Serie TV > Elisa di Rivombrosa
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Autore: wolfymozart    18/05/2017    1 recensioni
Sullo sfondo delle prime rivolte contadine antifeudali, si snoda la vicenda che ha per protagonisti Anna e Antonio. Come i rivoltosi si ribellano alle ingiustizie della società del tempo, allo stesso i due protagonisti, sono alle prese con una personale rivolta contro i propri destini segnati dagli errori, dalle incomprensioni e dalle scelte avventate del passato. La giustizia riuscirà a trionfare o prevarrà l'arroganza della sorte?
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Anna Ristori, Antonio Ceppi, Elisa Scalzi, Emilia Radicati
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Alcuni giorni dopo, in una mite giornata di settembre, verso l’ora di pranzo si udì uno scalpitare di cavalli e uno sferragliare di carrozze nel cortile della residenza dei Ristori. Non si trattava certo di ronzini che trainavano miseri calessi di contadini: sul piazzale apparve la carrozza con lo stemma dell’abate del vicino convento.
-Oh, Padre reverendo, che piacere accogliervi nella mia dimora- esclamò Alvise trotterellando goffamente sulle scale, gettando in malo modo in mano a un servo il proprio bastone intarsiato per mostrare più agilità – sono veramente onorato dalla vostra visita, permettetemi di onorarvi con un modesto pranzo, che vi offro con tutta la mia umile devozione al vostro ordine e alla vostra persona, Padre reverendissimo! – continuò il marchese accogliendo l’abate che scendeva in quel momento dalla carrozza.
- Marchese, vi ringrazio della vostra magnifica ospitalità. Sono obbligato – rispose il canuto abate, porgendogli la sua mano ossuta. Il marchese con aria compiaciuta gli fece strada sulle scale.
La tavola nel salone dei ricevimenti era riccamente imbandita. Vassoi colmi di pietanze, arrosti, selvaggina, cesti straripanti di frutta di stagione, caraffe del miglior vino.
-Ah, al sol pensiero che poteva essere gettato al vento questo bendidio, questa splendida e dolcissima uva… – esclamò Alvise, concedendosi uno strappo all’etichetta col dare un vorace morso ad un grappolo d’uva. L’abate lo fissò esterrefatto per il gesto decisamente poco consono alla situazione e, per rompere l’imbarazzo del momento, arrischiò una domanda, incappando a sua volta in una caduta di stile:
- Vostra moglie forse non è in casa? –
- Oh, Reverendissimo, mia moglie…Soffre di nervi, quella pover’anima, devo pregarla io di mangiare qualcosa ogni tanto: se non fosse per me, credo che sarebbe già tornata al Creatore. Mah, sapete come sono fatte le donne…- A quest’ultima affermazione l’abate lo fissò con tanto d’occhi, inarcando le bianche sopracciglia in un’espressione tra il disappunto e lo sconcerto. – Oh, certo, certo, voi non sapete come sono le donne, chiaro, chiaro, illustrissimo padre…! - si corresse Alvise, prorompendo in una risata nervosa – Ma prendente, prendete del buon vino! – cercò poi di rimediare.
L’abate non riusciva a capacitarsene. Come era stato possibile che quell’uomo così volgare, ma soprattutto così insulso e ottuso avesse ottenuto la mano della contessa Ristori e di conseguenza fosse diventato  l’amministratore della tenuta? Gli era stato infatti riferito che i conti Ristori, in ottimi rapporti con il suo predecessore, erano signori di alto lignaggio, il cui buon nome era pari all’onore, alla rettitudine e alla rispettabilità dei loro costumi; non credeva, perciò, alle sue orecchie nel sentire le stravaganti e inopportune uscite del genero.
-Un vero peccato che la contessa Ristori– ehm ehm- la marchesa Radicati non sieda al tavolo con noi! Sapete, i conti Ristori erano buoni amici del nostro monastero, assidui alle funzioni, molto generosi…- constatò affettato l’abate.
Alvise, che stupido era ma non fino a quel punto, capì l’allusione:
-Se intendete quel che penso, mio caro abate, avrete presto quel che volete. Ma ho bisogno della vostra collaborazione e sono sicuro che voi converrete con me. Per questo vi ho mandato a chiamare – sentenziò in tono grave, che non lasciava ampi spazi di replica.
- Lo immaginavo, marchese, ma, vedete, la questione è assai delicata. Si tratta dell’immunità ecclesiastica, voi sapete bene, non è cosa da potersi risolvere così, su due piedi, davanti ad una tavola imbandita – si giustificò immediatamente il religioso, mostrando i palmi delle mani a mo’ di scusa.
- Comprendo le vostre obiezioni, ma vi ricordo che l’oltraggio è stato anche nei vostri confronti. Questa è gente senza Dio, mio illustre abate, gente che se ne fa un baffo della Santa Romana Chiesa, di monache e frati! – Alvise si stava alterando, le vene sul collo gli si stavano gonfiando e faticava ed essere contenuto dal colletto, rosso in viso, brandiva una forchetta con fare minaccioso.
Anna aveva origliato tutta la conversazione, nascosta dietro la pesante porta socchiusa che collegava la sala alla biblioteca, unico luogo in cui avesse ottenuto libero accesso, se pur soltanto durante la permanenza in casa del marchese. Le notizie degli ultimi avvenimenti le erano giunte durante le fugaci conversazioni con il marito o con la servitù che veniva a portarle i pasti. La tensione ormai si tagliava con il coltello e la sua apprensione cresceva di ora in ora.
-Ne convengo, marchese, ma il diritto canonico non ammette…-
-Oh! Il vostro diritto canonico vi salverà forse da questi ribaldi quando verranno a stanarvi dalle vostre celle? – lo provocò Alvise sempre più infuriato mentre piatti, vassoi e posate tintinnavano rimbalzando sulla tavola a un sonoro pugno del marchese.
All’abate andò di traverso il boccone. Gli ci volle un bel sorso d’acqua per riprendersi: non si sarebbe mai immaginato di trovarsi davanti un uomo del genere e, da religioso schivo e poco avvezzo alle cose del mondo, tentò di uscire nel migliore dei modi da quell’incresciosa situazione. Poi, ancora rosso in volto per lo sforzo, propose con un timido tono di resa:
- Si potrebbe… Si potrebbe trovare un’altra soluzione…una soluzione condivisa con le autorità e con i nostri superiori… –
- Vedete? Una soluzione c’è sempre quando si tratta di tutelare le persone oneste e rispettabili, come voi ed io- sorrise infine visibilmente soddisfatto, battendo fragorosamente le mani e mettendo in mostra i denti anneriti, poi si informò abbassando la voce con fare complice – E dite, quanti sono? –
- Una ventina forse trenta, ecco non so. Ci sono giovanotti, uomini fatti e anche qualche donna –
- Ohibò! Immagino chi possa essere una di loro! La sgualdrinella di mio cognato! – L’abate sgranò nuovamente gli occhi. – Oh suvvia, perdonatemi. Sono questioni familiari che mi danno grande preoccupazione, mi tolgono il sonno. Sapete, per me la rispettabilità della famiglia è tutto: non tollero certi disordini, certe immoralità…ma via, mio cognato non ci interessa ora. E che fanno questi mascalzoni? Sono violenti? -
- No, non sono violenti, stanno barricati nella cappella del convento da ieri l’altro, ma non ci hanno arrecato grandi danni. Cantano, ecco, questo sì. –
- Oh bella! Cantano…fannulloni che non sono altro! – rise di gusto, mescendosi dell’altro vino.
- E poi viene spesso un medico…-
-Un medico?! – si fermò con il bicchiere a mezz’aria.
Anna sussultò nel suo nascondiglio. Il cuore le batteva forte in gola. Non faceva fatica ad immaginare la reazione del marchese.
- Sì, a curare i feriti. Ha chiesto regolarmente il permesso e non gliel’ho certo potuto negare –
- Disgraziato! Infame! Sempre lui! – Alvise iniziò a dare in escandescenze, complice anche l’abbondante vino con cui aveva innaffiato le pietanze.
- Di chi state parlando, di grazia? – chiese con tono ingenuo il religioso.
- Di quel dottorucolo da strapazzo! Quel sovversivo, quel delinquente! Avete idea di chi lasciate andare e venire dal vostro convento? –
- No, signor marchese, non ho idea. Mi sembrava un uomo rispettabile…- si schermì l’abate, mostrandosi sinceramente mortificato.
- Un uomo rispettabile? Quel medicastro? Tanto per cominciare ha infangato il nome della famiglia, ha sposato una serva sovvertendo l’ordine sociale! Che abominio! E poi ne volete sapere un’altra? Ha ordito una sommossa insieme ai miei servi, qui nella mia proprietà! E ho pure motivo di credere che sia in qualche modo coinvolto nel rapimento di mia figlia, che stia coprendo quegli sciagurati dei miei servi con la complicità di quell’insulsa servetta…Un facinoroso, vi dico, un senza Dio, che deve essere al più presto consegnato alla giustizia! – tuonò Alvise, facendo arrestare Bianca che stava entrando con una portata.
- Oh, buon Signore! – esclamò atterrito l’abate, facendosi un plateale segno di croce – Mi avete convinto, marchese, parlerò al più presto con il mio superiore. -
 
Non sarebbe stato un compito facile, si diceva l’abate sobbalzando di quando in quando nella sua carrozza a causa delle buche che si incontravano sovente per strada. Avrebbe dovuto usare tutta la sua diplomazia, la sua astuzia, l’oratoria più convincente. Dopotutto si trattava di consegnare alla giustizia coloro che si erano rifiutati di versare la sacrosanta quota annuale nelle casse del monastero, Domineddio! Erano assolutamente in fallo, nei confronti della giustizia umana, ma anche nei confronti di Dio. Però, però…pensava tra sé l’abate, erano pur sempre dei poveri cristiani che avevano cercato protezione presso la dimora di Nostro Signore, che accoglie tutti nel suo seno, peccatori e uomini giusti. E poi, via, il diritto canonico parlava chiaro, il diritto d’asilo…non si poteva screditare in tal modo l’istituzione... Aveva un bel dire il marchese Radicati! Lui ci aveva solo da guadagnare in questa manovra, ma il monastero? La decima quell’anno poi non era neppure abbondante, mentre invece il buon nome dei monaci sarebbe stato compromesso da quell’atto proditorio di consegnare i rivoltosi. Quel medico, infine, pareva un uomo onesto, di principio, equilibrato, non aveva certo l’aria di essere un facinoroso violento. Della faccenda del matrimonio con una serva e della rinuncia al titolo, l’anziano abate, giunto da poco tempo in quel monastero per concludere in serenità le ultime primavere che il Signore gli avesse concesso, non sapeva nulla di certo, ma la notizia era certamente sconcertante. Così ruminava, tra uno scossone e l’altro, mentre si avviava in città, per cercare la solidarietà dei superiori e il braccio armato delle guardie del governatore e far così sgomberare il monastero. Era sicuro che qualche voce, sul fattaccio accaduto un paio di giorni prima, in città fosse già arrivata…
 
Senza dubbio l’accaduto di due giorni prima sarebbe rimasto nella memoria collettiva dei popolani della contea. Era l’ultimo giorno di vendemmia, una di quelle limpide mattine di settembre in cui il sole bagna con la sua luce radente, privata della forza dirompente del Solleone, i prati roridi di rugiada e i vigneti gravidi di grappoli maturi. Come ogni anno la vendemmia si protraeva per una settimana circa e richiamava operai da tutta la contea; erano giorni di allegria, di festa, al termine dei quali arrivava il momento della consegna delle decime della vendemmia e del raccolto dell’estate al conte e agli emissari del convento. I conti Ristori erano soliti omaggiare i propri lavoratori con una cerimonia all’atto della consegna, mostrando la loro liberalità, vera o apparente che fosse, nei confronti dei mezzadri. Ma il marchese Radicati non aveva certo dato segni di proseguire su questa linea, anzi, da più giorni i suoi emissari sorvegliavano con attenzione il lavoro, redarguendo verbalmente, in modo assai rude, coloro che si attardavano o si mostravano meno solerti degli altri nello sforbiciare i graspi. Il malumore nei confronti del marchese, che già da tempo serpeggiava, era stato ulteriormente esasperato dall’invadenza di queste figure. Tuttavia, come da accordi, nessuno aveva osato fiatare fino al momento stabilito, tutto si svolgeva in un silenzio innaturale, foriero di future tempeste.
L’ultimo giorno, quello in cui sarebbe avvenuta la consegna, non era incominciato in modo differente dai precedenti. Fin dal primo mattino erano ripresi i lavori nei filari e tutto sembrava procedere senza intoppi; ma verso metà mattina, all’arrivo degli inviati del convento, ecco il primo atto di insubordinazione. I coloni si erano rifiutati categoricamente di consegnare alcunché e avevano scacciato in malo modo i poveri monaci che, alquanto intimoriti, avevano fatto ritorno in fretta e furia al monastero. Ma il bello sarebbe arrivato più tardi. A mezzogiorno si erano presentati invece gli emissari del marchese, accompagnati dalla sua scorta di guardie, rimpinguata dopo gli avvenimenti delle settimane precedenti. I mezzadri si erano inizialmente trincerati dietro al silenzio, poi avevano rivolto male parole alle guardie. Nulla sarebbe stato consegnato, il marchese sarebbe rimasto a bocca asciutta, quell’anno: di vino, tanto, ne aveva già trangugiato abbastanza nelle sue smodate feste, loro non avrebbero mai consentito che il prodotto dei loro sforzi fosse dilapidato in quel modo da quell’uomo arrogante e sudicio che non riconoscevano come legittimo signore e che, per giunta, da settimane deteneva alcuni di loro nelle segrete del palazzo. Questo fu all’incirca il discorso del più coraggioso alle richieste incalzanti delle guardie.
– Questi soprusi non saranno più tollerati! Libertà! –
-Ma ci sono leggi ben precise che stabiliscono i vostri doveri nei confronti dei signori di Rivombrosa, esistono vincoli feudali che vigono da secoli su queste terre. Siete dei fuorilegge, se vi ostinate a non consegnare quanto dovete! -
-Non ci importa nulla delle vostre squallide leggi! Andremo al palazzo del marchese e bruceremo tutti i documenti degli archivi! Queste non sono leggi, questa è usura, strozzinaggio! Noi non ci spacchiamo la schiena per consentire al signor marchese di fare i suoi porci comodi a quel modo! Ribellione, libertà! -
 A quelle parole, come convenuto, era stata scatenata la protesta. Dai filari, dai campi, dal bosco circostante erano accorsi in massa, armati di forche, bastoni, mazze, forbici, pugnali e anche di qualche vecchio fucile malandato. Avevano sorpreso le guardie circondandole da ogni lato e avevano dato inizio al parapiglia. Le guardie erano in netta minoranza, ma avevano dalla loro le armi cariche. Lo scontro si protrasse per un bel po’, in un putiferio di urla, colpi di arma da fuoco, sferragliare di lame, grida di rivolta.
 Elisa non aveva preso parte ai tafferugli, come aveva precedentemente annunciato e sostenuto: non era clemenza verso il marchese la sua, né paura degli scontri, la sua imprudente audacia era fin troppo nota, ma rispetto della parola data ad un amico. Antonio, infatti, l’aveva supplicata di restare in casa sua con Emilia per sorvegliare la ragazzina, per non esporla inutilmente ai pericoli. Il medico era sempre più in pensiero per Emilia, aveva paura che sentisse troppo la mancanza della madre, nonostante lei non la nominasse se non di rado, e pertanto non voleva che la seconda persona a cui era più affezionata, ovvero Elisa, si mescolasse ai disordini col rischio di farsi arrestare, o peggio. L’aveva così pregata in tutti i modi perché non uscisse di casa quella mattina, preoccupato anche dall’eventualità che Emilia, di nascosto, la volesse seguire, intrufolandosi nei tumulti. Infatti la ragazzina, se non chiamava quasi mai in causa la madre, aveva spesso parole cariche di rancore verso il padre, che, diceva, non avrebbe voluto rivedere mai più; manifestava perciò simpatia per i contadini, per i servi con i quali era cresciuta, Angelo, Bianca, Amelia e tutti gli altri, e si augurava che riuscissero nell’intento di cacciar via il più lontano possibile quell’odiatissimo padre padrone. E se Antonio ed Elisa, a questi discorsi, tentavano di blandirla, lei rintuzzava ancor più la discussione, rivelando vari episodi di violenze e insulti rivolti contro la madre e severi rimbrotti rivolti contro di lei per il solo fatto che gli fosse capitata a tiro. Ad ogni nuovo racconto Antonio si rabbuiava e giurava tra sé e sé che non l’avrebbe mai fatta ritornare in quell’inferno quotidiano.
Quella mattina di settembre erano quindi rimasti tutti e tre in casa: il medico si era premurato di sprangare la porta e le finestre. Erano rimasti tutti in attesa: Elisa tamburellava nervosamente con le dita sul tavolo di legno della sala da pranzo, innervosita dal fatto di non poter prendere parte ai disordini; Emilia leggiucchiava irrequieta un libro; Antonio spiava tra le fessure della finestra la strada, sempre pronto ad intervenire nel caso ci fosse stato bisogno di un medico. Non aveva infatti abbandonato la causa: le sorti del popolo gli stavano più che mai a cuore e si augurava sinceramente che la rivolta andasse a buon fine, pur essendo conscio che sarebbe stato alquanto improbabile. Nonostante la sua simpatia per la povera gente in cerca di giustizia, capiva, però, chiaramente che il suo dovere in quel momento era quello di mantenere la calma, acquietare Elisa e soprattutto proteggere Emilia, come avrebbe voluto sua madre. Anna. Chissà che ne sarebbe stato di lei, in quei frangenti, chissà come avrebbe affrontato quel momento…Nonostante le dure parole che per l’ennesima volta gli aveva indirizzato, o forse proprio per quello, non riusciva a cancellarne l’immagine dalla mente. Non riusciva a trovare una spiegazione al suo comportamento. E si tormentava, per questo, in continuazione.
Alla fine le cose andarono come Antonio aveva, suo malgrado, previsto: le guardie riuscirono a domare gli insorti, almeno per quel giorno. Lo status quo era stato preservato, il potere dispotico l’aveva avuta vinta un’altra volta. Alcuni rimasero a terra uccisi, altri furono arrestati sul posto; la maggior parte fuggì a rotta di collo, trascinandosi dietro i feriti più gravi per rifugiarsi nella chiesa del vicino monastero, avvalendosi del diritto di asilo. La rivolta, preparata fin nei minimi dettagli, era fallita nel peggiore dei modi. Ogni speranza di cambiamento era stata soffocata nel sangue sul nascere dalle guardie del marchese. Ed ora, oltre allo sconforto e alla rabbia, un nuovo sentimento si fece strada nell’animo dei ribelli: la paura di atroci rappresaglie.
Appena giunta la notizia, Alvise era comprensibilmente andato su tutte le furie. La sua rabbia incontenibile si era rivolta di primo acchito contro l’antica collezione del servizio da tè di porcellana della contessa Ristori, scaraventata senza pietà contro quegli incapaci dei suoi uomini che si erano lasciati sfuggire i facinorosi; poi contro la moglie, incollerita per la fine ingloriosa che avevano fatto quelle preziose tazze e tazzine tanto amate da sua madre, presa a male parole e insulti; e, infine, cosa alquanto insolita, contro la giovane amante Betta, ricacciata quella sera a casa propria, in quanto il marchese non aveva nulla da festeggiare e per quella sera non poteva soffrire l’insulsaggine e le risatine della ragazza. Sbollita la rabbia iniziale, si era messo, altra cosa alquanto insolita, a ragionare. Si era scervellato molto, non essendo abituato al quotidiano esercizio delle facoltà razionali, ma alla fine di tutto questo travaglio mentale era giunto a una decisione soddisfacente: avrebbe convocato l’abate e l’avrebbe convinto, con le buone o con le cattive, a consegnargli quegli sciagurati dei suoi dipendenti.
 
Anna aveva seguito il discorso con maniacale attenzione. Poteva ricordare perfino le parole esatte usate dal marito e dall’abate. Da un certo punto in poi, però, la sua mente si era offuscata, il suo cuore aveva iniziato a battere all’impazzata senza che lei riuscisse a controllarne le pulsazioni. Sì, l’ultima parte della conversazione era andata sfumando in una nebbia di paure e tragici presagi. Aveva soltanto colto la promessa dell’abate di parlare con i suoi superiori e questo fatto era già di per sé la prova che i suoi peggiori presentimenti si erano avverati. Che cosa sarebbe successo? Il governatore avrebbe fatto sgomberare il monastero come richiesto da Alvise?  Che ne sarebbe stato degli insorti? Ma soprattutto quali le conseguenze per chi aveva prestato loro soccorso?
   
 
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