Gilbert
aveva sempre odiato la pioggia. O forse, più che la pioggia in sé, aveva sempre
odiato i temporali, la sensazione di impotenza che i tuoni gli causavano.
Sognava, spesso. Ma i suoi erano più incubi che altro: ricordi di una qualche
vita passata che lo tormentavano mischiandosi con i rimpianti di quella
attuale. E in ognuno di quegli incubi il cielo era nero, senza stelle né pietà.
La terra tremava, scossa dalle sue più profonde viscere, e lui non poteva far
altro che assistere impotente al mondo che gli si sgretolava tra le dita, ai
cadaveri martoriati e sanguinolenti. Non poteva far altro che osservare
passivamente la violenza che lo circondava, come sommerso dalla corrente, come
se non potesse far altro che lasciarsi trasportare da quel flusso infinito di
atrocità fino a diventarne lui stesso partecipe. Partecipava, nei suoi incubi
più neri, partecipava e ne godeva.
Gilbert
odiava i temporali. Odiava che i tuoni gli scuotessero il cuore portandogli
alla mente immagini che appartenevano solamente all'abisso di vuoto che sentiva
di avere al posto dell'anima. Odiava non poter fare nulla per non sentire il
fragore del cielo. E si odiava per quella sua debolezza tanto stupida, per quei
sogni così malvagi, per le passioni violente che lo infiammavano quando restava
steso nel buio della notte, pallido, nudo e tremante.
Singhiozzava, a volte, quando i tuoni gli facevano vibrare i timpani,
assordandolo. Ma non subito. Prima il cuore gli tremava, prima il sangue gli
pulsava nelle tempie, prima gli pareva di impazzire, poi, quando il lampo lo
coglieva di sorpresa, le sue labbra si lasciavano sfuggire gemiti soffocati dal
suo stesso sangue. Perché Gilbert non voleva piangere, non poteva. Se lo avesse
fatto si sarebbe solo odiato ancora di più, si sarebbe rinchiuso nella sua
debolezza per poi rinunciare al mondo e vivere sotto la campana di vetro che
quella stanza e quella casa rappresentavano.
Perché
sì, casa Nightray era una sorta di campana di cristallo sotto la quale lui
stesso si era rinchiuso volentieri. Era per una missione, certo. O almeno,
questo gli piaceva ripetersi. Aveva un compito, Gilbert, un compito di vitale
importanza. Lui doveva avere Raven. Doveva farcela, o il suo padrone avrebbe
rischiato di restare per sempre intrappolato in Abyss. Il suo padrone, la sua
sola ed unica ragione di vita, il suo ossigeno, il sangue che gli scorreva
nelle vene e le lacrime salate che gli rigavano le guance. Il suo padrone, la
sua anima.
Quello stesso padrone che una volta lo aveva abbracciato durante i temporali,
stringendolo contro il suo petto, ripetendogli che andava tutto bene, che i
sogni erano solo sogni, che adesso era al sicuro, lì, con lui, sotto quel
piumone bianco e soffice che li nascondeva al resto del mondo, al giudizio
della gente e anche a quei temporali tanto spaventosi.
Ma ora lui non c'era più, perché Gilbert aveva fallito, non lo aveva protetto,
non come l'altro aveva fatto con lui.
Faceva
male pronunciare il suo nome. Persino pensarlo. Eppure, in quelle notti,
Gilbert lo faceva: si rannicchiava sotto le coperte e si stringeva le ginocchia
al petto come quando era bambino e sussurrava il suo nome per ogni lacrima che
gli rigava il volto, per ogni cicatrice che aveva sulle mani, per ogni ferita
impressa nel cuore. Lo sussurrava fino a non avere più voce, fino a delirare, a
volte. Una volta si era ritrovato ad allungare un braccio, a tastare l'altra
metà dell'immenso letto a due piazze, come cercandolo, desiderando le sue
braccia strette intorno più di quanto non tenesse alla sua dignità.
Era
in una di queste notti che Vincent aveva aperto la porta. Gilbert non gli aveva
mai domandato come sapesse della sua situazione né Vincent aveva mai dato
l'impressione di volerglielo spiegare.
Era scivolato tra le lenzuola estive, il temporale che scuoteva i battenti
delle finestre, i tuoni che parevano far tremare la terra, il corpo di Gilbert
nudo come il giorno in cui era venuto al mondo contratto in un'inutile massa
informe di muscoli rigidi come il ghiaccio, accartocciati su se stessi, la voce
rauca e il nome del suo padrone persistente sulle labbra spaccate, la mente
ancora tormentata dall'ennesimo incubo, incubi che ogni notte erano peggiori di
quella precedente.
Gilbert si era accorto del biondo solo quando questo gli aveva circondato la
vita con le braccia magre e lo aveva attirato verso di sé, sussurrandogli
parole sconnesse alle orecchie. Si era irrigidito ancor di più, se possibile.
Persino nel febbricitante delirio nel quale la sua mente si era persa riusciva
a capire che ci fosse qualcosa che non andava, in quel momento: Vincent non
avrebbe mai dovuto essere lì. Mai.
Gilbert
se ne era accorto, delle occhiate che questo gli rivolgeva con quegli occhi
terrificanti. "Ho un figlio del Demonio come fratello" aveva pensato,
la prima volta che lo aveva visto. Certo, conosceva un'altra persona con gli
occhi rossi, ma questa non era come Vincent. Quella persona era buona, o almeno
lo sembrava. In Vincent c'era qualcosa che non andava, qualcosa di stonato e
falso sotto tutti quei sorrisi melesi e accattivanti. "Ma se lui è figlio
del Demonio... anche io lo sono?"
«Rilassati
Gilbert, va tutto bene.» Le mani di Vincent gli avevano accarezzato il corpo,
lentamente, come se persino lo stesso proprietario stesse dubitando della
realtà di quell'attimo. Gilbert se le era sentite scorrere addosso esattamente
come ci sente scorrere addosso la lingua di un serpente velenoso. Non aveva
osato muoversi, ma la tensione del suo corpo doveva aver parlato per lui. «È tutto
a posto, fratello, sono qui per te.» Vincent aveva affondato il naso
nell'incavo del suo collo e aveva inspirato profondamente, come se volesse
catturare il suo profumo, come se volesse imprimerselo nella carne e nelle
viscere. Il suo naso aveva sfiorato la pelle di Gilbert così come le sue labbra
e il corvino era rimasto immobile, come una di quelle vuote bambole di pezza
con cui l'altro si divertiva a "giocare".
«Lo
sai che non potrei mai farti del male.»
Gilbert lo sapeva bene. Vincent era lunatico, capriccioso come pochi, eppure,
sebbene non lo avesse mai dichiarato ad alta voce prima di allora, il corvino
era conscio del fatto che il fratello minore non si sarebbe mai arrabbiato con
lui, qualunque cosa lui avesse fatto. Era arrivato a pensare che avrebbe potuto
ucciderlo e questo non avrebbe fatto nulla per impedirglielo, nulla che potesse
implicare una sua più lieve ferita, per lo meno.
«Sono
qui per te» aveva ripetuto, le mani che lentamente scendevano verso il basso,
l'una sul suo fianco sinistro, l'altra lungo il torace. «Per farti stare bene.»
Gilbert aveva strizzato gli occhi ancora ricolmi di lacrime a quelle parole.
Come poteva stare realmente accadendo una cosa simile? No, doveva essere
l'ennesimo dei suoi incubi.
«Smettila, di torturarti, Gilbert, dimentica i giorni passati e pensa al
futuro.» No, non poteva, lui aveva un compito, una responsabilità, un
obiettivo, un modo per dare finalmente senso alla vita miserabile che si era
ritrovato tra le mani. Eppure... Gilbert, in quel momento, si era reso conto di
non udire più il temporale sebbene fosse certo che una tempesta del genere non
avrebbe mai potuto sedarsi tanto in fretta. Cos'era quella sensazione che gli
albergava nel cuore? Cos'era quel sentimento che gli rodeva la mente come un
tarlo sussurrandogli di lasciarsi andare, di abbandonarsi tra le braccia del
fratello?
«Non
ti farò nulla che tu non voglia, Gilbert. Lasciati andare.»
Tanti pensieri avevano riempito la mente di Gilbert quando il fratello aveva
preso in mano la sua erezione. Pensieri confusi, annebbiati, che non facevano
altro che infiammargli l'anima come non gli accadeva da anni. Perché Gilbert
ormai non era altro che un pezzo di vetro esposto al gelo invernale che ogni
giorno non faceva altro che creparsi di più.
No, era sbagliato. No, lui non poteva, Vincent non poteva davvero... Un gemito
gli era sfuggito dalle labbra secche quando il biondo aveva mosso la mano,
lentamente.
«Dimentica,
Gilbert. Fallo per me, o, se preferisci, fallo per te stess-» La frase era
stata interrotta dall'ansito sfuggito alle labbra del minore causato dallo
sfregamento del suo corpo con quello dell'altro. Gilbert si era premuto contro
il fratello, istintivamente, esattamente come aveva iniziato a strusciarsi
contro di lui: senza pensare. Non perché agognasse a contatto con la pelle
dell'altro in particolare, ma perché il cuore aveva ripreso a sanguinare e
Gilbert si era reso conto di non poter sopportare un'altra notte di lacrime
trattenuti e gemiti strozzati. Sarebbe morto se si fosse morso nuovamente la
lingua e le labbra a sangue. Sarebbe morto se avesse pronunciato ancora una
volta il suo nome.
Vincent
lo aveva stretto ancora di più contro il proprio petto, assecondandone il
movimento con gli occhi brillanti e un sorriso trattenuto dipinto sulle labbra.
Aveva sussurrato il suo nome e Gilbert aveva gemuto, gli occhi chiusi, la mente
concentrata a immaginare che quello fosse solo un sogno, uno di quei sogni
malevoli dove si faceva trasportare dall'oscurità fino a finirne inghiottito.
Perché, in quel momento, l'oscurità non gli era mai parsa più luminosa.
Vincent
si era allontanato da lui, ma era stato solo un attimo, poi la bocca del
fratello aveva accolto l'erezione ormai tesa dentro di sé. In un attimo quel
mondo tanto crudele era stato cancellato dalla sensazione del sangue che gli
ribolliva nelle vene. Gilbert aveva urlato, o almeno così credeva. Non sapeva
per quale motivo, forse era stato lo stupore per quell'azione così improvvisa,
forse per la sensazione del peso che gli opprimeva il petto che, tutto d'un
tratto, scompariva. Milioni di ricordi gli erano passati davanti agli occhi,
ricordi di quei giorni felici che aveva trascorso come servitore, ricordi di
capelli biondi e occhi verdi come i più puri smeraldi, ma nulla aveva un senso,
per Gilbert Nightray, in quel momento. L'universo era ridotto alle schegge di
vetro che aveva conficcate nelle carni che si dissolvevano come nebbia insieme
a ogni controllo. L'universo era ridotto a quel letto e alla bocca di suo
fratello che lo faceva godere.
Le
sue mani erano finite tra i bei capelli di Vincent. Li aveva tirati e stretti
tra i pugni, quei capelli, ma gli occhi erano sempre rimasti chiusi e il viso
sempre rivolto verso il soffitto. Sempre. Non voleva vedere, non voleva
pensare, voleva solo annegare nel mare di fuoco che aveva scoperto e perdervisi
dentro per sempre. Non avrebbe avuto rimpianti: il cielo per lui era sempre
stato solo un ammasso di nulla, era lì, in quel luogo oscuro e a lungo temuto,
che aveva trovato il respiro, era lì che aveva finalmente smesso di morire dopo
quattro lunghi anni.
Forse
era un debole, Gilbert non lo sapeva. Non sapeva niente, non mentre Vincent gli
teneva i fianchi serrati tra le mani e le lunghe dita sottili gli affondavano
nella carne marchiandolo come un animale. Non sapeva niente, non mentre Vincent
si spingeva dentro di lui e gli mordeva il collo fino a farlo sanguinare.
Gilbert era cieco, in quei momenti. Aveva aperto gli occhi più volte, aveva
tentato di vedere il muro blu, la testata di legno di quercia, le sue stesse
mani serrate a pugni. Aveva cercato i lampi dei temporali che odiava. Non aveva
mai visto nulla che non fosse il buio, ma non il buio delle notti
temporalesche, no, il buio dell'abisso in cui precipitava ogni volta che
Vincent socchiudeva la porta e sgusciava dentro camera sua con il passo leggero
di un lupo selvatico.
Gilbert era sordo, in quei momenti. A volte avrebbe voluto udire il temporale,
lo avrebbe voluto davvero. Perché era quando suo fratello se ne andava che i
tuoni tornavano a fargli tremare i timpani, era quando tutto quello finiva che
i lampi ricominciavano a farlo piangere. E a volte Gilbert avrebbe voluto che
tutto quello finisse, ma non lo aveva mai detto e se Vincent lo aveva capito
non se ne era mai curato. Probabilmente il biondo era cosciente del fatto che
lasciandolo solo nello stato in cui era sarebbe stato solo peggio.
Ma Gilbert non era muto, in quei momenti, quello no. Vincent lo faceva urlare,
dal dolore o dal piacere era indifferente per entrambi, lo faceva gemere
oscenamente e lo faceva supplicare. Amava
farlo supplicare. E Gilbert lo accontentava, grato.
Grato dell'oblio della tempesta, grato della propria debolezza.
Grato per quelle briciole d'amore che riusciva a raschiare dal fondo della
botte.
Grato al Cielo per avergli strappato via l'anima poiché questa, se avesse
saputo, non lo avrebbe mai potuto perdonare.
Sarò il più breve possibile, giuro. Volevo solo ringraziare chiunque abbia letto questa OS fino alla fine. Dopo secoli di mancanza di vera ispirazione l’ho buttata giù praticamente in una sola serata e mi ha fatto tornare la voglia di scrivere (ammettiamo però che anche questo paring aiuta molto).
Spero di non aver sforato nell’OOC come mi capita sempre e spero che non sia sembrata un unico delirio del nostro amato Gil :D
Dopo aver letto il finale del capitolo 33 (e dopo essere dovutamente rabbrividita) la mia mente ha iniziato ad elaborare pensieri poco consoni e da lì è uscito questo semi-delirio. Posso solo sperare di aver rappresentato bene il tipo di rapporto che, almeno secondo me, c’è tra Vince e Gil.
Ancora grazie a voi che avete letto <3
Fox2_Fox