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Autore: Adeia Di Elferas    25/05/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il Cardinale Raffaele Sansoni Riario si sfregò le mani l'una contro l'altra, mentre firmava la carta di cambio destinata a Baldassarre da Milano.

La notizia che il suo Cupido Dormiente sarebbe arrivato nel giro di poche settimane lo aveva messo così di buon umore da fargli persino dimenticare le angherie che il papa gli faceva subire in riflesso alla sua insofferenza per alcuni dissapori familiari di cui il Cardinale non sapeva e non voleva sapere nulla.

Duecento ducati, una somma più che notevole per un piccolo quadro, ma Raffaele era un collezionista sempre più avido e i soldi non gli mancavano. Tolti quelli che destinava al mantenimento del cugino Cesare Riario, il Cardinale percepiva stipendi più che bastanti non solo per vivere, ma anche per indulgere in vizi come il collezionismo.

Riguardò l'intestazione e la cifra, per essere certo di aver scritto correttamente e poi suonò il campanello e uno dei suoi servi arrivò all'istante. Gli diede il documento, pregandolo di consegnarlo subito al mercante che attendeva fuori e poi si andò a coricare trasognato sul triclinio damascato che aveva posto vicino alla finestra aperta.

L'aria dell'aprile romano gli riempì i polmoni con una vitalità inaudita e, mentre socchiudeva gli occhi e incrociava le braccia dietro la nuca a mo' di cuscino, Raffaele fece vibrare le narici e sospirò, soddisfatto del colpo appena messo a segno.

 

Appena ebbero finito di mangiare, Caterina e Giovanni lasciarono la sala dei banchetti e si avviarono vero il cortile d'addestramento.

“Forse ormai conoscerete questa zona della rocca, ma è il cuore pulsante della vita di Ravaldino, dunque mi pare opportuno iniziare da qui.” spiegò la Contessa che, nel camminare, si portava sempre mezzo passo avanti all'ambasciatore fiorentino che, un po' per reverenza, un po' per comodità, lasciava questo breve spazio tra loro senza provare a colmarlo.

In più, restare a mezzo metro di distanza dalla donna, permetteva a Giovanni di osservare i riflessi dorati dei suoi capelli biondi e lunghi, lasciati sciolti sulla schiena, mentre la luce del sole li lambiva. Osservò con tanta attenzione da notarne anche qualcuno molto più chiaro degli altri, anzi, qualcuno proprio bianco.

Non lo trovò un difetto, ma un valore aggiunto. In fondo la Contessa Sforza non era più una ragazzina e quel velato segno del passare del tempo le conferiva ancor più autorità, rendendola allo stesso tempo molto più umana e terrena di come non la descrivessero i suoi detrattori più accaniti.

La Tigre mostrò al Popolano la sala delle armi, vantandosi un po' di alcuni pezzi veramente pregiati, alcuni arrivati da Ferrara e altri da Milano, e l'uomo parve davvero comprendere la qualità dei trofei di Caterina.

La donna ne rimase molto soddisfatta. Le piaceva potersi sentire orgogliosa dei propri acquisti ed era molto difficile trovare qualcuno che capisse a fondo il valore delle armi e delle armature che aveva acquistato. Era una sensazione che non provava da tempo. D quando aveva avuto ospite il cognato Alfonso d'Este, uno dei pochi – eccezion fatta per i suoi soldati migliori – con cui avesse potuto parlare di certi argomenti trovando un degno interlocutore, la Contessa non era mai più riuscita a discorrere in modo tanto filato e animato di armi e guerra.

Quando aveva provato a coinvolgere suo marito Giacomo nelle sue dissertazioni, il risultato era sempre stato tanto deludente da innervosirla e, a lungo andare, aveva interrotto ogni tentativo.

Giovanni, invece, anche quando venne condotto a visionare l'artiglieria e le fortificazioni attorno alla rocca, risultò entusiasta di ogni cosa e sapeva fare i commenti giusti al momento giusto, condendo i suoi interventi con domande interessate a cui la Tigre rispose con grande piacere.

“E questo fossato?” chiese il Popolano, quando dall'alto dei camminamenti videro l'opera difensiva, quasi ultimata, che stava a poca distanza dalla rocca.

Dalla morte di Giacomo, Caterina non aveva più fatto ultimare i lavori di quella miglioria. Il fossato era già di buona dimensione e fattura, ma non era ancora perfetto. Poco importava. Quello era l'ultimo lavoro a cui suo marito si era, bene o male, dedicato. Sarebbe rimasto così e basta, almeno per il momento.

“Abbiamo deciso di non ultimarlo.” rispose laconica la Contessa, senza indugiare in spiegazioni che avrebbero solo sollevato ulteriori domande.

Aprile stava soffiando su di loro un vento leggero e profumato di campo, quando nel breve giro attorno alla rocca, dopo aver oltrepassato il piccolo orto coltivato a erbe officinali e piante da frutto, si trovarono a costeggiare il Paradiso.

Caterina stava tirando dritto, come faceva ogni volta che finiva per passare da quelle parti, senza nemmeno alzare lo sguardo verso la casupola che era stata per tanto tempo il suo rifugio dai problemi e dal mondo.

“Quel piccolo edificio a cosa è adibito?” chiese il Popolano, candidamente, senza riuscire a immaginare a cosa mai potesse servire quella costruzione proprio in quel punto.

Per di più, da una serie di piccoli dettagli, si capiva benissimo che era abbandonata. Dunque, a maggior ragione, in un regime al risparmio come quello della Leonessa di Romagna, uno spreco del genere pareva quanto meno fuori posto.

La Tigre accelerò il passo, mentre il fiorentino si affrettava a starle dietro, e rispose denti stretti: “È solo...” si schiarì la voce, cercando le parole più adatte, e alla fine optò per una spiegazione che in realtà non spiegava nulla, così come aveva liquidato anche la domanda sul fossato rimasto incompiuto: “Questo edificio non viene più usato da un po' di tempo e non verrà mai più usato da nessuno. Dunque, non è di vostro interesse.”

Giovanni si accigliò, il ginocchio – che pur l'aveva lasciato libero da attacchi acuti, da quando era a Forlì – che gli doleva un po' per via dell'andatura svelta imposta dalla sua guida: “Se è dismesso, qualunque cosa fosse, perché non lo demolite come state facendo con il vostro palazzo? Potreste usare i materiali per...”

Caterina sapeva benissimo che non c'era nulla di male nelle parole dell'ambasciatore. Avevano parlato a quel modo fino a quel momento. I suoi consigli erano solo in linea con i piani che lei stessa aveva confidato in merito al riutilizzo dei laterizi recuperati da strutture ormai inutili.

Tuttavia, anche il solo pensiero di distruggere con le sue mani una delle poche cose che ancora le ricordavano prepotentemente il tempo trascorso con Giacomo, riaccese in lei il focolaio sempre latente della rabbia.

“Non sono affari vostri.” specificò, con voce ferma e minacciosa, fermandosi tanto bruscamente da rischiare che il Popolano la finisse addosso: “Anzi, ora che ci penso, forse vi sto anche dando troppe informazioni. Dovrei ricordarmi più spesso il cognome che portate e la città da dove venite.”

Giovanni strinse le labbra, un ricciolo ribelle che veniva sospinto dal vento leggero sulla sua fronte e, mentre i suoi occhi chiarissimi, francamente addolorati per la piega tesa che stava prendendo la conversazione, si puntavano all'orizzonte, disse: “Io sono qui in amicizia, senza alcun motivo per arrecarvi danno, mi pareva d'averlo già detto.”

“Voi forse siete in buonafede.” concesse Caterina, ricominciando a camminare, per non dover più sostenere la vista del Paradiso, che, negletto e dimesso occhieggiava verso di lei come un muto ammonitore, a ricordarle quello che era stato e quello che mai più sarebbe tornato: “Ma voi lavorate per la repubblica fiorentina e non credo che il Gonfaloniere di Giustizia si farà i vostri stessi scrupoli nell'usare certe informazioni contro di me. Sappiamo molto bene che Firenze, per esempio, non vede di buon occhio il matrimonio tra mia figlia e Astorre Manfredi.”

Giovanni allacciò le mani dietro la schiena e fu costretto ad ammettere: “I timori di Firenze sono per le amicizie dei Manfredi, non per altro. Venezia sembra troppo interessata a queste terre e la nostra repubblica ha affari economici che potrebbero essere lesi da un'espansione della Serenissima.”

La Tigre accennò un segno d'assenso, ma si sentì in dovere di replicare: “Davvero credete che io ci tenga ad avere rapporti con Venezia? Non sapete cos'hanno fatto per fermare la mia avanzata in Romagna?”

Il Popolano, allungando ancor di più il passo per non restare troppo indietro, confermò: “So bene cos'hanno fatto e so anche che il vostro alleato, Pandolfo Malatesta, è stato con voi di parola, ma solo fino a un certo punto.”

“Non doveva essere una passeggiata rilassante?” fece allora Caterina, piccata, sentendosi sempre più messa all'angolo dalle osservazioni dell'ambasciatore fiorentino.

Un inviato straniero tanto acuto e attento forse a Forlì non c'era mai stato. Anche se avrebbe dovuto esserne infastidita e basta, la Contessa trovò quella situazione anche potenzialmente edificante. Da troppo tempo non poteva confrontarsi con qualcuno da pari a pari e quel Medici pareva essere capace di darle del filo da torcere.

“La repubblica fiorentina non potrà sapere nulla, comunque, se io non riferirò nulla oltre alle solite banalità.” riprese Giovanni, abbassando i termini e riacquistando i toni pacifici con cui era partito all'inizio del loro giro.

Qualcosa, nel tono fiero e un po' ostinato dell'uomo, smosse in parte il macigno che stava tornando sull'anima della Contessa, tanto che sulle sue labbra affiorò a sorpresa l'ombra di un sorriso.

Il Popolano lesse quel debole segnale come un sintomo di distensione, così si permise anche di aggiungere: “Vi posso assicurare anche che Firenze ha tutto l'interesse nel trovare degli accordi con voi, anche a lungo termine. La repubblica capisce il vostro valore, oltre al valore della vostra terra, e ha desiderio di esservi amica e non nemica.”

“Dubito fortemente che quel domenicano, Savonarola, abbia interessa a essere mio amico.” azzardò la Tigre, con un'alzata di sopracciglio.

“Savonarola ha molti seguaci, lo ammetto, ma non è l'unica campana che suona a Firenze – precisò l'ambasciatore – e se ha dalla sua una buona parte del popolo e del governo, tutti gli altri hanno più buon senso di lui e io lavoro soprattutto per loro.”

“Allora perché non cominciate ad avanzare delle proposte?” lo incalzò Caterina, mentre il sorriso si dileguava: “Da quando siete qui, non avete ancora riferito nulla di importante da parte della vostra repubblica. Immagino, quindi, che per il momento vi siate limitato a fare la spia.”

Giovanni si offese un po' per quell'insinuazione, soprattutto perché, in linea teorica, si trattava di una verità.

Suo fratello e, ancor di più, la Signoria, gli avevano in effetti già richiesto più volte dei resoconti dettagliati e critici, che comprendessero soprattutto un elenco delle difficoltà, fossero esse economiche, belliche o di provvigione, della Contessa Sforza Riario.

Il Medici aveva fatto orecchie da mercante con il governo, riportando solo cose di cui Firenze era già al corrente da tempo, mentre con Lorenzo era stato un poco più franco, badando bene, però, a specificare come fosse importante, per il momento, non lasciar trapelare troppe informazioni agli altri membri della Signoria.

Ripensando a quello che aveva scritto e alle risposte ottenute man mano, Giovanni, che stava sempre seguendo la Contessa ora diretta verso la città, disse: “Vi dico ancora una volta di più che non sono qui per fare la spia. Vi posso giurare che mi sto comportando in modo molto leale nei vostri confronti.”

“Non ne avreste motivo.” commentò la Tigre, aggrottando la fronte e passando accanto alla statua che ritraeva Giacomo senza neppure sfiorarla con lo sguardo: “Non siete un mio suddito, né un mio parente, né un mio alleato. La vostra lealtà nei miei confronti non ha fondamenta.”

Il Popolano notò all'istante quella strana ritrosia al guardare la statua. Se la Contessa non osava alzare gli occhi sull'effige dell'uomo per cui si era macchiata di azioni orribili come la repressione mossa contro la sua stessa classe nobiliare, poteva significare solo due cose. O, per lo meno, a Giovanni vennero in mente solo due possibili spiegazioni.

La prima, molto semplice, stava nel fatto che forse le voci contro di lei erano vere; cioè la Leonessa di Romagna aveva davvero ordito in prima persona quell'omicidio, lavandosene poi le mani e approfittandone per ricostruirsi un governo di stampo militare, forgiandolo a sua immagine e somiglianza.

La seconda, che Giovanni trovava più convincente, per quanto incredibilmente più triste, trovava ragione nel dolore ancora immenso provato dalla Contessa. In quel caso, anche solo vedere un volto inciso nel bronzo sarebbe stato troppo pesante e forse l'avrebbe portata a mostrarsi debole. A maggior ragione davanti a uno straniero, era necessario controllarsi, da lì la sua ostinazione nel rifuggire in ogni modo tutto ciò che le ricordasse il suo amante rimasto ucciso a fine agosto.

Mentre il fiorentino ancora ragionava su queste due possibilità, Caterina lo aveva portato fino alla piazza centrale di Forlì.

La donna discorreva sull'opportunità di mettere a punto nuove fortificazioni usando i materiali di recupero del palazzo, sui mercati che si tenevano in piazza a cadenza regolare, sulle confraternite religiose che si occupavano di questo o quello e intanto avanzava per le vie della città fermandosi di fronte a ogni chiesa o luogo importante per accompagnare la spiegazione alle immagini.

Giovanni ascoltava con un orecchio solo, però, perché la sua testa era ancora impelagata in domande che poco avevano a che fare con la politica e la planimetria di Forlì.

Quando passarono accanto alla chiesa di San Girolamo, il Popolano si accorse che per la prima volta nel passare davanti a un luogo di culto la Tigre non si era soffermata per spiegare che confraternita vi abitasse e pregasse né per elencare i fatti saliente ricollegabili a quella zona della città.

Al contrario, aveva fatto passi più lunghi e più rapidi di prima, zittendosi del tutto, fino a che non erano arrivati nella strada adiacente, dove aveva ripreso il discorso elencando le tipologie di botteghe presenti in quella via.

Giovanni non ebbe bisogno di chiederlo, per sapere che il corpo del Barone Feo era sepolto proprio in quella chiesa. Avrebbe indagato, forse, più tardi e da solo, con casualità, domandando a uno dei servi o a qualche forlivese, ma era certo di non sbagliare.

Il giro della città si concluse quando ormai stava arrivando la sera e l'aria si stava facendo molto più fredda.

Il Popolano sperò che quella lunga camminata non fosse causa nei giorni successivi di un nuovo attacco di gotta. In ogni caso, si disse, quando rientrarono a Ravaldino, non si sarebbe in alcun modo pentito di aver accettato quell'opportunità più unica che rara.

Sulla via del rientro, lui e Caterina si erano permessi qualche chiacchiera più informale, con maggior rilassatezza, abbandonando per qualche minuto le vesti dell'ambasciatore e della Contessa, e avevano scoperto, con reciproca sorpresa, di avere gusti letterari abbastanza simili.

“Non avete mai letto il Boccaccio?” aveva chiesto a un certo punto il fiorentino, quando ormai erano in vista della statua di Giacomo Feo e della rocca.

La Contessa aveva stretto gli occhi, lasciando che le sue iridi verdi riflettessero la luce rossa del sole morente per qualche istante e poi, dopo aver cercato di ricordare, aveva scosso il capo, ammettendo: “No. L'ho sentito nominare, quando ero una ragazzina, ma se non sbaglio il suo libro era vietato... O comunque mal visto da Santa Madre Chiesa – disse quelle ultime parole con un velo di ironia che era andato a sommarsi alle cose su cui Giovanni si riprometteva di ragionare per decifrarla meglio – e quindi a Milano non ricordo di averne mai trovata una copia. Poi, se devo dirla tutta, non ci ho mai più pensato e non l'ho mai cercato.”

“Vero, il volume di Boccaccio ha avuto una sorte un po' infelice... Se volete – aveva proposto allora il Popolano, che in fondo aveva sperato in una risposta simile – posso prestarvelo io. Ne ho con me una copia personale che vi lascerei molto volentieri per tutto il tempo necessario. Così potete dirmi se vi garba o meno.”

Caterina aveva accettato e ringraziato e così, quando i due avevano attraversato il ponte, le guardie li avevano visti ancora intenti a sorridersi con un'allegria che quasi stonava contro il grigiore che in quei mesi inglobava la vita di Forlì.

Cesare Feo, che stava sui camminamenti, vide la scena e si chiese che mai avesse di così straordinario da dire l'ambasciatore di Firenze alla Contessa, dato che , per quel che ricordava lui, era stato l'unico, da quando Giacomo era morto, a essere capace di far tornare il sorriso sulle labbra della Tigre.

“Senza fretta – disse Caterina, una volta arrivata con Giovanni nel cortile – potete portarmi il vostro libro anche a cena o domani, non preoccupatevi.”

Il Popolano, che si era appena proposto di fare un salto in camera a prendere il Decameron, capì che non era il caso di mostrarsi troppo impaziente, per non parere invadente, così fece un cenno del capo e si congedò dalla sua signora che, forse proprio per indurlo ad andarsene per i fatti suoi, aveva dato di voce a un paio di soldati che si stavano addestrando e stava facendo mostra di volersi dedicare ai loro esercizi.

La Contessa ricambiò il saluto cortese dell'uomo e cominciò a chiacchierare con i suoi armigeri.

Giovanni si allontanò di malavoglia, a passi lenti, e, mentre raggiungeva la penombra delle arcate, nel sentire la voce lamentosa di un bambino piccolo, voltò appena il capo per vedere che fosse accaduto.

Il figlio più piccolo della Contessa, Bernardino Carlo Feo, le stava correndo incontro recriminando qualcosa tra le lacrime. Alle sue spalle, con andatura strascicata, stava arrivando un soldato che Giovanni aveva da pochi giorni saputo chiamarsi Mongardini.

Il bambino, di cinque anni e mezzo scarsi, si era lanciato senza indugio verso la Contessa e le aveva stretto le gambe in un abbraccio scosso dal pianto, aggrappandosi con le manine alle larghe pieghe del gonnellone.

Caterina guardò il figlio e poi Mongardini con aria interrogativa.

Il soldato allargò le braccia e disse, abbastanza forte da lasciar involontariamente sentire anche Giovanni: “Ha sentito dire da delle reclute delle cose su suo padre e...”

Il Popolano si mise contro una delle colonnette e attese per vedere la reazione della Tigre che, ne era certo, non si era accorta di essere ancora sotto sua osservazione.

Caterina si inginocchiò, in modo da poter guardare in viso suo figlio. Averlo così vicino era uno strazio. Nella sua espressione sperduta poteva rivedere il volto di Giacomo. Era come riaverlo davanti a sé e, allo stesso tempo, era il modo più crudele per ricordarsi il senso di vuoto e l'ineluttabile realtà.

Facendosi forza, la Contessa indurì lo sguardo e riuscì a passargli con delicatezza una mano sui capelli mossi.

Il bambino, un po' sorpreso da quello che si sarebbe potuto definire uno slancio di tenerezza da parte della madre, smise di piangere e, controllando a stento un singhiozzo, puntò gli occhi in quelli della donna.

“Non devi ascoltare quello che dicono su tuo padre.” disse Caterina, con la serietà e l'autorevolezza con cui avrebbe potuto parlare a un soldato: “Nessuno lo conosceva davvero, a parte noi. Lui ti ha voluto bene come nessun altro avrebbe potuto. Era un uomo capace di amare. Solo di questo deve importarti. Tutto ciò che sentirai dire dagli altri su di lui non conta nulla. Solo noi due sappiamo quanto tuo padre fosse importante.”

Bernardino tirò su col naso e annuì con la testa, così la Contessa si rimise dritta e fece mezzo passo indietro: “Ora torna ai tuoi esercizi.” disse al piccolo che, rincuorato dal discorso della madre, corse verso la sala delle armi.

Mongardini fece per seguirlo, ma Caterina lo fermò per dire: “Prendete le reclute che parlavano male di mio marito. Che passino un paio di notti in cella a rischiararsi le idee. Ah, e a loro non dite che sarà solo per due notti. Lasciate che credano di doverci morire, là sotto.”

L'uomo fece un mezzo inchino e chiese: “Devono anche essere passati ai ferri?”

La donna parve pensarci per qualche istante, poi scosse il capo: “Non per questa volta, ma se episodi simili ricapiteranno in questa rocca, soprattutto se davanti a mio figlio, allora non ci sarà alcuna pietà per i colpevoli.”

Mongardini piegò il capo di nuovo in segno di obbedienza e ripartì. La Tigre sospirò e, passata ogni voglia di allenarsi con spade e scudi, fece retrofront per salire in camera.

Solo allora si avvide di Giovanni, ancora mezzo nascosto dietro una delle colonne. Lo guardò con aria di sfida e il Popolano per un momento ebbe il terrore di essersi mangiato i progressi dell'intero pomeriggio in quei pochi minuti.

La Tigre, però, apprezzando il fatto che il fiorentino non avesse bassato gli occhi, ma anzi, avesse sostenuto il suo sguardo mentre lei lo sfidava in silenzio, gli passò accanto, e, senza guardarlo più, gli disse, con un sorriso noncurante: “Aspetto presto il vostro libro di Boccaccio, messer Medici.”

 

Isabella d'Aragona fissava, senza riuscire a trovare né parole né lacrime, il corpicino senza vita della sua figlia più piccola.

I suoi altri tre bambini erano in un angolo della stanza, immobili e attoniti, incapaci quanto lei di comprendere a fondo quel che fosse successo.

Semplicemente, dopo qualche rantolo affannoso, la piccola, di nemmeno un anno, aveva smesso di respirare. E non aveva più ripreso a farlo.

Isabella l'aveva tenuta stretta a sé, l'aveva chiamata a voce bassa, poi l'aveva scossa un po', ma le gambe erano rimaste penzoloni, come le braccia, e la sua pelle, quasi trasparente da quanto s'era fatta pallida e sottile, aveva iniziato a raffreddarsi.

Passarono ore, prima che la guardia si accorgesse di quello che era successo. Guardò dentro quasi per caso, e vide la donna riversa sul corpo diafano della piccola, mentre Francesco, Bona e Ippolita restavano fermi come soprammobili dal lato opposto della stanza, spaventati e sconcertati dalla presenza così viva e palpabile della morte.

Il soldato, che verso la Duchessa Isabella aveva sempre avuto un certo riguardo, si precipitò dentro e provò a sentire se la bambina ancora respirava o se il suo cuore batteva. Capì subito che tutto era inutile, perché la vita l'aveva lasciata da tempo.

Il visetto di Bianca Maria era spigoloso, acuminato, il suo torace portava i segni della malnutrizione, non aveva muscoli ed era troppo minuta per la sua età. Non c'erano dubbi sulla causa della sua morte.

“Se solo avessi avuto ancora del latte...” sussurrò Isabella, sentendosi improvvisamente colpevole per la morte della sua ultima figlia.

La guardia dovette deglutire un paio di volte, prima di riuscire a parlare senza piangere: “Non è colpa vostra. Non mangiavate abbastanza, per nutrire anche lei... Chiamo qualcuno che si occupi di lei.”

Isabella, incapace di opporsi, guardò il soldato uscire e richiudere la porta a chiave. Dopo qualche minuto l'uomo tornò con un paio di braccianti e assicurò alla donna che il corpo della figlia avrebbe ricevuto una sepoltura cristiana.

L'Aragona tenne gli occhi spenti fissi sul corpo di Bianca Maria fino a quando non la portarono fuori e poi andò a stendersi sul letto. I suoi altri tre figli andarono a sdraiarsi accanto a lei, troppo deboli per disperarsi, e Isabella socchiuse gli occhi, chiedendosi quando sarebbe arrivata la morte anche per loro.

 

Virginio Orsini era arrivato a San Severo con i suoi trecento soldati e poi aveva virato verso Selvapiana, dove si era ricollegato al Montpensier e a Mariano Savelli.

La vicinanza di quei due condottieri non gli andava proprio a genio Virginio, ma almeno a quel modo le schiere filofrancesi andavano ingrossandosi, contando millequattrocento cavalieri, millecento lance, seimila fanti imperiali e svizzeri, e altri diecimila reclutati negli Abruzzi, in Calabria e tra i guasconi.

Cesare d'Aragona, coadiuvato da Luigi da Capua, Prospero Colonna e Annibale da Varano aveva lanciato battaglia non appena era stato loro abbastanza vicino da impensierirli, ma ne aveva uccisi solo un'ottantina, prendendo circa venti prigionieri.

Virginio, per prudenza, era rimasto nelle retrovie, pur detestando quel metodo di comando, e non era riuscito a guidare l'azione come avrebbe voluto.

Pochi giorni dopo, poi, l'Orsini si era sentito ancora una volta vecchio e inutile, quando aveva provato a opporsi alle razzie di bestiame da parte dei napoletani.

Numericamente era in vantaggio, ma gli mancò l'occhio abbastanza lungimirante da anticipare i nemici e così le scorrerie erano continuate per oltre una settimana, fino a che Cesare d'Aragona non diede ordine di smetterla.

Ripensava a tutte queste cose, Virginio, mentre si controllava un'ultima volta i lacci delle piastre dell'armatura.

Quel giorno sarebbe stato d'appoggio a Camillo e Paolo Vitelli, sul Chilone, e doveva viverla come l'unica vera possibilità di riscatto da tante settimane di umiliazioni.

Si specchiò nel catino d'acqua che stava accanto al suo pagliericcio. Faticò a riconoscersi nel volto stravolto e sudato che ricambiava il suo sguardo. I baffetti arricciati e l'azzurro delle iridi furono le uniche cose che lo convinsero che quel vecchio era proprio lui.

Con un pesante sospiro, il signore di Bracciano afferrò l'elmo e, tenendolo sotto il braccio, uscì dalla sua tenda per raggiungere gli altri comandanti e prepararsi all'attacco. Quella volta non sarebbe rimasto nelle retrovie.

 
   
 
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