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Autore: Carlo Di Addario    22/05/2017    0 recensioni
[...] E l’oceano, somma delusione, l’oceano!!
La giovane donna strinse i pugni, con gli occhi improvvisamente lucidi.
Le avevano detto cose meravigliose sull’Oceano! Una distesa d’acqua infinita, bellissima, dove ogni mattina il sole vi si rispecchiava in giochi di luce mozzafiato, dove pescare, fare immersioni, nuotare felici e ridanciani…
E lei si era fatta tanta di quei viaggi mentali, con il costume da bagno e una mascherina in viso, a vedere i pesci, e i coralli, e i crostacei… a giocare con la palla in mezzo agli schizzi, a prendere il sole sulla battigia, a fare i tuffi dagli scogli… tutte bugie, impietose bugie!
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(Terzo racconto della serie "Sui cieli dell'Atlantico")
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Sui cieli dell'Atlantico'
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“Yaaaaah” sbadigliò Ellen, assonnata.

La ragazza si stiracchiò, rigirandosi nel letto.

Poi, piacevolmente intorpidita, si destò. 

Batté un paio di volte le palpebre, mettendo a fuoco l’ambiente circostante: sembrava il suo squallido attico.

Molleggiò sul letto e abbozzò un sorriso, divertita: si, sentiva le assi sfondate sotto il materasso, era decisamente nel suo fatiscente monolocale.

Si stiracchiò nuovamente le spalle, alzandosi: le piante dei piedi si posarono sul tiepido parquet e, grattandosi l’ascella, la giovane donna si diresse verso l’unica finestra della piccola camera.

Era piccola e circolare, a forma di occhio.

Clank!

Cigolarono i cardini, aprendola.

Poi la rampolla dei Newman, col capo, si sporse fuori.

Un’improvvisa folata di vento le scompigliò i lunghi capelli arancioni, arieggiando la stanza e rinfrescandole le narici. 

La ragazza provò una piacevolissima sensazione di frescura, che l’aiutò a destarsi del tutto. Si fece quindi, con la mano destra, ombra sugli occhi, per ripararsi dall’accecante luce mattutina e guardarsi attorno: ovunque, incombenti grattaceli diroccati, passaggi pedonali sopraelevati e mastodontiche gru…

Ne osservò una propria di fronte casa, dall’altra parte della strada: alta almeno cinquanta di metri, stava trasportando delle pile di travi in cima a un’impalcatura. Impalcatura che era fatiscente quanto il grattacielo che circondava, ricoperta com’era di rampicanti e con uno stormo di rondini che ne aveva fatto sopra il proprio nido.

Ellen osservò la decadente struttura seminascosta dietro le pedane metalliche: ne contemplò le finestre sfondate, le inquietanti antenne che si slanciavano verso il cielo, l’enorme parabola posta sulla cima con tanto di asta della bandiera…

Fin da quando si era trasferita lì, due anni prima, si era chiesta quell’anonimo edifico a cosa servisse: sperava che, con la fine dei lavori di ristrutturazione, l’avrebbe scoperto ma, ben presto, si era resa conto che confidare sul breve periodo che il palazzo fosse ristrutturato era vano.

I lavori procedevano terribilmente a rilento e, ogni giorno, la data di fine lavoro sul cartonato posto davanti al cantiere era posticipata di almeno un giorno.

La ragazza accennò un tragicomico sorriso: cinquant’anni erano passati dalla grande crisi, e ancora non era cambiato quasi nulla…

Poi fece spallucce, ritraendosi dentro la propria camera: infondo, lei il il mondo prima della crisi non l’aveva mai visto. Per quanto ne sapeva, potevano essere tutte menzogne, impietose bugie per dare speranza alle nuove generazioni di un passato di fasti e prosperità… che forse non ci era mai stato, in quello squallido e decadente paese.

“TU-TUUUUUUUUUUUU!!!”

Fischiò in lontananza il treno, facendo eco tra i palazzi.

Ellen sorrise, avvicinandosi all’armadio della biancheria: puntuale come ogni mattina, ecco il treno delle sette e trenta, che portava i pendolari in periferia, nel distretto industriale.

Con la coda dell’occhio, osservò la gigantesca colonna di fumo nero prodotta dalla locomotiva disperdersi nell’aria, mentre, la suddetta, percorreva un gigantesco binario sopraelevato di mattoni rossi.

La cadetta sorrise nostalgica, ricordandosi l’emozione che aveva provato due anni prima, passandoci sopra la prima volta… era stato l’arrivo di un viaggio massacrante di dodici ore, durato tutta la notte, dall’entroterra alla costa Atlantica!

Poi si immalinconì: già, l’entroterra, dov’era nata… certo, era anche quello un posto squallido e decadente, sicuramente peggio della metropoli dove viveva ora… ma era lì che era cresciuta e si era formata la sua persona, era lì che c’erano le amicizie e la famiglia, era lì, che giocava ilare e spensierata da fanciulla…

Istintivamente, la ragazza iniziò a legarsi i capelli che aveva sul capo nel tentativo di creare un fiocco: era così paradossale… per tutta l’adolescenza non aveva che desiderato fuggire, fuggire in un qualunque luogo che non fosse lo schifo di città dov’era nata… e ora si ritrovava in un’altra schifosa città, sola e lasciata a se stessa… be’, non era più così sicura di aver fatto le scelte giuste, e di essere felice della sua vita…

Perché la costa Atlantica non era come se l’era immaginata! Anche quella era un posto squallido e degradato!

E l’oceano, somma delusione, l’oceano!!

La giovane donna strinse i pugni, con gli occhi improvvisamente lucidi.

Le avevano detto cose meravigliose sull’Oceano! Una distesa d’acqua infinita, bellissima, dove ogni mattina il sole vi si rispecchiava in giochi di luce mozzafiato, dove pescare, fare immersioni, nuotare felici e ridanciani…

E lei si era fatta tanta di quei viaggi mentali, con il costume da bagno e una mascherina in viso, a vedere i pesci, e i coralli, e i crostacei… a giocare con la palla in mezzo agli schizzi, a prendere il sole sulla battigia, a fare i tuffi dagli scogli… tutte bugie, impietose bugie!

La cadetta prese fiato, scuotendo la testa poggiandosi la manica del pigiama sugli occhi.

Il mare non era nient’altro che una lercia, sudicia, distesa di acque acide… appestato da navi arenate sulla costa, bitume e liquami, con gli scarichi fognari che ci riversavano ogni giorno tonnellate di rifiuti…

La battigia non era che una distesa biancastra, di schiuma e carcasse putrefatte di pesci e crostacei…

E i fondali non erano che un pantano vischioso e nauseabondo, dov’era impossibile camminare senza affondare…

Ellen sospirò rassegnata, tornando a cercare cupa fra la propria biancheria: quello, quello era l’oceano. E trovava davvero impossibile credere a chi millantava che fino a cinquant’anni prima ci si potesse fare il bagno. Non era possibile, che un tempo fosse stato terso. E non era giusto, che qualcuno potesse aver avuto quella meravigliosa fortuna…

Tirando fuori dal traballante cassettone un reggiseno e un paio di mutande rosse, la cadetta trovò la forza di accennare un tragicomico sorriso: lei, per farsi un bagno in quello schifo, doveva prima misurare l’acidità dell’acqua con una sbarra di zinco e poi ricoprirsi il corpo di olio di colza, per evitare ustioni. Una situazione ai limiti dell’assurdo, da fumetto. 

La cadetta quindi si spogliò, mettendo a nudo il proprio gracile corpo.

Ammollò il rosso pigiamone sopra il letto e iniziò a legarsi il reggiseno, guardando fuori dalla finestra il cielo: solo quello era da sempre terso e luminoso… quanto avrebbe voluto abitare un poco più in alto! Per poterlo vedere meglio nella sua immensità, ogni mattina! E invece doveva accontentarsi di quello che riusciva a scorgere fra le punte dei grattaceli, proprio come nella sua città natale…

Mentre indossava le mutande, rifletté meditabonda che, infondo, molto differenze con l’entroterra la costa Atlantica non ne aveva… tranne una, assolutamente caratteristica: lì erano tutti molto più industriosi.

Ingegneri, operai, cantieri… la città era perennemente in un caotico turbinio di solerti lavoratori, che nel bene o nel male, lavoravano per la sua riqualifica. Certo, non nel cantiere davanti casa… ma aveva visto altre zone della città, in quei due anni, dove effettivamente erano stati fatti molti miglioramenti, soprattutto per quanto riguardava la viabilità delle strade, tutt’altra cosa rispetto a quelle della sua città natale.

Guardandosi allo specchio il magro bacino, ripensò al perché di tutti quei cantieri: da quanto aveva sentito, cinque anni prima che si trasferisse, una vecchia galleria commerciale in centro città era crollata. Erano morte un centinaio di persone, con altrettanti feriti, ed erano andati distrutti oltre trentasette esercizi commerciali. Il sindaco di allora, tale Dewey More, aveva subito espresso le sue condoglianze, la sua vicinanza alle vittime della tragedia e, dall’alto del suo incarico, aveva finanziato una mastodontica opera pubblica, per mettere in sicurezza tutti gli innumerevoli edifici diroccati della città.

Ellen fece una smorfia, indossando una maglietta arancione monocromatica: bah, facile fare il costernato paladino della sicurezza, dopo che ci è scappato il morto… possibile, che in cinquant’anni e passa di miseria e degrado, nessuno avesse mai pensato che, forse, spendere i soldi pubblici in restauri fosse cosa opportuna per evitare stragi?? Oppure tenere il culo al caldo su una poltrona, facendo bagordi, era sempre stata la priorità?

Per fortuna, Ellen non era stata l’unica a pensarlo. Dewey More era stato fischiato, sbeffeggiato e insultato da tutta la popolazione alle elezioni successive, tanto che si era dovuto ritirare ancor prima del ballottaggio con l’avversario, tale Howey Howard. Pareva che avesse ricevuto perfino delle minacce di morte da qualche sociopatico, dove gli si intimava a non osare rimettersi la coccarda da primo cittadino…

Il sindaco Howey, che aveva ovviamente vinto a mani base ed era tutt’ora in carica, era sempre parso a Ellen un viscido serpente. Ma di certo lo preferiva a un incapace che aveva lasciato morire un centinaio di persone con la sua negligenza.

La cadetta si infilò i pantalone e lo strinse in vita con una cintura marrone, sospirando: che poi, era facile prendersela solo con Dewey… no, non era lui l’unico responsabile, era tutta la società, che si era imbarbarita in quel presunto mezzo secolo di miseria, decadentismo e degrado…

Chiuse gli occhi, scuotendo il capo: basta tristi considerazioni, oggi era per lei una giornata di lavoro! E quindi, un giorno felice!

Si, perché la rampolla dei Newman adorava industriarsi: studiare, progettare, lavorare su ciò che l’appassionava… era per lei una grande fonte di gioia e conforto, che le dava la sensazione di star facendo fruttare la sua esistenza, di star facendo qualcosa di… di bello!

Un raggiante sorriso le spuntò in volto, mentre completava il vestiario legandosi il suo consueto fiocco rosso sul capo: non vedeva l’ora di cominciare la sua consueta lezione di ingegneria aerospaziale!

Che cosa buffa, la vita… fino a pochi mesi prima era stata così incerta, così insicura… trovava tutto così terribilmente difficile e complicato, aveva davvero temuto di non esser portata per il corso avanzato! Poi, però, aveva superato i primi esami, anche con un discreto risultato… e be’, da li era stato tutto in discesa: aveva ritrovato piena fiducia nelle proprie capacità e, la materia stessa, aveva cominciato a parergli molto più semplice, quasi intuitiva…

Guardandosi un’ultima volta allo specchio, per assicurarsi che tutto fosse in ordine, scrutò con la coda dell’occhio la piccola scrivania vicino al materasso, con ancora i libri aperti e la lampada accesa. La spense e, tornando a fissare il proprio riflesso, si scrutò le profonde occhiaie che aveva sotto le palpebre, dovute alle continue nottate passate sui libri…

Sospirò, mentre il suo sorriso si faceva tragicomico: non si era manco fatta una doccia, era proprio una debosciata…

Fece spallucce, stiracchiandosi: poco importava dopotutto, era comunque meno squallida di tutto ciò che la circondava.

Si indirizzò quindi verso il cucinino, posto in un angolo all’ingresso, e aprì la credenza sopra i fornelli: farina, pane, riso, legumi, tonno in scatola… massì, quella mattina ci stava del tonno per colazione.

La ragazza sgocciolò la scatoletta nel lavello, prese un poco di pane, una forchetta e si sedette sulla scrivania, a mangiare.

Mentre deglutiva il primo boccone, decise di accendere la piccola radio che teneva sulla mensola, accanto ai romanzi di fantascienza e a un modellino in ottone dello Sputnik, il primo satellite mai mandato nello spazio dall’umana specie.

La sintonizzò sulla frequenza 42, girando la piccola manopola sotto il display.

“Buongiorno gente! Sono le sette e quarantacinque del mattino, sulla costa Atlantica! Qui è il vostro Philips J. Abrams che vi parla, con le prime notizie della giornata!”

Ellen annuì, masticando: puntuale come un’orologio svizzero, il cronista radiofonico della città.

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“…E’ tutt’ora aperta un’inchiesta, per scoprire l’identità del cadavere ritrovato nei condotti di filtraggio dell’acqua…”

Click!

La cadetta spense la radio, osservando sul piccolo display che si era fatta propria ora di andare, se non voleva perdere il treno… e poi, non le piaceva particolarmente quello che aveva sentito alla radio: solo brutte notizie, culminate con il ritrovamento, proprio quella mattina, di un cadavere nei condotti di filtraggio dell’acqua pubblica… guardò il lavandino, con un moto di disgusto e repulsione: chissà che razza di acqua aveva bevuto in quei giorni…

Ammollò la forchetta nel lavello, la scatoletta nel cestino, mise i libri nella zaino e, senza volerci pensare, mise tutto sulle spalle e uscì di casa.

“…”

Poco dopo rientrò, correndo in bagno. Si era dimenticata di svuotare la vescica, in tutto quel tran-tran mattutino.

 

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