: era immerso in una lettura che gli faceva ignorare il mondo circostante, compreso il bicchiere ancora colmo alla sua destra.
Fu sufficiente che i ragazzi gli si avvicinassero che i suoi occhi si sollevarono immediatamente dai fogli, vigili come se li avessero visti arrivare.
- Ben arrivati. – si alzò in piedi e porse loro la mano in cenno di saluto. Soffermò la sua attenzione su chi, dei due, non aveva ancora incontrato: - Tu devi essere Lance, giusto?
Lo Shiro che Lance si era immaginato era molto diverso da quello che aveva davanti.
Era logico che un attore geniale di carriera si presentasse sicuro di sé, brillante, distinto. Quello era un Amleto invecchiato dall’aura greve e stanca. Il pallore del viso, affilato e smagrito, era accentuato dagli abiti neri che indossava. Gli occhi avevano il colore e la pesantezza del piombo, tradivano il tormento dell’insonne. Il suo sguardo aveva un’intensità perforante, una serietà così assoluta e profonda che avrebbe potuto frantumare le rocce.
Lance si sentiva una di quelle rocce. Tentò di esibire il suo migliore sorriso, ma ottenne solo una stiracchiata di labbra.   
- Piacere! Sono un suo… tuo… grande ammiratore!
- Dammi pure del tu. Sedetevi.
I ragazzi obbedirono; cadde il silenzio.
Shiro parve accorgersi solo in quel momento che aveva ordinato una birra. Bevve un sorso, intrecciò le dita sul tavolo. Fissò le mani, come se su di esse fosse già scritto il copione della conversazione. Tornò a concentrarsi sui ragazzi di fronte, per poi interpellare Lance a bruciapelo:
- Se non ricordo male, sei un ottimo ballerino.
Lance dovette fare appello a tutta la sua fisiologica faccia di tolla per non lasciarsi divorare vivo dalla vergogna. Sul pizzicore del volto poteva fare ben poco, a parte sperare che la penombra del locale lo nascondesse. Mollò un calcio negli stinchi di Hunk, a cui stava, molto poco opportunamente, scappando da ridere.
- Ho… già ballato in altri spettacoli, sì.
Per favore, non chiedermi dettagli, supplicò mentalmente.
- E con il canto?
Il cuore di Lance intonò inni di gioia per il cambio di argomento.
- … non ho dimestichezza a leggere gli spartiti, ma posso imparare.
Shiro annuì, assorto. Tornò a guardare gli appunti sparsi sul tavolo, vagando tra i sentieri invisibili che si intricavano tra le scritte.
Lance e Hunk si scambiarono un’occhiata interrogativa, ma nessuno dei due sembrava essere in grado di chiarificare le idee dell’altro. Quando Shiro riprese a parlare all’improvviso, entrambi sussultarono.
- Come sapete, questo spettacolo parteciperà al Mainard. Ho idee molto precise, ma ve le illustrerò a tempo debito. Hunk. – Hunk scattò sull’attenti, tirando la pancia all’indietro. Poco mancava che portasse la mano a saluto militare. - Mi hai già dato il tuo consenso a partecipare come tecnico delle luci, ma avrei bisogno anche della tua supervisione per il suono. Posso contare su di te?
- Certamente! Ho anche esperienza come DJ! 
- Ottimo. – La bocca di Shiro si distese in un sorriso senza allegria, poi si rivolse a Lance. - Ti porrò la stessa domanda che ho fatto ieri ad Hunk. Non dubito che tu sia un buon attore. In questo spettacolo, però, non cerco semplice bravura accademica. Ho bisogno di qualcuno che sappia dare un’anima autentica al testo, che lo faccia vivere.
Lance deglutì a fatica e rispose con un cenno di assenso. 
- Dovrebbe essere la norma per qualsiasi opera artistica, ma quelle teatrali ne hanno bisogno in modo particolare. Saresti motivato a partecipare a uno spettacolo in cui mettere tutto te stesso? Non ti saranno risparmiati sforzi.
Shiro lo squadrava con severità penetrante, guardingo innanzi a ogni più impercettibile sfumatura di esitazione. Lasciarsi intimidire avrebbe potuto essergli fatale. Usò la sua forza più spontanea ed efficace: la sfacciataggine.
- Il teatro è la mia vita. Se temessi la fatica avrei già smesso da un pezzo. – sorrise più rilassato, appoggiandosi allo schienale della poltroncina come se fosse a suo agio. – Inoltre, lavorare con te sarebbe un onore.
L’espressione di Shiro non mutò di un soffio; prese un foglio appoggiato in cima a una cartella azzurra e glielo porse.
- Vorrei che leggessi questo estratto. – spiegò,  picchiettando leggermente la carta. – Puoi restare seduto. Non ti indicherò il contesto: stai parlando di una persona che hai perduto e che non tornerà mai più. Inizia quando sei pronto.
La musica di sottofondo si impennò in un assolo appassionato di sassofono, mescolandosi con il tonfo erratico del cuore di Lance contro lo sterno e le tempie.
Non era preparato ad esibirsi. Scorse rapidamente il foglio, avido di ogni barlume di senso. Non ci capì un accidente. Un rivolo di sudore gelido gli scese lungo la spina dorsale.
Ok, Ok, McClain, si disse, rileggendo ancora il monologo, vai col metodo Jack di Lost: cinque secondi per il panico. Cazzo, cazzo, cazzo, vaya mierda.
Rilesse una terza volta, supplicando le parole di guidarlo.
Una poesia? Un canto elegiaco?
Una persona che non tornerà mai più?
Ecco che cominciarono a lampeggiare alcune immagini del passato, colori fumosi. Ripensò agli occhi verdi di sua nonna, picchiettati di macchie grigie, e alla sua morbida selva di capelli ricci, che non si erano fatti radi nemmeno con l’età e la malattia. L’ultima volta che la vide, una gioia delira le sconvolgeva lo sguardo ancora così buono. Non aveva mai smesso di rimpiangere di non averla potuta salutare prima dei suoi funerali.
Rilesse ancora, cominciò ad orientarsi, a vedere qualcosa. Rovine di case, desolazione.
Respirò. Di colpo era calmo. Prese a parlare come se fossero gli Inferi a guidarlo. Ogni sillaba era un mattone da attaccare all’impasto fresco del cemento sul muro.

Salute, viaggiatore, che nella morbida notte ti avventuri. Salute, viaggiatore, che nulla temi: che vai cercando in queste terre?
Mille baci ti ha promesso la tua bella dalla mano d’avorio? Sono i suoi capelli di sole? Sono i suoi occhi corolle di stelle?
Torna indietro, rimani al tuo sonno.
Chi ha bruciato di lutto queste mura? Di’, tu lo sai?
Sul suo viso non piove luce: ha soffocato di sbarre la porta, le finestre sanguinano cenere. Cade fuliggine sulle nostre lacrime. Nera di pece è la nebbia del mio cuore; nell’amplesso di terra e pioggia, il solo colore che resta è il belletto di sangue dei giocattoli morti.


Il pezzo era finito. La voce di Lance aveva proseguito in un flusso costante, senza sbavature. Un peso opprimente la aveva costretta a un decrescendo livido, funereo, fino a ridursi a un mormorio.
Due grosse lacrime gli avevano rigato il volto. Se ne accorse soltanto quando ritornò in sé, in quel locale, tra Hunk e Shiro che lo fissavano.
Il foglio cadde sul tavolo.
- Oh—ah… - balbettò confuso, passandosi di riflesso una mano sulla faccia. – Mi—mi dispiace, non pensavo che…
La gola gli si strinse. Qualcosa pungeva nel petto. Il dolore riverberava nelle costole e non riusciva a trattenerlo, nonostante la consapevolezza di essere quasi certamente giudicato.
- Che imbarazzo! – sforzò una risata nervosa e si schiarì la voce. Poco mancò che strappasse il fazzoletto che Hunk, premurosamente, gli stava porgendo.
- Non scusarti. – Shiro lo osservava, imperturbabile. Il suo tono era calmo, senza emozioni. - A me è piaciuto ciò che ho visto.
Il disagio di Lance aumentò nel sostenere uno sguardo che sembrava sottoporlo allo scanning delle ghiandole lacrimali. Quando Shiro parlò, dopo un silenzio di eternità, non fu in grado di cogliere il significato immediato della comunicazione.
- Ci vediamo martedì prossimo alle nove qui, sala K.
***

Il telefono suonava a vuoto.
Contò gli squilli, come ogni volta.
Tre.
Quattro.
Cinque.
Questione di qualche attimo ancora, poi la segreteria telefonica avrebbe interrotto quella litania monocorde.
Al settimo squillo la risposta lo colse in flagrante.
- Pronto?
Sapeva perché non volesse parlargli. Eppure, alla fine, aveva scelto di farlo. Fu un emozione tale che il respiro gli si mozzò in gola.
- Ciao. Scusa l’orario.
Dall’altra parte ci fu un sospiro spazientito.
- Che cosa vuoi?
- La mia domanda è sempre quella. Ho trovato l’ultimo attore e il tecnico. Mancheresti solo tu.
- Ti ho già dato una risposta. – ribatté stancamente. - Col teatro ho smesso.
- Lui avrebbe voluto che tu partecipassi.
Rimasero in silenzio per almeno un minuto, forse trattenendo entrambi il fiato.
- Promettimi che ci penserai ancora. – insisté lui, con docile ostinazione. - Fallo per...
- Non dirlo.
La frase fu tranciata con uno scatto stizzito e ubbidì. Il cuore si era fatto pesante.
- Per favore. Capisco che tu ci tenga. Ma non so come mi potrei sentire. - Si interruppe. Schiarì la gola e inspirò rumorosamente col naso. - Sto cercando di andare avanti.
- Aspetterò fino all’ultimo. – fu strano pronunciare quelle parole e non riconoscere quella voce gracchiante che le aveva pronunciate. Diede un piccolo colpo di tosse e gli parve di tornare in se stesso. - Iniziano le prove la prossima settimana. Ti ho mandato una e-mail con il copione e l’indirizzo del circolo teatrale.
- Sei proprio uno zuccone.
- Sempre stato.
***

Mancavano sei minuti esatti alle nove di sera del martedì successivo.
- Ti sei ricordato i fazzoletti?
- Fottiti, Hunk!
E, per grande felicità di Lance, l’umorismo del suo coinquilino dimostrava di essere più fecondo e generoso della dea Demetra.
Il riflesso delle loro ombre procedeva svelto sull’asfalto bagnato e calpestava i riflessi aranciati dei lampioni. Attraversarono la strada: dall’angolo in fondo alla via, si intravedeva l’insegna illuminata del Circolo Braun.
- Se il copione sarà tutto come il pezzo che hai letto, ci sarà da tagliarsi le vene…
- Shiro ha le idee chiare, siamo in ottime mani! E poi a te che te ne frega del–
La frase rimase in sospeso. Un ragazzino era sfrecciato davanti a loro, superandoli; una delle molte pin che aveva attaccate allo zaino si sganciò e cadde a terra. I tonfi argentini non attirarono l’attenzione del proprietario, ma quella di Lance; si chinò subito e raccolse l’oggetto da terra. Ritraeva il celebre robot di Star Wars, R2D2, dalla cui calotta sbucava però un gattino grigio.
 - Ehi! Aspetta!
Al richiamo, il ragazzo non si volse; fu necessario che Lance lo prendesse per la spalla, facendolo sussultare dallo spavento. Si sistemò gli occhiali sul naso e si tolse gli auricolari, con aria scocciata.
- Ti è caduta questa!
Il ragazzino scrutò prima la spilla e poi lo sconosciuto, mentre il suo sopracciglio destro si sollevava con diffidenza. Si sfilò uno spallino dello zaino e controllò lo stato del suo reame di pin: un buco di stoffa vuota confermava un’assenza.
– Ah. Grazie. – arrossì lui, afferrando ciò che aveva smarrito.
- R2, eh? – sorrise Lance, evidentemente compiaciuto di dimostrare la sua conoscenza Star Warsiana. - Piace un sacco anche al mio fratellino più piccolo!
Il ragazzo non sembrava pronto alla prospettiva di una chiacchierata; dopo un paio di tentativi di rimettere la spilla andati a vuoto, se la infilò in tasca e rimise lo zaino in spalla.
- Uh… sì. Ok.
Una reazione così evasiva era anomala. Di solito, a nominare un tuo eroe, un fan che si rispetti si illumina, riconoscendo nella figura che ha innanzi un complice e un fratello nel mare magno della gente non curante. Doveva esserci sotto un profondo motivo di turbamento.
- Audizione? – chiese Lance, con la bonarietà paterna di chi la sa lunga.
- Cos—?!
- In bocca al lupo! Anch’io sono sempre nervoso!
Borbottando tra sé qualcosa di incomprensibile, il ragazzino girò i tacchi e si allontanò rapidamente fino a scomparire dietro il bancone del bar.
- Mi sa che l’hai terrorizzato. – osservò Hunk.
- Figurati! Ce ne fossero di persone carine come me, quando vai ai colloqui!
- Quando fai il gentile sembri un depravato. Perché vai ad interessarti dei fatti di uno studente delle medie?!
- Il depravato sei tu, che pensi subito a cose sordide!
- Al giorno d’oggi un sacco di ragazzi sono sociopatici emo, non puoi dare per scontato neanche di salutarli!
- Finiscila, non voglio far tardi per il tuo trattato di sociologia! – sbuffò Lance, affrettando il passo.
Scesero le scale e si inoltrarono nel corridoio; un pianoforte improvvisava, in lontananza, un canto melanconico e strascicato.
La musica veniva proprio dalla sala K, ancora chiusa. Davanti alla porta erano in attesa una giovane donna e un uomo baffuto sulla quarantina.
Sull’uomo, Lance non si soffermò granché. La creatura che gli era accanto, però… oh, wow.
Fisionomia slanciata, vita sottile. Viso delicato e triangolare, carnagione scura. Naso deliziosamente dritto, con la punta all’insù. Occhi grandi, di un azzurro luminoso, incorniciati da ciglia folte e un tenue velo di trucco. Un vestito bianco e azzurro, lungo fino alle ginocchia, esaltava la luminosità dei capelli mossi e vaporosi, che arrivavano alla vita.
Una manifestazione divina.
- Non mi piace quello sguardo da caimano. – commentò Hunk, allarmato. Sperava probabilmente di comunicare con quel residuo senso di decenza che, ogni tanto, Lance dimostrava di avere; invano.
Con un incedere da John Travolta, Lance si avvicinò al duo e si rivolse a lei con il più seducente dei suoi sorrisi di repertorio.
- Scusami… è questa la Sala K?
- Sì. Stanno finendo di provare. – replicò garbatamente. - Siete qui per Shiro?
- A dire la verità, ora io sono a posto. – la sua voce si era abbassata di un paio di ottave; ammiccò. – Per caso ti chiami Google? Sei tutto quello che sto cercando.
Hunk gemette e tentò una fusione tra il palmo della mano e il proprio viso.
- Oh, Dio, no.
La signorina sollevò entrambe le sopracciglia, interdetta. Squadrò Lance con uno sguardo pieno di rassegnata disapprovazione; la sua indole, forse compassionevole, generò un profondo, sconsolato sospiro.
- Perché, Coran. Perché le nuove generazioni sono persuase che questo tipo di approccio funzioni?
Il signore accanto aveva tutta l’aria di essere molto divertito dalla scena e aveva camuffato una risata con un mimetico colpo di tosse.
- Mia cara Allura, non dimenticare che le nuove generazioni rielaborano ciò che viene dalle vecchie. – si sollevò impettito, con fare didascalico e solenne da antico romano shakespeariano. - Anche sul palco della vita bisogna avere la battuta pronta, solo il tempo e l’abitudine ci raffinano!
- È difficile resistere alla tentazione di fare qualche follia, di fronte a una principessa come te! – rilanciò Lance, facendole l’occhiolino. - Piacere di conoscervi. Anche voi siete stati contattati da Shiro?
Il giudizio sfavorevole nei suoi confronti non era svanito dagli occhi della “Principessa”.
- Proprio così. Il mio nome è Allura Arus, lui è Coran Smythe.
- Veramente il nome completo sarebbe Coran Hieronymus Wimbleton Smythe. Ma non è il momento di fare i pignoli, suppongo. Piacere mio!
- Hunk, il tecnico. Lui è Lance. Può essere anche più imbarazzante di così.
- Ehi!!!
In quel momento, Shiro aprì la porta alle loro spalle, interrompendo lo scoppio di risa di Coran e Allura.
- Scusate il ritardo, ragazzi. Stavamo provando un brano. Prego, entrate.
La sala K era un ampio, freddo e umido seminterrato. L’intonaco sporco, un tempo bianco, era pieno di crepe che si inseguivano sulla parete come fulmini sottili. Agli angoli della stanza era accumulato di tutto: casse di bibite, strumenti musicali, cavi, cartoni, ammassi di stoffe colorate, pupazzi, boa di piume, cuscini, materassini gonfiabili. Una porzione sgombra di pavimento era ricoperta da un tatami verde.
Attorno a un vecchio pianoforte a coda scrostato, sei sedie erano disposte a semicerchio. Il pianista non badò ai nuovi arrivati. Ancora seduto, appuntava concentrato sui suoi spartiti.
Quando Lance lo vide, cacciò un urlo.
- CHE DIAVOLO CI FAI TU, QUI?!
Disturbato da quello strillo, il musicista sollevò lo sguardo scocciato.
Non c’era dubbio. Avrebbe riconosciuto dovunque quella pettinatura da sfigato e quella faccia da fighetto presuntuoso: il tizio del caffè!
Questi si prese un primo momento di osservazione dell’elemento di disturbo, prima di sbottare, accigliato:
- Potrei farti la stessa domanda!
- … vi conoscete? – si sorprese Shiro, guardando prima l’uno e poi l’altro.
Entrambi risposero all’unisono, ma all’opposto:
- No.
- Sì!!! – Lance afferrò il braccio di Hunk e lo scosse vigorosamente: - Hunk, ma non te lo ricordi?! È il rompicoglioni-espresso della settimana scorsa!!!
Prima che il collega potesse offrire qualunque testimonianza, le labbra del ragazzo si incresparono in un sogghigno strafottente.
- Ah, il barista imbranato. Se ti fossi presentato con un caffè pessimo, ti avrei riconosciuto meglio.
Hunk riuscì a trattenere (e a fatica) soltanto il corpo di Lance, ma non la sequela di improperi che avrebbero fatto avvizzire le orecchie di un camionista.
Come se di sottofondo ci fosse stato solamente il borbottio di una pentola, il ragazzo tornò ai suoi spartiti.
- Non ti sento, non me ne faccio niente delle tue isterie.
 Un polverone di voci si sollevò insieme a quelle dei litiganti: Shiro, disorientato, chiedeva spiegazioni al pianista; Hunk cercava in tutti i modi di far tacere Lance, Coran commentava ad alta voce qualcosa sul caso e la fiamma della rivalità…
- Silenzio, adesso! -
Fortunatamente, il perentorio ordine di Allura fece ammutolire anche i ragni.
- Signori, - annunciò Shiro, dopo essersi schiarito la voce. - Lui è Keith, il nostro pianista.
- CHEEE?!

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CHIACCHIERE FUCKOLTATIVE

In questa fanfic, Takashi Shirogane (aka Shiro) è svedese. Verrà, verosimilmente, esplicitato più avanti, ma il suo vero nome qui è Sven Holgersson, detto Shiro.
Perché? PER SVEN, naturalmente.
Era questo il nome del pilota del leone blu di Voltron nella serie anni '80. Muore azzannato dal gatto della vecchia gattara. 
Sublimi vette interpretative. Che pathos. Che dizione.
We enjoy dat gud red appl. (cit.)
   
 
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