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Autore: Felurian    21/05/2017    0 recensioni
Un ragazzo e una ragazza, un luogo in comune. Una storia d'amore come tante altre, e diversa dalle altre, come tutte le storie d'amore.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Il posto segreto







Era un tranquillo pomeriggio di fine settembre.
Come spesso accade, ero seduto al mio solito, segreto posto. Non che fosse realmente segreto, era solamente un po’ più nascosto, e nessuno di coloro che conoscevo sapeva dove andassi quando fuggivo. Era una piccola panchina nascosta nel verde di una piccola ma affollata cittadina.
Ero assorto nella lettura, le cuffie nelle orecchie, rinchiuso nel mio piccolo e tranquillo mondo. Era qualcosa di cui avevo bisogno, la solitudine. Ogni giorno dovevo trascorrere un po’ di tempo con me stesso, a fare ciò che più mi piaceva, lontano dagli occhi di tutti, dalle costrizioni della società, dal dover fingere. Non che poi fingessi davvero, ma lo stare troppo tempo insieme alle persone mi stancava, mi rendeva nervoso e intrattabile. È una mia caratteristica, qualcosa che pensavo nessuno potesse rubarmi.
Ero assorto nella lettura, quando, d’improvviso, vidi lei. Non che fosse ancora lei, in ogni caso.
Una ragazza normale. Non era appariscente, né particolarmente bella, né particolarmente brutta. Una semplice ragazza, di quelle che passano per lo più inosservate.
La guardai, mentre lei, in piedi, mi fissava.
Mi tolsi le cuffie dalle orecchie, pensando avesse detto qualcosa che non avevo sentito. Lei continuava a fissarmi, confusa.
“Ciao”, le dissi.
“Ciao”, rispose.
Poi silenzio, per qualche secondo.
“Scusa, non volevo fissarti- riprese- è solo che questo è il mio posto.”
“Il tuo posto?” le chiesi, sorridendo, leggermente sconvolto.
“Sì, vedi, ogni tanto ho bisogno di stare per conto mio e vengo qui perché non c’è mai nessuno. Ma, evidentemente, il mio posto è stato scoperto.” sorrise di rimando.
“Beh, in realtà questo è anche il mio posto, per la stessa, identica, ragione.”
Ci continuavamo a fissare, entrambi sorridenti, entrambi un po’ confusi.
“E ora?” mi chiese.
“E ora?” risposi.
Silenzio.
“Facciamo così, -ricominciai – resta qui, entrambi stiamo in silenzio, e facciamo finta che non ci sia nessuno. Che ne dici?”
“Potrebbe funzionare.”
Si sedette sulla panchina, il più possibile lontano da me, in modo tale che i nostri corpi non si sfiorassero minimamente. Appoggiò la sua borsa per terra, di fianco alla panchina, e ne estrasse un quadernino. Mise anche lei le cuffie, e iniziò a scrivere.
Era una situazione quasi surreale. Due persone, due sconosciuti, seduti in un posto isolato, ognuno per fatti suoi. Continuai nella lettura, ma la presenza di quella ragazza in qualche modo mi disturbava. Non che mi dispiacesse, e proprio quello era strano: andavo in quel posto per stare da solo, avrebbe dovuto darmi fastidio la presenza di qualcuno. E invece quella sconosciuta, così tranquilla, così assorta. Aveva un ottimo profumo, che misto a quello dei fiori mi restò in testa a lungo tempo. Anche ora, se ci ripenso attentamente, riesco ancora a sentirlo; mentre con la coda dell’occhio non potevo fare a meno di fissarla: seduta, con una penna in bocca mentre si legava i capelli. Lei mi guardò, e spostai lo sguardo, imbarazzato.
Trascorremmo un po’ di tempo in quel modo: in silenzio, seduti, impegnati, disturbati.
Fu lei a rompere il ghiaccio, “Anche per te è strano?”
“Cosa?”
“Stare qui, seduti, senza conoscerci.”
“Sì, - ammisi – un po’ lo è.”
“Bene, - rispose, chiudendo il quaderno e posando la penna all’interno. – conosciamoci.”
Anche io chiusi il libro, posai il telefono, e mi girai verso di lei. Lei sorrideva, lo sguardo gentile e intelligente. Iniziammo a chiacchierare, inizialmente un po’ intimiditi, poi, mano a mano che la conversazione procedeva, sempre più spediti, più confidenti.
Mi chiese di me, dei miei sogni, della mia vita: non parlo volentieri di me, ma con lei era tutto così naturale, così spontaneo. Nel suo sguardo non vedevo cattiveria, ero istintivamente portato a fidarmi di lei, per qualche strano motivo.
Lei mi ascoltava, interessata, seria e scherzosa al momento giusto, sempre fissandomi negli occhi.
Era ormai buio quando lasciammo quel posto, un po’ a malincuore.
Le giornate si susseguirono, e, mano a mano, il nostro diventò un appuntamento fisso. Andavo lì, sperando di incontrarla, e succedeva sempre più spesso. Continuavo a portarmi il mio libro e le cuffie dietro, ma restavano abbandonati nel mio zaino, come il suo quaderno. Diventammo amici: le distanze tra noi si accorciarono, non ci sedevamo più agli angoli opposti di quella piccola panchina, ma sempre più vicini, più confidenti. Mi parlò di lei, dei suoi sogni, del suo voler diventare una scrittrice, dei suoi problemi con gli amici; le parlai di me, del mio voler diventare un regista, delle mie paure, delle mie angosce. Non mi era mai successo una cosa del genere prima.
I giorni passavano, e noi trascorrevamo sempre più tempo insieme, fino a quando, un giorno, mentre eravamo seduti a chiacchierare come sempre, capii che mi stavo innamorando di lei. Fu una consapevolezza improvvisa.
Ricordo che quella sera, quando tornai a casa, ero confuso, amareggiato. Mi stavo innamorando di lei, ed era qualcosa che non poteva succedere: lei non poteva provare lo stesso sentimento per me, non eravamo fatti l’uno per l’altro. Iniziai a pentirmi, a maledire tutto ciò che gli avevo detto, quanto mi fossi aperto con lei. Le avevo dato in mano un potere troppo grande, avevo paura, una paura folle, viscerale: avevo passato la vita a proteggermi ed una ragazza, così semplicemente, aveva fatto crollare tutte quelle protezioni che avevo costruito in anni e anni. Ero stato un idiota.
Iniziai ad allontanarmi da lei, sempre di più. Non andavo più così spesso in quello che, oramai, non era più solo il mio posto. Ogni volta che ci andavo trovavo lei, e ogni volta il dolore mi assaliva, era un pugno allo stomaco. Mi allontanai, mano a mano, e lei, confusa, si allontanò da me. Ci incontravamo, di tanto in tanto, ma nulla era più come prima.
Mi sentii sollevato, ma triste. Mi ero lasciato sfuggire l’unica possibilità che avevo, ma la consapevolezza che non sarebbe stata una vera possibilità, l’istinto di protezione verso me stesso, aveva preso il sopravvento. Mi sentivo colpevole verso di lei, non le avevo nemmeno dato una spiegazione, ma la paura era stata troppa. Non potevo fare altrimenti. Non potevo.
La guardavo passare per la città, ed ogni volta speravo che qualcosa accadesse, ma semplicemente non poteva più essere. L’avevo mandata via. Ma dentro di me sapevo che non avrei mai potuta dimenticare.
 
Qualche mese dopo tornai in quel posto. Era ormai inverno, i fiori non c’erano più, le foglie erano cadute dagli alberi. Era tutto spoglio, morto.
Mi sedetti nuovamente su quella panchina, e ripresi in mano il mio libro. Quel posto mi dava un senso di delicata nostalgia, portava a galla tutti i ricordi: gli sguardi, le risate, le confidenze. I momenti con lei erano stati bellissimi, era l’unica persona con cui non pensavo a nulla, con cui tutti i miei problemi sparivano, come se non fossero mai esistiti. Non riuscivo a concentrarmi sulla lettura, la mia mente continuava a ricordarmi lei. Chiusi il libro, e rimasi seduto, in silenzio, ad osservare il panorama mentre la mia playlist risuonava nelle orecchie.
Ad un certo punto sentii qualcosa muoversi, mi voltai. Era lei, in piedi, confusa come la prima volta.
“Ciao”, le dissi.
“Ciao”, mi rispose. Ci guardammo.
“Mi manchi”, le confessai.
“Anche tu.”
Si sedette, e tutto ricominciò.

 
   
 
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