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Autore: Alvin Miller    19/05/2017    1 recensioni
Questa storia parla di una terra lontana e perduta nel tempo, Uruma, patria di una piccola comunità di pony, ma anche habitat di feroci creature carnivore.
Ed era anche la sede della Congrega dei Cacciatori di Mostri, pony coraggiosi e dal cuore impavido, che mettevano in gioco la loro vita per la sicurezza della popolazione.
Ma da qualche anno le cose sono diverse: la Congrega è sfaldata, le condizioni di vita sempre più difficili, ed ora solo due Cacciatori sono rimasti a difendere la cittadina costiera di Capo Unicorn.
Quella che vi sto per raccontare è la loro storia. Io sono Liberty Spirit, sono un Cacciatore, e questa è la mia storia.
Genere: Avventura, Azione, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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THE GREEN BLADE: Legacy



Prima di cominciare, un attimo di attenzione: questa storia è stata pensata e scritta con l’intenzione di simulare un racconto dal vivo; immaginatevi di stare seduti intorno a un falò e di raccontare la vostra storia ad un gruppo di persone in ascolto. Errori nell’uso dei tempi verbali, distrazioni e oscillazioni nella descrizione dei dettagli e nel ritmo potrebbero essere la norma, e questo racconto non si fa scrupoli nel mostrarli in tutta la loro vivida naturalezza.

Uno stile sperimentale che spero gradirete, come anche spero gradirete la storia che sto per raccontarvi...




PARTE 1: Il passato

Nove anni prima di una presa di coscienza

1: La prima battuta di caccia

Alla luce dei fatti, se dovessi riassumere la vita che ho trascorso ad Uruma nel corso degli anni, penserei che da sempre sia stata un continuo viavai di eventi che non ero mai stato in grado di controllare.

Si dice che se un pony abbia sufficiente forza di volontà, non esiste niente a questo mondo che non sia in grado di conquistare. Ebbene, io posso affermare con certezza che non è questo il mio caso.

Intendiamoci, non voglio puntare lo zoccolo contro mio Zio e verso il metodo che ha scelto per educarmi. Col tempo ho imparato sulla mia pelle le difficoltà del suo stile di vita, e ripensando al modo in cui mi ha cresciuto, sono convinto che non abbia potuto fare niente di meglio.

Se devo raccontarvi la mia storia dal principio (voglio dire, da dove comincio a ricordare), probabilmente inizierei da un sogno che ho fatto una notte.

Ero piccolo allora, credo di avere avuto a malapena otto anni. Di quel periodo ho pochi ricordi, ma alcuni avvenimenti ce li ho impressi così bene in testa che mi sembra quasi siano successi ieri, e potrei pure citarvi le conversazioni!

Quello che è successo quel giorno lo ricordo molto bene: in pratica nel sogno c’eravamo io e la mia famiglia. O meglio, dei pony che nel sogno associavo ai miei genitori, dato che io non li ho mai conosciuti per davvero.

Non ricordo cosa stesse succedendo, ma ricordo bene il senso di protezione che mi dava immaginarmeli vicini. Era bello… era rassicurante.

Poi c’è stato quel rumore.

Vi sarà capitato qualche volta di essere risvegliati bruscamente e di ritrovarvi completamente spaesati dalla situazione. Vi fissate intorno confusi, cercando di ricordare chi siete e dove vi trovate, era come mi sentivo io.

Avevo aperto gli occhi in stato confusionale. Dalla stanza in cui dormivo, nella nostra baracca, sentivo delle voci provenire da fuori, e la prima cosa che avevo fatto era di controllare se mio Zio fosse presente.

Era un’abitudine. Lui mi metteva sempre in guardia dicendo che i predatori potevano attaccarci in qualunque momento, e se fosse successo davvero, volevo che lui fosse lì con me, pronto a proteggermi.

Comunque mi tranquillizzai quando capii che la situazione era sotto controllo.

Uscii per controllare la fonte e non mi sorpresi più di tanto quando vidi i due stalloni che discutevano con lui davanti alla recinzione di casa nostra.

Come vi ho detto, non ho mai avuto un’infanzia come quella che presumo abbiano i pony normali, quindi non ho mai avuto l’occasione di legare con dei veri coetanei (non che a Capo Unicorn ce ne fossero mai stati molti, a dire la verità), in compenso ero abituato a vedere molti adulti andare e venire nella nostra baracca. Erano per lo più Cacciatori, come mio Zio, e avevo riconosciuto facilmente i due che si erano presentati quella mattina prima dell’alba, dato che già in altre occasioni li avevo visti prendere parte con lui a una missione.

Erano entrambi più giovani di lui (anche se non so esattamente di quanto) e non sono sicuro di sapere come si chiamassero, ma ricordo bene com’erano fatti, perché come tutti i Cacciatori avevano quello strano modo di vestirsi che in qualche maniera li caratterizzava, distinguendoli tra loro; quella mescolanza di strumenti del mestiere e bizzarria che col tempo avrei finito per adottare anch’io.

Vediamo di fare mente locale, perché corro il rischio di confondere le caratteristiche di uno con quell’altro:

Il primo dei due era un unicorno, come mio Zio. Aveva un manto scuro e una criniera… no, scusate! Piccolo lapsus. Era l’esatto contrario!

Manto blu turchese e CHIOMA scura. E di lui ricordo bene la grande stazza e il fatto che molto spesso lo vedevo caricarsi sui fianchi un gran quantitativo di equipaggiamenti per la squadra.

Spesso si presentava con una sella sul dorso, che a sua volta era anche il suo Simbolo di Virtù sul fianco, e ancora oggi devo capire a cosa mai gli potesse servirgli.

Aveva con sé la sella anche quel giorno, ma a parte questo, non indossava pesanti bardature. Suppongo che la sua massa bastasse da sola a compensare tutto il resto. In compenso, l’enorme mazza chiodata che levitava intorno a lui con la magia, doveva garantirgli un potere d’attacco invidiabile.

Ricordo anche che il suo muso schiacciato, e le rughe intorno alla bocca gli davano sempre un grugno un po’ ridicolo, sembrava che fosse andato a sbattere con il naso contro un muro.

Parlando del secondo stallone, la prima cosa che dovrei accennare su di lui è che era un pony di terra.

Lo so che sembra strano: “Un pony di terra con un Contratto da Cacciatore?!” Il fatto è che lui era speciale. O almeno doveva esserlo, o non mi spiegherei la considerazione che avevano gli altri di lui. Evidentemente il Borgomastro gli doveva qualche favore…

Non ricordo se avesse un manto ocra oppure arancione, ma non mi dimentico la particolarità dei suoi crini, che alternavano righe orizzontali di bianco a segmenti grigi, come anche l’orribile cicatrice che gli segnava il viso di traverso: quattro artigliate che partivano dall’attaccatura sinistra della chioma e scendevano fino al sottomento, tracciando un percorso che solo per miracolo non lo aveva privato dell’occhio. La Dea mi è testimone, quel pony m’incuteva una paura fottuta!

La bardatura che indossava era fatta di semplice cuoio (sempre che non fosse di qualche altro materiale che non conosco), e così su due zoccoli non appariva molto resistente, specie tenuto conto che la sua stazza non si avvicinava neppure lontanamente a quella del collega, ma avreste dovuto vedere le lame che montava sulle zampe anteriori! Erano attaccate alla parte esterna degli arti su un supporto fisso retrattile, che dalla punta del gomito scendeva lungo i ginocchi fino a poco sopra gli zoccoli. Se le aveste viste, avreste detto che assomigliavano a quelle che uso io ora, con la sola differenza che le sue non si collegavano a un meccanismo scorrevole come nel mio caso.

Più tardi vi spiegherò come le utilizzava.

Adesso, però, vorrei un attimo parlarvi di mio Zio. Credo sia doveroso vista l’influenza che ha avuto su di me.

Il suo nome era Brave Lion. Altisonante, ma mai così calzante a un pony come nel suo caso.

Di lui conosco solo ciò che ho imparato stando al suo fianco: era un unicorno in grado di fare virtù di ogni contesto, e che sapeva levarsi dai guai con la stessa facilità con la quale ci si infilava.

Non ho ricordi della mia infanzia prima di conoscerlo, e per quanto provi ad andare a fondo nel mio passato, la sola cosa che riesco a ricordare sono i momenti che abbiamo vissuto insieme in quegli anni. È stato lui a insegnarmi tutto quello che so e che mi ha svezzato quando non ero ancora capace di articolare una frase da solo.

Come vi ho detto, era un Cacciatore, e forse per fedeltà al suo nome era solito partire per una missione con indosso un pesante mantello, dal colletto del quale sporgeva un folto pellicciotto arancione, che inevitabilmente rimandava per associazione alla criniera di un felino. Anche la sua capigliatura era dello stesso colore (lui la teneva sempre raccolta all’indietro con degli spaghi, a formare una specie di coda da cavallo) e il manto grigio scuro si abbinava alla perfezione con la sua cappa. Il suo Simbolo era un trofeo di caccia, una testa di leone per l’esattezza.

Quella mattina, in particolare, faceva uno strano effetto osservarlo da lontano, con i colori caldi della testa in contrasto sul resto del corpo, mentre il sole che sorgeva lo illuminavano da dietro.

Ai miei occhi era sembrato come un’entità delle tenebre, pronto a scendere su Uruma per confondersi tra i pony diurni.

Credo che in quel momento mi stessi stiracchiando le ali, quando il Cacciatore pony di terra, vedendomi emergere dalla baracca, toccò la spalla di mio Zio facendolo girare verso di me.

«Spirit, sei già sveglio? La colazione è sul fuoco, vai a mangiare.» Mi disse.

Lui mi chiamava sempre così, anche se in realtà, lo sapete, il mio nome esatto è Liberty Spirit. Ma nessuno mi chiama mai Liberty…

Tornando a noi, forse avrei dovuto sorprendermi dopo aver sentito l’invito di mio Zio: la veglia per me di solito veniva più tardi, con il sole già alto e in certi casi, quando lui partiva presto per una missione, dovevo trascorrere il resto della giornata da solo, in attesa del suo ritorno, curando il mio piccolo orticello e giocherellando con le creaturine che vedevo strisciare fuori dalle rocce prima che la grande siccità si prendesse tutto.

Ero piccolo e ingenuo, allora, ma forse ero anche intontito dal sonno, altrimenti avrei capito al volo che quel giorno mi aspettava un cambiamento epocale.

Mi ero seduto a mangiare davanti al piccolo falò acceso all’aperto, e intanto i tre pony più in là stavano affilando le lame discutendo l’incarico che avrebbero svolto quel giorno.

La Green Blade di mio Zio era adagiata contro lo steccato, immobile nella sua letale bellezza; unica arma che non aveva bisogno di essere affilata dopo l’utilizzo. Brave diceva sempre che per quante carni assaggiasse, essa manteneva sempre i suoi bordi intatti, come se fosse ogni volta alla sua prima battaglia. Spesso mi perdevo a osservarmi riflesso su di essa, specchiandomi contro l’anima di cristallo verde. Aveva un reticolo di venature che scorrevano sulla sua lunghezza, e questo le infondeva sempre un non so che di organico, che contribuiva ad alimentarne l’aura di mistero.

Quella mattina, i primi raggi del sole si alzavano al di là della Schiena di Drago, e avevano scelto la Green Blade per mettere in scena la loro esibizione di luci e colori. I miei occhi erano stati catturati dallo spettacolo che si era riflesso contro di essa. Vedere come i riverberi ne attraversavano il filo, cambiandosi in una gradazione che aveva un qualcosa dei grandi prati erbosi che oggi sono soltanto un lontano ricordo di Uruma, mi aveva completamente estraniato dalla realtà, mi aveva abbacinato con il suo fascino.

Mentre mangiavo, non ascoltavo niente di ciò che si dicevano gli stalloni vicino a me, neppure quando per un momento sembrava che i toni si erano fatti più accesi, come se qualcuno avesse parlato di qualcosa che era stato assolutamente irripetibile e folle.

Me ne stavo tranquillo e osservavo la Green Blade, convinto che da un momento all’altro me ne sarei tornato a dormire.

Dovevo aver pensato che più tardi mi sarei svegliato di nuovo e avrei svolto le mie solite faccende mattutine: pulire la baracca, curare l’orto, oppure leggere gli appunti sul diario di mio Zio per passare il tempo. Avrei giocato un po’, o magari avrei tentato il mio quotidiano esperimento di volo, per poi fallirlo miseramente.  Invece mio Zio mi venne in contro al termine della loro discussione.

Si era seduto vicino a me e aveva un’aria mite. Mi sorrise. Forse mi accarezzò anche la criniera, ma su questo non ci scommetterei i miei Argenti.

Lo confesso, a quel punto il suo comportamento mi mise in allarme, ma non avevo modo di prevedere che cosa mi avrebbe detto.

Alle sue spalle, i due Cacciatori ci fissavano immobili, e non sembravano contenti della decisione che stava per prendere.

I nostri sguardi s’incontrarono, e per quel poco che consentiva la debole luce ambientale, vidi i miei occhi rispecchiarsi nei suoi.

Mi aveva chiesto se mi sentivo sazio, e io che non sapevo come rispondere mi ero limitato ad accennare un “Sì” (con la testa. Non credo di aver parlato).

A quel punto ricordo molto bene le parole che mi disse:

«Bene Spirit, oggi verrai con noi.»

Per tutto il tempo non facevo che farmi domande tra me e me. Trottavo alle loro spalle, faticavo a seguire il ritmo della loro marcia, ed ero convinto di essere un peso per tutti meno che per mio Zio.

Onestamente, non so perché decise di portarmi con loro proprio quel giorno. Non mi ricordo di averlo mai desiderato apertamente e, a dire la verità, avevo paura di quello che poteva succedermi.

Sapevo (perché me ne parlava spesso) di scontri ferocissimi contro creature enormi dai denti affilati, sapevo anche di Contratti finiti in tragedia con intere squadre sterminate, e sebbene nei tempi più recenti i Cacciatori non facevano che lamentarsi della crescente penuria di incarichi e di mostri di grandi dimensioni, non avevo proprio idea di cosa avrei potuto fare io se avessimo dovuto affrontare una situazione simile.

Gli altri due stalloni approfittavano delle sue distrazioni per lanciarmi occhiate infastidite. Quello più grosso in particolare non poteva soffrirmi.

Decisi di fare finta di niente, per non gravare ulteriormente sulla squadra.

Ricordo che mentre marciavamo, misi uno zoccolo sul posto sbagliato e finì per inciampare su una roccia. Ruzzolai a terra sparpagliando dappertutto il piccolo carico di attrezzatura che mi avevano affidato, e dovetti sorbirmi le grasse risate dell’unicorno turchese intanto che mio Zio mi aiutava a raccogliere tutto.

Non prese le mie parti mentre l’altro mi umiliava.

Per farmi trascorrere la marcia più in fretta, mi ero fatto coraggio e avevo tentato di chiedere qualche informazione sul Contratto che stavamo svolgendo. Speravo così di scoprire se era previsto per me un compito preciso.

Dopo aver aspettato un po’, il pony di terra con le lame alle zampe mi fece un rapido resoconto. In seguito, ascoltando anche i commenti del collega unicorno e di mio Zio, riuscii a ricostruire a grandi linee la natura della missione:

Lungo il sentiero che stavamo percorrendo, attraverso le colline dove si estendevano i campi coltivati di allora, una famiglia di bovini aveva trasmesso una richiesta di aiuto all’ufficio dello Sceriffo di Costa perché sospettavano di essere assediati da qualche predatore misterioso.

Una delle loro giovenche era scomparsa, e il capofamiglia (un toro che, a quanto mi risulta, mio Zio conosceva) aveva raccontato di aver udito nella notte presenze inquietanti attraversare il loro campo di mais.

Doveva trattarsi di qualcosa di piccolo, almeno a giudicare da alcune delle creature che erano state avvistate negli anni precedenti, ma anche così, era necessario che qualcuno intervenisse tempestivamente. E quel qualcuno eravamo noi.

A quei tempi era insolito per dei mostri di piccola taglia spingersi così vicino alle campagne, così vicino a Capo Unicorn, ma a parte constatarlo, nessuno di loro sembrò dare grande importanza alla cosa.

Una volta lì, avrebbero setacciato la zona in cerca di tracce che potessero ricondurre al misterioso predatore, e una volta stanato e messo alle strette, lo avrebbero tolto di mezzo salvando le mucche. Un lavoretto da niente a sentir loro, e forse fu questa la ragione che spinse mio Zio ad arruolare anche me.

Abbiamo marciato per circa due ore, senza mai prenderci un attimo di respiro, e ormai il sole stava già illuminando la nostra strada.

In tutta la mia vita avevo faticato davvero poche volte come quella mattina. Se solo le mie ali fossero state capaci di sorreggermi in volo, avrei potuto dilazionare gli sforzi riposando ogni tanto le zampe. Sfortunatamente, la natura ha deciso che io non ho il permesso di usarle, come se già l’arrivare all’età adulta senza un proprio Simbolo di Virtù non è abbastanza per umiliarmi…

La fattoria delle mucche che avremmo dovuto raggiungere quella mattina si accostava ad un piccolo appezzamento di mais (se dovessi trarre una stima presumo non fossero più di due acri di terra) con alle spalle un piccolo albereto e un florido orto dove le colture stavano crescendo vigorosamente, pepate e mature. Vederlo mi aveva messo di malumore, perché pensavo al mio, che per quanto mi sforzassi non era in grado di darmi più di qualche occasionale prodotto per volta.

Abbandonato sul bordo del campo c’era un aratro, vicino un carretto pieno di stoppie e tutoli dal precedente raccolto, e alcuni mucchi di fieno secco di cui una parte doveva probabilmente essere destinata alla sistemazione del tetto, che a sua volta era fatto di fieno.

Intorno alla proprietà eravamo circondati da una folta boscaglia, che pareva pronta a vomitarci addosso qualsiasi genere di orrore.

In tutta onestà, non so come facesse quella famiglia a vivere tranquilla considerato quanto erano isolati. A questo punto non mi sorprende più di tanto che qualche predatore avesse fiutato il loro odore.  

«Ma i contadini non dovrebbero essere mattinieri?» (O qualcosa del genere) Aveva commentato il pony di terra dopo che per un po’ avevamo gironzolato intorno alla proprietà senza trovare anima viva.

L’unicorno con la mazza chiodata aveva premuto il muso già schiacciato di suo contro una delle finestre impolverate della stalla, e aveva sbirciato dentro battendo alcune volte sul vetro. «Non si vede un cazzo qui, porca puttana!» Commentò di seguito. Chissà perché questa frase me la ricordo bene…

«Lavati la bocca quando sei in sua presenza!» Lo rimproverò mio Zio, riferendosi a me.

Presero a battibeccare tra loro, perché all’unicorno non andava proprio giù che quella mattina fossi con loro, ma poi il pony di terra si mise di mezzo riportando l’attenzione sul Contratto che dovevano svolgere.

«Hai detto di averci parlato?» Chiese il pony con lo sfregio sul volto.

«Infatti» Rispose Brave. «Avremmo dovuto trovarci a quest’ora per decidere il da farsi.»

«E allora dove sono?!» Irruppe l’unicorno.

«Che vuoi che ne sappia, datti una calmata!»

Io nel frattempo ero in disparte. Guardavo il piccolo aratro abbandonato per terra, c’erano dei ciuffi d’erba ingiallita su tutto il contorno, altro particolare che ricordo bene.

Ad un certo punto mi parve di udire un suono provenire dal campo di mais, non molto distante da dove mi trovavo. Trattenni il fiato e cercai di ascoltare meglio. Cercavo di capire se era solo la soggezione o se davvero avessi sentito qualcosa.

Qualcuno di loro esclamò «Guardate qua!» e la mia attenzione si spostò subito in quella direzione.

Era stato l’unicorno, che vidi chinarsi a terra, a indicare qualcosa.

Quello che notai io fu soltanto dell’erba schiacciata, ma i loro occhi più esperti avevano chiaramente riconosciuto delle tracce dei predatori, che invece a me sfuggivano.

Mio Zio si fece scuro in volto. Andò verso la stalla e ricominciò a bussare alla porta. «Ehi, ci siete?!» (Disse anche dei nomi, ma non riesco a ricordarmeli.)

Un colpo più deciso fece spalancare l’accesso, e poi si aprì lentamente, facendo scricchiolare i cardini.

«Che cos’è questa puzza?!» Si lamentò il pony di terra.

«Sono vacche, tu cosa pensi?» Fu subito pronto a commentare l’altro unicorno. Quanto lo odiavo.

Io ero più là, non potevo sentire ciò di cui parlavano, ma a giudicare dal modo in cui il pony con la cicatrice si copriva il naso, doveva essere disgustoso.

«Questo non è letame… » fece mio Zio. Si allungò in avanti col collo e annusò l’aria.

L’altro unicorno lo imitò, esclamando: «Che la Dea mi prenda!»

All’improvviso vidi tutti e tre sguainare le loro armi.

La Green Blade fu sfilata dalla spalla di Brave Lion e levitò alla testa del gruppo.

«Andiamo a controllare.» Disse mio Zio.

A quel punto si girò verso lo stallone turchese e gli disse di badare a me mentre loro entravano.

«Io?! Cosa ti fa pensare che mi frega qualcosa di lui… » ma venne interrotto subito.

«Fallo e basta! Avevi il doppio dei suoi anni quando mi rompevi le scatole trascinandoti dietro di me!»

Lo devo confessare: godetti non poco a vedere quello sbruffone azzittito così.

Brave e il pony di terra oltrepassarono con prudenza l’entrata della stalla, mentre io me ne restavo fermo al mio posto, fissando timidamente il muso ingrugnato dell’unicorno.

«Vieni qui, schiappa!» Mi aveva ordinato di colpo, battendo la mazza per terra.  «Ci manca che passo dei guai per colpa tua!»

Io ubbidii. Qualcosa mi disse che sarebbe stato meglio ascoltarlo.

Quando venni più vicino, in effetti, percepii che qualcosa di cattivo stava filtrando fuori dalla costruzione.

Comunque non dovemmo aspettare troppo per scoprire cosa fosse.

Il pony di terra emerse di corsa qualche secondo dopo, e galoppando di fretta verso il retro della casa andò a vomitare proprio nel bel mezzo dell’orto.

Mio Zio uscì per ultimo, più calmo. Lui e l’unicorno che mi aveva “tutelato” si fecero dei cenni reciproci, ma nessuno parlò per descrivere ciò che avevano visto all’interno.

Più tardi venni a sapere che l’intera famiglia era stata divorata, e che all’interno dell’abitazione erano rimaste solo le loro ossa e poco altro.

L’assalto doveva essere avvenuto quella stessa mattina, colti di sorpresa probabilmente al risveglio.

Il pony di terra tornò da noi asciugandosi la bocca.

Era visibilmente imbarazzato per quell’esibizione di debolezza, ma faceva il possibile per non darlo a vedere.

«Non può essere successo da molto» disse «potrebbe essere ancora nei paraggi.»

«Non è stata una sola creatura.» Puntualizzò mio Zio. «Un essere così piccolo non può mangiare così tanto da solo e andarsene sulle sue zampe.» Si chinò a terra, tornando ad esaminare le tracce. «E poi guarda, sembra che ci sia passato un intero branco qui!»

Io, spinto dalla curiosità, mi ero affacciato sul ciglio della porta per curiosare all’interno. Fui investito dall’odore ferroso del sangue, mischiato ad altre esalazioni. Mi penetrò nel cervello, trapassandomi il naso.

Nel buio più totale ero riuscito a vedere i chiari segni della lotta che c’era stata all’interno. Avevo visto le artigliate sui muri, le macchie scure sul pavimento, e i resti di quei corpi, che avrebbero finito per segnarmi profondamente, peggio di quanto abbia mai fatto qualsiasi battuta di caccia.

Poi sussultai, quando vidi pararsi di fronte l’antipatico unicorno turchese. Lo stronzo si era infilato dentro mentre noi non guardavamo, e non si era fatto scrupolo a sbucare dal buio, facendomi saltare dallo spavento.

Rise forte e a lungo, gli piaceva proprio far vedere quanto fossi insignificante per lui.

Mio Zio non disse ancora niente, lui e il pony di terra erano tutti concentrati sul perlustrare i dintorni del bosco.

«Ci avresti mai creduto se te lo avessero raccontato?» Avevo sentito chiedere al Cacciatore sfregiato.

«A che ti riferisci?»

«I bovini. Un’intera famiglia divorata in una mattina, e per giunta in casa loro.»

«Non è così strano.» Aveva dichiarato l’unicorno turchese. «Quando hanno fame, agli animali gli frega poco di portarsi via il cibo. Costa fatica, e rischiano anche di farselo fottere da sotto il naso.»

Io nel frattempo non potevo fare altro che trotterellare lì intorno ascoltando i loro discorsi. Non m’intendevo di caccia, quindi non avevo proprio idea di cosa avrei potuto fare per rendermi utile.

L’unica cosa a cui riuscivo a pensare era l’orrore in cui mi avevano trascinato.

L’idea che lì dentro si fosse compiuto un simile delitto mi aveva fatto contorcere le budella, per non parlare della puzza che stava uscendo dalla stalla.

Mi salì un conato, e stavo quasi per rimettere la colazione, quando d’improvviso sentii un altro rumore levarsi dal campo di mais. Identico a prima!

C’era qualcosa laggiù, e se prima potevo anche giustificarlo come uno scherzo della fantasia, stavolta ne avevo la certezza!

«Zio!» Urlai immediatamente e Brave Lion scattò verso di me con l’arma al suo seguito.

«C’è qualcosa là dentro!» Gli feci cenno con lo zoccolo verso il campo di mais.

«Resta qui.» Mi disse e si addentrò nel campo di granturco… da solo.

Il pony di terra e l’unicorno mi spinsero dietro di loro e mi fecero scudo con i loro corpi. Il loro senso di responsabilità era prevalso sul fastidio che covavano per me.

Questo avrebbe dovuto tranquillizzarmi, ma la verità è che quell’atteggiamento mi aveva fatto intuire che la situazione sarebbe precipitata tra breve, e io non avevo proprio idea di cosa avrei potuto fare se mi fossi trovato nel mezzo della battaglia.

Un forte richiamo aveva attraversato il campo di mais ed era arrivato fin da noi.

Poco dopo vidi alcune fronde della piante smuoversi con violenza, e alcuni fusti volare per aria, affettati dalla tagliente lama della Green Blade. Poi, per alcuni istanti, tutto si azzittì.

I colleghi di mio Zio chiamarono il suo nome ad alta voce, ed io trattenni a stento le lacrime quando la risposta non arrivò.

Per nostra fortuna lo vedemmo saettare fuori dal campo a gran velocità.

Sopra di lui la Green Blade stava volteggiando bagnata del sangue della creatura.

Urlò un nome: «RAZORGOR!» Che ben presto avrei imparato ad associare alla forma di una bestia.

Non credo che ne abbiate mai incontrato uno in vita vostra.

Non so molto delle terre al di fuori di Uruma, ma dalle voci che circolano, la nostra regione sembra essere l’habitat di creature che sono uniche nel loro genere (immagino ve ne siate accorti). E di queste, i Razorgor erano una comunità abbastanza numerosa ai tempi.

Queste creature sono come una via di mezzo tra dei sauri e dei volatili terresti a zampe lunghe.

Sono alti come due pony, e muniti di un lungo becco dentato col quale dilaniano le prede. Ormai dovrebbero essere estinti del tutto, ma se mai vi capitasse di incontrarne uno, non preoccupatevi di questo dettaglio, tantomeno degli artigli che culminano sulle loro esili zampe. Invece, guardatevi attentamente dalle lunghe lame a rasoio che sporgono dalle loro braccia (sono presenti a gruppi di quattro-cinque, disposte tra radio, ulna e metacarpo come nelle ali degli uccelli, e in alcuni esemplari possono arrivare ai due metri di lunghezza) e, parallelamente, sulle loro vertebre dorsali, biforcandosi ai bordi del cranio.

I Cacciatori sanno bene che un singolo Razorgor non rappresenta una seria minaccia per il combattente allenato. La loro struttura ossea infatti è fragile a causa del loro scheletro molto sottile, e la muscolatura secca è quasi priva di tessuti adiposi. Questo li rende molto agili nella corsa, ma al contempo deboli; sono facilmente ammazzabili con una sferzata di spada.

Sfortunatamente (e io direi anche “per lo stesso motivo”), questi animali hanno l’abitudine di cacciare in branchi, che sono capitanati da un maschio Alpha il quale è facilmente riconoscibile poiché di solito è personificato da un Razorgor vecchio e segnato da decenni di combattimenti.

Un po’ come appariva Brave Lion quella mattina, quando era uscito dal folto del campo, gridando ad alta voce quel nome.

«Quanti?!» Domandò il pony di terra allarmato.

«Non ne ho idea! Ne ho seccato uno ma quel maledetto ha fatto in tempo a chiamare la torma. Non vi so dire!»

«L’Alpha?» Domandò l’unicorno, nascondendo malamente la sua impazienza di lottare.

«Ti piacerebbe.» Rispose secco mio Zio.

I tre mi circondarono come un tesoro da proteggere.

Non escludo che in quel momento Brave Lion si fosse pentito di avermi portato con sé.

A quel punto ricordo che intorno a noi la natura fu come se si animò. Sentivo fruscii terrificanti provenire dal campo, e allo stesso tempo acuti strilli gutturali (che mi sembrarono tanto dei singhiozzi) che rispondevano al richiamo del loro compagno abbattuto, rimbalzando da un capo all’altro del bosco.

«Da quando si sono fatti così audaci?!» Aveva domandato il pony di terra.

«Fame. L’ho detto io, prima.» Gli rispose l’unicorno turchese.

Il bifolco lanciò la sua mazza nel folto della boscaglia, forse sperando così d’intimorirne qualcuno.

Mio Zio mi sussurrò qualcosa, ma la mia attenzione era troppo votata a quanto ci stava succedendo intorno per ascoltarlo. Allora mi batté sul garrese e mi chiese se avevo sentito. Io mi ripresi solo allora, e balbettai suoni senza senso. Imprecò, e io capii di averlo fatto innervosire.

«Ne conto sette.» Disse l’unicorno turchese. Credo lo avesse capito ascoltando i passi delle creature.

Qualcosa aveva poi scosso un cespuglio, e mio Zio sfilò dalla sua bandoliera un grosso pugnale che scagliò con la magia.

In quel preciso istante un Gor emerse dalla fratta con un balzo, e si ritrovò col collo perforato dalla lama. Il suo corpo cadde a terra, e io lo guardai mentre si contorceva in modo osceno e scavava solchi per terra con i suoi rasoi.

«Ora ce n’è uno in meno.» Disse Brave.

Non ero sicuro se ammirarlo per il suo sangue freddo oppure temere che quell’atteggiamento ci avesse portato a fare la fine delle mucche.

I tre pony intorno a me si misero ad organizzare un piano di fuga per metterci in salvo.

Un attimo dopo tre di noi stavano correndo via. Eravamo io, Brave e il pony terrestre, mentre l’unicorno antipatico era rimasto indietro a farci da diversivo.

L’idea era folle ma a modo suo semplice: creare un’esca isolata che concentrasse su di sé la maggior parte del branco, nel frattempo che noi tagliavamo per il bosco.

Mi voltai solo per un istante e vidi un Gor balzare sulla schiena del massiccio stallone turchese, strappargli via la sella di dosso e ferirlo con le sue lame. Non durò però a lungo. L’unicorno scalzò il predatore di dosso e gli fracassò la testa con la sua mazza.

Arrivati a una certa distanza, mio Zio tornò indietro ad assistere il suo compagno, e intanto il pony vicino a me m’incitava costantemente a correre e non fermarmi.

Il problema era che avevamo sottovalutato la caparbietà del branco.

Ben presto anche noi dovemmo fare i conti con alcuni Razorgor che ci stavano addosso. Due precisamente, che ci stavano affiancando a distanza dai lati.

Ci fermammo.

Vidi il pony allargare le zampe anteriori, quindi premere con la punta del naso una specie di pulsante sui dispositivi che aveva agganciati a esse. Le lame retrattili si sguainarono con tutta la loro grinta.

Vedemmo manifestarsi dinanzi a noi il primo Razorgor, e… ci credereste? Era l’Alpha, grande e famelico!

I suoi rasoi (uno delle quali mi pare di ricordare che era insolitamente lungo) sfregarono tra loro producendo delle scintille.

«Mettiti al riparo, piccolo.» Mi esortò a fare, senza distogliere lo sguardo dallo spaventoso animale.

Io ero bloccato da mille dubbi. Avrei voluto ascoltarlo, scappare via e nascondermi da qualche parte. Ma voi non potete capire il senso d’impotenza che si prova la prima volta a trovarsi di fronte ad una di quelle creature. Ti sembra che qualsiasi cosa tu possa fare, alla fine non sarà mai abbastanza.

Gli altri Cacciatori potevano anche essere abituati a sfide di quel tipo, per loro sgominare branchi di quei mostri era un gioco da puledri. Ma non lo era per me.

Odiai mio Zio per avermi trascinato in quel guaio.

«Che stai aspettando, dannazione! Muoviti!!» Non me lo chiese più. Questa volta mi allontanò con un calcio.

La mia prima ferita di caccia me la procurai così: un taglio sul labbro inferiore provocato da uno zoccolo.

Bastò questo per convincermi a non indugiare oltre.

Mentre correvo via, l’Alpha roteava con uno scatto in avanti estendendo le sue lame, il pony di terra si difese usando le sue per bloccarlo.

Non vi saprei dire come si svolse lo scontro.

Correvo in mezzo al bosco senza sapere quando fermarmi. Ero sicuro che se l’avessi fatto, mi sarei ritrovato contro l’intero branco.

Commisi l’errore di allontanarmi dagli altri, non sapendo né dov’ero né che cosa avrei fatto qualora mi avessero attaccato.

Così fuggivo, e mentre osservavo la natura che mi avvolgeva tutt’intorno, supplicai la Dea che mi facesse svegliare nella mia comoda branda sull’altura dove abitavamo.

E di colpo udii quel verso. Quel maledetto verso che mi fece bruciare il cuore! Il Razorgor che aveva accompagnato l’Alpha nel nostro inseguimento. Quello che con abile strategia e manifestando un notevole spirito d’iniziativa, aveva deciso che sarei stato io la ricompensa per i suoi sforzi!

Chissà, forse era tutto premeditato. Forse ero io il loro bersaglio fin dal principio. Dopotutto era cominciato così l’assedio alle mucche: da prima si erano portativi via una delle loro giovenche, per rifocillarsi con le sue carni, e a quel punto si erano presi il resto della famiglia prendendoli alla sprovvista.

Solo che con noi sarebbe andata leggermente diversa: mio Zio e i suoi soci avrebbero vinto la battaglia, non si sarebbero fatti schiacciare da delle creature così deboli.

Ma io non ero più con loro, e questo per poco non mi costò la vita.

Il Razorgor con cui mi trovai a confronto era molto più giovane dell’enorme Alpha da cui ero fuggito, ma era più che sufficiente per sottomettere un puledrino di otto anni che voleva soltanto tornarsene a casa.

Una delle poche cose che sapevo già allora, perché è una regola che avevo dovuto imparare per quando mi sarei imbattuto in qualche piccolo predatore, era che di fronte ad essi non bisogna mai scappare.

Percepiscono la cosa come un’ammissione di debolezza, e i loro istinti di caccia impazziscono. Così me ne stetti fermo.

Tremavo dalla testa agli zoccoli e non riuscivo a dare freno al mio corpo, il mio stomaco poi si contorceva come se lo stessero strappando via.

Stavo perfino cominciando a temere che i Gor avessero poteri telecinetici come gli unicorni e che quel male me lo stesse provocando lui.

Sentii la paura aumentare, e di conseguenza il dolore.

Le mie ali, forse obbedendo a qualche primitivo spasmo degli animali braccati, iniziarono a ronzare senza essere in grado di sollevarmi da terra.

Porca Dea, ero l’essere più inutile di tutta Uruma!

Non so quale ragione particolare avesse convinto la creatura che quello era il momento giusto per sbranarmi, fatto stava che mi corse incontro, e io come al solito mi trovai nell’orribile situazione di non sapere che cosa fare!

Schivai la prima sferzata di rasoi, che se fosse andata a segno mi avrebbe aperto la pancia in due.

Girai in tondo, alla ricerca di qualsiasi cosa che potessi usare come scudo.

All’inizio addentai un alberello, che fu costretto a sua volta a lottare per la sopravvivenza mentre io mi ostinavo a cercare di sradicarlo. Lo so che può sembrare divertente, ma in quegli istanti non lo era. La paura può trasformare anche la più docile delle creature in una macchina da combattimento, ma lasciatele superare il confine e vi annienterà il cervello, rendendovi inermi come delle larve.

Fortunatamente, io mantenni ancora un po’ di sale in zucca per capire che stavo facendo una cazzata madornale. Dovetti ripiegare su qualcosa di diverso: un grosso ramo spezzato, caduto a terra da tempo e ricoperto dalla vegetazione del sottobosco. Se me lo chiedeste, sarei in grado di descrivervi le forme e i colori esatti dei licheni che vi crescevano sopra!

Lo afferrai con la bocca, ma dato che era pesante, ricadde a terra prima che avessi tempo di consolidare il morso.

Feci per recuperarlo, disperato, ma quel Razorgor non era certo uno sprovveduto. In un attimo mi gettò a terra, schiacciandomi col suo peso.

Ora non chiedetemi come, ma tra le sue fetide zanne e il mio viso si parò di mezzo il mio ramo prezioso. Lo avevo recuperato, senza rendermi conto come, ed ero riuscito a frapporlo tra me e il predatore prima che fosse troppo tardi per farlo.

Sentii delle ferite aprirsi sul mio petto. Erano gli artigli del mostro, che mi segnarono tre solchi sul manto, perché le lame dei suoi rasoi mi avrebbero inferto lesioni ben peggiori.

Quelli erano stati la mia seconda ferita di caccia, e i primi in battaglia.

Ad ogni modo, c’era ben poco che potevo fare ormai. Avevo evitato per un soffio i suoi denti, ma il suo peso era troppo elevato perché potessi scacciarlo da me. A quel punto avevo esaurito ogni genere di scelta, e intanto la bava dell’animale mi stava già entrando in bocca e imbrattandomi il viso.

A soli otto anni, ero letteralmente a pochi centimetri dalla morte.

Volete sapere come mi salvai? Semplice, non lo feci.

O meglio, non avvenne per zoccolo mio.

Neanche il tempo di vedere la luce alla fine del tunnel, che un altro tipo di luce (un alone di magia azzurra) circondò la creatura allontanandola da me.

Il Gor fu scagliato lontano dal pony turchese, che in seguito mi aiutò a rialzarmi.

Il carnivoro bipede finì falciato senza alcuna pietà da una sferzata della Green Blade (quella lama non risparmiava proprio nessuno).

«Stai bene, piccoletto?» Mi aveva chiesto lo stallone massiccio, la prima ed unica forma di gentilezza che mi avrebbe mai concesso.

In verità avrei dovuto chiederlo io a lui: era ricoperto da profondi tagli e segni di morsi su tutto il corpo. Tra tutti era quello che aveva subito più danni. Nulla a che spartire con i piccoli rigagnoli di sangue che bagnavano il mio petto.

Il pony di terra aveva riportato insignificanti lesioni agli arti anteriori con i quali si era battuto, ma a vedere i rimasugli di squame che scivolavano sul filo delle sue lame, si direbbe che l’Alpha aveva avuto decisamente la peggio. La ferita più grave lo stallone l’aveva riportata nell’animo, e anche da piccolo, a quell’età, fui in grado di capire che qualcosa nel suo intimo si era spezzato.

Avrei avuto conferma dei miei sospetti la sera di quello stesso giorno.

Mio Zio rimase per un momento fermo.

Lo guardai tirare fuori dalla tasca qualcosa, e m’incuriosì osservare i movimenti che compiva con la magia di levitazione. Qualsiasi cosa teneva per aria, la scaraventò a terra con violenza, e una specie di fiammata schizzò verso l’alto superando le fronde degli alberi. Esplose nel cielo, propagando una nube rossa visibile da tutto il territorio: erano le Rose della Vittoria.

Non era la prima volta che le vedevo, ma fino a quel giorno non avevo idea di come i Cacciatori le generassero.

Quello che più mi avrebbe sorpreso dell’atteggiamento di Brave Lion dopo quella missione, era che non si mostrò per nulla addolorato dall’avermi quasi perso in battaglia. Al contrario, sembrava orgoglioso di me, e di come mi ero comportato nel mio piccolo per sfuggire all’assalto del Gor.


   
 
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