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Autore: The Custodian ofthe Doors    22/05/2017    0 recensioni
Will amava il Texas come niente al mondo, perché significava casa, famiglia, calore, felicità. Amava ogni cosa di quello Stato, del suo Stato, ogni piccola collina e grande prateria, le mandrie e le corse dei cavalli liberi nel caldo luminoso del Sole.
Will ha sei anni, una famiglia numerosa, una madre esuberante che gli annuncia di aver trovato un ranch tutto per loro ed una nuova avventura da intraprendere, che li porterà sulla strada polverosa della Stella di Rame, in un viaggio sorprendente ed una meta inaspettata che un poco si rivelerà un luogo concreto ed un po' solo quel lungo ed infinito correre verso il futuro, tra strade di campagna che si insinuano per l'infanzia e l'adolescenza, alla perenne ricerca di maturità che spesso i bambini ricercano senza rendersi conto di quanto sia magnifica la loro età.
Ma la verità è che ogni strada che decidiamo di percorrere porta a ciò che saremo, a ciò che ha fatto di noi quello che siamo e che sia una lingua d'asfalto o una strada di campagna, per quanto potremmo allontanarci, troveremo sempre il modo per tornare a casa.
Genere: Commedia, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Will Solace
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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C O U N T R Y R O A D


Quinta parte.

[Giugno]



La scuola stava per finire, un poco gli dispiaceva doveva ammettere, ma dall'altro lato sarebbero presto cominciate le vacanze e questo significava divertimento a più non posso, spiaggia, mare, lago, fiume, campagna, tutto quello che si poteva immaginare e collegare alla parola “vacanza” o almeno questo era ciò che pensava prima.
Will non avrebbe mai immaginato che un giorno sarebbe tornato in Texas con lo stesso identico umore con cui se ne era andato. Aveva sempre sognato quel giorno con impazienza, rivedere i ranch, i capi di bestiame, i pascoli e i nonni, gli zii, la sua vecchia cameretta...tutto doveva essere bello, tutto doveva essere il contrario di quello.
Alle volte per un adulto è difficile accettare che un bambino possa fare ragionamenti tanto complessi e maturi, così sentiti e impegnati, come neanche gli adulti stessi sono in grado di fare, eppure Will, seduto sul sedile anteriore del vecchio pic-up di sua madre, ripensava al suo primo viaggio con una chiarezza ed una precisione sorprendenti, capendo ed accettando senza remore il senso di vuoto che gli si stava creando nel petto, andando ad aggiungersi alla paura per il nonno. Will lo sapeva ora, si era sbagliato mesi fa, pensando che l'Arizona sarebbe stato il suo peggior incubo, che non l'avrebbe mai accettata, e accettato, che l'avrebbe odiata per sempre. Non si faceva scrupoli nel ripetersi che era stato uno stupido bimbetto lagnante, che aveva sbagliato alla grande: era stato difficile si, c'erano stati giorni in cui aveva pianto fino allo sfinimento per quel trasferimento, deluso e tradito da sua madre che l'aveva strappato a casa, ma poi, piano piano, aveva cominciato a scorgere la luce in fondo al tunnel, il sole aveva infilato i suoi raggi tra le nuvole nere fino a scacciarle del tutto. E si era abituato, aveva apprezzato Phoenix e tutti quegli strani ragazzini che erano diventati la sua nuova famiglia, senza che mai dimenticasse la vecchia. No, non avrebbe mai potuto, sentiva la loro mancanza ogni giorno, con la stessa forza con cui i suoi amici lo facevano sentire amato e parte integrante di qualcosa che forse Will non aveva ancora capito, ma che prima o poi sarebbe riuscito ad identificare. Eppure non voleva rivederli così.
Improvvisamente San Angelo e Phoenix si erano scambiate di posto: la città del Texas era il campo minato in cui addentrarsi con sicura certezza di sconfitta, la capitale dell'Arizona il porto sicuro da cui stava salpando.
Sospirò nervoso, teneva il mangia cassette di suo nonno stretto tra le mani, le cuffie sistemate alla ben e meglio sulla testa riccia e scompigliata, la sua canzone preferita che si ripeteva e si rincorreva al ritmo con cui riusciva a riavvolgere il nastro con la penna ormai scarica che teneva sempre assieme al piccolo aggeggetto mezzo scorticato che gli teneva compagnia da quella prima enorme traversata.
Solo uno Stato, uno solo divideva Texas e Arizona, che era tanto ma anche poco, non era come per suo zio Eric che doveva prendere l'aereo, o per lo zio Benny che prendeva il treno, lo poteva fare anche in macchina, quel viaggio lui, certo, erano sempre quasi dieci ore di autostrade solitarie e pompe di benzina strappate da film e fumetti, ma non era tanto. Se lo ripeteva come un mantra, non era tanto distante da casa, sarebbe durato tutto poco, pochissimo, non se ne sarebbe neanche accorto.
Ma una domanda sorgeva spontanea a seguito di quel pensiero: ci sarebbe voluto poco per andare a casa o per tornarvi?


Non gli avevano permesso di vedere il nonno. Quando erano arrivati era praticamente sera, l'orario di visita era finito da un pezzo e Summer aveva insistito tanto perché Will andasse immediatamente a dormire. La notte era passata solo grazie alla spossatezza datagli dalla macchina, che lo aveva trasportato di peso nel mondo dei sogni.
Sarebbe stato di gran lunga più corretto dire che lo aveva trasportato nel mondo del sonno e basta, perché Will quella notte non aveva sognato, come se una figura magnanima lo avesse graziato dai terribili incubi in cui sarebbe caduto, dove suo nonno scivolava da cavallo e non si rialzava più.

Era fermo in giardino, seduto sulla stecca più bassa della staccionata che comunque non gli permetteva di toccare terra con i piedi, le braccia conserte sulla stecca superiore, la faccia preoccupata e pensierosa premuta sugli avambracci scoperti. Faceva caldo, il Texas era sempre una grandissima griglia fumante secondo lui, e non solo perché praticamente in quello Stato non era ammesso cucinare in altro modo se non alla brace (non si è un vero Texano se non si fa una bella grigliata almeno tre volte a settimana) ma anche perché il caldo saliva in spire roventi dal terreno già da Giugno.
Certo, mai come a Phoneix, li faceva davvero caldo, con la Valley e tutto, i Texani avrebbero dovuto smettere di lamentarsi.
Dondolò i piedi senza scarpe, abbandonate a terra in modo scomposto, domandandosi cosa stessero facendo in quel momento i suoi amichetti. Li aveva chiamati quella mattina, a dirla tutta aveva chiamato Alexander, che sapeva essere a casa con il papà, ma non lo aveva trovato, così aveva provato a Villa Clara, non avrebbe mai osato al Maniero, ma anche li non aveva risposto nessuno, forse era troppo tardi. Aveva pensato subito a Turan allora e poi ad Andrew, ma gira che ti rigira aveva finito per trovare solo Arabelle e quindi pregava intensamente che la bambina riportasse agli altri le sue parole e non se ne uscisse con le sue solite frasi leggere e disfattiste, come un “Will è tornato in Texas e ci rimarrà”, cose molto da lei che avrebbe gettato almeno due persone su sei nel panico, tre su sei nello stupore più assoluto e una su sei in preda ad una collera nera per non avergli detto nulla. L'importante era che si ricordasse di specificare che era andato via per stare vicino a suo nonno che era malato e non per altre assurde motivazioni, che non era scappato e che quindi Rise non aveva motivo di venirlo a cercare con una mazza da Baseball in mano pronta a picchiarlo.
Mancavano solo pochi giorni alla fine della scuola, precisamente otto, e lui si sarebbe perso tutta la festa e i giochi. Certo, era lì per il nonno, perché si era fatto male e tutti, lui compreso, erano preoccupati a morte, ma ciò non gli impediva di piagnucolare e lamentarsi per questo, di essere triste e pensare che non avrebbe passato il suo primo ultimo giorno di scuola con gli amici a divertirsi.
A conti fatti era un'ingiustizia bella e buona, il nonno non poteva aspettare altri otto giorni per andare a cavallo e per cadere? Non era mai caduto in tutti quegli anni lì che aveva, perché aveva deciso di rimettere in paro proprio a Giugno?
Non erano ragionamenti carini da fare, se ne rendeva conto e se ne vergognava da solo, ma non poteva far a meno di pensarci e ripensarci. Sembrava che glielo avesse fatto apposta, che lo avesse fatto per costringere mamma a tornare da lui e parlargli di nuovo e per strappare lui dalla festa di fine anno.
Tirò su col naso e ci strofinò contro il dorso della mano: tutte a lui capitavano, non gliene andava mai una giusta. Prima lo facevano trasferire con l'inganno, promettendogli un'avventura per strapparlo poi dalla sua bella vita a San Angelo; poi lo buttavano in una scuola piena di persone con tanti soldi e tante cose in più di lui, che parlavano di cose che non capiva e che facevano cose che non capiva; poi quando sembrava che tutto stesse andando bene Rise esplodeva come un petardo; poi quando tutto riandava bene il nonno cadeva, lo costringeva ad andare via di casa e tornare in Texas.
Perché tutte a lui?


L'ospedale era una struttura bianca e verdina, con lunghe strisce blu che correvano sul pavimento ed indicavano le vie di uscita più veloci. C'era un odore di pulito così forte da diventare puzza, insopportabile tanfo di medicinali e detergenti, l'odore della bottiglietta di disinfettante di Andrew elevato all'ennesima potenza. Summer gli teneva la mano ma non gli prestava molta attenzione, era rigida nei movimenti quanto nelle brevi risposte che dava a sua madre che gli spiegava come dovessero comportarsi e quando sarebbe passato il medico, Will non vedeva l'ora che il dottore entrasse in quella stanza così che lui ne sarebbe potuto uscire. A dir il vero non voleva neanche entrarvi, gli mancava il nonno, era preoccupato e lo voleva vedere e tutte quelle cose lì, ma aveva paura di come potesse stare, di come era conciato. Aveva tante fasciature? Gli si vedeva il sangue sui vestiti come nei film? Era attaccato a tante macchine che facevano rumori strani e si sarebbero messe a strillare non appena qualcosa fosse andato storto? Aveva quei tubi strani infilati in bocca? Rallentò di poco il passo, lasciando che fosse sua madre a trascinarlo verso la loro meta e si rimproverò da solo per averle detto che si, ce la faceva ad andare in ospedale con lei e la nonna, che non voleva rimanere a casa con i vicini o al negozio con zia Laura.
Perché non le aveva detto che aveva una paura matta e che non voleva entrare lì dentro?
Oh, ma si, giusto, era colpa del bellissimo discorso di Jajeck sul fatto che tutte le persone sono diverse ed aiutano a modo loro, del discorso di Andrew che gli spiegava che lui voleva aiutare la gente e che gli aveva fatto desiderare la stessa cosa.
Aiutare mamma che adesso è tanto preoccupata e si sente anche in colpa.
Questo era il punto cruciale, aiutare Summer. Ne era convinto più di ogni altra cosa, ma non gli impedì comunque di inchiodare davanti alla porta della stanza di suo nonno non appena intravide una figura stesa sul letto candido e piena di fili sulle braccia e sul petto. Non volle neanche indagare oltre, girò di scatto la testa verso sua madre che lo guardò interrogativa.

<< Will, che cosa- >>
<< Signora, forse non è il caso che il bambino entri.>>

Si voltò di nuovo ma questa volta verso un infermiere che era appena sbucato da chissà dove.
Aveva i capelli biondi più dei suoi, tenuti indietro con qualcosa che non gli impiastricciava i capelli come succedeva a Will quando la mamma gli metteva il gel, o forse il ragazzo sapeva semplicemente come metterlo. Gli occhi di una calda sfumatura nocciola, quasi tendente al dorato, il sorriso mite e gentile che gli formava delle piccole fossette sulle guance spruzzate di lentiggini. Forse aveva qualche anno più di suo zio Benny, anche se era più altro di lui, con un fisico asciutto, più da modello che da infermiere, ma la divisa verde e le cartelline che stringeva in mano non lasciavano adito a dubbi.
Summer lo guardò per un attimo stordita, come se fosse stata colta da un deja-vu, fissò il giovane senza pronunciare sillaba e poi biascicò qualcosa di incomprensibile che fece allargare il sorriso dell'infermiere.
<< Ci sono dei macchinari delicati che purtroppo producono non solo un sibilo continuo ma anche delle onde particolari.>> la sua voce era gentile, calda e anche estremamente sicura, malgrado si stesse tenendo enormemente sul vago nel motivare quella sua affermazione, << Noi adulti siamo abituati a questi suoni, ma i bambini che hanno un udito più fine li percepiscono molti più di noi.>> Era la scusa probabilmente più ridicola e banale del mondo, ma Will l'apprezzò davvero.
Certo, il giovane non poteva certo dire davanti a lui che il bambino non poteva entrare perché le condizioni dei pazienti sarebbero potute degenerare da un momento all'altro e farlo assistere ad una scena terribile come quella di suo nonno in arresto cardiaco, ma questo Will non lo sapeva e Summer parve arrivarci con un po' di ritardo dopo aver ascoltato quella sciocca spiegazione.
Annuì comunque all'uomo e si piegò perso di lui, oscurandogli l'entrata della camera e anche i suoi abitanti.

<< Il signore ha ragione Will, lo so che sei un bravo bambino e non toccheresti nulla, ma ci sono fili ovunque in camera e non voglio che ci inciampi. Ci metterò pochissimo, te lo prometto, aspettiamo il dottore, sentiamo quello che dice e poi andiamo a casa. Tu aspetta qui fuori, okay? E per qualunque cosa avvertimi, non ti allontanare senza averlo detto a me o alla nonna, intesi?>>
Senza far un solo fiato si sedette sulle sedie fuori dalla stanza di suo nonno, proprio davanti al bancone delle infermiere, dove il ragazzo biondo si infilò per posare le cartelle e poi raggiungerlo.

<< Ehi, tutto bene?>> gli chiese gentile sedendosi vicino a lui, un'infermiera di mezz'età, cicciottella e dai capelli cotonati sorrise al collega bonariamente, come se stesse assistendo ad una scena particolare.
<< Io si, è mio nonno che sta male. E' caduto dal cavallo e non so cosa si è fatto.>> glielo confessò con facilità, lui era un infermiere, magari sapeva cosa succedeva alle persone in quei casi. Infatti il ragazzo annuì comprensivo e si sistemò con i gomiti sulle ginocchia.
<< Quando si cade da cavallo possono succedere tante cose, magari non ti fai niente, o ti graffi solo. Puoi romperti una gamba o un braccio e persino farti saltare qualche dente. Ma si guarisce.>>
<< Mio nonno dorme, che si è fatto se dorme?>>
Qui il giovane strinse le labbra e fece una mezza smorfia pensierosa.
<< Come ti chiami?>> gli chiese d'improvviso.
<< William, ma tutti mi chiamano Will.>>
<< Io sono Sonny, Will, piacere di conoscerti.>> gli porse la mano come fanno gli adulti e Will gliela strinse.
<< Mi sembri un bambino grande ed intelligente Will, quindi voglio essere del tutto sincero con te.>>
Si mise subito seduto bene sulla poltroncina, drizzando la schiena e le orecchie e guardando attentamente il suo interlocutore, fece un cenno con la testa come ad esortarlo a continuare.
<< Quando le persone dormono, in ospedale, è perché se fossero sveglie sentirebbero troppo male o magari si affaticherebbero troppo. Succede quando ti fai tanto male o quando prendi un colpo alla testa. Allora, la testa, ti farebbe troppo male se fossi sveglio, ti sentiresti rintontito come dopo esser sceso dal toro meccanico, così i dottori ti danno un sonnifero e ti fanno dormire per farti riprendere più in fretta.>>
<< Quindi nonno ha sbattuto la testa? Ma se gli danno tanti sonniferi non è che poi dorme per cento anni come la principessa della favola?>> la preoccupazione crebbe negli occhi azzurri del bambino che però ricevette in risposta lo stesso caldo sorriso di prima, accecante come un raggio di sole.
<< Certo che no! Qui siamo in ospedale Will, un posto pieno di dottori e infermieri che sanno perfettamente cosa fare. Studiamo per tantissimi anni per lavorare con le persone, per curarle, sappiamo dosare tutte le medicine alla perfezione e salviamo le vite. E' questo che fa un medico Will, salva la vita della gente, lo fa per passione e con passione, è il suo obbiettivo, la missione di tutta la sua vita. La medicina è una scienza, ma come ogni scienza, è un arte sopraffina e complicata.>> Gli aveva messo una mano sulla spalla e lo aveva guardato dritto negli occhi per tutto il tempo e Will avrebbe potuto giurare che per un momento gli occhi nocciola di Sonny fossero diventati brillanti come l'oro, come i capelli del giovane.
<< Curare le persone è un arte?>> si ritrovò a chiedere sorpreso.
Sonny sorrise, << Tutto è arte!>> scosse la testa divertito, << E te? Ti piacerebbe diventare un artista della cura? Diventare un medico e salvare le persone, curarle, aiutarle?>>
Aiutarle.
Aiutare le persone, era questa la parola chiave, aiutare. Will voleva essere utile per chi amava ma anche per gli altri, nonostante avesse paura di entrare nella stanza del nonno e non sopportasse la vista del sangue, nonostante gli venisse mal di stomaco ogni volta che vedeva un graffio, una ferita o un brutto livido. Aiutare la gente.
<< Non so se ci riuscirei, io vorrei solo essere utile.>> bisbigliò in gran segreto.
Il ragazzo gli batté una mano sulla schiena e poi gli scompigliò i capelli, << Tutto è possibile se ti impegni e soprattutto se è ciò che desideri davvero. Puoi anche diventare un dottore Will, e chi lo sa: magari un giorno tuo nonno non avrà bisogno di venire qui se starà poco bene, perché avrà un medico in famiglia e sarai proprio tu.>>
Senza parole Will rimase a fissarlo sbalordito e pensieroso, sarebbe davvero potuto diventare un medico da grande? Anche se aveva tutte quelle paure?
Se lo desideri davvero.
Per il corridoio passò un dottore in camice che entrò spedito della camera di Norman Solace bussando rapidamente, dalla porta a spinta entrò una signora che doveva aver pochi anni più di sua madre, assieme a lei un bambino dai capelli ricci come i suoi ma castani, gli occhi di un azzurro freddo come il cielo autunnale e la faccia di chi proprio non ci sarebbe voluto stare lì. La sentì distrattamente parlare con un infermiere e vide con la coda dell'occhio il bambino, sicuramente più grande di lui, doveva avere come minimo otto anni decise, allontanarsi per andare a guardare fuori dalla finestra.
<< Ma io non sono bravo, ho paura della gente che sta male.>> lo disse con lo sguardo perso nel vuoto, avvertendo tutto e niente di ciò che lo circondava.
<< No Will, tu hai paura che la gente stia male ed è ben diverso. Sei in pena per loro, li vorresti aiutare, questa è la tua vocazione.>> la voce gli arrivò chiara e nitida alle orecchie annullando tutti i suoni del corridoio. Sonny lo guardava con aria seria e solenne, il portamento fiero ed eretto, l'espressione sicura.
Come faceva a dirlo?
Per un attimo gli parve che tutto si fosse fermato, che quel giovane infermiere avesse tutte le risposte a tutte le domande del mondo e che ciò che gli avesse appena detto fosse una di quelle grandissime verità che un giorno, da grande, si sarebbe accorto di come si fosse avverata senza che lui potesse far nulla per sottrarvisi, come quando gli sarebbe cresciuta la barba e non avrebbe potuto far altro che tagliarsela e conviverci.
Poi la donna chiamò a gran voce il bambino e l'incanto si spezzò:
<< Lee! Vieni qui forza, ti ho detto di non allontanarti.>> guardò l'infermiere come per scusarsi, << Siamo in vacanza, sa, mio figlio aveva una gara, ma poi il mio compagno si è sentito poco bene e siamo dovuti andar via dal poligono. Lee, insomma, non gironzolare, c'è gente che lavora qui.>>
Will osservò senza troppa attenzione il bambino e poi si riconcentrò completamente su Sonny, anche lui intento ad assistere a quel quadretto famigliare. Fissava il bambino con molta più attenzione di quanta non gliene avesse dedicata lui, studiandolo e soppesandone i movimenti per poi far lo stesso con la madre. Sorrise in fine come se avesse trovato conferma alle sue idee.
<< Ognuno di noi è destinato a qualcosa. Quel bambino, Lee, hai sentito sua madre? Doveva fare un torneo, al poligono ha detto, ma ora è qui, ha abbandonato il campo di gioco, la gloria certa per assistere chi stava male, ha ceduto il passo alla necessità del momento. Ognuno fa ciò a cui è destinato.>>
A dirla tutta Will non la pensava così, secondo lui quel Lee era stato trascinato via da sua madre, magari anche piangendo e lamentandosi, disperandosi perché non poteva lasciare così la gara.
Come poteva dire Sonny che abbandonare la gloria per la necessità del momento fosse il destino di quel bambino? Sarebbe stato terribile oltretutto e anche abbastanza crudele, gli augurava che non fosse così.
<< Ora devo andare, il mio lavoro mi chiama!>> Il giovane si alzò con un saltello e si sistemò pieghe immaginarie sulla divisa, alcuni dei presenti lo guardarono ammirati e ammaliati al contempo, mentre Sonny dispensava sorrisi affascinanti a tutti, ben diversi da quelli dolci che aveva dato a lui, pieni di una consapevolezza che Will avrebbe capito parecchi anni più tardi.
<< Pensa a quello che ti ho detto, mi raccomando, e non preoccuparti per tuo nonno, sono sicuro che si rimetterà, abbi fede Riccioli d'Oro, la medicina è un arte e i medici sono artisti espertissimi!>> Gli scompigliò ancora i capelli e si avviò verso la fine del corridoio, passando vicino al bambino di prima e posando una mano sulla testa anche a lui, mormorando qualcosa che Will non sentì ma che fece alzare di colpo il viso all'altro, guardando Sonny con stupore e sconcerto.

<< Will?>>
Summer lo chiamò a voce bassa, il tono interrogativo di chi ripete per l'ennesima volta la stessa parola. Il bimbo si voltò con lo stesso stupore che aveva segnato il viso del castano, da quanto sua madre era lì? Non l'aveva sentita arrivare.
<< Dimmi mamy. Cosa ti ha detto il dottore? Nonno sta bene?>>
La donna gli sorrise improvvisamente raggiante e ciò valse più di mille parole.


Seduto sul portico del ranch, quaderno e penna alla mano, Will fissò con attenzione il calendario che aveva rubato dalla cucina, accigliato e pensieroso.
Mancavano ben ventisette giorni a Luglio, giorni in cui suo nonno doveva necessariamente riprendersi e uscire dall'ospedale perché Will, con un po' di vergogna, ma neanche tanta, voleva a tutti i costi tornare a Phoenix per il 4. Cominciò ad annotare il conto alla rovescia, disegnando con impegno un quadratino vicino ad ogni numero, così avrebbe potuto spuntarli ogni giorno che passava.
Si congratulò con sé stesso per la splendida idea avuta, ma arrivato al 30 si fermò titubante.
Poi scosse la testa sorridendo, non c'era bisogno di scrivere anche tutto Luglio, tanto per allora sarebbe stato a casa.

[Luglio]



Certo, proprio a casa sarebbe stato, era ovvio, aveva indovinato, aveva proprio ragione da vendere, uff! Come no!
Giugno era passato con una lentezza ed una pesantezza che Will non ricordava aver mai vissuto. Se ripensava che in quel periodo, solo l'anno prima, stava facendo il conto alla rovescia per partire da San Angelo e trasferirsi a Phoenix, se solo ripensava a quanto era triste, a quanto aveva pianto e battuto i piedi perché non voleva, non voleva proprio lasciare casa. Ora invece non vedeva l'ora di tornarci a casa.
Certo, stare con i nonni era fantastico, beh, più che altro con la nonna, aveva riscoperto tante piccole abitudini che prima aveva perso, che non poteva fare in Arizona come andare a dar da mangiare ai cavalli, ma c'era comunque sempre un velo di stranezza in tutto ciò.
La verità più sconcertante era che Will, e lo stava capendo lui stesso poco a poco, ormai viveva il Texas come una casa di villeggiatura. Si, era bello, era divertente, c'erano di nuovo tutti e si stava in allegria proprio come un tempo, ma quella non era più casa sua, no, assolutamente no.
E poi gli mancava il suo letto a macchina, gli sgabelli della cucina, la scuola e persino la divisa, ma soprattutto gli mancavano i suoi amici.
Anche se forse, non gli mancavano i loro caratterini...e ne aveva avuta la piena conferma quando, il mese passato, aveva ricevuto la chiamata che tanto attendeva e temeva: quella di Rise.
Il telefono aveva squillato per un'eternità prima che la nonna andasse a rispondere, Will, ormai, non se la sentiva più di farlo a meno che non glielo dicessero i grandi, insomma, quella non era più proprio casa sua, nonostante zia Laura continuasse a dirgli che lo sarebbe sempre stata, in ogni caso, anche quando sarebbe diventato grande e ne avrebbe avuta una tutta sua.
Poi la voce della donna gli era arrivata forte e chiara dall'anticamera che collegava il salone con l'entrata e le scale per il secondo piano:
<< Willy, tesoro è per te!>>
Era schizzato giù dal divano con una velocità sorprendente, saltando Baffo, il cane, e fermandosi in scivolata davanti alla nonna che lo aveva guardato divertita e sorridente.
<< E' una signorina molto educata, dice di essere una tua amichetta- >> e qui Will aveva sorriso di rimando, << si chiama Rise- >> il sorriso gli si era allargato, << ed è stata davvero carina, dice che le dispiace disturbare in un momento del genere ma che avrebbe “la necessità” di parlare con te di una cosa importante.>> e qui il sorriso gli si era congelato.
Cacchio.
Aveva deglutito un paio di volte e poi allungato la manina verso la cornetta del telefono.
La nonna se ne era andata subito dopo ridacchiando e annunciando a zia Laura e zio Benny che “il loro piccolo Willy” aveva appena ricevuto una telefonata da una sua “amichetta” condendo la frase con quanto più divertimento potesse darle un'affermazione del genere. Se solo avesse saputo…

<< Ciao Risie, come va da Phoenix? Tutt- >>
<< RAZZA DI DEFICENTE CHE NON SEI ALTRO!>>
Allontanò la cornetta dall'orecchio e chiuse gli occhi, una smorfia contrita gli apparve sul volto. Lui lo sapeva, lo sapeva che finiva così.
<< Aspetta, non fare- >>
<< COSA NON DOVREI FARE? NON TI AZZARDARE A DIRMI COSA POSSO O NON POSSO FARE! COSA TI E' SALTATO IN MENTE? TE NE VAI E NEANCHE CI DICI NIENTE?>>
<< Non è propriamente così...>> diplomazia, ci voleva diplomazia, per lo meno non aveva ricominciato ad usare quei stupidi paroloni da grandi, era una buona cosa, no?
<< IO MI DOMANDO WILLIAM, COME SIA POSSIBILE CHE UNO DECIDA DI ANDARSENE DA UN GIORNO ALL'ALTRO SENZA DIRE NIENTE AI SUOI AMICI. AI-SUOI-AMICI!>>
<< Ma, veramente, io vi ho chiamati, tutti quanti, ma non rispondevate, così mi è rimasta solo Arabelle e- >>
<< E INFATTI ARABELLE CI HA INFORMATI DEL TUTTO!>> ahio, “informati del tutto”, paroloni da grandi, ahio.
<< Senti, posso spiegarti ogni cosa. Giuro!>>
<< NON VOGLIO LE TUE SPIEGAZIONI WILLIAM! SAPPI SOLO CHE QUANDO TI METTERO' LE MANI A DOSSO SARA' PER STRAPPARTI I CAPELLI UNO AD UNO E POI DARTI TANTI DI QUEI PUGNI CHE NEANCHE JAJECK SI E' MAI PRESO.>>
<< Ehi, che c'entro io adesso?>>
<< Ssh, sta zitto e non farti sentire, è come un animale ora, se fiuta il tuo odore si rigira e ammazza pure te.>>
<< NON PENSATE CHE NON VI STIA ASCOLTANDO!>>
<< Risie, ti prego calmati, dai, Will sicuramente avrà una giustificazione...>>
<< NON MI INTERESSA! IO LO PICCHIO!>>
<< MA NON HO FATTO NIENTE!>>
Avevano continuato così per una mezz'ora abbondante finché tra tutto quel putiferio, in sottofondo alle urla di Rise che gli promettevano le pene dell'inferno e le peggiori nefandezze del mondo, non si era sentita la voce scocciata di Arabelle uscirsene con un << Vabbhé, dai, quando il nonno uscirà dall'ospedale poi torna qui, mica se ne è andato per sempre.>>
Will la sentì a mala pena ed era più che convinto che Rise, che nel mentre continuava ad urlargli contro, non avesse sentito una parola. Esclamazioni sorprese si erano perse dietro al borbottio della bambina finché non era calato il più completo silenzio.
<< Cosa hai detto scusa?>>
La voce di Risie era stata improvvisamente calma e terribilmente glaciale.
E dal silenzio che gli rispose Will poté perfettamente immaginare Arabelle sgranare gli occhi, deglutire a fatica e incassare la testa nelle spalle, rendendosi conto di ciò che aveva detto in quel momento e di ciò che
non aveva detto prima.
Altri borbottii sommessi e poi la vocina di Andrew che semplicemente chiedeva:
<< Ditemi che non l'ha fatto...>>
Un ringhio basso era fuoriuscito dalla cornetta e Will poté giurare di sentire qualcuno piagnucolare un “Araaa, non di nuovo!”
<< ARABELLE!>>


Si, decisamente non era stata la telefonata migliore della sua vita, ma almeno si era chiarito con tutti ed aveva anche avuto la possibilità di chiedere perdono, in ginocchio, anche se non lo poteva vedere, ad Andrew perché non ci sarebbe stato al suo compleanno.
“Non ti preoccupare Willy, tuo nonno sta male, è più importante stare con lui ora, io il compleanno lo facci anche l'anno prossimo.”
Quanto poteva voler bene a quel bambino? Abbastanza da sentirsi ugualmente uno schifo, ecco quanto.
Se poi pensava a come era finita quella telefonata.

Con la cornetta ancora leggermente distanziata dall'orecchio sentiva Rise, a cui era stata tolta di mano l'altra di cornetta, fortunatamente, urlare contro Arabelle mille insulti molto fantasiosi mentre la bambina si giustificava con una serie di “ma non me lo sono ricordato!” che non facevano altro che far imbestialire ancora di più l'amichetta che, di conseguenza, gli rispondeva con una serie di “T'ho detto mille volte di scrivertele le cose!” e poi un'altra serie di improperi.
Sospirò un po' dispiaciuto per la mora, ma almeno sollevato che Rise non se la stesse più prendendo con lui quando una vocina lo richiamò all'ordine,
<< Ehi, Will?>>
Jajeck aveva parlato con tono basso, come se stesse cercando di non farsi sentire dagli altri
<< Sono qui.>> gli rispose subito un poco emozionato, non aveva mai parlato con lui al telefono.
<< Senti, ora Rise è arrabbiata e Arabelle pure, quindi loro non ti diranno niente, e di solito queste cose le dicono le femmine, e pure se da noi le dicono anche Andy e Alex credo che siano troppo impegnati a non far uccidere Ara da Risie, quindi, te lo dico io, okay?>>
Confuso Will annuì prima di ricordarsi che non poteva vederlo e quindi pigolare un “sì” frettoloso.
Jajeck prese un respiro profondo e poi, con voce un po' malinconica, che mai avrebbe pensato di poter associare a lui, gli disse piano, << Torna presto, mi raccomando, ci manchi tanto.>>

“Ci manchi tanto”.

A tutti quanti loro, gli mancava lui.
Sorrise rattristato da quel ricordo e osservò lo zio Eric, in piedi sulla scala, che legava l'ultimo striscione al soffitto della veranda.
Era il tre Luglio e casa Solace era in fervente fermento, non solo perché il giorno dopo sarebbe stato il 4 Luglio, ma perché il nonno sarebbe finalmente uscito dall'ospedale.
Certo, era ancora sulla sedia a rotelle e non riusciva ad alzarsi da solo, lo zio Anthony e lo zio Eric lo dovevano aiutare ogni volta a mettersi seduto o a sdraiarsi di nuovo sul letto, ma almeno il braccio lo muoveva di nuovo e malgrado si affaticasse subito rideva e scherzava come un tempo.
Ma la cosa più importante e sensazionale di tutte era che lui e Summer avevano finalmente fatto pace. A spiegarlo ai suoi amici ci aveva messo un po' più di quanto pensasse, forse perché i due si erano semplicemente guardati in faccia e poi si erano abbracciati, o meglio, sua mamma si era fiondata sul nonno e lui l'aveva abbracciata e le aveva chiesto scusa. Evento più unico che raro per altro, se non aveva visto male zio Eric lo aveva segnato sull'agenda, aveva proprio uno strano umorismo quell'uomo.
Tutto ciò comunque non cambiava il fatto che sarebbero rimasti in Texas ancora per molto tempo,
“Tutto quello che servirà al nonno per riprendersi e tornare a fare ciò che faceva sempre.”
Che tradotto dal dottore era stato,
“Dalle sei alle dodici settimane.”

Che ritradotto dalla nonna era stato,
“ Più di un mese Willy.”
E già non è che gli andasse a genio.

Che tradotto poi da Benny,
“Bho, Willy, penso che per fine Luglio starà in piedi.”
Troppo ottimistico.

E da Laura,
“Scommetto che per il tuo compleanno sarà sulle stampelle”
Già più realistico ma comunque palesemente falso.

Ed infine da quella pia anima di Eric,

<< Mettiti l'anima in pace Will, dodici settimane sono tre mesi, e gli serviranno solo per lasciare definitivamente la sedia a rotelle, poi comincerà a camminare solo con le stampelle e forse per Ottobre molla anche quelle. Io e Benjamnie pensavamo di regalargli un bastone da passeggio, così ci si appoggerà dopo, il dottore dice che anche se è forte è comunque vecchio, avrà sempre qualche doloretto d'ora in poi.>>

Meno male che poteva contare sempre su di lui per farsi dire la triste e realistica verità.
Incrociò le braccia e mise il broncio.
<< Senti zio, io voglio bene a nonno, non pensare di no, ma gli serviamo proprio tutti qui? Cioè, non gli bastano nonna, zio Benny e zia Laura?>>
L'uomo scese dalla scala con un balzo, proprio come sua madre da anni gli diceva di non fare, e sorrise al nipotino scompigliandogli i capelli.
<< Vuoi tornare dai tuoi amici eh? Non ti piace più stare a San Angelo?>>
<< Ma si che mi piace! Solo che non ho neanche finito la scuola! E poi mi sono perso il compleanno di Andrew e avevamo detto che per il mio saremmo andati alla casa al mare di Ryan, e poi io a Settembre comincio la seconda! Se nonno guarisce ad Ottobre io quando ci vado a scuola?>>
Eric fissò il bambino sempre più divertito, i suoi fratelli glielo dicevano sempre che era il più sadico di tutti,
<< Bhé? Non sei felice? Vuol dire che vi ritrasferirete qui, lascerai quella brutta città che ti ha fatto tanto piangere e non dovrai tornarci mai più.>>
Il volto inorridito di Will gli sarebbe rimasto impresso nella mente per sempre e per sempre glielo avrebbe rinfacciato il nipote, ma in quel momento Eric non poté far altro che scoppiare a ridere quando il biondino scappò via urlando e chiamando disperato la madre.
Oh, quante gliene avrebbero date le sue sorelle, per fortuna che era il doppio di loro.
<< Quindi non è per sempre, giusto?>>
Summer non l'aveva trovata, era in ospedale con Anthony per sistemare le ultime scartoffie e non sarebbe tornata se non dopo pranzo, ma in compenso c'era la nonna ed una gigantesca fetta di crostata di fragole e gelato alla vaniglia.
La donna sospirò per la millesima volta maledicendo il pessimo senso dell'umorismo che suo marito aveva lasciato in eredità al secondogenito ed occasionalmente anche all'ultimo.
<< No Will, non sarà per sempre, ormai vi siete trasferiti ed anche se è possibile che un giorno decidiate di tornare qui non succederà presto, per lo meno non l'anno prossimo.>>
Il bambino annuì rassicurato da quell'ennesima conferma, staccando un pezzo fragola glassata dalla farcitura della crostata.
<< Quindi...>> cominciò ancora facendo alzare gli occhi al cielo ad Olivia Solace.
<< Quindi, tesoro?>>
<< Dopo torniamo a Phoenix?>>
<< Si Willy, dopo tornate a Phoenix.>>

Ed era triste da dire al nipotino, dirgli che loro, lui e Summer, sarebbero tornati in Arizona e che loro altri sarebbero rimasti lì, confermargli che ancora una volta li avrebbe visti partire dopo essersi riabituata ad averli in casa, tutti i suoi bambini di nuovo al completo, ma il sorriso che illuminava il volto del bambino e tutta la cucina sommersa di pentole, ciotole piene e cibo per l'indomani, la ripagava ampiamente di quell'ennesimo addio.

La festa del 4 Luglio era stata bellissima per tanti motivi diversi: perché era festa, perché c'era tanto cibo, perché c'era la musica, i giochi, i fuochi, tanta gente, parenti lontani accorsi per l'annuale rimpatriata e anche amici venuti a festeggiare non solo la festa più importante d'America, ma anche Norman, finalmente tornato a casa.
Il clima era caldo e frizzante, le risate e le voci alte e felici; il nonno veniva sballottato bonariamente dai compagni di caccia che lo prendevano in giro per esser caduto da cavallo dopo tanti anni d'esperienza. Vicino al barbecue zio Anthony e zio Eric litigavano come tutti gli anni su chi era il più bravo alla griglia mentre di soppiatto lo zio Benny rubava gli hamburger dal vassoio e gli portava un panino fumante ghignando vittorioso. Sotto ai gazebo le donne della famiglia ridacchiavano e si aggiornavano a vicenda sulle ultime news del quartiere; i suoi vecchi amici lo trascinavano da destra a sinistra impegnandolo in mille giochi diversi.
Persino i fuochi d'artificio quell'anno andarono bene e non esplosero sul terreno bruciando l'erba come avevano fatto lo scorso 4.
Andava tutto così bene, era tutto così perfetto, che per un po', per qualche settimana, Will riuscì quasi a dimenticarsi che San Angelo non era più proprio la sua città, che non aveva i suoi amici e soprattutto che il suo compleanno si stava velocemente avvicinando.

[Agosto]



Luglio era scivolato via in silenzio, o per lo meno coperto dal trambusto che regnava nel ranch dei Solace. Avere un Norman a casa, sulla sedia a rotelle, che non poteva salite in camera e quindi era obbligato a vivere sul divano, non era poi una delle cose più idilliache che ci si potesse augurare di vivere. Senza contare che, a Will, pareva che il nonno non facesse altro che lamentarsi in continuazione e per ogni cosa!
Secondo zia Laura era una cosa comune nei maschi, tutto il genere maschile non era fatto per sopportare le malattie, che si parlasse solo di un raffreddore o di un braccio ingessato, se poi erano anche bloccati al letto, la cosa poteva solo che degenerare, ed in effetti era proprio quello che stava succedendo da, occhio e croce, il 5 Luglio.

Seduto su una sedia che si era portato apposta dal salone sino al tavolo dov'era il telefono, Will si rigirava il filo tra le dita, controllando di quanto in quanto il numero scritto sull'agenda e poi ripetendosi che lo aveva digitato giusto.
Altri due squilli e poi una voce maschile, certo non quella del suo amichetto, ma conosciuta, gli rispose un po' assonnata:
<< Casa Royale, chi parla?>>
<< Nathan!>> Will quasi saltò nel riconoscere la voce del “babysitter” di Jajeck, che dopo un attimo di sorpresa sembrò risvegliarsi e ritrovare la sua solita voce bassa e cupa da adolescente ma al contempo felice, come quella di chi non sente un amico da tanto tempo.
Ed era così bello sapere che un ragazzo grande come lui era felice di sentirlo!
<< Ehi, Riccioli d'Oro? Come vanno le cose da quel lato del Mississippi?>>
Will ridacchiò, il Mississippi non passava certo in Texas!
<< Tutto bene! E lì nella valley? Che si dice?>>
<< Oh, il solito ragazzino, fa un caldo del diavolo e i Phoenix sembra che non vogliano vincere neanche quest'anno, solita solfa, si. Ma scommetto che non hai telefonato qui sperando disperatamente di beccare me, vero?>>
Ridacchiò di nuovo annuendo un “ mh-mh” allegro che venne ripagato da un latrato che ormai Will aveva imparato ad associare al ragazzo. A quanto pareva, oltre al vocione, alla barba, la puzza di sudore e i brufoli, l'adolescenza rendeva anche i ragazzi incapaci di ridere normalmente, o per lo meno non bene come ridevano i bambini.
<< Allora ti chiamo subito Jakie.>> se lo immaginò allontanare la cornetta e magari mettere anche la mano davanti al microfono, prima di urlare a pieni polmoni un forte:
“ GECO!”
Si, non sapeva per quale assurdo motivo, ma Nathan chiamava Jajeck “geco”, una cosa molto fica, molto da grandi, i soprannomi degli animali, da maschi, mica come il suo “riccioli d'oro”.
Non sentì se il bambino gli avesse risposto finché un urlo ultrasonico con riuscì a superare la barriera della mano del ragazzo sulla cornetta e poco dopo, con un fastidioso rumore, tipico di qualcosa che struscia sul microfono, la voce di Jajeck gli riempì le orecchie facendogliele diventare anche rosse.
<< WILLY!>>
Era sempre una festa quando chiamava uno di loro, sempre tutti felici di sentirsi, di potersi raccontare le cose, le avventure che avevano vissuto mentre erano distanti. Jajeck poi era quello che quando doveva raccontarti le cose si muoveva per replicare le scene come se lo si potesse vedere e faceva gli effetti sonori. C'aveva provato anche lui, quando il mese scorso aveva chiamato Ryan e aveva trovato anche Andrew, aveva fatto il sonoro di tutti i fuochi d'artificio ma aveva finito solo per sputacchiare contro la cornetta e far ridere i due cugini.
Stette per un po' a sentire il magnifico racconto di come Alexander si fosse beccato la prima insolazione per fare birdwatching con il papà e la sorella e di come Rise si fosse impuntata a doverlo riportare lei a casa, in groppa ad Ares, con la costante ansia del pover'uomo di vedere il figlioletto mezzo svenuto scivolare giù da quel bestione scodinzolante e i continui rimbrotti della bambina che non la smetteva di rinfacciare ad entrambi che lo sapevano tutti che erano due schiappe al sole, perché insistevano a voler star fuori anche nelle ore più calde?
Ridacchiò divertito raccontandogli anche lui come stavano andando le cose a San Angelo, pervaso dal clima di festa tipico di quelle telefonate, finché Jajeck non centrò l'unico argomento che forse non avrebbe voluto toccare.

<< Ma ce la fai a tornare qui per il tuo compleanno? Insomma, noi volevamo fare una cosa tipo il compleanno dei gemelli, la mamma di Ryan ha detto che se la tua mamma non vuole tornare perché vole rimanere con tuo nonno e non si fida a mandarti da solo in una casa al mare possiamo anche stare qui a Phoenix, sempre da Ryan, o da Rise se per tua mamma è meglio. Ah! Ha detto anche che ti può venire a prendere lei, con la macchina, ma… >> Lasciò la frase in sospeso, il tono era andato attenuandosi lentamente, da eccitato a dubbioso.
<< Ma?>>
<< Ma dice anche che non pensa che ti lascerebbe da solo per il tuo compleanno. Che magari anche tu preferisci passarlo con tutta la tua famiglia, si insomma, magari vuoi festeggiare lì. Non gli abbiamo detto che tu volevi fare la festa al mare, che ci tenevi tanto, ma ha insistito tanto, ci ha detto che dobbiamo capire la situazione e a me pare di averla capita sai? Si, insomma, tu vuoi festeggiare con i tuoi famigliari, lo capisco, chi non lo vorrebbe? Se potessi scegliere di festeggiare tutti i miei compleanni con i miei io lo farei sempre, anche se fossimo solo noi tre, quindi, ecco… se vuoi restare lì io lo capisco. E anche Rise e Ara, e anche tutti gli altri.>>
Rimasero in silenzio, il ronzio del telefono come unico sottofondo alla loro tristezza.
Voleva festeggiare con i suoi? Si, certo che lo voleva, era una delle sue poche certezze quando era partito: avrebbe passato natale, capodanno e compleanno a San Angelo, al Ranch, con la sua famiglia.
Ma tutto era andato storto, natale lo avevano passato a Phoenix, così il capodanno, e non erano stati male, nossignore, Will si sarebbe aspettato una cosa tristissima e noiosa e invece aveva festeggiato con i suoi amici e si era divertito. La verità è che si era abituato a quei ragazzi, ai suoi nuovi amici, alla sua nuova vita, erano passati ben dodici mesi, un anno, da quando si era trasferito e ora tutto andava bene come se avesse sempre vissuto lì. Aveva dato per scontato che anche il suo compleanno lo avrebbe passato come le altre feste, che sarebbero stai i nonni e gli zii a venire da loro, non il contrario.
Quindi ora il problema era uno ed era anche bello grande:
Come si faceva a festeggiare il proprio compleanno con la famiglia se metà era lì con lui e l'altra metà ad uno Stato di distanza?


I preparativi del suo compleanno non furono secondi a quelli del 4 Luglio, il fermento era palpabile in tutto il ranch e per l'occasione sua mamma aveva invitato tutti i suoi vecchi amici, dando luogo ad una vera e propria invasione di mocciosi, tra conoscenti e parenti vari, che portarono allo stremo tutti gli adulti presenti, mai stati così felici di lasciare la festa nel tardo pomeriggio come quella volta.
Will si era impegnato, aveva passato ogni secondo a correre e giocare, fermandosi solo per mangiare, per soffiare le candeline e per aprire i regali. Non faceva altro che far roteare il alzo che il nonno gli aveva fatto trovare insieme al suo nuovissimo cappello da cowboy, ed il fatto che forse avesse preso zio Anthony in un occhio e che Steve, il suo ex compagno di classe dell'asilo, fosse finito con la faccia nell'erba perché gli aveva preso un piede e lo aveva fatto cadere erano solo mere e cattive dicerie. Aveva sette anni ora, era grande, non sbagliava i tiri con il lazo e non prendeva negli occhi la gente.
Se ne stava seduto sulla stecca più bassa della staccionata che racchiudeva la “pista” dove il nonno gli aveva insegnato ad andare a cavallo, quello stesso cavallo che ora brucava tranquillo il prato che lui sfiorava con le punte dei piedi nudi, le braccia incrociate sulla stecca superiore, la spiga in bocca come ogni buon Texano ed il cappello calato sulla testa ricciuta. Teneva gli occhi socchiusi, in parte per la stanchezza della giornata che si faceva pesante sulle sue spalle ed in parte per il sole infuocato che si tuffava verso l'orizzonte. Era stata una giornata magnifica, con dei venticelli leggeri a mitigare l'afa d' Agosto e qualche sporadica nuvola nel pomeriggio a dar riparo dai raggi più inclementi. Sorrise chiudendo definitivamente gli occhi e stringendoli di più quando anche la patina aranciata delle palpebre non gli fornì abbastanza protezioni da quelle ultime lance accecanti che trafiggevano le campagne Texane. A Phoenix adesso la Valley sarebbe stata tutta bagnata di rosso, le pietre e la polvere sarebbero sembrate brillare di luce loro, illuminando anche le ombre e rendendole del colore del bronzo. Le nuvole sarebbero state rosa, screziate di giallo e di tutte le sfumature che quei due colori comprendevano. Forse il giardino della Villa sarebbe stato pieno di riflessi dorati, come quelli che si spandevano sulle colline che lo circondavano, come quelli che avrebbe visto negli occhi di Turan, come quelli che si sarebbero riflessi in quelli di Alexander, negli occhi da gatto di Jajeck, nei capelli di Rayan, nelle sfumature di quelli di Rise e di Andrew, come quelli che invece i capelli di Ara avrebbero inghiottito e tenuto per sé.
Aprì i suoi di occhi improvvisamente malinconico, sentiva i rumori provenienti dalla cucina, la porta spalancata sul giardino dove il nonno parlava con i figli, seduto sulla sua sedia a rotelle, risate e schiamazzi che erano stati la sua vita e che ora invece gli facevano venire in mente le vacanze estive. No, non era più abituato a sentirli, possibile che fosse bastato così poco per rende quei suoni una cosa speciale e non la normalità?
Il sole non gli feriva più lo sguardo, sembrava che le sue iridi chiare fossero nate per guardarlo senza brucarsi, senza essere ammonite per aver osato guardare la forma più pura di un essere superiore. Si sentiva un privilegiato, e non aveva la più pallida idea di quanto avesse ragione.

<< Tutto bene tesoro?>>
Sua nonna gli era arrivata alle spalle senza che se ne rendesse conto, gli scostò il cappello lasciandoglielo cadere sulle spalle, il laccetto marrone si tese morbido contro il collo fragile del bambino, impigliato alla collanina di cuoio che gli avevano fatto i suoi amici. Gli passò una mano tra i ricci sistemandoglieli come aveva fatto per sei anni e sorrise dolcemente.

<< Si nonna, tutto bene.>>
<< Non mi dirai che sei stanco! Credevo che un bambino di sette anni non si stancasse così facilmente.>> provò a prenderlo in giro bonariamente, ma Will non ci cascò così come non si rese conto dello scherzo, rispondendo con calma ma serietà alla nonna.
<< Ho sette anni solo da un giorno, mi ci devo ancora abituare. Ora sono un po' stanco, sarà il cambio d'età, come quando passi dalla costa orientale a quella occidentale no? Che ti cambia il tempo?>>
La donna annuì, voltandosi per poter poggiare la schiena ed i gomiti alla staccionata.
<< Sicuro che sia tutto qui? A me puoi dire tutto tesoro, lo sai.>>
Will ci pensò su seriamente, continuando a fissare l'orizzonte dove il sole ancora si attardava, poi si strinse nelle spalle.
<< Non ti è piaciuta la festa?>> Chiese preoccupata.
<< No! Certo che no, è stata fantastica nonna, grazie.>> glielo disse con sincero affetto, distogliendo per un attimo lo sguardo dal suo obbiettivo infinito per sorridere grato alla donna che però non si fece sfregare.
<< Ma?>>
Con una smorfia Will ripoggiò il mento sulle braccia abbronzate, facendovi poi scivolare la guancia e voltando il viso verso la nonna che lo fissava in attesa.
<< Non lo so, credo solo di essere tanto stanco, credo. Non lo so davvero nonna, magari… >>
<< Magari?>>
<< Ecco è che mi manca Casa, capisci? Tutto qui, è normale no?>>

Olivia rimase ferma immobile, senza sapere cosa dire.
Lo aveva capito, aveva capito perfettamente che al nipote mancavano i suoi amichetti, che i bambini avevano dei momenti in cui si fissavano su una cosa o una persona e credeva che questo fosse il caso di William, ma forse si era sbagliata di grosso.
Non solo suo nipote si era ambientato bene a Phoenix, non solo aveva trovato degli amici che gli volevano bene, che lo proteggevano, che lo coinvolgevano nelle loro vita, a cui lui voleva bene e si era affezionato, che lui voleva e aveva coinvolto nella sua vita, ma aveva imparato talmente tanto ad amare quel posto che ora per lui era diventato ciò che un tempo era il ranch dei Solace a San Angelo, in Texas.
Spostò gli occhi verso l'entrata sul retro di casa, dove il resto della famiglia aveva ormai apparecchiato e messo a tavola, osservò soprattutto sua figlia, Summer, che rideva con il fratello minore e lo prendeva in giro punzecchiandolo. La osservò attentamente e altrettanto attentamente prese la sua decisione.
La sua famiglia era tutta lì, erano tutti al sicuro, sani e salvi, non c'erano problemi di cui lei non potesse occuparsi da sola o con l'eventuale aiuto di chi gli era sempre stato vicino.
Era ora che i suoi figli tornassero alle loro vite e la smettessero di preoccuparsi di quel testone del padre, di vorticargli attorno come api operose.
Era ora che tornassero ad occuparsi delle loro vite, che la smettessero di fare i genitori dei loro genitori.
Era ora che si tornasse alla normalità.
Ma soprattutto, era ora di tornare a casa.


L'addio al ranch questa volta non fu difficile come lo era stato la prima volta, non fu neanche triste o pieno d'ansia come fu il ritorno, no, fu solo un semplice “arrivederci”, un “alla prossima”, si, una promessa che si sarebbero rivisti presto, che la prossima volta sarebbero venuti loro a Phoenix, tutti quanti, che gli avrebbero fatto conoscere i loro amici di lì, che nonno sarebbe stato bene e sarebbe potuto addirittura andare a pala-ghiaccio con lui.
Si sporse dal finestrino e agitò forte la mano, Norman sulla sua sedia a rotelle gli faceva cenni da lontano, come se volesse suggerirgli qualcosa che lui non afferrava.
<< Mettiti seduto bene e allaccia la cinta Willy, li abbiamo già salutati non fare così.>>
Si lasciò cadere sul sedile e si affrettò ad obbedire, slanciando poi fuori la mano e sventolandola per continuare a salutare, finché non li avrebbe più visti, come la prima volta ma senza lo stesso peso sullo stomaco.
<< Nonno mi stava dicendo qualcosa ma non ho capito, che voleva? Ci siamo dimenticati di nuovo una borsa?>>
<< No, no, questa volta c'è tutto.>> lo sguardo scettico che le indirizzò il bambino a quell'affermazione fece sbuffare imbarazzata la donna.
<< Ti ho detto che ho preso tutto questa volta, sono sicurissima!>>
<< Il telefono?>>
<< Ce l'ho.>>
<< Il portafogli?>>
<< Ce l'ho.>>
<< La borsa mamy?>>
<< Anche.>>
<< E i miei regali?>>
<< Quelli li hai preparati tutti tu.>> borbottò quasi accusatoria. Will non si fece intimidire e alzò entrambe le sopracciglia, Rise ancora non gli aveva insegnato ad alzarne uno solo.
<< Meno male allora, l'importante è che non ti scordi le chiavi di casa, se no non entriamo.>>
Il silenzio che seguì fu interrotto solo dalla brusca frenata del pic-up e dall'imprecazione di Summer che si sbrigò a fare marcia indietro.
<< Prendi il telefono, è nella borsa, chiama nonna e dille che ci siamo dimenticati le chiavi.>>
<< Che ti sei dimentica le chiavi.>>
<< Si, si, che me le sono dimenticata io, va bene.>>

Olivia stava ripetendo per l'ennesima volta alla sua figlia più piccola come fosse impossibile dimenticarsi le chiavi di casa, che era seconda solo alla volta in cui suo fratello Eric si dimenticò Benny al supermercato le prime volte che ci andava da solo.
Norman invece ridacchiava divertito, barcollante ed instabile sulle stampelle che si ostinava ad usare anche se il dottore non gli aveva ancora dato il via libera.
<< Non cambierà mai, è nei geni dei Solace scordarsi anche la testa!>>
Will annuì sospirando rassegnato, poi si voltò verso l'uomo ricordandosi anche lui improvvisamente qualcosa.
<< Cosa mi stavi dicendo prima?>>
<< Oh, quando stavate andando via? Solo che se ti annoiavi in viaggio potevi metterti a sentire la musica come l'ultima volta.>>
Quel consiglio lo colse impreparato, facendolo accigliare e poi storcere le labbra in una smorfia infastidita che non sfuggì al nonno, che di nuovo cominciò a ridacchiare.
<< Fammi indovinare, te lo sei scordato a casa?>>
Will sbuffò come aveva fatto sua madre poco prima.
<< Già.>>
Eppure era convinto di averlo con sé quando era partito.


Questa volta lo vide, lo vide perfettamente e non se ne perse neanche un dettaglio. Il sorriso spontaneo che gli si aprì in volto fu superato solo dal suo acuto “mamma siamo arrivati a casa!”. Il cartello era grande e piazzato in modo che non si potesse non vederlo: La terra blu del colore della libertà, lo sfondo diviso in 13 raggi oro e rossi, in onore delle contee che compongono lo Stato. E al centro, bella e piena di tanti significati diversi, per Will da Febbraio uno più importante di tutti, brillava la stella di rame.
Era ufficialmente entro i confini di casa.

Ritornare nel suo ranch fu come tornare a casa dopo un lunga vacanza, quando ti eri abituato alla camera dell'albergo o alla casetta affittata sulla spiaggia e non ricordi più bene le vere dimensioni della tua cameretta, o del bagno. Sentire quell'odore che non puoi definire con precisione, che non è altro che odore di casa.
La prima cosa che fece il giorno seguente all'arrivo fu chiamare uno ad uno tutti i suoi amici, così, per riprendere confidenza con il posto e riavere tutto quel caos organizzato tipico dei ragazzini.
Arabelle si presentò a casa sua con la Guida dopo tre giorni, consegnandogli il quaderno su cui ora spiccava anche la toppa di un lupo, che Will azzeccò subito essere di Rise, e quella di uno squalo martello, portata da Arabelle stessa dopo essere andata a Valencia con i nonni ed aver visitato l'aquario. Ormai rimaneva solo un piccolo buco nero su cui aggiungere l'ultima toppa, la gara era ufficialmente partita dopo il giro delle sue telefonate.

<< E poi dobbiamo vederci tutti quanti e festeggiare il tuo compleanno, o meglio, il tuo non-compleanno, visto che è passato. C'abbiamo messo un secolo per scegliere il regalo giusto, sappilo, quindi non fare facce strane quando lo scarterai.>>
Will aveva annuito serio, assicurandole che nessun regalo fatto da loro lo avrebbe mai deluso, anche solo per il semplice fatto che erano stati i suoi amici a regalarglielo.
Ara era sembrata piuttosto felice della sua risposta ma si era improvvisamente imbarazzata, come se le fosse tornato in mente qualcosa di cui vergognarsi.
<< Per la storia di quando sei partito… >>
Oh, eccome se aveva qualcosa di cui vergognarsi!
<< Si, ecco, io volevo scusarmi. Cioè, lo avevo capito che non eri andato via per sempre, ma alle volte le cose che penso e quelle che dico non sono le stesse. >> le si colorarono le guance di rosa ed abbassò il tono di voce, come se fosse un segreto che nessuno doveva sapere. << La Signora Providence dice che non è nulla di cui debba preoccuparmi o vergognarmi, che è normale che alla nostra età omettiamo delle informazioni, anche se agli altri non succede spesso come succede a me. Per questo non mi dicono mai solo a me una cosa importate, e se lo fanno si assicurano che me lo sia scritta o che ci sia qualcuno che me lo possa ricordare. Però quella volta ero con la babysitter ed ero così impegnata chiamare gli altri, che ecco- >>
<< Non ti preoccupare.>> la bloccò alla fine. Si vedeva che era a disagio, lo sentiva dalle sue stesse parole, da come aveva riportato quelle della Signora Providence. Per di più, se glielo aveva detto lei, se aveva parlato con lei, significava che invece forse era una cosa che faceva preoccupare i grandi, perché la mamma di Alexander era un psicologa -si, aveva imparato a dirlo- e quindi una specie di dottore e forse Arabelle aveva un problema che solo un dottore poteva risolvere. Non lo sapeva ma sapeva che la sua amica ne era davvero mortificata.
Ora quel “non di nuovo” aveva molto più senso, così come Rise che le urlava che le cose importanti se le doveva scrivere, e aveva senso anche Alexander che lo rassicurava che Rise non aveva picchiato Arabelle dopo la storica telefonata dal Texas. Le sorrise cercando di rassicurarla e le prese la manina stringendola forte: qualunque cosa fosse, se una semplice disattenzione o solo la foga del momento, a Will non importava, Arabelle era sua amica e lui le sarebbe stato vicino e le avrebbe voluto bene anche se si scordava le cose.
Si domandò per un attimo quante altre cose non sapeva ancora eppure a differenza di prima la cosa non lo rattristava. Si, forse avevano ancora dei segreti, ma glieli dicevano, glieli raccontavano faccia a faccia, in privato come gli adulti. Non lo stavano escludendo, capì con semplicità disarmante, stavano solo prendendo coraggio per mostrargli ogni lato di sé.

E se quella rivelazione gli parve tanto semplice da accettare, tanto logica e lineare, gli sarebbe stato molto più difficile, in seguito, rendersi conto che i bambini, anche se spesso dicevano le bugie, erano molto più sinceri degli adulti, che una volta cresciuto gli altri avrebbero fatto carte false per nascondere la verità di cui si vergognavano e che ammettevano solo se messi alle strette.
Non si rese conto di quanto fosse ancora tutto dannatamente facile, ma il sorriso di Arabelle che non si era sentita giudicare né sgridare da quel ormai non più “nuovo amico”, ma solo ed unicamente “suo amico”, era la cosa più importante di tutta quella giornata.


Ormai Agosto stava finendo quando Summer inaugurò il “Country Texas Bar” con una grande festa in vero e proprio stile texano.
Il locale era sula stessa proprietà della casa, divisa da questa solo da una bella e classica staccionata bianca. A Will ricordava molto lo stile della cucina del ranch dei nonni, ma con un gusto decisamente tipico di sua madre, molto colorato e accogliente.
I tavoli ed il bancone erano gremiti di gente e la musica veniva spesso sovrastata da risa e schiamazzi. Summer nel suo bel completo da cowgirl sorrideva a tutti da sotto il cappello rosa, lanciando bicchieri stracolmi di birra e bibite varie sul lungo piano, dritti dritti nelle mani dell'avventore giusto.
Ma di tutto ciò a Will importava ben poco.
Fuori dal locale, precisamente oltre la staccionata, nel suo cortile di casa, era cominciata una lotta suon di palloncini ad acqua e pistole giocattolo. Erano il suo regalo di compleanno, i suoi amichetti gli avevano regalato due fucili ad acqua per poter giocare tutti assieme e rinfrescarsi dalla calura inclemente della valley.
Si fermarono a riempire i serbatoi dei Bluster, fradici dalla testa ai piedi e con il fiatone, Will aspettava che Turan riempisse il suo mentre Jajeck controllava che il pistone scorresse bene, come un vero esperto di armi. Arabelle stava cercando di togliersi i capelli appiccicati dalla fronte e Alexander, poggiato alla fontana si puliva gli occhiali appannati sulla maglia bagnata senza molto successo.
<< Ho più acqua nelle scarpe che nel fucile.>> si lamentò blandamente Ryan battendo il tallone al suolo, le scarpe da ginnastica un tempo grigie ora nere d'acqua.
Rise strizzò un lembo della maglia di Andrew prima di fare lo stesso con la sua camicia a scacchi bianchi e rosa, << Puoi sempre togliertele e correre scalzo.>>
Lo disse con leggerezza ma subito gli occhi di tutti le si puntarono addosso.
Il grido gioioso di Jajekc ed il conseguente volo delle sue convers blu ridiede il via alle corse, ora a piedi nudi, sul prato del giardino. Non riempirono neanche i fucili, si rincorsero come se fossero pieni e potessero continuare a sparare, lanciandosi per terra con cadute al limite del teatrale, fingendo di essere stati colpiti.
Turan alzò una mano al cielo verso Ryan che lo guardava addolorato, << Vedo la luce Ryan… sto morendo...vai senza di me, scappa.>>
Il biondino si lanciò in ginocchio vicino all'amico afferrandogli stretta la mano e scuotendo la testa, << No! Non ti abbandonerò mai! Siamo una squadra, non lasceremo nessuno indietro! Jajekc!>> urlò poi per attirare l'attenzione del rosso, << Turan è ferito! Lo hanno colpito, dobbiamo portarlo al riparo!>>
<< Ci serve un mendico!>>
<< Andrew! Corri da loro ti copriamo noi!>>
<< Rise alle spalle!>>
<< Andate! Portate Turan al campo base! Io me la caverò da sola! Posso batterli!>>

Will rise mentre continuava a sparare colpi invisibili contro altrettanti invisibili nemici, Arabelle si era legata un fazzoletto sulla fronte come l'altra amichetta e ora urlava ordini su come difendere il fianco destro e cose simili.
Era divertente, fare la guerra contro il caldo che li attanagliava e la noia che cercava di farli scivolare nella placida stasi di quelle ultime giornate d'estate. Era divertente farlo con i suoi amici che lo incoraggiavano e rimanevano al suo fianco per lottare contro quel raggio di sole più insistente degli altri che gli faceva arrossare le guance. Era divertente stare con loro, stare insieme e non pensare a nulla, per tutto il giorno, se non a divertirsi.
Summer gli strofinò l'asciugamano in testa, per fortuna era riuscito a convincerla a non usare il phon, altrimenti era sicurissimo che si sarebbe squagliato.
Se ne stava seduto sul suo sgabello preferito in cucina, una coppa di gelato davanti a lui ed una a fianco, dove di tanto in tanto Summer infilava il cucchiaino che teneva serrato tra i denti, concentrata a tamponare quella massa ricciuta e poi districare i nodi più grandi con le mani.
<< Alla fine non abbiamo perso nessuno. Adrew è un guaritore esperto, qualcosa tipo di terzo grado avanzato, ma non ho capito cosa dicevano bene, ma fatto sta che lo ha curato con una magia potentissima chiedendo aiuto alla natura, gli ha anche dato un nome strano. Rise dice che appena torna suo papà che l'aiuta con la campagna mi insegna a giocare a d&d ma non so neanche questo che vuol dire.>>
La donna annuì attenta togliendo il cucchiaino dalle labbra per tuffarlo nella crema e riportarselo alla bocca.
<< A proposito di cose perse- >>
<< No mamma, non cose, Turan! Lo avevano colpito ma Ryan e Jajeck lo hanno trascinato via mentre noi altri gli facevamo fuoco di copertura, qualunque cosa sia.>>
<< Si, si. Mi hai solo fatto venire in mente un'altra cosa. Il mangia cassette di papà, lo hai ritrovato? Hai capito dove lo avevi messo?>>
Will si bloccò, lasciando che il gelato mezzo sciolto colasse sul piano di legno levigato, girando lentamente la testa verso la madre, gli occhi sgranati nell'orrore. Cacciò un grido acuto e si fiondò giù dallo sgabello facendolo cadere sui piedi della donna che schizzò indietro spaventata da quella reazione.
<< WILL!>>
Ma il bambino era già corso in camera sua.
Si era completamente scordato del mangiacassette del nonno.

[Settembre]



Mancavano due giorni all'inizio di scuola e a Will pareva di rivivere una scena già vista, fermo lì in piedi su quella pedana a farsi fare gli ultimi ritocchi alla divisa scolastica. Era cresciuto di ben due centimetri, le maniche gli salivano troppo oltre il polso e la stoffa tirava se si stringeva le braccia al petto.
La mamma e la sarta chiacchieravano tranquille ma Will aveva la testa persa in altro, si mordicchiava il labbro nervoso, strappandosi le pellicine proprio come Summer gli aveva detto di non fare, ma era più forte di lui, non riusciva a non pensare ininterrottamente a quel mangiacassette e smangiucchiarsi il labbro screpolato dal caldo era la cosa che più conciliava i suoi ragionamenti. Lo aveva cercato ovunque, in ogni angolo della casa, rivoltando armadi e cassetti, senza successo. Alexander aveva anche proposto a tutti quanti di cercare nelle loro di case, negli zainetti, magari lo avevano preso per sbaglio, magari lo aveva lasciato da uno di loro sette, ma anche così non ebbe fortuna. Era convintissimo di esserselo portato appresso.
Non aveva neanche il coraggio di chiamare il nonno e dirglielo, insomma, lui gli affidava il suo preziosissimo mangiacassette con la sua cassetta preferita e Will se lo perdeva, con che faccia glielo avrebbe detto? Si sarebbe arrabbiato tantissimo e non poteva succedere, se lo ricordava bene il medico che diceva a tutti i suoi famigliari che Norman non andava “sottoposto a stress inutili”.
Sospirò affranto. Cosa pote fare?
Forse alla fine avrebbe dovuto confessare, dire al nonno tutto quanto. Sicuramente lo avrebbe deluso tantissimo.
Abbassò lo sguardo e smise di torturarsi il labbro quando la mamma lo richiamò. Doveva solo trovare il modo giusto per dirglielo.


Non gli interessava se la cosa non era da bambini maturi, lui la lezione di musica non la voleva fare. Andrew lo guardò perplesso battendo le palpebre senza capire.
<< Non puoi rifiutarti Willy, non è che abbiamo molta scelta, ora dobbiamo andare nell'aula di musica e fare lezione.>>
<< Beh, e io non ci vengo, ecco.>>
<< Ma si può sapere che ti prende?>> Ryan fece un gesto secco con la testa per rimandarsi indietro il ciuffo biondo, secondo Will era scomodo ma il bambino insisteva nel dire che il parrucchiere gli avesse fatto un taglio da ragazzo e che a lui piaceva, una battaglia persa in partenza.
<< Niente. Non ho voglia di fare musica.>> si ostinò a rispondere incrociando le braccia al petto.
<< Non è ancora per la storia della cassetta di tuo nonno vero?>>
Precisa ed impietosa come solo lei sapeva essere Rise lo guardava con un solo, singolo, sopracciglio inarcato -come diamine faceva, cavolo!- il mento alzato e le mani elegantemente incrociate in grembo, lo fissava dall'alto di quei maledettissimi sette centimetri che aveva guadagnato quell'estate, altro che due miseri come lui! In quel momento, con quello sguardo freddo, le ricordò terribilmente la Katrina che aveva fissato male i tre bambini che lo avevano messo all'angolo un anno prima. Aveva lo sguardo che non ti faceva scappare, quello che usava sempre per inchiodarti e costringerti a dire la verità.
Ma lui non avrebbe certo ceduto così facilmente.
<< Certo che no!>> rispose indignato.

<< Oddio, ancora per quello?>>
<< Cavolo pensavo ti fosse passata.>>
<< Vuol dire che non ha ancora parlato con suo nonno.>>
<< Andiamo Will è solo un mangiacassette mezzo scassato.>>
<< Non devi rattristarti così tanto, sono sicuro che il momento in cui metterai di cercarlo riuscirà fuori.>>
<< Non puoi mica rifiutarti di fare musica finché non lo avrai trovato!>>

Fissò a bocca aperta tutti e sette i suoi amici, che continuavano a discutere tra di loro di quando l'oggetto sarebbe tornato in circolazione, sul fatto che non poteva avercela con il mondo per quella cosa, che dovevano fargliela passare. Tutti così presi a parlare tra di loro ignorando palesemente il suo misero tentativo di negare.
Una mano gli si posò sulla spalla, Rise era arrivata al suo fianco con passi silenziosi. Le erano cresciuti i capelli, schiaritisi anche per colpa del sole, ora erano una spessa treccia ramata, con un bel fiocco bianco all'estremità. Alzò la testa per guardarla in faccia e lei gli fece un piccolo sorriso un po' impacciato, Rise non era brava a consolare la gente, lo sapevano entrambi, lei era più quella che ti prendeva a pugni e ti guardava male, non quella che ti abbracciava e ti diceva che sarebbe andato tutto bene. Che tutto si sarebbe sistemato lei lo dava per scontato, perché c'erano loro e avrebbero risolto il problema.
<< Lo sai vero che tuo nonno non ti vorrà meno bene se non ritrovi quell'aggeggio, e che non si allontanerà da te, né lui, né il resto della tua famiglia o il Texas stesso, se non senti quella cassetta?>> Lo chiese titubante, forse scegliendo le parole giuste ma dubitando comunque che potessero funzionare.
Ma Will non c'aveva mai pensato: perché voleva così disperatamente ritrovarlo? Forse perché il nonno glielo aveva affidato come ricordo di lui, come un “ci sarò sempre e questo te lo ricorderà”. Era un legame, un filo che lo teneva unito alla sua famiglia a distanza di uno Stato.
Rise aveva centrato in pieno il problema e Will si sentì ancora più triste, abbassando la testa sconfitto senza notare la nota di puro panico che si andò ad impossessare degli occhi della bambina, terrorizzata all'idea di aver peggiorato le cose, anzi, convinta di averlo appena fatto.
Cercò lo sguardo del fratello per chiedergli silenziosamente aiuto e nel frattempo si risolse nel battergli impacciata una mano sulla spalla.
I bambini non poterono comunque fare nulla, la maestra entrò in classe guardandoli accigliata e chiedendogli perché fossero ancora qui, prima di portarli alla lezione di musica.

Will si muoveva inquieto e triste sulla sedia davanti ad uno dei tanti spartiti. Avrebbero dovuto cantare ma non ne aveva voglia, proprio come non ne aveva di stare lì.
Non capiva perché si sentisse così male, lui ora adorava Phoeix, ma ripensare alla sua partenza, a ciò che era stato per lui quel piccolo nastro marroncino che girava in continuazione riproducendo le stesse dodici canzoni lo aveva irrimediabilmente depresso. Gli veniva quasi voglia di piangere.
Si rese conto che qualcosa non andava e che la maestra ci stava mettendo troppo a chiamare il silenzio solo quando la porta dell'aula si aprì e la Signorina Wisperia riportò Turan in classe.
Si voltò senza capire verso Andrew, ma il bambino aveva tutta l'attenzione sull'altro e gli fece solo cenno di aspettare mentre gli si avvicinava assieme agli altri.
Provò anche lui a farlo ma ben presto i suoi compagni di classe lo fermarono e lo ritirarono al suo posto, chiedendogli come fossero state le vacanze e cose così, già chieste e che sapevano di scusa per intrattenerlo.
Riuscì solo a scorgere Ryan scuotere la testa, così come Arabelle e Andrew. Turan si voltò verso i gemelli ma questi non lo stavano guardando, si fissavano negli occhi parlando come solo loro due riuscivano a fare. Loro due annuirono decisi e si voltarono verso la maestra che gli sorrise raggiante, battendo le mani e chiedendo a tutti di mettersi al loro posto.
I bambini si sistemarono in fretta ma due di loro invece si avvicinarono alla cattedra dove la maestra stava digitando velocemente i tasti del pc.

<< Bene bambini, ben tornati nell'aula di musica.>>
Un coro di saluti entusiasti si diffuse nella sala, ma Will non aveva occhi che per i suoi amici che ora parlottavano con i nasi ad un millimetro l'uno dall'altro. Rise doveva piegarsi in avanti per arrivare all'altezza del fratello e ogni volta che si ritraeva un poco rimettendosi dritta Alexander si alzava sulla punta dei piedi per seguirla e continuare quella conversazione apparentemente importantissima.
<< Normalmente cominciamo cantando tutti quanti una canzone che ben conosciamo, ma quest'anno faremo diversamente.>> premette soddisfatta un tasto e poi impugnò saldamente il mouse.
<< Oggi Katrina e Alexander ci canteranno una canzone che solo loro conoscono, quindi per favore mantenete l'attenzione e non li disturbate. >>
Fece cenno ai bambini di mettersi al centro della sala e poi pigiò il tasto sinistro del mouse.
Non ci sarebbe stato neanche bisogno di chiedere il silenzio, tutti gli alunni erano concentratissimi ma non solo sui gemelli, continuavano a lanciare occhiate nella sua direzione, per poi voltarsi non appena lui restituiva lo sguardo e ridacchiare con il vicino. Persino Arabelle e Turan lo guardavano di sottecchi, mentre Ryan cercava di fare lo stoico e fissare gli amichetti in piedi davanti a lui. Spostò infastidito gli occhi azzurri alla ricerca di quelli caldi di Andrew ma invece trovò quelli da gatto di Jajeck che lo fissavano senza pudore, senza vergogna. Stava palesemente aspettando una sua reazione, ma a cosa?
La risposta arrivò in fretta, le note lente e cadenzate di una canzone che conosceva a memoria, un ritmo proveniente da una terra lontana, da uno Stato lontano, la chitarra che pigra prendeva ogni nota di quell'accordo che sapeva di estate, di caldo afoso e sfocato, di pomeriggi passati a fissare le nuvole sul portico di casa sua, con un paio di cuffie troppo grandi per la sua testa ed una penna pronta per riavvolgere il nastro senza sprecare la batteria della macchinetta.
Fece scattare lo sguardo davanti a sé senza capacitarsi di come fosse possibile che tra tante proprio quella canzone fosse stata scelta e incontrò gli occhi azzurri di Alexander, liquidi come il cielo inondato di luce del pomeriggio, dove le nuvole passavano pigre, come il giorno del suo compleanno, come il giorno dell'inaugurazione. Vide i riflessi dorati del tramonto che lo aveva fatto tornare a Phoenix con la mente, che con i suoi colori lo aveva fatto tornare a casa.

<< “Almost heaven, West Virginia
Blue Ridge Mountains, Shenandoah River
Life is old there, older than the trees
Younger than the mountains growin’ like a breeze …
”>>

Riuscì a distogliere gli occhi da quelli ipnotici di Alexander solo quando Risie cominciò a cantare parole che conosceva a memoria, così come le conosceva lui.
La fissò sbalordito senza sapere cosa dire, gli sembrava di esser rimasto senza aria nei polmoni.
Che assurda coincidenza era quella?
Poi voltò la testa verso i suoi amichetti, che lo stavano osservando tutti ansiosi, pieni di speranza, e capì.

<< “...Country roads, take me home
To the place, I be-long
West virginia, mountain momma
Take me home, country roads...
” >>

Turan doveva essere andato a chiamare qualcuno, forse sua mamma, a chiedergli quale fosse la sua canzone preferita. E tutti gli altri lo avevano spalleggiato, avevano chiesto alla maestra di poter cantare quella canzone, per tirarlo su di morale.
Chiuse gli occhi emozionato, li sentiva leggermente pizzicare ma non si sentiva più triste. Sorrise senza rendersene conto, le vocine dei suoi amici che si armonizzavano perfettamente assieme per intonare il ritornello, qualche voce timida tra il pubblico che conosceva quelle parole e le cantava piano piano, alzando poi il tono quando Rise sorridendo fece cenno a quei bambini di alzare la voce.
Una luce improvvisa e bluastra illuminò la parete alle spalle della cattedra, la maestra aveva acceso il proiettore e ora le parole della canzone erano visibili a tutti, scure sul muro bianco.
Ben presto tutta la classe intonò quella canzone senza aver la minima idea di quale fosse il ritmo giusto, stonando un po' forse ma senza mai fermarsi.
E Will scoppiò a ridere tra una parola e l'altra, Andrew gli prese la mano stringendola forte, un sorriso accecante sulle labbra, gli occhi dolci scintillanti di gioia. Affianco a lui Turan batteva le mani a tempo con Arabelle se saltellava divertita, si voltarono entrambi a sorridergli ed annuire, a dirgli che tutto andava bene; così come Ryan che gli si schiantò addosso abbracciandolo e cantando le parole sbagliate del ritornello, il ciuffo biondo gli solleticava il collo e lo faceva ridere ancor di più. Poi un'altra mano strinse la sua rimasta libera lungo il fianco: Jajeck tirò le labbra mostrandogli quei dentini piccoli e appuntiti come quelli di un felino, pareva quasi che dietro ai suoi occhi qualcuno avesse acceso una lampadina, parevano fari pronti ad illuminare tutta la sala. E Rise ed Alexander davanti a lui, che si tenevano per mano come ora avevano fatto tutti loro altri, gli regalarono un sorriso storto dalle note della canzone che ora gridavano a pieni polmoni. Per dirgli che era tutto per lui, che loro erano lì per lui, che ci sarebbero stati sempre, per le cose più stupide come la scomparsa di un giocattolo e per quelle più serie come la perdita di un oggetto che lo legava alla sua famiglia.
Erano lì per lui e Will non avrebbe mai potuto immaginare nulla di più bello.
E avrebbe continuato a pensarlo per tutta la vita.

<< “ Take me home… country road!”>>


Suo nonno aveva riso tanto, forse fino alle lacrime, chissà se il dottore intendeva anche morir dalle risate tra gli “inutili stress”.
<< Non saresti stato un vero Solace altrimenti Will! Se non ce l'avessimo attaccata al collo ci perderemo anche la testa noi! Beh, mi sa che sarò costretto a comprartene uno nuovo no? Tuo zio Benny ora ha una scatoletta strana, tutta piatta, con uno schermo minuscolo ed un solo tasto rotondo, dice che si chiama mp3 o qualcosa del genere, ma gli ha dato un nome strano solo perché dietro c'è una mela morsa, bah, vallo a capire quel ragazzo!>>
Quando aveva attaccato sette paia d'occhi lo fissavano in attesa, una gamma di sfumature tanto famigliari quanto ancora sconosciute, che seppero dargli tanta di quella sicurezza ed affetto che se ne sentì quasi sopraffatto, troppo tutto assieme.
<< Ha detto che non fa nulla, ha riso.>>
Non dovette raccontare nient'altro, i suoi amici tirarono un sospiro di sollievo e come se avessero ricevuto un segnale comunque ricominciarono a schiamazzare come loro solito.
Will li guardò sorridendo come un ebete, felice di aver finalmente confessato tutto al nonno e ancora più felice che i suoi amici si fossero offerti tutti di fargli da sostegno morale.

<< Rise sarebbe entrata nel telefono a picchiare tuo nonno se ti avesse sgridato!>> rideva Jajekc battendo la mano sulla schiena della bambina che annuiva orgogliosa al pensiero che gli altri la conoscessero così bene, Will non dubitava che gli avrebbe strappato la cornetta di mano per litigare con suo nonno.
<< Dobbiamo fare quella cosa!>>
Si voltò verso Alexander che era corso a recuperare lo zaino abbandonato sul divano, estraendone il quadernone nero e facendo sorridere tutti concordi.
Will invece corse in camera sua, veloce come un fulmine, per aprire il cassetto del suo comodino e prendere un pacchettino piatto e non più grande di una noce. I passi affrettati degli altri lo raggiunsero nella cameretta, sedendosi in cerchio a terra come aveva appena fatto lui. Poi Alexander gli passò la Guida e Will aprì il pacchetto: ne estrasse una piccola toppa autoadesiva, uno cerchietto che pareva un bollino, bianco di sfondo e con i bordi rossi scintillanti, di qualche tonalità più chiaro della scritta centrale abbellita da un fiore di ibisco stilizzato. L'idea gli era venuta pochi giorni dopo la loro prima lezione di musica ma c'era voluto un po' per trovarla, alla fine sua madre l'aveva ordinata online pur di fargliela avere esattamente come diceva lui.
L'applicò con attenzione nell'ultimo buchetto nero, tra la toppa del mondo, quella dei Phoenix e quella del Lupo, pressandola bene con le mani piccole ed abbronzate. Osservò soddisfatto il suo operato e passò il quaderno a Ryan alla sua sinistra, lasciando che facesse il giro tra tutti prima di riaverlo in mano e tornare ad osservarlo rapito. Non si era minimamente reso conto che era al centro preciso della coperta, ma ciò non fece altro che farlo sorridere ancora di più.
Alzò lo sguardo scintillante incontrandone subito altri sette altrettanto felici e lucidi: in un anno si erano incontrati, si erano conosciuti, erano diventati amici ed avevano riempito assieme quelle due copertine, fino a giungere all'ultimo tassello.
Glielo aveva ispirato la canzone ma anche uno dei racconti di Rise, risalente alla sua prima visita al Maniero. Ricordava l'orgoglio con cui aveva parlato delle sue origini, di quelle sparse per il mondo di tutta la sua famiglia, finché fosse stata con le persone che le volevano bene lei sarebbe stata sempre a casa, e così Will aveva capito essere anche per lui.

Il viaggio forse era stato lungo, forse era durato un anno intero e non solo quelle ore necessarie per arrivare dal Texas all'Arizona, ma ora, qualunque fosse la verità, a Will non importava più.

Era arrivato, era a Casa.

“Ohana.”


[F I N E Q U I N T A P A R T E]

   
 
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