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Autore: Adeia Di Elferas    20/05/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giovanni Medici si passò la manica della camicia sulla fronte. Quel giorno faceva davvero molto caldo, per essere solo marzo, e il cielo nero che lo sovrastava altro non faceva che aggiungere afa all'afa. O forse era lui a essere ancora troppo debole e a soffrire più del dovuto l'umidità di quel giorno.

Il viaggio era stato tutto fuorché semplice. Lungo la strada il Popolano era stato convinto più volte dalla sua scorta a fare delle soste per colpa del maltempo. Non si trattava di grandi piogge o grandinate, ma solo di venti fortissimi e un numero incalcolabile di fulmini spesso non accompagnati nemmeno da una sola goccia.

Giovanni poteva dire in tutta coscienza di aver visto più alberi colpiti da una saetta lungo la strada che portava da Firenze a Forlì che in tutta la sua vita.

Così, quando finalmente la Porta Ravaldino, quella che si apriva sulla strada che giungeva dalla Toscana, il Popolano si permise di tirare un sospiro di sollievo.

Avrebbe voluto fermarsi un momento in città per rassettarsi e magari per farsi radere la barba, che era cresciuta anarchicamente per oltre tre giorni, ma desiderava sopra ogni altra cosa presentarsi alla Contessa Sforza Riario e rendere noto il suo arrivo. Suo fratello gli aveva spiegato chiaramente che quella era la primissima cosa da farsi, per non rischiare spiacevoli incidenti.

L'aria a Forlì era ancora troppo tesa, per quel che sapeva, per poter entrare in città impunemente senza dare spiegazioni a nessuno.

“Quella dev'essere la rocca dove vive la Tigre.” disse uno dei soldati della scorta, indicando l'imponente costruzione che stava poco lontano dalla porta.

Giovanni osservò con attenzione l'alta parete di pietra e gli uomini di ronda che passeggiavano attenti sui camminamenti. Un paio di loro li avevano già visti e li stavano tenendo sotto tiro con gli archi.

Sì, decisamente Forlì era ancora immersa in un clima poco disteso.

La piccola carovana fiorentina giunse in prossimità della porta cittadina, sempre tenuta sotto tiro dai soldati della rocca.

Porta Ravaldino non era chiusa, ma a un paio di metri dal limen di Forlì stavano quattro guardie che incrociarono subito le alabarde, mentre una quinta, con un'armatura molto più pesante, chiedeva: “Chi siete? Che volete? Da dove venite?”

Giovanni smontò dal suo cavallo e, accompagnato dal rombare di un tuono, rovistò nella bisaccia assicurata al lato della sella. Trovò il documento che cercava e si avvicinò alla guardia che aveva parlato.

“Sono Giovanni dei Medici, di Firenze. La repubblica mi ha mandato come ambasciatore presso la Contessa Sforza Riario. Sono qui per incontrarla. La Contessa sa del mio arrivo e mi sta aspettando.” spiegò il Popolano, porgendo il foglio al soldato.

Questi afferrò il pezzo di pergamena, scrutò a lungo i sigilli che l'appesantivano, dopodiché guardò di soppiatto il fiorentino e poi la sua scorta: “Quegli uomini non possono entrare così armati in città.” disse.

Il Popolano si grattò il mento ispido e, mentre un altro lampo andava a schiantarsi poco lontano dalle mura di Forlì, fece spallucce e disse: “Entrerò io solo con il carretto e il carrettiere, se vi può garbare. Quelli che mi accompagnano avevano ordine di scortarmi solo fino a qui, non sarebbero rimasti con me comunque.”

Quello che sembrava un caporione della guardia cittadina, restituì il documento a Giovanni e poi fece segno ai suoi quattro uomini di perquisire il nuovo ambasciatore fiorentino e il carrettiere, senza tralasciare, ovviamente, il contenuto del baule che stava sul carro.

Il Popolano subì pazientemente quella prassi, chiedendosi che incidente diplomatico sarebbe potuto sorgere se a essere perquisito fosse stato un ambasciatore meno alla buona di lui.

La Tigre era prudente, ma mostrarsi così inquieta e sospettosa a lungo andare avrebbe potuto dimostrarsi una lama a doppio taglio.

“Potete entrare.” decretò alla fine l'uomo, facendo un cenno ai soldati di ronda alla rocca di rilassarsi e alle guardie della porta di farsi da parte.

“Sapete dirmi dove posso trovare la Contessa?” chiese Giovanni, dopo aver congedato la sua scorta, rivolgendosi all'uomo che gli aveva permesso di entrare.

Il soldato, puntandogli contro gli occhi luccicanti e facendo scricchiolare un po' i piccoli denti bianchi in segno di irritazione, rispose: “Andate al palazzo dei Riario. Chiedete all'Auditore.”

Il Popolano ringraziò e fece il suo ingresso in città, in sella al suo cavallo, sporco e stanco per il lungo viaggio, accompagnato solo da un misero carretto trainato da un baio che iniziava a mostrarsi recalcitrante agli ordini del suo conducente.

Non conoscendo la strada e non volendo attirare su di sé troppa attenzione, Giovanni finì per perdersi subito in mezzo alle stradine che non conosceva. Passò sotto la Torre del Pubblico, o almeno, pensava fosse quella, da ciò che si ricordava di aver sentito quando qualche straniero di passaggio a Firenze aveva descritto quella città.

Stava già per passare oltre senza fare una piega, quando i suoi occhi si spinsero un po' in alto, attratto dal bagliore di un fulmine, staccando sul cielo grigio che si stava scurendo sempre di più e la luce del lampo diede risalto a un dettaglio macabro che gli era sfuggito.

Impalate su delle picche, in cima alla torre, stavano tre teste ormai ridotte a un ammasso di carne consunta e pece.

Giovanni si bloccò un momento a fissarle, tanto che il carrettiere dovette far fermare il cavallo da tiro per non perdere di vista il suo padrone.

Doveva trattarsi delle teste di alcuni degli uomini che la Tigre aveva fatto uccidere alla morte del suo amante, pochi mesi addietro.

Il Popolano avvertì uno strano morso allo stomaco e, riabbassando lo sguardo, si ammonì da solo, dicendosi che sarebbe stato opportuno ricordare sempre chi era la donna che governava su quella terra.

Finalmente arrivò al palazzo dei Riario, e trovò che l'aspetto della struttura fosse tutt'altro che rassicurante, visto che uno dei due lati era in via di demolizione.

Tuttavia riuscì a parlare con l'Auditore, che rispose alla sua richiesta con un'espressione stupita, per poi dire, in tono di ovvietà: “Di certo la troverete nella sua rocca a tirar di spada o a far di conto, a meno che non sia fuori a caccia.”

Giovanni ringraziò e tornò verso Ravaldino, dandosi dello stupido per non aver seguito il buon senso ed esserci andato subito.

Quando si trovò allo spazio antistante la rocca, si imbatté nella mastodontica statua di bronzo che ritraeva il defunto Giacomo Feo. Vi passò davanti con fare reverenziale, chiedendosi chi mai fosse stato davvero quell'uomo per meritare un simile tributo.

Riconobbe una certa bellezza, nel suo profilo, ma non poteva credere che quella qualità fosse sufficiente per ottenere una vendetta così tremenda e una statua tanto ingombrante.

Davanti al ponte levatoio della rocca, due soldati gli sbarrarono di nuovo la strada. Quel dettaglio, assieme al clima mesto che si respirava in tutta la città, cominciava a dare un pesante senso di oppressione a Giovanni.

Anche sapendo lo stato in cui verteva Forlì, vedere coi proprio occhi tutte quelle cose gli stava facendo raggelare il sangue nelle vene. Per certi versi era come trovarsi di nuovo a Firenze, in uno dei quartieri caduti in mano ai Piagnoni. Era come se la paura fosse l'unica vera signora della città.

Dopo aver mostrato di nuovo il documento che attestava la sua identità e la sua carica, a Giovanni venne permesso di entrare a Ravaldino, ma senza carretto. Così il Popolano pregò il carrettiere di attendere lì fuori nuovi ordini.

“Aspettate qui.” fece una delle guardie e pochi istanti, facendo segno a Giovanni di stare sulla linea del portone d'ingresso: “Il cancelliere di Sua Signoria sarà subito da voi.”

Il fiorentino sospirò e fece un sorriso amichevole, che venne ricambiato dal soldato con una smorfia e un commento a mezza bocca in un dialetto che l'ambasciatore della repubblica non comprese.

Appena non ci fu più nessuno a controllarlo, Giovanni non resistette alla tentazione e, senza pensare a quali scuse avrebbe potuto mettere a punto se fosse stato trovato dove non doveva stare, con aria circospetta si allontanò dal portone e attraverso il primo cortiletto. Non che non si fidasse ad aspettare lì, ma voleva vedere coi suoi occhi il più possibile, per poi riferire tutto quanto a suo fratello con la sua prima lettera.

Quando sbucò nel secondo cortile, si trovò davanti una scena che attirò subito la sua attenzione.

Nel mezzo della polverosa arena c'erano almeno una ventina di soldati che ingaggiavano di continuo l'uno con l'altro con spade da allenamento, nella simulazione di una mischia.

Assiepati sotto quelli che dovevano essere gli archi che portavano alle stalle c'erano altrettanti uomini e tra loro spiccavano un paio di bambini abbastanza piccoli. Uno non doveva avere più di cinque o sei anni, l'altro al massimo una decina.

Alle finestre del piano di sopra c'era una ragazzina dai capelli biondi, le braccia appoggiate al davanzale e lo sguardo fisso agli armigeri che combattevano.

Nessuno si accorse di Giovanni, così il fiorentino si mise ad osservare la scena, rapito dalla velocità e dalla precisione dei colpi.

In mezzo agli uomini che si scambiavano stoccate di taglio e di punta c'era qualcuno che pareva una spanna sopra agli altri in termini di rapidità e bravura. A ben guardare, però, Giovanni si rese conto che si trattava di una donna.

Portava in testa un elmetto di cuoio che ne copriva la capigliatura, ma per il resto, dalla flessuosità dei movimenti, dalle forme morbide e generose del corpo e dagli abiti – grigi e rovinati, ma pur sempre femminili – che indossava sotto alle protezioni, era chiaro che si trattasse di una donna.

Proprio lei riuscì a battere uno dopo l'altro ben cinque avversari e, mentre stendeva il sesto, a Giovanni venne il dubbio di aver appena trovato la Contessa che cercava.

Quando tutti gli scontri furono placati, con il sottofondo degli applausi dei presenti, la donna aiutò la sua ultima vittima a rialzarsi e poi si tolse il caschetto, lasciando liberi i capelli al vento.

Erano biondi, lunghi e leggermente mossi. Giovanni li fissò rapito, come ipnotizzato, e rimase con la bocca mezza aperta anche quando la donna si voltò e, con la medesima espressione sorpresa che si dipinge nello sguardo di una preda scovata all'improvviso, puntò gli occhi su di lui.

Le iridi verdi della guerriera si velarono subito con una strana ombra, mentre ella faceva segno ai soldati che si stavano addestrano con lei di continuare pure in sua assenza.

Il Popolano riuscì a richiudere la bocca, mentre la donna gli si avvicinava con aria interrogativa e apparentemente molto ostile: “Chi cercate? Da dove venite? Come siete entrato nella rocca? Chi vi ha permesso di venire qui?” lo interrogò, senza dare il tempo a Giovanni di rispondere a una domanda per volta.

Impercettibilmente, il fiorentino notò come due uomini, uno abbastanza ben piazzato e l'altro dal profilo severo, si fossero fatti attenti alla scena e avessero mosso qualche passo verso di loro.

Ora che l'aveva così vicina, Giovanni si rese conto che quella donna, benché scarmigliata e sudata per il grande esercizio fisico, assomigliava in modo impressionante a una delle Grazie che Botticelli aveva dipinto nella sua Primavera. Ormai non aveva più dubbi sull'identità di colei che aveva di fronte.

“Cerco la Contessa Sforza.” fu l'unica cosa che uscì dalle labbra del Popolano.

Caterina continuò a fissarlo. Il fortissimo accento di quell'uomo – che a occhio le pareva molto giovane – tradiva la sua provenienza. In più, i suoi abiti, di ottima foggia, ma molto semplici, erano impolverati e la barba era incolta, facendo pensare che fosse appena arrivato da un lungo viaggio.

Mentre il cielo tuonava ancora una volta, la Tigre chiese, seria: “Siete toscano?”

Le gote di Giovanni, sotto al leggero strato di barba, presero fuoco, mentre rispondeva: “Si sente così tanto?”

Sotto lo sguardo esterrefatto di Achille Tiberti e Cesare Feo, che si erano messi alle spalle della loro signora in modo da proteggerla dallo sconosciuto in caso ce ne fosse stato bisogno, il viso di Caterina si distese per la prima volta da mesi e i suoi occhi vennero accesi da una risata divertita, che però la Contessa si affrettò a spegnere in modo forzato.

Schiarendosi la voce, mentre l'ombra di un sorriso ancora le increspava le labbra, la Tigre si ricompose e chiese: “Chi siete? Perché siete qui?”

Il Popolano, rapito dal cambiamento repentino che aveva attraversato i lineamenti della Contessa Sforza Riario, fece un inchino profondo e i riccioli castano chiaro – messi a dura prova dallo scomodo viaggio – ondeggiarono in avanti coprendogli la fronte: “Sono Giovanni dei Medici, il nuovo ambasciatore che vi manda Firenze.” e subito dopo le porse lo stesso documento che aveva già mostrato all'ingresso della città prima e della rocca poi.

Caterina lesse in fretta l'attestato, poi glielo restituì e strinse le palpebre, guardandolo meglio. Se era il Popolano, allora non era giovane quanto aveva pensato all'inizio. Doveva avere quasi trent'anni, se non ricordava male, ma in realtà dimostrava meno della sua età. Forse per via del suo fisico esile.

“Oh.” fece la Contessa, ricordandosi delle lettere che aveva scambiato coi due fratelli Medici quando aveva acquistato del grano dalla repubblica fiorentina: “Dunque hanno deciso di mandare voi.”

Giovanni si appoggiò una mano sul petto, sfiorando il simbolo della sua famiglia, le sei palle in cinta, ricamato sulla stoffa scura: “Ebbene sì, hanno mandato me.”

“Avete fatto un buon viaggio?” chiese Caterina, sforzandosi di usare anche qualche frase di rito che rendesse quella conversazione un po' più convenzionale.

Il Popolano allargò appena le braccia e rispose: “Un sacco di vento e fulmini. I cavalli erano spaventati. Siamo stati un po' rallentati, ma nulla di grave.”

“I fulmini...” sussurrò la donna, guardando un attimo il cielo collerico: “Ne abbiamo avuti davvero tanti dall'inizio dell'anno. Figuratevi che a gennaio da Valdinoce mi hanno mandato un pezzo di pietra che sembrava bruciato. Secondo chi l'ha trovato, era un sasso caduto dal cielo assieme alla saetta, un segno dell'arrivo del Giudizio Universale – lo scetticismo nella sua voce si rifletteva anche nelle espressioni dei due uomini che aveva alle spalle, mentre aggiungeva poi, con tono molto più pacato – ma temo fosse solo uno dei resti di una roccia spezzata dalla forza del fulmine.”

Giovanni si disse d'accordo con la seconda ipotesi e la Contessa ritenne che le chiacchiere di prammatica potessero considerarsi finite lì.

La Tigre alzò una mano verso Tiberti e il suo castellano, dicendo loro: “Potete andare, me la vedo io con lui.” e invitò il nuovo arrivato a precederla verso l'imboccatura delle scale.

Con la coda dell'occhio, Giovanni notò che la ragazzina bionda che stava alla finestra era sparita e che gli altri presenti nel cortile avevano ripreso le loro attività come nulla fosse.

“Se Firenze ha deciso di mandare uno dei due Popolani – fece Caterina, non appena raggiunsero un punto tranquillo del corridoio del primo piano – significa che mi ritengono importante. O quanto meno da tenere sotto stretta osservazione.”

Il fiorentino stava studiando il volto della Tigre con la minuziosità di un anatomista. La pelle della donna era ancora rosea e ben tesa, anche se tra gli occhi si intravedeva l'ombra di una profonda ruga che si formava non appena il volto assumeva un'espressione seriosa o anche solo concentrata. Le labbra erano eleganti e il naso era dritto e proporzionato, lontano da quelli adunco o enormi che spesso contraddistinguevano gli Sforza. I suoi occhi erano di un verde ramato molto peculiare e sembravano voler scandagliare l'anima del suo interlocutore ogni volta che si posavano su di lui.

“Voi siete importante.” notò Giovanni, stringendo una mano nell'altra dietro la schiena: “Sarebbe stato molto sciocco, da parte di Firenze, trascurarvi ancora a lungo. Tuttavia, io sono qui con intenzioni pacifiche.”

“Sapete – fece a quel punto la Contessa, senza trattenere un nuovo sorriso – la vostra pronuncia è davvero inconfondibile. Parlate tutti così a Firenze?”

Il Popolano ricambiò il sorriso, senza sapere che da quando Giacomo Feo era morto, la Tigre non aveva più sorriso per niente e per nessuno, e sollevò un sopracciglio: “C'è gente che ha un accento anche più forte del mio. Voi, invece, non avete la cadenza di queste zone.”

“Dite che ho ancora la pronuncia milanese?” chiese Caterina, mentre si permetteva di valutarlo meglio, ora che lo poteva squadrare alla luce combinata delle finestre e delle torce. Nel cortile, sotto l'illuminazione collerica dei lampi, non aveva prestato troppa attenzione ai suoi lineamenti.

Non era per niente come se l'era immaginato leggendo le lettere scritte e firmate da lui e dal fratello Lorenzo. Era magrolino, ma con le spalle abbastanza larghe da indicare che probabilmente aveva perso del peso solo in un periodo recente. Era veloce nei movimenti e, la Tigre l'aveva notato in modo spiccato mentre salivano le scale, aveva movenze guizzanti quando si trattava di spostarsi in fretta. Aveva ricci morbidi, di un bel colore, e labbra piene, rosse. I suoi occhi, poi, erano di un verde chiarissimo, tanto che per qualche istante le parvero trasparenti.

Giovanni annuì: “Trovo che abbiate ancora il vostro accento natale. Ma in fondo è normale. In ogni caso – la voce del fiorentino si fece un pochino più sottile – non mi spaventerei, se fossi in voi. Noi Popolani, come ci chiamano tutti, altro non siamo se non fedeli servi di Firenze, nulla di più.”

“Ah, voi Medici...” sussurrò Caterina, guardando oltre la finestra il cielo coperto di nuvole: “Siete bravi con le parole e sapete sempre infilare un piede nella porta proprio un istante prima che si chiuda.”

Giovanni capì cosa la donna intendesse. Parlavano la stessa lingua, in fondo. Pur avendo accenti diversi, entrambi conoscevano il modo di scambiarsi diplomatiche stoccate tra battute e finte facezie.

Non era un combattimento con spada e scudo, ma quel genere di scontri poteva essere ancor più pericoloso, se non si sapeva come muoversi.

Così, senza lasciarsi scomporre, il Popolano gonfiò un po' il petto e commentò: “La vera abilità non sta nell'infilare in tempo il piede nella porta, ma nel fare in modo che nessuno lo schiacci.”

La Tigre strinse il morso e convenne con un secco cenno del capo. C'era qualcosa nel modo di discorrere dei fiorentino che la intrigava. Da tempo non le era più capitato di trovare un interlocutore come lui. Però, dato che era appena arrivato e che il suo aspetto denunciava il gran bisogno di darsi una rinfrescata, la Contessa decise che avrebbe approfondito la conoscenza in un altro momento.

“Sentite – iniziò Caterina, gli occhi che correvano a un servo che passava quasi di corsa dalla parte opposta del corridoio – in città abbiamo avuto qualche caso di febbre sospetta, in questi giorni. Non sembra nulla di allarmante, ma se può farvi sentire più tranquillo, qui alla rocca abbiamo stanze per gli ospiti vacanti. Ne potete occupare una fino a che le febbri non saranno sparite.”

Siccome Giovanni era rimasto imbambolato a fissarla, dinnanzi a quella prospettiva, la Tigre rise ed esclamò: “A meno che non abbiate troppa paura di me, sia chiaro!”

Il Popolano si ridestò dal suo momentaneo sbigottimento e scosse il capo: “Io non ho paura di voi.”

L'ilarità che aveva colorito il viso della Contessa svanì di colpo. La sicurezza con cui l'uomo aveva parlato portava con sé qualcosa di estremamente serio e sincero.

“Va bene, allora. Se vorrete direi ai vostri servi di portare i bagagli, poi diremo anche a loro dove alloggiare. I locali della servitù sono...” prese a dire Caterina, ma Giovanni la bloccò.

“Viaggio senza servi.” disse, alzando una mano: “Farò portare i miei bagagli dal carrettiere che mi ha accompagnato e poi congederò anche lui. E non è nemmeno necessario che me ne prestiate di vostri, di servi. Preferisco fare da me.”

Colpita da questa affermazione, Caterina annuì e chiese, cominciando a riavviarsi verso le scale, per scortare il Popolano di nuovo all'uscita, in modo che potesse dire al carrettiere di scaricare il suo baule: “Vi serve altro?”

“Magari...” con un sospiro Giovanni si passò una mano sulla barba: “Un posto dove mi possano dare una sistemata e il necessario per un bagno. Anche con acqua fredda, non è un problema.”

La Tigre gli spiegò in fretta come raggiungere la barberia di Andrea Bernardi: “Ditegli che vi mando io – precisò e poi aggiunse, quando già erano al ponte – al vostro ritorno troverete nella vostra stanza il necessario per lavarvi.”

Il fiorentino ringraziò, ma, prima di lasciarlo andare dal carrettiere, Caterina lo bloccò, sfiorandogli un braccio e gli chiese: “Scusate, ma come avete fatto ad arrivare fino al cortile d'addestramento, prima? Chi vi ha lasciato passare?”

Giovanni aveva sentito un fremito strano a livello del cuore, nel fondo del suo petto, quando la Tigre aveva proteso la mano verso di lui, toccandolo appena.

Ricomponendosi molto velocemente, l'uomo si accigliò, cercando di ricordare il volto della guardia che l'aveva imprudentemente lasciato solo all'ingresso: “Non saprei...” disse, non volendo mettere nei guai nessuno: “Sono io che non ho fatto quel che mi era stato detto...”

“Chi era?” insistette la donna, bloccandolo con uno sguardo che non ammetteva risposte vaghe, mentre le sue dita si stringevano con urgenza attorno al braccio del fiorentino.

Vinto da quel gesto, che pur di per sé non aveva nulla di particolare, Giovanni fece uno sforzo di memoria e guardò verso il portone. In un colpo di fortuna, la guardia che avrebbe dovuto occuparsi di lui stava passando proprio in quel momento.

“Lui.” sussurrò il Popolano, indicando il soldato con discrezione.

“Grazie.” fece la donna, lasciando subito la presa: “Ora fate quel che dovete. Ci rivedremo a cena, se vi farà piacere cenare con noi.”

Il fiorentino fece un mezzo inchino e andò verso il carretto che l'attendeva oltre al ponte.

Mentre spiegava al conducente quel che andava fatto, però, i suoi occhi corsero di nuovo verso il portone della rocca di Ravaldino, appena in tempo per vedere la Contessa Sforza Riario dire qualcosa alla guardia che lui stesso aveva a malincuore accusato.

Il soldato rispose farfugliando qualcosa, le spalle incassate, come se si stesse difendendo da qualcuno di più grande e più forte di lui e non da una donna. Da quella distanza, la scena era quasi comica.

O almeno, tale rimase fino a che la Tigre non sfilò la spada dalla fodera che stava al fianco dell'armigero. Fu un gesto inatteso e fluido e in un istante la lama di ferro era contro la gola dell'uomo, che alzò le mani e disse qualcosa a voce più alta.

Giovanni non riusciva a distinguere le parole, ma era abbastanza certo che il soldato stesse finalmente spiegando come mai avesse lasciato passare uno straniero senza aver avuto il permesso espresso della sua signora.

La Contessa lo ascoltava con attenzione, la presa salda sull'elsa della spada e il volto trasfigurato dalla rabbia.

Il Popolano attese di vedere che la donna riabbassava l'arma e la rimetteva nella fodera del soldato, per poi sparire di nuovo nella rocca, prima di tornare a concentrarsi sul carrettiere.

Diede le ultime disposizioni in merito al suo bagaglio e poi, con ancora l'immagine della Tigre che minacciava una delle sue guardie fissa in mente, l'uomo si sforzò di ricordare le indicazioni per raggiungere la barberia di quel tal Bernardi.

Quando fosse stato sbarbato e si fosse tolto un po' di polvere residua di quel viaggio in una bella tinozza ricolma di acqua pulita, avrebbe scritto a suo fratello Lorenzo.

Aveva un sacco di cose da raccontargli, anche se ancora non sapeva cosa riferire di preciso in merito a quella strana donna che in molti chiamavano, con lo spregio di chi ha paura, la Leonessa di Romagna.

 
   
 
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