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Autore: Nirvana_04    24/05/2017    20 recensioni
Il sangue è più denso dell'acqua: ci definisce, ci lega… ci maledice...
Freya è fatta d'acqua: la sua pelle è un tutt'uno con il mare, che le regala la sua protezione dagli occhi indiscreti delle creature senza coda; ma la luna la maledice, trasformando il suo canto in una malia senza antidoto.
E se il silenzio le permette di ammirare la città-porto di Envers e la sua bellezza incanta il marinaio più affascinante, il legame con Ajanah la trascina in vortici di dolore a cui la memoria la vincola per sempre.
Perché non posso piangere? Voglio piangere! Perché non scappa? Perché… mi ama?
«Mi ami?» gli chiedo, allungandomi verso il porto estremo.
«Non ho fatto altro da quando ti conosco» ridacchia, con una spensieratezza che gli illumina il viso – miele baciato dall'ultimo raggio di sole.

Prima classificata e vincitrice del premio "Anima selvaggia", per la migliore creatura, al contest "Echi dell'occulto" indetto da Dollarbaby e giudicato da E.Comper sul forum di Efp.
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il Fiore di Envers


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mio mondo è fatto di luce, i raggi dorati attraversano la mia gabbia trasparente. L'acqua è uno specchio che non riflette mai la mia immagine, tranne quando sfioro la superficie: per un attimo, la mia chioma smeraldina sporca la limpidezza che mi sovrasta e io posso osservare ciò che lo ha privato della libertà, della vita – la mia pelle traslucida, i miei occhi di cristallo, le mie labbra di schiuma. Poi emergo, e i cerchi intorno a me dissolvono il mio riflesso.

L'acqua ha già dimenticato il mio dolore – il suo e quello di mia sorella – ma io no.

 

 

 

 

Il porto di Envers era fatto di coralli, mercanzie pregiate che adornavano le sue piazze e che ogni giorno venivano imbarcate sui ponti delle navi più belle, caricate nelle stive per salpare verso terre lontane.

I suoi moli erano più di cento e tutti si piegavano, come bracci flessuosi, verso il largo della baia, incrociandosi e intersecandosi tra loro, per poi ripiegare verso terra. Visto dall'alto della coffa, il Fiore di Envers dava il benvenuto alle navi che entravano in porto.

«Soffia!» urlavano i marinai di vedetta sugli alberi maestri o abbarbicati sulle sartie.

Era il grido di chi, dopo lunghi viaggi per mare, poteva rimirare la grande fontana collocata al centro di quel grande intrico di pontili e ormeggi. Posta su un isolotto galleggiante, scolpita nel marmo importato dall'occidente, la fontana bianca era la stigma di quel fiore di legno, il soffio gorgogliante che sbuffava a ogni ora del giorno e della notte; su di essa si ergeva il faro di ardesia gialla, che illuminava gli spruzzi d'acqua e la rotta dei naviganti.

Ricordo ancora quando, nascosta dietro a un barilotto alla deriva, osservavo le divise blu dei marinai che bruciavano sotto i raggi del tramonto, la merce che veniva scaricata, e tutt'intorno a loro i suoni del mondo che cantavano alla vita. Le voci degli uomini si rincorrevano lungo la battigia; le urla delle donne richiamavano i mariti o i figli, molto spesso qualcuna strepitava in direzione del proprio amante. E i gabbiani – la loro è l'eco più dolente che dilania il mio cuore – garrivano al meriggio, sorvolando la fatica dell'uomo con ali spiegate e il vento a sorreggere la loro superba bellezza.

Era un dipinto da ammirare da lontano, Envers, una tavolozza di colori che s'infiammava dietro bianche vele e cordame teso tra di esse. Adesso… adesso è solo una tela affondata nella memoria, su cui i colori colano come fredde gocce che hanno il sapore del rimpianto e delle cose perdute.

Mi trovo ancora qui, nonostante tutto, seduta sul bordo di quell'isolotto raggiante. Anni fa avrei venduto la mia anima al demone nero degli abissi per poter stare così vicina al regno degli uomini anche solo per un istante. Adesso vivo al centro del Fiore di Envers e annaspo in cerca di quelle luci rumorose che si appannavano dietro le vetrate delle locande.

La fontana alle mie spalle non zampilla più. Il faro sopra di me è spento e abbandonato. I pontili sono deserti e il loro legno marcisce. Il tramonto è sangue che imbratta le nere pareti e i vetri frantumati delle case. Se c'è vita al di là di questo sfondo, a me non è concesso saperlo. Envers è l'unica città che dà sull'oceano – la mia gabbia – ed è l'unica dimora dell'uomo che io posso osservare.

La rema sulla baia trascina l'acqua del mare a purificare la sabbia e la dura pietra; ma essa, quando si ritira, resta limpida e insensibile ai dolori della terra. Il male cova ancora sulle sponde.

 

 

 

 

Il sangue è più denso dell'acqua: ci definisce, ci lega… ci maledice[1]. Ajanah amava quanto me la libertà, osservare lo strano acquarello di Envers all'alba e spiare la tangibile virulenza dei marinai a lavoro sugli alberi o con i piedi penzoloni dalla falca. Questi fumavano una strana sostanza che si mischiava all'odore della loro pelle e che pungeva il nostro olfatto. A me nauseava, Ajanah ne era attratta. Restava incantata ore a studiare un uomo con la pelle di cuoio e il corpo pieno di cicatrici aspirare quel veleno come il più potente degli afrodisiaci – oppio che offusca la ragione, ecco cos'era. Mia sorella era sempre stata una sirena testarda, volubile e capricciosa, e l'idea di innamorarsi di un umano l'affascinava. Mio padre sbuffava dinanzi al suo ennesimo capriccio e guardava dall'altra parte mentre ero io che la inseguivo in superficie, contro ogni ragione. Mentre io mi lasciavo sedurre dalla vita sulla terra, lei si arrovellava con l'immagine distorta che l'acqua le mandava della bellezza dell'uomo.

L'idea divenne ossessione, però, e infine si tramutò in un desiderio accecante. Ajanah – questo lo scoprii molto dopo, quando ormai era tardi – aveva iniziato ad avventurarsi sempre più vicina alla terraferma, senza di me. Il marinaio con le cicatrici l'aveva scorta e aveva ricambiato con incredulità il suo sguardo. Lei aveva lasciato che le sue scure mani toccassero la liquidità lucente del suo corpo, si era lasciata accarezzare i capelli celesti e infine si era fatta sedurre dalle rozze parole esotiche di un uomo avido e sporco.

«Torna da me, bella mia» la chiamava a sé ogni notte. «Resta con me un altro po'.»

E ogni volta giurava il suo amore, e ogni volta pretendeva un pegno in cambio: un corallo, una perla, un osso di balena… tutte cianfrusaglie che noi sirene amiamo raccogliere dal fondo del mare. Infine, però, si prese con l'inganno ciò che nessuna di noi può donare: la protezione del mare.

Sapete, la nostra pelle è fatta d'acqua, riflette la luce, ci orna con i colori dell'arcobaleno. Se provaste a scorgerci dentro i mulinelli di settembre, quando l'acqua e il cielo si confondono in un infinito di meraviglie, vedreste l'azzurro del nostro corpo farsi schiuma e il bianco dei veli – le nostre pinne sono come strascichi che ci accarezzano il corpo – diventare trasparente; intravedreste il nostro scheletro d'argento brillare tra le squame e seghettarsi come una chitarra di ossa nel nostro velo caudale, farsi talmente sottile e fulgorante da brillare come corallo. E su tutto, la prodezza del mare: ci rende sfuggenti, traballanti come fiammelle su fusti di cera… incorporee come le onde che si abbattono sulla terra.

Tempo dopo scoprii che l'olio, che il mare ci offre come protezione, è anche l'essenza più ricercata dai marinai di ventura. Loro l'avevano scoperto per caso, una scia di luce che la coda di qualche mia sorella si era lasciata dietro; e Ajanah ne era completamente ricoperta, brillava sotto i raggi traditori della luna.

Il mare ci proteggeva con la stessa sostanza del suo cuore, e Ajanah aveva osteggiato tale dono con troppa innocenza davanti all'avidità dell'uomo. Il fumo che le labbra di lui trattenevano bruciò la purezza di mia sorella, macchiò la sua anima e inscurì il suo bel volto. Mentre l'asprezza di quella sostanza soffocava la sua pelle, l'uomo tirava via con lame affilate la lucentezza del mare dal suo corpo. Abbandonò il sangue del mio sangue sulla spiaggia e se ne andò lontano dal mare, dove avrebbe fatto fortuna.

Trovai Ajanah che galleggiava alla deriva aggrappata a un barile, l'acquosità della sua bellezza solcata da vene rosseggianti di umiliazione e tormento. Il suo corpo non riusciva più a contrastare le correnti, la sua pelle era straziata e… spiccava! Spiccava come uno scoglio in mezzo alla vastità del mare. Oh, quanta pena mi fece! Vedo ancora i suoi occhi trapassarmi con tanto odio quanto i miei la coprirono di pietà e la fecero arrossire più del dolore già inflittole dalle lame dell'uomo.

Non vi fu pace né rimedio per quel marchio maligno: la sirena più bella si era trasformata nella figlia sfregiata del demone nero degli abissi. Il tradimento fu l'onta che più di tutte imbruttì la sua anima; lo sfregio sul corpo si trasmise come la peste sulla sua coscienza. Il demone nero degli abissi dimora nelle oscurità più tetre dove neanche il mio popolo osa avventurarsi. L'ira di Ajanah, però, proliferò tra i banchi di squali e le correnti che trasportavano la mia famiglia; corrose la barriera corallina, e anche il più piccolo mollusco soffocò tra i suoi tentacoli di rancore. La "strega di Envers", sussurravano tutti al suo passaggio, mortificandola ed emarginandola.

Ajanah si chiuse in un funesto silenzio, si ammantò di nera morte e verde terrore; e solcò i mari con austerità e pericolosa fermezza, rifugiandosi tra i recessi della Lama, il faraglione di roccia da cui tutti si tenevano timorosamente alla larga e dove molte navi si erano incagliate nelle notti di bufera.

Avrei tanto voluto saperle donare la pace, ridarle indietro la sua bellezza e l'amore di un popolo che la osteggiava con ribrezzo. Andai con lei, per creare quella parvenza di affetto che le era stato negato. Il mio sangue, mi dissi, le avrebbe ridato il coraggio di tornare alla luce. Ma le oscurità della Lama divennero il suo tepore costante e la mia presenza il riflesso di quell'onta subita.

«Ti amo, Freya, adorata sorella» era solita cantilenare mentre le spazzolavo i crespi capelli – l'acqua si rifiutava di illuminare il celeste delle sue ciocche. «Guarda come sei bella. La luce che emani incanterebbe qualunque creatura… anche l'uomo più spregevole penderebbe inerme dalle tue labbra.»

«Nessun uomo avrebbe scelta, Ajanah, se io lo baciassi.»

Nessun marinaio avrebbe mai baciato un'incantatrice delle nebbie. Per loro siamo leggenda, un mero miraggio che gli uomini raccontano nelle taverne mezzi sbronzi e colmi di fantasia – o così è stato prima. Ci dipingono come seduttrici-mangia-uomini, belve orrende che la luna schizza tra le onde di bellezza divina. Ma vero è che, se il mare ci ha donato la sua discreta protezione, la notte lussuriosa ci ha armato d'incanti maledetti: un nostro bacio dura per sempre.

Tutto quello che desideravo era soffocare quelle idee angoscianti. Tutto quello che mi chiese Ajanah fu la vendetta: un uomo le aveva tolto la protezione del mare, un uomo le avrebbe fatto dono della protezione degli uomini. Il Fiore di Envers, primo porto della terraferma e baluardo della civiltà di coloro senza coda, sarebbe diventato l'avamposto perfetto per la violenza di un cuore spezzato.

 

 

 

Perché, padre mio, non mi hai concesso la grazia di dimenticare? Ricordo… ogni cosa…

Cammina come un vecchio uomo, ma la sua pelle è tesa e i suoi capelli sono scuri come la pietra del molo; a piegare le sue spalle e a rendere incerto il suo passo c'ha pensato il fumo nero, quello che i marinai trattengono tra i denti come le labbra di un'amante.

So cosa lo spinge così vicino al mare, il bisogno impellente lo conduce a me. L'uomo cala le braghe, ma io non intendo perdere altro tempo – la puzza dei rifiuti di una locanda mi dà la nausea.

«Marinaio, uomo di mondo» lo chiamo a pelo dell'acqua, l'unico punto in cui le mie labbra possono pronunciare la lingua degli uomini senza apparire come un gorgoglio minaccioso.

L'uomo s'immobilizza, ebbro d’illusioni per credere fino in fondo nella stranezza di ciò che gli si para davanti: una donna ricoperta di veli che galleggia poco oltre la battigia; una fanciulla che sembra in difficoltà.

«Aiutami, marinaio.»

Non servirebbe neanche scandire quelle ultime parole. L'uomo si getta in mare come una papera starnazzante e sbatte le braccia – sembra annegare, come fa a non affondare? – saltellando goffamente verso di me.

Non si rende conto che la riva è sempre più distante, non si accorge che l'ombra della Lama lo sovrasta. I suoi occhi non dubitano delle mie intenzione nemmeno quando l'oscurità della grotta ci sommerge e gli impedisce di scorgere la mia figura. A questo punto è la mia voce che lo guida verso di me. A pelo d'acqua possiamo parlare; avvolte dalla notte possiamo sedurre con il nostro canto.

Il baluginio verdognolo di cui è ammantata la casa di mia sorella si riflette nello sguardo vitreo del disgraziato. Le mie mani sfiorano la sua pelle, eludono le sue dita fameliche e lo spingono per l'ultima volta verso le profondità di quegli antri.

«Marinaio…» lo chiamo.

«Marinaio!» invoca il suo nome Ajanah, surclassando la mia voce.

L'uomo, ormai, può gattonare come un cieco sulla riva, sopra lo scoglio, nei recessi della grotta. Striscia sul nero strascico di mia sorella e, inerme, le si dona per placare un po' della sua rabbia. Un bacio, ed è per sempre suo, dormiente nell'abbraccio leggero delle profondità marine.

«Lascia che vada insieme agli altri» mi ordina mia sorella, e insieme guardiamo il corpo affondare, l'acqua chiudersi come un sudario sul suo volto e il pallore della pelle svanire nella pece del mare.

«Quanti ancora, Ajanah? Non credi che sia ora di smettere? Gli uomini di Envers si stanno insospettendo.»

«Freya, pensi che il mio dolore si sia dissolto? Hai dimenticato, sorella, quanto male mi ha fatto l'uomo?» Allunga le sue braccia – più simili a tentacoli venosi oramai – e artiglia le dita, come a voler strappare la protezione del mare dal mio volto; poi mi accarezza come faceva da bambina. «Consolami, sorella.»

L'acqua mi ha donato la più perfida delle maledizioni: la mia memoria è fallace, ricorda solo quello che la ferisce di più. Ma nel momento in cui cerco di arraffare le immagini di Ajanah quand'era ancora la creatura più effimera, ecco che queste mi sfuggono come aridi granelli di sabbia – sterili e vuoti come le pozzanghere lasciate dalle maree sulla riva.

Nascondo il ribrezzo per la vicinanza di quella sirena sconosciuta; soffoco in un sorriso malinconico il rancore verso una vita che non sarebbe dovuta essere. Ajanah è pur sempre mia sorella, e io resterò al suo fianco fino alla fine.

«Quanti ancora?» sussurro, determinata e pronta a tutto.

Provo sollievo quando si dirige verso i recessi della sua tana, mi ritraggo quando le sue parole graffiano il mio cuore.

«Quanti ancora? Quanti vuoi tu! È carne rovinata quella che mi porti.» L'ira sferza la distanza tra noi, per un attimo la rende incolmabile. La voce raschia contro le pareti di roccia, si fa tuono e si abbatte, tiranneggiando, su di me. «L'uomo ha strappato al mare la mia bellezza. Devi rubare a Envers il suo fiore più bello. Lo farai per me?» mi seduce con dolcezza, ma per quanto la sua voce si fa fievole e velata, io posso quasi vedere il veleno con cui ella tesse quelle parole.

Se fossi donna e potessi piangere, verserei sangue dagli occhi. La sua voce è la lama più subdola. Ma è pur sempre la voce di mia sorella. «Se esiste, io lo condurrò da te.»

Dopotutto, posso ancora mettere fine a questa follia. Ne basta solo uno.

 

 

 

 

Lo conobbi prima ancora che lui imparasse a distinguere me dai riflessi dell'oceano. Era bello perché era virile. Il suo corpo era fatto di carne, i suoi muscoli erano forza e durezza, perfetti quando si contraevano per lo sforzo; la sua pelle era macchiata dal sole e mi piaceva il suo profumo quando iniziava a sudare.

«Puzzano» diceva mia sorella degli uomini che conducevo a lei. Su di lui, però, io sentivo l'odore della terra e della fatica, e non badavo a nient'altro, tranne che…

I suoi occhi erano lastre di cobalto, rosseggiavano quando la sfera di fuoco toccava il mio mondo e ne insanguinava i lontani orizzonti.

La prima volta che quello sguardo mi scorse, vidi le nuvole affacciarsi davanti a esso. Lui intercettò uno spruzzo – la mia coda dispettosa – ed eccolo lì a cercare il mio fantasma dappertutto, tranne dov'ero io. Ricordo quando fui delusa nel momento in cui scosse la testa e si voltò. Se solo lo avessi lasciato andare allora…

Divenne un gioco per me: era divertente attirare la sua attenzione sull'oceano, verso di me; poi guizzare ai margini, dietro uno scoglio, e osservarlo mentre si affannava a trovarmi.

Un giorno lo vidi seduto sulla punta di un molo, nascosto alla vista degli abitanti proprio dall'ombra della fontana – esattamente dove sono stesa io adesso. Si tormentava le mani per il nervosismo, giocava con i lacci della sua blusa e corrugava la fronte mentre tentava di sfidare il rosso del tramonto per perforare il pelo dell'acqua. Parlava: da solo e allo stesso tempo con me, con quello spruzzo d'acqua che gli dava il tormento.

«Mi chiamo Daniel e… beh, credo di essere pazzo.» Se le voci avessero un colore, la sua sarebbe stata della stessa lucentezza di quella sostanza dolciastra che gli umani mettono sopra i dolci… come miele. «Sono qui a parlare a uno scoglio o a qualche pesce che si diverte a saltare ogni tanto. Chissà cosa mi è preso…?»

Stava per andarsene quando la mia coda fendette un'onda dietro di lui. Si voltò e io sparii nel mare, inghiottita dalla corazza del mio mondo.

«D'accordo, sono pazzo. Resto!» Ricordo i suoi occhi spalancati mentre tornava a sedersi sulla scomoda roccia. «Resto con te.»

Gli uomini non sapevano veramente di noi. C'erano storie, leggende da marinaio superstizioso che tenevano compagnia nelle notti di burrasca: raccontavano di sirene e mostri marini, creature fatate e pericolose che ingannavano e divoravano le persone trascinandole negli abissi dell'oceano. Ogni tanto qualcuno diceva di averci avvistato a largo di qualche isola o nei mari del sud, molti attribuivano a noi l'affondamento di vascelli e navi. A Envers, la voce che una di quelle creature stesse fagocitando i suoi uomini si stava spargendo come una nube sull'oceano.

Non so se Daniel ci credeva o era solo un tentativo disperato il suo; so solo che non mi ha mai guardato con disprezzo o paura, neanche quando ho legato le mie labbra alle sue.

Tornò su quello scoglio ogni volta che la sua nave rientrava in porto; io lo seguivo di nascosto durante le sue traversate. In un certo senso mi sentivo fortunata: le donne di terra erano costrette ad aggrapparsi agli scogli del porto e ad attendere angosciate il ritorno dei loro mariti; io potevo guidare l'uomo che amavo tra le correnti più impervie e lungo le rotte più rocambolesche, custodendolo dalla capricciosità delle acque e dalle mire di Ajanah.

Più mi allontanavo da lei, più il mio cuore gorgogliava di gioia, gli spiriti d'aria giocavano di nuovo con me e io riuscivo nuovamente a sorridere a quel mondo che proliferava, distante un colpo di pinna. Ma era da mia sorella che tornavo, sempre e comunque; e ogni volta portavo in dono un uomo, e ogni volta non era abbastanza. Ormai c'erano cadaveri ovunque, corpi in decomposizione su ogni spuntone di roccia e riva della grotta. E in tutto questo, il mare restava a guardare: osservava e dimenticava, e poi scrutava di nuovo. Quante suppliche futili ho rivolto a mio padre! Quanta rabbia ha tormentato le mie notti! Ajanah era sempre più capricciosa, e il mare sembrava non capire. C'erano volte in cui la distesa di blu si alleava con le sue smanie e portava a lei povere anime che non erano riuscite a raggiungere il porto sicuro. In quelle circostanze mi aggrappavo a un'onda e scorrevo come una corrente improvvisa tra quelle avverse, cercando e sorridendo quando realizzavo che lui non era tra quelle vittime.

L'acqua, difatti, è l'anima più capricciosa che esista, peggio di un bambino che punta i piedi o di un cavalluccio marino che attorciglia con sgarbo la coda. L'oceano – la mia casa – è imprevedibile e incorruttibile: l'istinto lo porta a far del bene o del male, senza scrupolo. Egli non ha coscienza e dimentica troppo in fretta per portargli rancore. Difatti, come si fa a odiare un infante che non conosce morale?

 

 

 

 

Daniel diceva che ero uno spirito del mare, la figlia del più grande mistero del mondo.

«Sembri fatta di schiuma e seta» mormorava mentre, con tremore reverenziale, sfiorava la mia pelle diafana e creava giochi d'acqua sulla mia guancia. «È come toccare la superficie del mare più cristallino.»

Sì, alla fine avevo commesso lo stesso errore di mia sorella: avevo lasciato che l'uomo di terra sfiorasse la mia pelle, che le sue mani tenessero un po' per lui la protezione del mare. Ero diventata preda di un mostro ancora più pericoloso di quello che aveva ghermito Ajanah. Io lo amavo! Lo amo ancora…

C'era una tacito accordo tra noi due: ognuno restava nel suo elemento; ci sfioravamo a limite dei nostri mondi, senza che l'uno toccasse veramente l'altro. Quante volte Daniel mi pregò di cantare per lui? Quante provò a farmi spiccicare anche una sola parola?

Era lui a cantare per me. La sua voce non era stregata, ma sapeva incantare; le sue parole non erano una malia ingannatrice, ma riuscivano a mostrarmi ciò che io non potevo raggiungere. Mi raccontò delle terre lontane che lui aveva visitato. Mi cantò le ballate che alcune donne tribali intonavano durante le notti di luna piena. E attraverso la sua voce, dentro i suoi occhi, riuscivo a volare. Superavo l'uomo e il mio essere sirena. Ero un gabbiano sorretto dalla sua presenza! Ali spiegate accarezzate dalle sue labbra!

«Canta per me!» m'invogliò un giorno, interrompendo il flusso dei suoni.

Io scossi la testa, spaventata.

«Parlami! Di' qualcosa!» mi supplicò.

Era tornato a tormentarsi le mani, a torturare il lembo della sua blusa. Cosa vedeva in quel momento attraverso la superficie? L'acqua aveva increspato la mia sagoma, ne aveva dipinto un'immagine distorta, forse minacciosa?

«Il capitano della nave in cui lavoro è sparito. I marinai dicono che è stato catturato, fatto prigioniero dalle orrende creature che dimorano la Lama.» Le sue parole incespicavano nella lingua, ogni suono veniva pronunciato con ritrosia.

Quella fu la prima volta che desiderai ardentemente la capacità di poter piangere. Come fai a mostrare il tuo dolore? Puoi urlare, sbuffare contro un'onda… eppure avrei tanto voluto piangere. Sì, sarebbe stato il modo più intimo per fargli capire quanto stessi soffrendo.

Affondai. Lo sentii rincorrermi, ma ero già lontana, difesa dai turbini freddi dei miei fondali.

 

 

 

 

Il capitano lo avevo catturato io. Io! Perché non mi spazzi via, allora? Perché, vita, hai deciso per me il fato più angoscioso, il ruolo più pietoso? Non ti basta quali scelte ho fatto finora? Quanto vuoi divertirti con la mia anima?

«Guarda, sorella» mi sussurra all'orecchio, i suoi capelli che macchiano l'acqua con ciocche di un azzurro slavato, sporco. «Guarda che bella nave.»

La riconosco: posso distinguere i capelli di Daniel molleggiare al vento, riccioli di sole che sventolano sul ponte di sopraccoperta. Lui è lì, a un passo da me. L’osservo asciugarsi la fronte con il dorso della mano, detergersi il viso con alcuni spruzzi d’acqua e sorridere a un suo compagno. I suoi occhi fendono la distesa di blu. Sta forse cercando me?

«Una nave bella, deve avere marinai affascinanti» cattura la mia attenzione la voce di Ajanah

«Non sempre la bellezza degli occhi si riflette nel cuore, Ajanah» cerco di persuaderla.

«Io non ero forse la sirena più bella?»

«Lo sei ancora, per me.»

«E non ero io, forse, ad avere il cuore più puro?»

Mi lascio galleggiare sotto il pelo dell'acqua, le labbra che soffiano sulla superficie. «Non l'hai ancora perso. Se solo…» Mi sporgo verso di lei, la liquidità della mia fronte increspata come rema sulla sabbia.

«Me lo hanno strappato. Sì, hanno rubato il mio cuore» urla e poi attenua il tono, le sue labbra sempre più violacee. L'acqua sta diventando il suo peggior nemico, vedo la sua pelle squamata ricoprirsi di piaghe. «Riprendilo, Freya. È su quella nave, lo sento.»

Ajanah aveva preso di mira la nave di Daniel, sentiva il profumo inebriante… lo stesso che l'aveva ridotta in quello stato. E io, disperata, avevo condotto a lei l'uomo più prestigioso del vascello: era bello, potente, vigoroso, sapevo che possedeva la stima degli uomini della città. Un uomo illustre di Envers, ecco su chi avevo riposto le mie illusioni! Ma erano le mie parole a tormentarmi: non sempre la bellezza degli occhi si riflette nel cuore…

Fuma, il capitano, un grosso bastone ricolmo di polvere che offusca il suo fiato e la sua immagine, nascondendolo dietro a una nuvola di amarezza. Mentre mi avvicino alla piccola barca su cui egli si è steso, ammirando il cielo, un pensiero mi rapisce: Daniel non puzza di quell'odore, non ha mai respirato il fumo; le sue labbra non sono annerite, ma candide e rosee come la tea più delicata. Scaccio quel pensiero – infame sussurratore di verità abbiette – e, con una fretta che rivela le mie ansie di donna, rifiuto la compagnia di quell'uomo. Approfitto, invece, della sua distrazione e, con un po' di fatica, tiro la carena della nave controcorrente, con lentezza esasperante. La luna è una suadente luminescenza nascosta da una sottile nebbiolina. Le esalazioni di fumo e schiuma celano le rocce frastagliate della mia nuova casa.

È solo quando la bocca della Lama si chiude sopra di noi che il capitano si riscuote dal suo torpore. Incremento il movimento di coda, chiedo aiuto a mia sorella. Forse è troppo lontana, non mi sente. Cerco di guidare la piccola barca sugli scogli ma qualcosa mi ferisce: è una lama. Ne ho vista una simile legata alla cinta di Daniel. Una volta l'aveva tirata fuori e me l'aveva mostrata: lucida e argentea, brillava come una perla. Ora quella stessa lucentezza ha incrinato la liquidità del mio corpo. Uno dei miei veli – la pinna branchiale – è stato tranciato, l'olio che lo ricopre si sta disperdendo tra le piccole increspature dell'acqua. Sono costretta a lasciare il legno e a riemergere. L'uomo, però, mi individua subito e si lancia verso di me. Il suo peso mi costringe ad annaspare sott'acqua. L'oceano mi toglie per un attimo il respiro. Non posso proteggermi dalla sua mole, ma la sua morsa si scioglie quasi subito intorno a me. Riemergo per la seconda volta e mi trascinò verso il centro della grotta, lontano dalla barca e dalla brutalità ferina dell'essere senza coda. Dalle secche dell'oscurità, finalmente la voce di mia sorella viene in mio soccorso. Inizia a cantare. L'uomo si tappa le orecchie tra le onde, calandosi nei recessi del nostro elemento. Lo sento smuovere il mare alla nostra ricerca.

«Sorella, aiutami. Mi farà del male. Di nuovo!» Ajanah strepita, voluttuosa, quasi fosse un gioco sfuggitole di mano, ma stavolta la sua voce è come fango e mi si attacca addosso.

Non importa se quell'uomo sta cercando o meno di avere salva la sua vita; non m'interessa se l'istinto – il più forte sopravvive – lo spinge a lottare come un leone. E dimentico persino che non è stato quell'uomo a usurpare Ajanah. In quel momento, tutto ciò che vedo è la profanazione sul mio corpo, tutto quello che provo è l'onta di dolore rabbia e vergogna che deturpa la mia pelle: l'essere senza coda non può dominare dentro la mia casa!

Sfreccio tra le secche, raggiungo mia sorella. Il capitano non può respirare, ha bisogno d'aria. Quando riemerge, uno spicchio di luna perfora le nubi e scandaglia le rocce della Lama, un faro che illumina l'uomo a corto di energie. La malia della notte è un veleno verde che spira verso di lui, lo circonda. L'uomo non può sfuggire. Sono io che scivolo nella sua direzione; sono io che stringo le braccia intorno alle sue spalle e, infine, gli rubo la libertà. Il capitano non vedrà più la luce, non comanderà più alcuna nave. Il corpo affonda mollemente, sfiora la mia pinna e sprofonda in abissi da cui io sento di dover già scappare.

Il vuoto che sento mi spinge verso Ajanah. «Sorella» la supplico. La rabbia ha lasciato il posto alla paura e a un'angoscia che minaccia di affogarmi.

«Perché hai condotto quell'essere spregevole a me?» La strega della Lama non ha parole di consolazione nei miei riguardi. È livida e la sua voce frustra la distanza tra noi come tentacoli di morte.

«Io volevo… io pensavo che… oh, era il mio dono per te.»

«Per me? Non so nemmeno che sapore abbiano le sue labbra! E guardati» mi indica, «le tue squame perdono la protezione. Come farai senza la tua bellezza?»

«Basta, ti prego. Guarda a che punto siamo arrivati! Quell'uomo non sarà l'ultimo che tenterà di colpirci! Dobbiamo smetterla. Guarda a cosa ha portato il tuo odio.»

«Pensi che non meriti più qualcosa di bello dalla vita?» mi tormenta la voce di mia sorella.

Ajanah è afflitta – dalla sua solitudine, dal riflesso che rinnega, dai soffusi fumi che contaminano il suo cuore; ma più soffre, più desidera far male a ciò che la circonda, far male a me. Un pensiero orrendo mi viene sussurrano dall’oceano: lei ti odia, tu sei tutto ciò che ha perso. Lo scaccio rabbrividendo. Non importa quanto dolore annebbia il suo buon cuore, io saprò amare per entrambe e ridarle ciò che ha perduto. Eppure il vuoto nel mio petto si fa sempre più grande, la consapevolezza che ho allontanato con così tanto accanimento si rigetta su di me, mille volte più forte.

«Meriti il meglio» la consolo, sporgendomi verso di lei e ignorando il mio, di dolore.

«Allora dammelo» urla, facendomi sobbalzare. La sua voce si strascica come dita sulla fiancata di una nave. «Portami… lui!»

 

 

 

 

Come farai senza la tua bellezza?

L'acqua non ha memoria; per questo è così limpida. Le maree sconquassano i relitti del passato come lo sbattere frenetico delle ali di un colibrì: troppo in fretta per catturarne la bellezza, lasciano un vuoto incolmabile nell'anima di chi, quel volo, ha avuto la disgrazia di imprimerselo negli occhi meravigliati.

Io amavo Daniel. E la cosa più orripilante è che lui ricambiava il mio amore. Non era la protezione del mare che bramava; non era la mia bellezza che lo incatenava a mirarmi al tramonto, a un soffio dalla sua terra. Lo capii troppo tardi, però. Ancora una volta…

«Sono qui, amore mio» mi invoca dagli abissi. È ancora lì, dove l’ho lasciato, dove per un attimo ho provato a rinnegare la mia natura.

È la corrente che mi spinge di nuovo verso di lui. Con un colpo di coda mi blocco a un passo dal molo, prima di sfracellarmi sugli scogli. Ho provato a fuggire, a rinnegare quello che il dolore mi soffia addosso; ma la sua voce mi riconduce a lui, ancora sofferente e colma di malessere. Il mare è in tempesta, il cielo si sta caricando di energia prima di liberare la sua ira – quella di mia sorella.

«Non posso restare qui con te.»

I nostri occhi si spalancano all'unisono, entrambi sorpresi nel sentire la mia voce solleticare il pelo dell'acqua.

«Parlami ancora, te ne prego.» Sembra non rendersi conto del pericolo.

Vedo già la volontà del suo viso perdersi in espressioni di contemplazione; lo vedo sciogliersi come neve a un soffio da me.

«Non posso restare con te» ripeto.

«Allora lascia che venga io da te. Ovunque» si sporge.

L'aria è elettrica. Sembra che il mondo stia per finire. In mezzo a quel pandemonio, le sue parole sono un'ancora che mi trascina a fondo con sé: struggenti e malinconiche, fanno spiccare un volo al mio cuore che finisce con un risucchio, le ali che smettono di battere proprio quando raggiungo il cielo.

Perché non posso piangere? Voglio piangere! Perché non scappa? Perché… mi ama?

«Mi ami?» gli chiedo, allungandomi verso il porto estremo.

«Non ho fatto altro da quando ti conosco» ridacchia, con una spensieratezza che gli illumina il viso – miele baciato dall'ultimo raggio di sole.

«Sei ferita?»

Il mio viso, lentamente, segue la direzione del suo sguardo e si posa sulla macchia traslucida che brilla intorno a me.

«Il mare mi sta ripudiando» pronuncio, sconvolta e impaurita. «Diventerò come lei» mi sconvolgo a pensare. Sento nell’inflessione della mia voce quasi un senso di estraneazione: scopro che, dopotutto, non m’importa.

«Amore mio» mi richiama, «che ti hanno fatto?»

Sento il dolore uscire come placebo dalle sue labbra. Desidero aspirare quel patimento, bramo che quel male diventi mio. «Aiutami» lo imploro.

Daniel non esita un solo istante: la sua mano è un filo di carne che brucia il mio volto con il suo calore, increspa la mia pelle e mi cattura come una rete. Ma sono le mie labbra, alla fine, che lo fanno prigioniero.

 

 

 

 

«Sorella.»

Ajanah si stacca dalle tenebre, la sua figura irriconoscibile. È la sensazione che crea nel mio cuore – un palpito che minaccia di spegnersi per sempre – che mi permette di riconoscerla. Quell'epiteto con cui mi rivolgo a lei ha perso tutto il suo valore: la strega di Envers è solo la più pesante delle catene che mi spinge verso questa follia.

«Sei venuta a compatirmi, Freya? Adesso che il mare ti sta abbandonando, puoi capirmi, cara sorella?» La sua voce è rammaricata, dell'amore che provava per me rimane solo quella pallida gelosia; ora può anche freddarsi, visto che anche la mia bellezza sta sfiorendo.

«Ti ho portato un dono, sorella. Se non posso ridarti il tuo cuore, allora ti dono il mio.» Il corpo di Daniel riaffiora dalle nere acque, dormiente.

Ajanah si avvicina con timore reverenziale, ammirandone la pura bellezza. «Lo sento» sussurra meravigliata, «il fiore più bello… per l'essere più triste.»

«Lui potrà consolarti…»

Ajanah assaggia le sue labbra inermi con frenesia, le martoria con passionevole odio, dimenticandosi di me. E io resto a guardare…

Mi sento svuotata, perduta. E in quella voragine sempre più profonda nel mio petto, riaffiorano i fantasmi della mia anima: tutti coloro che ho catturato e condotto in quella grotta emergono, pallidi e con gli occhi spalancati e lucenti; i relitti delle navi affondate solcano le onde come macabri scheletri che fili invisibili sorreggono con la loro perfidia. Il cielo è sempre più scuro, il mare sconquassa i punti saldi riducendoli a fragili appigli. Il porto di Envers sta per essere investito da un maremoto d'orrore.

«Vieni, sorella» mi solletica la sirena, «prendiamoci la nostra vendetta.»

Un'eco che solca quell'inferno stiletta il mio petto: è il garrito dei gabbiani, che volano via per sempre. La loro paura sarà il loro verso d'addio per me e per le luci di Envers.

 

 

 

 

La costa è preda della risacca. Il mare è una tavola piatta che culla le bare dei caduti. Gli unici fiori sono quelli smorti che galleggiano; i superstiti li hanno lanciati in mare come ultimo saluto – o come simbolo di accusa – verso le cose perdute quel giorno; poi se ne sono andati via.

Sono finalmente sola con questa città – ciò che ne resta. I fuochi sono stati spenti o si sono estinti al culmine della loro foga tempo fa. Il mare, come allora, brontola innervosito; forse sta per cedere a uno dei suoi capricci – o forse se ne scorderà, chissà, e il vento di bonaccia tornerà ad accarezzarne la superficie cheta. Allora non fu così.

Ajanah è una belva ferita aggrappata alla Lama. Guarda gli scheletri del suo esercito salpare verso il porto di Envers: non attraccheranno mai, ma continueranno la loro navigata fino a schiacciare ogni più limitrofo mattone. Mia sorella non si accontenta di aver rubato l'anima più pura al mondo degli uomini: vuole privarlo per sempre del suo fiore, tenendo per sé ciò che di bello rimarrà alla fine: Daniel.

La sua vendetta si rivolta anche contro di me: ho tormentato le sue veglie con la mia perfetta presenza; ella mi ha sussurrato all'orecchio fin quando non ho ceduto di mia volontà ciò che avevo di più caro. Non l'ho forse servita al meglio? Non ho disincantato i miei occhi solo per cercare di colorare i suoi? Devo aver sbagliato qualcosa, perché adesso il fantoccio dell'uomo che amo è ritto, vicino alla sua coda, e il suo sguardo vaga sul mondo senza veramente vederlo. Il mio amato non c'è più, è stato tradito dalle mie labbra.

Gli uomini stregati si gettano contro i loro stessi compagni, i loro amici, le loro amanti. Non c'è pietà per nessuno, neanche per i più indifesi. Il fuoco attecchisce e brilla alle estremità del porto, correndo verso l'entroterra. I vascelli nemici prendono fuoco e colano a picco; quelli guidati dal potere di mia sorella sfilano tra le fiamme come fantasmi tra le mura di una casa, senza incontrare alcuna resistenza. Il Fiore di Envers, con i suoi pontili e la sua battigia, sfuma in tonalità di morte, il faro al suo centro che punta accusatore verso il cielo, in trappola. È al rogo! Accusato di aver brillato più delle perle intrecciate tra i capelli del popolo del mare!

L'odore acre delle ceneri al vento ricopre come funesta fuliggine il paesaggio e piove sulle acque agitate del mare. Metà del mio busto resta a galleggiare sopra il pelo dell'acqua, ancora una volta vorrei riuscire a vomitare sale. Sento gli uomini strepitare ordini e urlare dal dolore; le donne pregano gementi al cielo e verso il silenzioso invasore. Fa paura la sfilata di quei relitti in quella sinistra quiete. Volgo lo sguardo verso mia sorella, implorante, e i miei occhi si dilatano dallo stupore: Daniel sta piangendo. Il suo sguardo segue la sinuosità della costa e poi si fissa sul mio, come richiamato da una forza trainante. Vedo le lacrime brillare come diamanti sul suo incarnato dorato, scivolare come se fossero figlie del mare. Allora capisco. Ajanah non può averlo, lui è mio, e lo sarà per sempre, nel bene e nel male. Daniel piange per me, al posto mio. Posso sentire il suo cuore straziante urlarmi: ovunque, con te.

Anche nell'oblio degli abissi? Nelle fauci del demone nero?

Un ricordo riaffiora. Daniel mi sta sorridendo. Lo vedo piangere mentre con gli occhi della mente il suo viso si distende in una timida carezza.

Le mie labbra intessono l'ultimo inganno. Daniel ha ancora legato alla vita la lama d'argento. La mia voce guida le sue mani olivastre verso la meta. Due volte il colpo mi ferisce mortalmente: quando la lama spegne la luce verdognola dagli occhi di Ajanah e quando vedo il suo esercito sprofondare tra le rocce frastagliate. Il mare perde interesse per la riva, sembra addormentarsi insieme all'ira. Gli uomini piangono, e così fa anche il cielo, mettendo fine a quell'orrore. La cenere viene bagnata e trascinata a mare, dove le acque cancellano tutto con la loro eterna trasparenza.

Invoco il nome del mio amato, lascio che lui torni a me per l'ultima volta. Non esiste sortilegio che possa riportare indietro la sua volontà; ormai, è solo un burattino nelle mie mani. Tendo le braccia verso di lui, lo lascio galleggiare tra le onde, con la testa sul mio seno. Finalmente sono io che canto per lui, come egli desiderava tanto. Canto, mentre lui piange per me. Gli dico addio mentre lui mi dona il suo ultimo ansito di umanità. Poi lo affido al mare, ed esso lo conduce tra le correnti in cui io non posso seguirlo.

 

 

 

 

E adesso, dopo tanto tempo – quanto è passato? – sento il freddo della roccia penetrare i miei veli. La ferita alla pinna branchiale si è rimarginata, quella nel mio ventre sanguina ancora. Il sangue è dello stesso colore di quello che macchiò la scura bellezza di mia sorella. Le onde si sforzano di lambire la mia coda, fugace tentativo di protrarre le mie sofferenze. Ho deciso, però: non lascerò questa roccia, se non alla mia morte.

Finalmente lo raggiungerò. Non è forse, questo, un finale felice? Ho tradito mia sorella, ho ucciso l'uomo che amavo, ho incenerito il Fiore di Envers e distrutto il ponte tra i nostri mondi. Adesso, però, lo raggiungerò.

Che queste parole, semmai qualcuno le vorrà conoscere, rimangano impresse in questa maledetta roccia, dove il suo cuore ha palpitato per me, la sua sirena; che il mio sangue – acqua di mare – le scolpisca tra le pietre frastagliate di questa tetra città, che le scavi, erodendo la pietra nera, in queste terre emerse direttamente dagli abissi. Se Envers risorgerà come araba fenice, io non sarò qui a vederla: è giusto che gli artefici di questa disgrazia periscano tutti, che liberino il mondo dalla loro presenza. Non posso negare che ho paura: di ciò che è accaduto all'anima di Ajanah – se n'è salvata almeno una parte? – di ciò che accadrà a me, quando il mio corpo fluirà tra le onde e il mio spirito verrà trasportato dalle mie cugine silfidi. E non vedrò più i gabbiani… Mi sarebbe piaciuto volare ancora una volta insieme a loro, ma non c'è più Daniel, accanto a me, a cantare del cielo e delle meraviglie del mondo. Le mie ali sono andate a fuoco insieme al fiore più bello.

A me resta solo questo faro spento; agli uomini queste macerie. Al mare… il mare non ha bisogno di doni: prende e porta via con sé tutto ciò che può arraffare, dimenticandosene al giungere della prossima marea. Si è preso la mia famiglia, ha trascinato con sé il mio marinaio… prima o poi si ricorderà di risucchiare anche me.



[1] Frase liberamente ripresa dal film "Dark Shadow".

   
 
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