Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    17/05/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

“Mi raccomando.” disse piano Lorenzo, sistemando il colletto del fratello come faceva quando era un bambino: “Stai in guardia. Se stessi male, fatti curare subito. E soprattutto stai attento a quella donna. Hai sentito di cosa è capace. Ricordati sempre che è un'assassina. Fidati solo se lo crederai giusto, ma anche in quel caso, fallo con moderazione.”

Giovanni annuì a tutte le raccomandazioni, aspettando con reverenziale pazienza che il maggiore finisse di metterlo in ordine. In realtà era un lavoro abbastanza inutile, visto che dopo la prima ora di cavalcata probabilmente sarebbe stato già in condizioni pessime.

Aveva deciso di portare con sé poche cose e nessun servo. Piuttosto che tanti abiti – benché il fratello gli avesse ricordato che per un uomo con la sua carica sarebbe stato bene avere vestiti adatti a ogni occasione – Giovanni aveva preferito mettere nel baule alcuni dei suoi libri preferiti, temendo di non trovarne nemmeno una copia nella città in cui era diretto.

Semiramide, vestita di nero, attendeva il suo turno di salutare il cognato. Sembrava sul punto di piangere, ma stava riuscendo a trattenersi e il Popolano più giovane le era molto grato. Non avrebbe sopportato di vederla sciogliersi in lacrime anche in quell'occasione.

Il cielo sopra Firenze era grigio e nel cortile del palazzo le guardie che avrebbero scortato Giovanni fino a Forlì cominciavano a farsi impazienti. Volevano partire prima che cominciasse a piovere. Con un po' di fortuna, appena fuori dalla città, passate le prime colline, il tempo sarebbe migliorato.

“Riguardati – disse piano Semiramide, stringendo le mani del cognato e puntando gli occhi nelle sue iridi chiare – e stai attento. Scrivici spesso e non stancarti troppo. Mi mancherai.”

Giovanni lasciò che la donna lo abbracciasse e, per un momento, nel vedere Semiramide che lo stringeva e Lorenzo un po' in disparte che tentava di non commuoversi, si sentì come se avesse di fronte una coppia di genitori apprensivi.

Suo fratello e sua cognata gli avevano dato per anni una stabilità emotiva che altrimenti non avrebbe avuto e non sapeva come ringraziarli per quell'enorme e gratuito dono.

“Anche tu mi mancherai.” disse a Semiramide, mentre quella ancora lo teneva stretto tra le sue braccia.

Da sopra la spalla della donna, però, lo sguardo di Giovanni era già di nuovo rivolto al fratello.

Lorenzo attese con pazienza che la moglie si decidesse a lasciar andare il cognato e poi gli si riavvicinò: “Ti terrò informato su tutto quello che accadrà in città. Userò la cifra che abbiamo studiato assieme. Appena arrivi, fammi sapere dove sei alloggiato.”

Giovanni annuì, un nodo alla gola che improvvisamente gli impediva di parlare. In quel momento gli stava passando davanti tutta la sua vita. Ricordò dell'infanzia passata con il padre e il fratello e il dolore mai sopito di non aver potuto conoscere la madre, morta dandolo alla luce. Rivisse la morte di suo padre e il senso di vuoto che ne seguì. Si rivide bambino, a nove anni non ancora compiuti, restare solo con suo fratello a cercare aiuto e protezione presso i loro cugini. In un soffio di leggerezza rimembrò la sua adolescenza a palazzo Medici, tra letterati, belle giovani e pittori e poi, con un velo di amarezza riassaporò il gusto indigesto del tradimento che il Magnifico aveva portato avanti contro di lui e contro suo fratello.

Le sue memorie si fusero poi confusamente negli eventi più recenti: l'esilio, il ritorno a Firenze, la morte di Averardo.

In tutti i momenti belli e brutti della sua vita, Giovanni era sempre stato assieme al fratello Lorenzo. Quella era la prima volta che si divideva da lui per un periodo che si annunciava lungo.

“Ci vediamo presto, fratello.” disse Giovanni, allargando le braccia appena liberatesi da Semiramide per stringere a sé Lorenzo.

Il Popolano più vecchio, deglutendo rumorosamente, ricambiò con forza la presa e poi afferrò ambo le spalle del minore per dirgli, pupille nelle pupille: “Ti voglio bene, fratello.”

A quel punto ogni altra parola sarebbe stata superflua, così Giovanni fece un cenno del capo a Lorenzo e a Semiramide e montò in sella al suo cavallo.

La sua scorta fece altrettanto e così anche il carrettiere incaricato di badare al suo piccolo bagaglio.

Mentre il cielo di Firenze tuonava, Giovanni Medici lasciò il cortile del palazzo di famiglia con le spalle un po' curve e un grosso peso sul cuore, deciso comunque a fare il proprio dovere, per quanto gli costasse lasciare la sua famiglia.

Lorenzo e Semiramide andarono fino in strada per guardarlo mentre si allontanava e poi, quando la piccola carovana sparì dietro il primo angolo, marito e moglie si strinsero l'un l'altro come due anziani e tornarono in casa.

 

La cella era buia e fredda. Caterina non vedeva cosa stesse colpendo, ma sentiva qualcosa di caldo e umido ogni volta che sferrava un pugno. L'odore era ferroso. Poteva essere sangue. E la consistenza poteva essere quella della carne.

E poi di colpo la luce inondava l'ambiente e davanti a sé vedeva solo i resti di Ludovico Marcobelli, morto, esangue, tutte le ossa spezzate e il viso gonfio e irriconoscibile.

Poi Caterina sollevava le mani e le portava sotto la luce accecante delle torce, trovandole gocciolanti di sangue. Tornava a guardare in terra, ma il corpo di Ludovico Marcobelli non c'era più. Al suo posto c'era il cadavere straziato di Giacomo.

Poi la luce vacillava e quando Caterina riusciva a rimettere a fuoco, il corpo di Giacomo era stato sostituito con quello di suo padre, Galeazzo Maria Sforza, il Duca di Milano, ucciso davanti al portale della chiesa di Santo Stefano.

Un altro sfarfallio delle torce e al posto di suo padre compariva il cadavere di Pavagliotta, poi di Gian Antonio Ghetti, di Bernardino Ghetti, e poi di Girolamo Riario, di Vincenzo Codronchi, dei fratelli Roffi, di Bergamino e di tutti quelli che in un modo o nell'altro Caterina sentiva di avere sulla coscienza.

Quando sotto ai suoi occhi il corpo morto accasciato in terra in un lago di sangue tornò a essere quello di Ludovico Marcobelli, Caterina provò a gridare il suo nome, come un'invocazione, senza che ve ne fosse un reale motivo, ma, più gridava, più sentiva la gola riarsa e nessun suono uscire dalle sue labbra.

Immersa in un bagno di sudore, la Tigre si svegliò di soprassalto.

Ci mise qualche momento per divincolarsi dalle coperte che le si erano attorcigliate attorno al corpo, ma alla fine riuscì a giacere libera e ansante sul materasso, gli occhi fissi verso il buio che la sovrastava.

Le sembrava che facesse un caldo assurdo e la gola le faceva male. Forse aveva gridato davvero mentre faceva il solito incubo che ormai le infestava ogni notte.

La sera prima era riuscita a restarsene in camera tranquilla, senza sentire la necessità di cercare la compagnia di un uomo, né quella di una dose della sua pozione per dormire. Tanto meno aveva provato il bisogno di chiudersi nelle segrete per sfogarsi su uno dei tanti prigionieri che ancora languivano nelle viscere sotterranee di Ravaldino.

Tuttavia, dopo quello che aveva rivisto in sogno, la pace del suo animo si era dileguata e mille diverse fami ricominciavano a divorarla.

Si alzò e spalancò la finestra. L'aria della notte era fresca e profumata. Doveva aver piovuto. Non si siede pena di accendere una candela, ma si infilò l'abito da lavoro che aveva tolto prima di coricarsi e lasciò la sua stanza.

Avrebbe potuto provare a tirare mattina leggendo, o andando nello studiolo del castellano per portarsi avanti con un po' di scartoffie, ma non aveva la testa abbastanza libera per farlo. Preferì andare sui camminamenti a rischiararsi un po' le idee.

Quando la videro salire le scale e raggiungere le merlature, gli uomini di ronda la salutarono con un cenno del capo, ma non commentarono la sua apparizione. Ormai a loro non pareva più strano vedere la Contessa in giro per la rocca a quell'ora, men che meno sui camminamenti.

Stringendosi un po' nelle spalle per far fronte al venticello che spirava verso le montagne, Caterina si appoggiò alla pietra gelida che faceva da esoscheletro alla sua rocca e guardò verso la città.

Non sapeva dire che ora della notte fosse, ma doveva mancare ancora parecchio all'alba. Forlì dormiva e solo in pochi edifici si intravedevano le ombre proiettate da lumi solitari.

Con un sospiro greve, la Contessa cercò di svuotare la mente, ma non vi riuscì.

Se non altro, però, il suo cervello si concentrò su questioni molto pratiche e impellenti, come la demolizione parziale del palazzo dei Riario che sarebbe cominciata a breve e l'espansione del parco attinente alla rocca.

“Non avevate sonno o semplicemente non riuscivate a dormire?” la voce di Achille Tiberti fece quasi sobbalzare la Contessa, che si voltò subito verso di lui, molto sorpresa di trovarlo sui camminamenti.

“Non sapevo faceste ancora le ronde di notte.” disse la donna, corrucciandosi.

Tiberti sollevò le sopracciglia e gonfiò un po' le guance. Indossava solo le imbottiture di cuoio, senza nemmeno la piastra pettorale, e non portava neppure l'elmo, a differenza degli altri soldati di turno. Aveva pesanti occhiaie e le sue labbra avevano assunto una piega molto più dura di quanto non facessero di giorno. A vederlo così, in abiti scuri, armi al fianco e illuminato solo da una torcia che tremolava al vento, Achille aveva un aspetto abbastanza spettrale.

Caterina pensò tra sé che un'apparizione del genere, in una città sotto assedio, avrebbe potuto spaventare anche il più coraggioso dei generali.

“Ho preso il posto di uno dei miei uomini. Sapete, queste febbri che stanno colpendo la popolazione...” spiegò Tiberti: “Avevo riferito il cambio al castellano, ma evidentemente non ha pensato che potesse interessarvi.”

La Tigre strinse il morso. Da una settimana circa a Forlì erano intercorsi alcuni piccoli focolai di febbre, qualcosa a metà strada tra influenza e qualcosa di più, ma nemmeno il suo medico di fiducia era stato in grado di fare previsioni su future eventuali epidemie, così la Contessa si era limitata a far tenere alta la guardia a tutti, imponendo che chiunque fosse stato contagiato restasse isolato in casa propria fino a guarigione.

“Forse quando arriveranno i nuovi ambasciatori sarà una buona cosa farli restare alla rocca per un po'.” soppesò Caterina, mentre Tiberti appoggiava i gomiti accanto ai suoi e si metteva come lei a fissare il profilo assonnato della città: “Il primo dovrebbe essere quello di Firenze. Non vorrei mai che quel pazzo di Savonarola mi accusasse di stregoneria, se il suo ambasciatore dovesse prendersi qualcosa e morirne mentre è qui a Forlì.”

Achille trattenne una risatina e poi guardò di traverso la sua signora: “Credo che nemmeno uno come Savonarola oserebbe alzare le mani su di voi, adesso come adesso. Vi vedo, quando vi addestrate nel cortile. Combattete con addosso quei vostri gonnelloni come se non aveste indosso nulla. Una che ha imparato a combattere bene quanto voi vestita a quel modo deve far paura anche al diavolo in persona. Tutti hanno paura della Tigre.”

Caterina prese quelle affermazioni come complimenti e così, dando una sonora pacca sulla schiena a Tiberti, affettò uno sbadiglio e disse: “Sarà come dite voi. Ora scusatemi, ma evidentemente anche alla tigri alla fine viene sonno...”

“Riposate bene.” la salutò l'uomo e così la Contessa si sentì libera di andarsene.

In realtà non aveva alcun sonno, ma non aveva più voglia di sentire certi discorsi, né gradiva particolarmente il tono colloquiale che Tiberti si era permesso di usare. Credeva che il fatto che fosse notte e che fossero relativamente tranquilli non fosse sufficiente a giustificarlo.

In più, come aveva temuto, avere tanto vicino un uomo di cui conosceva il valore l'aveva portata a sentire di nuovo il forte desiderio di avere un certo tipo di compagnia. Se fosse rimasta ancora sui camminamenti a parlare con lui, forse alla fine avrebbe ceduto e avrebbe fatto una proposta di cui poi, il mattino dopo, si sarebbe solo pentita.

Così vagò per un po' nella rocca e alla fine raggiunse i locali delle reclute. Ne trovò un paio sveglie a giocare ai dadi nella saletta antistante il dormitorio.

Finse di arrabbiarsi per la loro mancanza di disciplina, ma ne approfittò per far loro qualche domanda vaga.

Uno era sposato, e, benché molto giovane, aspettava già un figlio dalla moglie. L'altro era libero e, a guardarlo meglio, malgrado il velo stentato di barba e la luce ancora non troppo disincantata della prima gioventù negli occhi, non era poi tanto male.

Così la Tigre mandò a dormire il primo e si trattenne con il secondo che, non appena comprese quello che la sua signora gli stava chiedendo, come da copione non oppose resistenza alcuna e si lasciò portare al piano di sopra, dove restò fin quasi al sorgere del sole.

 

Francesco Gonzaga stava aspettando con pazienza che la padrona del palazzo di Santa Maria in Portico arrivasse ad accoglierlo.

I servi della figlia del papa lo avevano invogliato a restare nella saletta d'attesa, ma, dopo aver rimirato gli affreschi per un lungo periodo, il Marchese di Mantova cominciava a essere stanco di attendere.

Gli sarebbe piaciuto trovarsi faccia a faccia anche con Giovanni Sforza, soprattutto per sondare gli animi della sua famiglia, benché fosse persuaso che il pesarese poco sapesse – e poco volesse sapere – sui maneggi del Moro e della sua onnipresente moglie Beatrice.

Purtroppo, però, il papa in persona gli aveva riferito che lo Sforza era partito da pochi giorni, assieme all'esercito, spedito verso sud da Alessandro VI in persona.

Quando Gonzaga aveva provato a indagare sul motivo di quello spostamento improvviso, il Santo Padre aveva solo fatto spallucce dicendo che era tempo di liberare Napoli. Se intendesse dai francesi rimasti o dagli Aragona, era impossibile capirlo.

Francesco aveva poi scoperto che Alessandro VI in quei giorni si era fatto agitato per colpa di un'arringa di Savonarola, a Firenze, in cui il domenicano lo aveva attaccato così apertamente e tanto duramente da fare tanti danni quanti ne avrebbe fatti un colpo di falconetto.

“Mia figlia ha preferito restare qui con me, piuttosto che tornarsene a Pesaro.” aveva detto poi il papa, con un sorriso sghembo che aveva fatto correre un brivido gelido lungo la schiena del mantovano: “Così potete porre i vostri omaggi a lei, come se li aveste porti a suo marito. È un'ottima padrona di casa e sa sostiuire il marito in modo egregio, ve lo posso assicurare.”

E dunque Francesco si era ritrovato nei primi giorni del marzo romano ad aspettare Lucrecia Borja, giovane sposa del signore di Pesaro.

Quando sentì un cigolio alla porta che dava verso gli appartamenti di famiglia, il Gonzaga si rimise dritto, le mani dietro la schiena, ma dall'uscio fece capolino solo uno dei servi, per rassicurarlo, dicendo: “Un attimo di pazienza ancora, la mia signora sarà qui molto presto. È che non attendeva visite, oggi.”

Francesco fece un sorriso di circostanza e attese che il servo lo lasciasse di nuovo solo, prima di levarsi il mantello dalle spalle.

Cominciava ad avere troppo caldo. Anche se trovava di stare meglio drappeggiato con il manto scuro che aveva scelto, non poteva certo rischiare di sciogliersi solo per fare bella figura.

Sconfortato, il Gonzaga si sedette su una delle panche imbottite e incrociò le braccia sul petto.

Quella situazione di passiva attesa lo metteva a disagio come poche altre cose. In più, avrebbe preferito mille volte essere a casa sua, assieme a sua moglie.

Quando aveva lasciato Mantova, Isabella gli aveva detto che probabilmente aspettavano un altro figlio e dover andar via prima di esserne del tutto certo lo aveva messo fin da subito di cattivo umore, tanto che per almeno mezza giornata era stato tentato di non partire affatto.

Per fortuna, però, sua moglie aveva più buon senso di lui, quando si trattava di affari di Stato, e così lo aveva convinto ad andare comunque a Roma come deciso.

Gli aveva promesso di contattarlo appena avesse avuto novità importanti e l'aveva raddolcito come solo lei sapeva fare, esprimendo anche la speranza che, se nel suo grembo davvero stava crescendo un figlio, fosse maschio.

“E ricordati – aveva aggiunto, poco prima della loro separazione – di far la voce grossa coi Borja, dal primo all'ultimo. Tu sei l'eroe di Fornovo!”

Francesco aveva provato a controbattere, la ferita morale di quella battaglia travisata ancora bruciante nel centro del suo petto, ma Isabella era stata irremovibile e, appoggiandogli una mano sul petto, gli aveva ribadito: “Tu sei l'eroe di Fornovo e vedi di restarlo agli occhi di tutti. Vantati di quella vittoria, fai credere di essere sicuro di te e della tua forza, convinciti tu per primo e allora nessuno potrà più dubitarne.”

Rinfrancato da quelle parole, il Gonzaga era partito, ma, man mano che si era avvicinato a Roma, i suoi propositi si erano affievoliti, fino a spegnersi quasi del tutto nella insostenibile attesa al palazzo di Lucrecia Borja.

Delle voci concitate che parlavano in spagnolo arrivarono da dietro la porta che dava verso l'interno della casa e tanto bastò a Francesco per tornare sull'attenti.

Rimessosi in piedi, il quasi trentenne Marchese di Mantova si risistemò il mantello sulla spalla sinistra e assunse una postura marziale che molto si addiceva alla sua nomina di eroe di guerra.

“Cèsar! Cèsar..!” esclamò una voce di donna che, per quanto sottile, suonava molto autoritaria.

Non vi fu risposta e la porta si spalancò, lasciando vedere prima un giovane, snello e vestito con abiti elegantissimi, un pugnale al fianco e un capello a tesa larga in testa, e poi, a un paio di metri di distanza, una ragazza dai lunghi capelli biondi, inanellati con cura.

Il giovane uomo, dal viso lungo e dagli occhi sfuggenti, fece un rapidissimo cenno del capo a Francesco, e se ne andò senza dire una parola, il passo deciso e rumoroso di chi si è arrabbiato repentinamente e in modo violento.

“Perdonate mio fratello.” disse la ragazza, facendosi strada verso il Marchese di Mantova: “In questi giorni è un po' teso per via di certi affari... A volte mostra un carattere un po'...” ma non terminò la frase, mentre i suoi occhi svegli apparivano ancora immersi in chissà quale cruenta discussione.

“Non temete, non mi scompongo per così poco.” disse Francesco, cercando di suonare garbato.

Finalmente Lucrecia osservò meglio il suo ospite. Non era bello, quello balzava subito all'occhio, ma aveva qualcosa di particolare, forse nel barbaro taglio di capelli o nel mento sporgente, che catturò l'attenzione della figlia del papa.

“Voi dovete essere il Marchese Gonzaga, l'eroe di Fornovo.” fece Lucrecia, le gote, ancora arrossate per il litigio, che venivano animate da un sorriso elegante.

L'uomo fece un inchino profondo e poi baciò la mano sottile della padrona di casa: “Sono io.” poi sollevò lo sguardo e soggiunse, pleonastico: “E voi dovete essere madonna Lucrecia, moglie del signore di Pesaro.”

L'altra sorrise in modo un po' meno entusiasta, ma annuì. Francesco, involontariamente, stava ancora stringendo la piccola mano della Borja nella sua, che invece era grossa e ruvida.

I due si guardavano in silenzio, entrambi cercando di decifrare che cosa ci fosse nei lineamenti dell'altro di così peculiare da rendere impossibile puntare gli occhi altrove.

Alla fine fu Lucrecia a prendere una decisione, dato che, malgrado la giovane età, la padrona di casa era lei e quindi certi compiti spettavano a lei e a lei sola: “Venite, farò servire del vino. Siete qui per una visita di cortesia, dico bene?”

Francesco fece segno di sì, seguendo Lucrecia oltre la porta, ammirandone i capelli ondulati che si muovevano liberi contro la sua schiena mentre camminava: “Sì. Avrei voluto incontrare anche vostro marito, ma vostro padre mi ha spiegato che è fuori città.”

Lucrecia abbozzò un'espressione un po' malinconica e, mentre gli faceva cenno di mettersi comodo nel salottino prescelto per quell'incontro, sospirò: “Che mio marito sia fuori città o meno, per me non fa poi molta differenza.”

Dopo un momento chiamò i servi con il campanellino che teneva sul tavolo e, aspettando che arrivasse qualcuno, si sedette davanti al suo ospite.

Gli appoggiò con casuale disinvoltura una mano sul ginocchio e lo incoraggiò: “Ma ora, vi prego, parlatemi di Fornovo. Ditemi com'è stato vincere una simile battaglia...”

Il Gonzaga avvertì un fremito al tocco di Lucrecia, ma si controllò egregiamente. Si passò la lingua sulle labbra e deglutì un paio di volte per contrastare la secchezza della gola.

Alla fine, dopo che un servo ebbe preso la comanda della sua signora, cominciò a raccontare, gonfio il petto di affettato orgoglio: “Fornovo, in effetti, è stata una vittoria epocale, incredibile, davvero, una di quelle vittorie che non scorderò mai...”

 

 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas