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Autore: Master Chopper    25/05/2017    2 recensioni
E' obbligatoria la lettura di '[SoF] Saga della Nascita' e di '[SOF] Saga dei Sette Peccati Capitali' per la comprensione delle vicende e degli avvenimenti trattati.
Il viaggio di Tengoku sta per concludersi, catturare Xian per costringere Sebastian alla resa pare l'unica possibilità di vittoria.
Ma cosa ha spinto il Boss degli Anonimato ad essere il peggior avversario che i Vongola abbiano mai affrontato?
Cosa rivuole indietro e qual è la sua vendetta?
- STORY OF A FAMILY: SAGA DELLA VERA FAMIGLIA -
Genere: Azione, Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro Personaggio, Reborn, Tsunayoshi Sawada
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Stories of a Family [SoF]'
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Target Number 4: Cogli una rosa, spezzale la vita.




1987

 

Iniziò tutto con un fastidio quasi impercettibile, simile ad una puntura di spillo.

Con il passare del tempo, gli occhi si spalancarono percependo un dolore insopportabile.

 

Era atroce, gli divorava i polmoni ed il fegato come un acido, aprendogli i capillari dall’interno.

Il suo corpo stava implodendo per colpa di un qualcosa nascosto sotto la pelle, il quale provava insistentemente a raggiungere la luce.

Se avesse potuto parlare, l’unica cosa che avrebbe detto sarebbe dunque stata: “Fa male.”

 

“ Un’altra volta non ha funzionato proprio un cazzo !” Tossendo e rigurgitando del catarro, un uomo anziano chino su di una macchina abbatté il proprio pugno sul tavolo.

Si alzò, zoppicando a causa di una malattia alle gambe verso gli occhi spalancati che lo fissavano.

 

“ Continua così… e giuro su quant’è vero Iddio, che ti ammazzo.” Si avvicinava tanto da poter sentire il respiro profondo ed ansimante, poi lo afferrava per i capelli, strattonandolo a destra e a manca in uno dei suoi scatti d’ira.

Quando lo lasciava stare, dopo almeno due minuti, non si curava di slegarlo dalla sedia, e spegneva la luce nella stanza dopo essersene andato.

 

In quei momenti il dolore sussisteva, ma almeno era al sicuro.

Protetto dalle ombre, dalle voci che gli parlavano da dentro al suo corpo, c’era il bambino.

La sua pelle magra che lasciava sporgere le ossa, era ancora ferita dalle creature solite ad apparire ogni volta che lo facevano sedere su quella sedia. Insetti, simili a zanzare pulsanti di sangue, forse proprio il suo, che scoppiavano come nauseabondi palloni gonfi di carne, schizzando le loro viscere nell’oscurità.

 

E da dietro la maschera di ferro che indossava, il bambino senza nome poteva solo sperare di addormentarsi il più in fretta possibile, mentre le sue carni bruciavano al punto che se le sarebbe strappate se ne avesse avuto modo.

Non faceva altro che piangere per il dolore.

Aveva fame, sentiva dolore. Non aveva paura.

 

Sapeva che quell’uomo era solo il suo papà, così come gli altri bambini più grandi di lui che vedeva raramente erano i suoi fratelli. E quella stanza lurida e ricoperta di muffa, la sua casa.

Non poteva aver paura della sua casa, perché non aveva conosciuto altra vita al di fuori di quella.

- Solo che …-

Pensò nel silenzio, scoppiando a piangere per il dolore che non poteva lenire, a causa delle sue mani legate dietro lo schienale della sedia.

- Vorrei non provare più dolore. Vorrei che papà trattasse me come i miei fratellini.-

 

Avrà avuto all’incirca nove, o forse dieci anni, ma poteva sopravvivere molti più giorni di un normale umano senza mangiare, bere o espellere i propri rifiuti organici. Lo sapeva, sapeva che il suo corpo era diverso, suo padre glielo avrà ripetuto una quantità infinita di volte.

Per questo sapeva che lo ‘stare sulla sedia’ e subire quel dolore ogni giorno, era solo un modo per farlo diventare più forte. Ecco perché voleva bene a suo padre.

 

 

 

1988

 

“ Dieci anni… Non avrei potuto sprecare peggio il mio tempo, quattro dei tuoi fratelli erano più che sufficienti !”

Faceva freddo sul canale di scolo, in quella sera d’estate.

 

In lontananza macchine e passanti sulle strade producevano rumore, così come l’acqua dirompente nello scolo che sgorgava nelle buie fogne.

Per raggiungere quel varco oscuro bisognava seguire il canale in un salto di qualche decina di metri, sprofondando tra il muschio ed i rimasugli di rifiuti incastrati nelle pareti.

 

 La figura, inginocchiata a poca distanza dal precipizio, aveva i gomiti legati fra loro ed un sacco sulla testa.

Al di sotto, anche la bocca inondata di lacrime, era stata tappata da un capo di corda.

Tremava, per la prima volta provando paura in vita sua. Aveva capito tutto.

 

Dalle parole fredde del padre, dal freddo e dal suono scrosciante dell’acqua dietro di sé.

 

L’uomo anziano, nonostante il suo corpo stesse per cedere a causa dell’età, con quel gelo riusciva ad impugnare una pistola di fronte a sé, rimanendo immobile.

“ Ma a chi importa… quattro di loro sono già abbastanza, soprattutto per chi vorrà seguire gli ideali della Famiglia.” Mugugnò tra sé e sé, rivelando sul collo un tatuaggio appartenente ad un clan ormai stato bandito dalla mafia.

“ A me poi uno in più, uno in meno, tra l’altro mal funzionante, non cambia nulla.”

E dicendo ciò, senza esitare nemmeno per un istante, premette il grilletto.

 

La canna della pistola esplose un proiettile, risuonando nella notte fino alle stelle.

La pallottola si conficcò nel petto del bambino ai suoi piedi, prima che questi, bruciando i suoi polmoni in un grido, scivolasse nel baratro.

 

Sangue spruzzò nell’aria. Sangue si mescolò nell’acqua.

Sangue fu l’ultima cosa a venir inghiottita dal buio, prima però di quello straziante urlo soffocato, di paura.

 

 

 

 

 

1998

 

 

Liz aveva appena concluso un’altra giornata di studi quando le 14 erano già scoccate, così si affrettò a raggiungere la metro.

Frequentava il terzo anno dell’università di lingue, nonostante ultimamente iniziava a pensare che avrebbe preferito studiare letteratura, la sua più grande passione assieme al Giappone.

 

Così passava le sue giornate sui banchi sognando la terra del Sol Levante, oppure sbirciando di nascosto un passo degli autori contemporanei italiani dalla sua immancabile raccolta di romanzi nella borsa.

Forse un po’ credeva a quello che gli dicevano i suoi genitori ed alcuni suoi conoscenti, ovvero che continuando a rimanere in disparte non si sarebbe mai fatta un amico.

 

Aveva da un paio di anni cambiato città per continuare gli studi ed iniziare a vivere da sola, ma nonostante tutto il peso di abbandonare le certezze della vita da minorenne, protetta dai genitori e dai suoi amici d’infanzia, adesso le ricadeva addosso più forte.

Lavorava in un bar come cameriera part-time, appartenente allo zio di uno degli amici che aveva ormai salutato per non rivedere più.

Studiare e lavorare circa quattro ore al giorno, dal pomeriggio fino a sera, a volte le causava dei problemi.

 

- Ma senza qualche piccola difficoltà che gusto ci sarebbe ?- Si diceva spesso da sola, cercando di sorridere quando si risvegliava alle sei del mattino, dopo aver passato una notte sui libri, magari anche a poche ore da un esame.

 

 - Ho voluto io la mia vita, e non posso smettere di pedalare… o non era così ?- Si domandò curiosa in merito a quell’argomento, fermandosi in mezzo al marciapiede con un dito sul mento.

- O forse era una bicicletta… che non posso cambiare ?- Mentre continuava a pensare a proverbi e modi di dire, senza un motivo si distrasse al punto da guardare altrove, verso i raggi di sole.

La luce attorno a lei filtrava tra le foglie di un parco necessario da attraversare per raggiungere la fermata del tram, di fronte alla stazione.

 

Si stropicciò gli occhi, un attimo incerta di ciò che aveva appena visto.

Il suo sguardo mutò improvvisamente, accigliandosi e stringendo forti i pugni. Un secondo dopo stava avanzando a passo rigido e ferma, puntando quel qualcosa davanti a sé infuriata.

“ EHY !” Urlò, appoggiando i pugni ai fianchi e chinandosi in avanti con un’espressione molto arrabbiata.

 

Davanti a lei, un ragazzo pressoché della sua stessa età, sedeva ad una panchina all’ombra di un acero.

I capelli bianchi, morbidi, gli ricadevano sulle spalle, spostati dietro le orecchie per non intralciare gli occhi nella lettura. Stava infatti leggendo, prima che l’ombra della ragazza gli si parasse davanti alla luce del sole, un fumetto giapponese abbastanza noto.

 

Sollevò allora lo sguardo, notando per prima cosa davanti a sé la scollatura di lei, arrossendo. Cercò di far finta di niente e sollevò ulteriormente gli occhi, per poi indicarsi con fare interrogativo.

“ Sì, dico a te !” Ruggì Liz, spaventando l’albino avvicinando ancor di più il suo volto, e rispettivamente il suo seno a lui.

 

- Cosa vuole questa?! Ommioddio, spero non si sia accorta che le ho guardato… non sarà tipo una teppista o robe del genere ?- La mente di lui intanto era in un attimo di caos, non riuscendo effettivamente a capire perché mai gli stesse succedendo tutto quello.

“ Stavi leggendo da sinistra verso destra !” Continuò allora la ragazza, facendo scivolare una ciocca dei suoi lunghi capelli bruni sulla propria spalla, per poi farla ricadere al fianco.

“ Eh ?” rispose l’altro, sempre più confuso su cosa volesse la ragazza.

 

“ Che vuol dire EH?! Ho detto che stavi leggendo da SINISTRA verso DESTRA! Questo è un manga, se non lo sapessi, e se proprio hai avuto il coraggio di comprarlo avresti dovuto avere, come minimo, un po’ di rispetto per la cultura giapponese, e quindi avresti dovuto leggerlo da DESTRA verso SINISTRA! Capito ?!”

Dopo aver detto quelle frasi con una sola emissione di fiato, la bruna si ritrovò a boccheggiare in cerca d’aria, ma comunque rimase con sguardo furente ancora sugli occhi leggermente spaventati dell’albino.

- Ah.- Pensò allora lui, senza però dirlo per evitare un altro discorso isterico da quella specie di fanatica.

 

Infine si schiarì la gola, cercando di mostrarsi tranquillo, nonostante il seno di lei a poca distanza dalla sua faccia non lo aiutasse. E per i seguenti motivi non poté nemmeno alzarsi, così accavallò le gambe.

“ Intanto non lo stavo ancora leggendo, stavo solo sfogliando le pagine… non è certo il primo manga che leggo questo, eh.” Rispose con una punta di saccenteria, giusto per cercare di scoraggiare un’ulteriore attacco di isteria da parte dell’altra.

“ Sì, è facile nascondere la propria ignoranza: tu lo stavi chiaramente leggendo !” Lo interruppe Liz, senza nemmeno ascoltare le ultime parole.

 

Una vena iniziò a pulsare sulla fonte dell’albino, nonostante lui cercasse di mantenere un finto sorriso.

“N-no, fidati, ti stai sbagliando.”

“ Ed invece a me questo sembra proprio il manga che prenderebbe un ignorante nel settore. Guarda qui: è una schifezza stereotipata, si vede benissimo anche solo dalla copertina !” Lo interruppe nuovamente la bruna, incrociando le braccia al petto.

- No, questo no !- Si disse allora il ragazzo, ed ignorando qualsiasi conseguenza estetica, si alzò di scatto con determinazione.

“ Ma lo sai almeno che la Principessa Chou-Neko è stato un manga campione di incassi, ed ha anche un seguito incredibile? L’ho comprato proprio perché sin dalle prime pagine ne avevo già carpito il capolavoro !” Anche con un tono di voce più alto rispetto a prima, agitò il pugno nell’aria, come bruciando per la carica che gli saliva dentro parlando dell’opera che aveva appena scoperto.

 

“ Seh, che gusti di merda.” Si limitò a dire Liz, voltando anche il capo per distogliere lo sguardo seccato, freddando in un istante l’altro con quel modo di fare gelido.

“ M-m-a …” mormorò l’albino, iniziando a scivolare verso il basso.

“ E-e sentiamo, quali sono i tuoi gusti, visto che ti credi tanto un’esperta di manga ?” Nonostante il duro colpo incassato si rialzò subito, sostenendo un’occhiata di sfida ed un sorriso di chi non vuole darla per vinta.

 

A quel punto la studentessa gli rivolse lo sguardo, prima di sogghignare in maniera molto preoccupante.

In una pochi secondi gli pronunciò una lista di opere, alcune completamente sconosciute, che sommate avrebbero superato la cinquantina, con una serietà ed una compostezza incredibile.

“ Allora, cosa ne dici, pivello ?” Quando concluse calcò l’ultima parola, osservando sadicamente il ragazzo scivolare nuovamente, sconfitto.

A quel punto decise di andarsene, voltando le spalle come nei finali dei film cult.

 

Non ci riuscì, dal momento che una voce alle sue spalle la bloccò di sasso.

“ E se ti dicessi che non credo ad una parola di ciò che hai detto !?”

Si voltò con un sussulto, incrociando lo sguardo del più grande bugiardo che avesse mai incontrato, ma allo stesso tempo dell’uomo che più detestasse perdere al mondo.

“ Dimostramelo, su !” Gonfiando il petto nonostante la consapevolezza e la vergogna di star bluffando spudoratamente, l’albino si sollevò da terra forzando un ghigno di superiorità.

 

“ Non puoi ?”

“ Vieni con me.” Afferrandolo per un braccio, Liz non gli aveva nemmeno dato il tempo di concludere, lasciandolo così con un groppo in gola per la sorpresa. Gli voltò le spalle, iniziando a trascinarlo senza esitare in direzione della stazione.

 

 

In pochi minuti, senza ancora aver capito il come o il perché, il ragazzo era stato trascinato in un complesso che non conosceva.

“ Pronto a doverti ricredere ?” Gli sorrise allora beffarda la ragazza, sorprendendolo nuovamente mentre era intenta ad aprire la porta del suo condominio.

 

Si bloccò, con ancora le chiavi in mano.

“ Non provare ad entrare.” Sussurrò rapidamente, prima di correre all’interno nascondendo il volto all’altro, che la vide sparire senza poterle fare nemmeno una domanda.

 

- Ma io che ci faccio qui ?- Chiese allora a se stesso, ritrovandosi solo in un luogo che non conosceva, senza sapere nemmeno cosa fare.

Tirò un lungo sospiro e, rassegnatosi, appoggiò la schiena al muro. Sollevò la testa, guardando il cielo.

Una nuvola paffuta si muoveva a grande velocità, per niente minacciosa a causa del suo colore bianco candido.

 

Dopo qualche minuto la bruna si ripresentò, aprendo la porta con un piede. Tra le mani stringeva al petto una pila di manga, tutti con la copertina segnati dalle impronte delle sue dita, segno che li avesse letti una moltitudine di volte.

“ Toh.” Li mostrò orgogliosa all’altro, che non sapendo cosa farne, provò ad afferrarne qualcuno e a sfogliarlo.

- Che roba si legge questa ?!- Fu l’unica cosa che gli venne in mente, osservando pagine di mecha in combattimento, oppure di scene di fanservice con ragazze dotate di un seno molto prosperoso in pose ammiccanti.

Sollevò dunque un’occhiata indagatrice per capire se lei lo stesse prendendo in giro, ma l’altra interpretò quello sguardo in modo completamente diverso.

“ Senza parole, neh ?” Sorrise guardandolo dall’alto in basso, lasciandosi sfuggire una risata pomposa.

 

“ Sì, infatti me ne vado a casa, guarda …” gli rispose soltanto l’albino, lasciandola a bocca aperta mentre quello le voltava le spalle borbottando tra sé e sé.

“ S-sei solo una femminuccia !” Gli gridò allora dietro, visibilmente offesa, prima di rientrare sbattendosi la porta alle spalle senza ritegno.

 

- Femminuccia… IO ?- L’albino spalancò gli occhi e tutto quello che riuscì ad assumere fu un’espressione inebetita, mentre si indicava confuso.

 

Intanto, chiudendo la porta del suo appartamento, Liz si accasciò sul pavimento.

Era esausta dalla giornata di studi, e litigare con uno sconosciuto per circa mezz’ora non le aveva dato nemmeno il riposo meritato.

Finalmente calmata, diede un’occhiata all’orologio, sospirando nel silenzio che tra poco sarebbe dovuta andare a lavoro.

 

- Però è strano… chi l’avrebbe detto che mi avrebbe aspettata qui giù ?-

 

 

 

Quando la mattina seguente la bruna si risvegliò, per prima cosa ringraziò qualsiasi forma di divinità esistente per la domenica appena giunta.

Se n’era appena resa conto dalle coperte che l’avvolgevano, e dal materasso sul quale era distesa: il sabato sera, terminato il turno da lavoro, era assicurato che si sarebbe sempre gettata sul letto.

Le altre sere era troppo stanca per sollevarsi dalla scrivania dove studiava, così decise di godersi per almeno un’altra mezz’ora il morbido abbraccio del sonno.

 

Quando ebbe trovato la determinazione giusta, si sollevò dalle coperte e si diresse verso la doccia.

L’appartamento non era molto grande, con un salone che condivideva un piccolo angolo cucina, un bagno dotato di vasca e la sua camera da letto.

Asciugatasi, indugiò parecchio sul quanto gli passasse per la mente di uscire. Infine optò per una maglietta leggera e degli short, sorridendo ad una soleggiata giornata senza nuvole.

 

Non avrebbe mai potuto immaginare chi avrebbe trovato davanti al portone del condominio.

 

“ CHE COSA CI FAI TU QUI ?!”

Urlò stupita, rivolgendosi ad un ragazzo  che le dava le spalle, appoggiato ad un muro e ricurvo su se stesso.

Improvvisamente l’albino, sentendosi chiamato, iniziò a sudare freddo, anche perché già di suo stava ansimando senza fiato.

Si voltò cercando di sfoggiare un’espressione serena, nonostante la stanchezza ed il sudore fossero molto più palesi.

“ I-io? Bhe, mentre ti aspettavo facevo giusto le mie… mille flessioni. Sai, cose di… tutti i giorni.” Disse con una pessima interpretazione, come se non stesse provando neanche a credere alle sue stesse parole.

 

“ Eh? Aspettando ?” Ripeté lentamente la bruna, mettendosi sulla difensiva mentre con un gesto impercettibile manteneva la porta aperta dietro di sé. Stava iniziando sinceramente ad essere inquieta, e la faccia poco credibile dell’altro non aiutava.

 

“ Sì. Perché siccome tu ieri mi hai chiamato con la parola che inizia per “f” e finisce per “a”, volevo smentirti mostrandoti il mio programma di allenamenti quotidiani… in una delle più famose palestre della città.”

E dicendo questo, l’albino estrasse un foglio ripiegato dalla tasca, aprendolo per farlo vedere alla ragazza di fronte a sé.

“ Senti… scusami per averti dato della fighetta, ok. Ti basta questo ?” Ma, per l’ennesima volta lei non finì di ascoltare cosa stesse dicendo, ed indietreggiando ritornò nel suo palazzo.

“ Cosa fai, rafforzi l’insulto ogni volta ?!” Urlò esasperato il ragazzo, non ricevendo più risposta.

 

Rimasto solo col silenzio, strinse nel pugno il foglio fino quasi a strapparlo.

“ Cazzo... e pensare che ho sprecato ben un’ora della mia vita per fare jogging e non sembrare una fighetta.” Imprecò, ferito nell’anima e nello spirito.

 

 

 

Un nuovo giorno stava iniziando per Liz, questa volta risvegliatasi con la guancia su di un libro aperto.

- Come diavolo era quel proverbio ?- si chiese, iniziando a sistemare il proprio materiale per l’università dentro la borsa. I suoi occhi erano stanchi, e sentiva di aver bisogno di una doccia, anche se purtroppo non ne avrebbe potuto usufruire.

 

Avviatasi verso la facoltà, attraversò la strada verso la stazione ed i marciapiedi del quartiere appena fuori dal centro, fino a sbucare nel parco degli aceri.

La giornata si prospettava nuvolosa, con il timido cielo coperto da un velo grigio. I raggi di luce non filtravano più tra le foglie rossastre.

Non stava più pensando al proverbio, tanto meno agli studi o al lavoro che l’aspettava.

- Perché questa giornata mi sembra fin troppo… normale ?- Si domandò senza pensare ad una risposta, limitandosi a camminare con aria distratta verso l’università.

 

Un’ombra balenò alle sue spalle, non appena ebbe superato l’ultimo albero del parco.

 

Liz avvertì una stretta attorno alla mano con al quale portava la borsa, ed una presenza alle sue spalle che l’aveva colta alla sprovvista.

“ Dammi la borsa !” Sussurrò una voce misteriosa, poco prima che la bruna si voltasse e lo colpisse in pieno volto con una gomitata.

 Un’imprecazione si levò nel parco, ed i passanti si voltarono incuriositi per osservare un ragazzo cadere di schiena a terra, premendosi il naso dolorante.

 

“ Ancora tu ?!” Nel momento in cui si voltò, la ragazza sfilò il passamontagna nero che il ragazzo albino dei giorni precedenti aveva indossato per nascondere il proprio volto.

Non ricevette subito risposta, nel mentre lui non faceva altro che singhiozzare di essersi spaccato il setto nasale.

Solo allora Liz si accorse dei numerosi occhi puntati su loro due, e del silenzio appena piombato. Con una carica di adrenalina e nervosismo, agguantò l’altro dal colletto della maglia e, sollevandolo di peso, lo trascinò via in corsa.

 

Il ragazzo, proprio come due giorni prima, stava venendo trasportato come un sacco di patate, ma il silenzio della bruna questa volta non era intenzionato a dargli risposte.

Muovendosi tra le strade ed i vicoli, nell’ombra e nella folla sui marciapiedi, i due raggiunsero il retro di un convenience store, e solo allora interruppero la loro corsa.

“ Si può sapere che cosa vuoi da me ?” Domandò proprio il ragazzo, e la bruna rimase interdetta nel sentire quelle parole.

- Ma è… stupido, oppure lo fa apposta ?- Lottò contro l’istinto di prenderlo a pugni, e soffocando l’irritazione lo guardò seria.

“ Tu, piuttosto, perché hai tentato di scipparmi ?”

“ Ehm… ship ?” Rispose l’altro, confuso.

 

- Adesso lo ammazzo sul serio !- Liz sollevò il pugno, serrando le palpebre ed i denti per prepararsi definitivamente all’esecuzione che tanto agognava.

“ A-ah! Intendi la borsa ?!” Fortunatamente l’albino percepì subito il pericolo, e mettendosi sull’attenti tremando si decise a fare il serio.

“ Bhe, semplicemente volevo rubarti la borsa per poi spuntare da un angolo e poter dire di aver fermato il ladro.” Il suo tono faceva trasparire una semplicità indescrivibile, nel mentre l’altra stava impiegando un po’ di tempo per comprendere davvero se avesse detto quelle parole.

 

“ E perché ?!” Insistette la bruna, facendolo sobbalzare per aver alzato nuovamente il tono di voce.

“ Perché mi da fastidio essere chiamato femminuccia, o fighetta, o quello che vuoi tu.”

 

- Eppure mi ha fatto molta paura quando si è avvicinato da dietro… non mi sono accorta della sua presenza fino al momento in cui non ha parlato.- Lei, lasciando momentaneamente perdere l’altro, si sedette per terra senza preoccuparsi di sporcarsi la gonna.

Sospirò profondamente, maledicendosi per aver saltato gli studi.

 

“ Non c’era bisogno di scappare… o di colpirmi.” Un tono particolarmente offeso da parte dell’albino riportò le sue attenzioni sulla realtà, potendo dunque notare che anche lui si era accovacciato a terra al suo fianco.

La ragazza rimase ferma a guardare l’altro guardarla imbronciato, ed allora si dovette trattenere dal non ridergli in faccia.

- Certe volte però fa proprio tenerezza…- Si vergognò leggermente di averlo pensato, soprattutto dopo averlo anche colpito in faccia.

 

“ Va bene, scusa. Però …”

“ Scuse accettate.” La interruppe il ragazzo, sorridendo come se si fosse già dimenticato di tutto.

“ No, ascoltami.” Nonostante fosse davvero buffo il suo modo di fare, Liz cercava di essere seria.

“ E’ stato meglio per te che io ti abbia portato via con me, piuttosto che lasciarti scappare con la mia borsa.”

 

“ Intendi che la polizia avrebbe potuto accusarmi lo stesso se mi avessero fermato ?” Le domandò allora lui, ora preoccupato per il rischio che aveva corso.

La ragazza non rispose, si limitò a guardare altrove con sguardo fermo.

 

Il tempo passò molto velocemente per i due giovani, e prima che se ne potessero accorgere, il silenzio si era protratto per più di due minuti.

 

“ Comunque non me li ricordo tutti i titoli che mi hai fatto vedere ieri.” Parlò allora il ragazzo.

Lei si voltò verso di lui.

“ Come ?”

“ Avevo intenzione di comprare tutti i manga che tu ritenevi dei capolavori… ma non ne ricordo i titoli. Porca miseria, me ne avrai fatti vedere almeno un centinaio.” Rise l’albino, fingendo di arrabbiarsi per una sciocchezza.

“ Se vuoi te li posso prestare.”

“ Eh ?” Esclamò sorpreso, notando però che l’altra questa volta non lo stava prendendo in giro, bensì gli sorrideva serenamente.

“ Lo faresti davvero ?” Continuò, per assicurarsi di non aver sentito male.

 

“ Non farmi cambiare idea.” E nella luce del giorno, la ragazza si alzò in piedi, voltandogli le spalle.

Non esitò a voltarsi, e con un finto sguardo di rimprovero intimò l’altro a sbrigarsi.

 

L’albino venne dunque condotto nell’appartamento della studentessa, dove nel momento in cui entrò si sentì immensamente a disagio, perdendo tutta la sicurezza che fino a poco prima aveva dimostrato.

La bruna invece prese coscienza del fatto che quel bizzarro tipo fosse la prima persona che faceva entrare nel suo appartamento, dopo tre anni di trasferimento.

I due, dapprima con molto imbarazzo, iniziarono a discutere delle letture preferite di lei, alle quali il ragazzo riuscì ad incuriosirsi solo dal suo modo di raccontarle.

Si sentiva come un bambino al quale si sta raccontando una fiaba in grado di trasportarlo altrove grazie solo alla pura fantasia.

 

Trascorsero dunque così la mattinata fino a quando non arrivò mezzogiorno.

“ Forse dovrei andare… d’altronde ti ho già fatto saltare la lezione.” Disse allora il ragazzo con un sorriso incerto.

- La prossima volta però fermati- Questo fu quello che la ragazza volle dirgli, ma una morsa al cuore le serrò le labbra prima del tempo.

“ Va bene allora.” Rispose, ricambiando il sorriso come peggio poteva, non sentendosi nelle condizioni per farlo.

“ Però …” Rompendo quel blocco nella sua voce, riuscì ad interrompere lui prima che potesse lasciarla.

 

“ Voglio sentire il tuo parere sui manga che ti ho prestato. E guarda che se non me li restituisci farò a pezzi quella robaccia di Principessa Chou-Neko !” Arrossendo senza accorgersene sulle guance, poté solo allora sfoderare il più sincero dei suoi sorrisi.

“ Contaci !” Rise divertito il ragazzo, facendole il segno dell’ok con le dita.

“ Sempre la mattina quando finisci con la palestra ?”

“ Anche se dopo l’università vuoi farti una passeggiata o andare a mangiare fuori.”

 

Passarono un'altra piccola eternità a decidere quando rincontrarsi ancora, ed una volta che le decisioni furono prese da entrambe, una piccola domanda sfuggì dalla bocca di lui.

 

“ Ma tu come ti chiami ?”

“ Elisabetta. Tu ?”

“ Mi chiamo Sebastian.”

 

Presentandosi ufficialmente per la prima volta, si salutarono dopo aver passato una divertente ed emozionante mattinata insieme.

 

 

Da allora, proprio come avevano pianificato, si incontravano ogni giorno, con Sebastian che accompagnava Elisabetta all’università, ed al termine delle lezioni giravano per la città in disperata ricerca di un posto originale e sempre nuovo dove mangiare.

Tra acquisti e chiacchiere sorsero anche le prime domande sulla vita dell’altro.

 

“ Anche tu vivi da solo ?” Domandò Liz, camminando al fianco del ragazzo nelle vie del centro città.

“ Sì, da quando avevo dieci anni.” Esitò lui, volgendo i suoi occhi altrove da lei.

La ragazza comprese allora di esser stata indiscreta, e vergognandosene oltre l’inverosimile, si strinse nelle spalle pensando in fretta ad un modo per rimediare.

“ E-ehm… che lavoro hai detto che fai ?”

“ Sono un assistente nel turno serale al centro di riposo per anziani.” Rispose lui, imbarazzato.

In seguito notò che la ragazza lo stava guardando sorridendo.

“ Che c’è, ti fa ridere ?”

“ No! Tutt’altro, è bellissimo. In pratica ridai il sorriso a delle povere persone sole !” L’entusiasmo negli occhi di lei era grande quanto il cielo sopra le loro teste, e per un attimo Sebastian ne rimase abbagliato.

- Perché è così… bella ?-

“ Ma dai! In realtà sono loro che mi fanno compagnia durante la sera, visto che sanno quanto io abbia paura di stare da solo di notte.”

Ridendo insieme, continuarono a parlare del più e del meno.

 

 

Ma ogni volta che Sebastian si ritirava nel suo appartamento, rimasto solo, cadeva in ginocchio sul pavimento, guardando verso il basso con i suoi capelli che gli scivolavano davanti alla fronte.

“ Lei è così bella …” Si ripeteva, singhiozzando nella penombra, in compagnia solo delle voci oscure nella sua testa.

Guardava la propria mano tremante e fredda, dalla quale come fiammelle danzanti, si sollevavano insetti volanti composti di energia nera come la pece.

“ Ma io sono solo un mostro !” Urlava allora, rivolgendo le sue lacrime al mondo che lo aveva creato così.

- Che senso ha vivere per essere felice, se sono un fallimento ?-

 

 

 

Accadde un sabato sera.

Era passato ormai un mese da quando i due giovani si erano incontrati, ed entrambi aspettarono la fine del turno di lavoro dell’altro per incontrarsi.

A mezzanotte in punto, il parco tra la fermata del tram e l’università di lei era deserto.

Una leggera brezza soffiava tra le foglie scure delle siepi e tra le foglie scure degli aceri, accompagnati dal rumore di macchine in lontananza.

 

Con i saluti di sempre ed i soliti sorrisi, si sedettero su di una panchina.

Pensavano di poter fare gli stessi discorsi degli altri giorni, ma dal momento in cui il silenziò calò tra di loro, non riuscirono ad aprire bocca.

 

Senza guardarsi, erano affascinati dall’altro, tremando dentro per un’emozione che entrambi non sapevano di star provando.

 

“ Posso mettermi qui ?” Sussurrò Elisabetta, chiudendo gli occhi ed avvicinando la testa al corpo del ragazzo.

Prima che lui potesse capire quali fossero le sue intenzioni, un istante era trascorso, ed ora una sensazione di calore gli pervadeva il petto.

Arrossendo con le guance fredde, la bruna si era poggiata sull’altro, con la testa nell’incavo del collo di lui.

 

“ No.” Con voce tremante, il ragazzo rispose alla domanda dopo almeno dieci secondi.

Elisabetta aprì gli occhi, e senza dire altro ritornò seduta al suo posto originario.

“ Scusami…” Disse, talmente tanto flebilmente da non esser nemmeno ascoltata da lui. In quel momento nel suo cuore qualcosa aveva iniziato a spezzarsi, mentre si dava da sola la colpa di qualsiasi cosa avesse sbagliato nella sua vita.

- Non puoi approfittarti delle persone così… lui non ha fatto niente, mentre tu hai sbagliato ad affidarti al primo sconosciuto.- Non credeva alle parole nella sua mente, ma l’unica alternativa per non soffrire sarebbe stata urlare il perché di quella risposta.

 

“ Perché tu… mi fai male.” Sospirò con un brivido Sebastian, interrompendo i pensieri di lei.

Il ragazzo si curvò in avanti, prendendosi il volto tra le mani per nasconderlo.

“ Con la tua gentilezza mi ferisci, mi illudi che per la prima volta in tutta la mia vita io stia provando la felicità !”

Con gli occhi spalancati Liz ascoltava ogni singola parola, iniziando però ad avvertire una fitta al cuore diversa dalla precedente.

 

“ Ho vissuto in un orfanotrofio senza nemmeno una parola gentile per consolarmi quando piangevo, senza nessuna che potesse mai ridere delle cose che dicevo, o farmi sorridere parlando di ciò che mi interessava.

E poi… ora mi vuoi anche stare vicina? Come mai ha fatto mio padre, fino al momento in cui mi abbandonò, augurandomi di morire ?!”

 

 

Nei giorni di solitudine all’orfanotrofio, Sebastian aveva pensato a lungo su quale potesse essere il suo posto nel mondo.

Tutte le creature viventi hanno un posto nel mondo, e sin dal momento della loro nascita ne sono consapevoli, questo diceva.

Proprio come il ragno che conosce già come tessere la propria tela, o il bruco che è già a conoscenza di dover diventare una farfalla, anche lui avrebbe dovuto sapere per cosa fosse nato.

Non riuscendo allora a rispondersi, prese una decisione importante:

Vivere fino a quando non avrebbe trovato il proprio posto nel mondo.

 

 

Si sentì parte di qualcosa.

Semplicemente fu questa la sensazione che avvertì, sentendo due braccia stringergli il petto e tirarlo in avanti.

Il calore che bruciava, il freddo del vento sulla pelle, il tocco tremante ed il respiro sulla pelle.

“ Basta !” Urlò Elisabetta, soffocando la voce premendo il proprio volto nel petto di lui.

 

Lacrime percorrevano i suoi occhi nel momento in cui sollevò la testa, rabbrividendo in continuazione mentre un dolore al cuore la straziava.

- Perché io non…-

“ Non devi soffrire !” Urlò ancora, incapace di non lasciarsi trasportare dalle emozioni.

Sebastian la guardava senza parole, rispecchiandosi nelle pupille lucide di pianto.

“ Tu sei quello che deve continuare a dire cazzate su cazzate, a fare la figura dell’idiota anche se vuoi apparire serio, ma rimanendo comunque adorabile ed irresistibile! Come fai? Dimmi come cazzo fai a dirmi queste parole e a sorprenderti di quanto facciano male anche a me !”

 

- Chi è questa donna per me ?- si domandò allora il ragazzo, avvertendo per la prima volta il bisogno di ricambiare un abbraccio caldo nel gelo della notte.

Nessuno si era mai preoccupato per lui, ed a dispetto di quanto aveva detto prima:

- Non mi sta facendo male.- Come ipnotizzato dal volto perfettamente ovale di lei, pallido sotto la luce della, e da quegli occhi verdi splendenti, le accarezzò i lineamenti con una dolcezza ed una cautela quasi spaventata.

 

Aveva paura che quel sogno potesse infrangersi, sbriciolandosi sotto le sue stesse mani.

 

 

Elisabetta socchiuse le palpebre ancora umide, sollevandosi quel che bastava per poter sfiorare con le sue labbra il sorriso incantato dell’albino.

In quel parco solitario, si fece mattina prima del previsto.

 

 

 

 

Da allora Sebastian si trasferì a casa di Elisabetta, una decisione dettata dalla differenza sostanziale di dimensioni tra gli appartamenti.

Ci misero un paio di giorni, ma ogni volta che lui e lei decidevano dove posizionare gli ornamenti ed i soprammobili traslocati, sentivano di star concludendo qualcosa.

Era come costruire mattone per mattone il loro castello, il loro nido, l’unico luogo che avrebbero potuto amare, perché lì l’uno aveva l’altra.

 

L’albino posizionò davanti al letto matrimoniale una piccola libreria ad un solo scaffale, sormontata da un televisore economico ed una radio massiccia di colore nero.

Lui rivelò di non avere nessun oggetto legato al proprio passato, nemmeno una foto di quando era più giovane.

 

Per entrambi non fu un problema: avrebbero costruito anche nuovi ricordi, ed iniziarono scattandosi una foto sul piccolo balcone.

 

Il giovane imparò a cucinare per aiutare la ragazza al ritorno dall’università, mentre lei a sua volta gli preparava dei pranzi al sacco da portare al turno serale.

Entrambi si prendevano cura dell’altro all’interno del loro spazio, scambiandosi dolci effusioni, prova dell’amore che sembrava crescere ogni giorno dentro di loro.

Per due come loro che non avevano mai conosciuto quel contatto ed erano abituati ad essere lasciati da soli, provare la sensazione di avere qualcuno su cui contare e a cui dedicare tutto te stesso, era una scoperta emozionante.

 

 

Il primo vero e proprio litigio, se non per i soli sciocchi battibecchi scherzosi sulle preferenze nei manga, avvenne quando Elisabetta terminò il triennio in Luglio.

“ Ma sei davvero sicura di non voler fare la specializzazione?”

 

Ogni volta che Elisabetta parlava della decisione di affrontare un altro biennio aggiuntivo o meno, le sue opinioni a riguardo rimanevano le stesse.

E così rispondeva sempre al suo fidanzato:

“ Preferisco fare al più presto esperienza nel mondo del lavoro.” Lei non voleva mai toccare quell’argomento, ed ogni volta cercava di cambiarlo rapidamente.

Destino volle che un giorno fu Sebastian a continuare la conversazione.

 

“ Ma diciamo che i tuoi studi in lingue sono un qualcosa che hanno bisogno di continuo allenamento.” 

La ragazza lo guardò con aria seccata, un’espressione che fece sorgere un dubbio nell’altro.

“ Bhe, per adesso posso fare gavetta per qualche casa produttrice.” Detto questo si voltò, riprendendo a stirare una camicia in silenzio.

Parlava chiaramente del suo sogno di diventare traduttrice di manga e libri, dal giapponese all’italiano.

 

L’albino la notò farsi più cupa, e forse perché non avevano mai portato a fondo quella discussione, volle spronarla a rivelargli i suoi pensieri.

“ Gavetta, eh ?” Facendo un sorriso amaro, le si avvicinò e lentamente le accarezzò le braccia e le spalle da dietro.

“ Quella che poi ti fanno fare per magari anni senza farti vedere l’ombra di una lira ?” Stava chiaramente parlando con tono ironico, provocatorio, ma osservando il broncio corrucciato sulla ragazza inarcò il sopracciglio sorpreso.

“ Sì, perché intanto facendo cose stupide che non mi aiutano ad integrarmi nel sistema lavorativo ci guadagno molto. Preferisco fare ricerca e sperare in fretta che qualcuno mi prenda.” La bruna scostò le sue mani di dosso, riponendo la camicia sul materasso per poi passare ad un maglione da stirare.

 

L’albino non si arrese, lasciandosi scivolare su di lei in un abbraccio fino a sfiorarle il viso con il suo.

Sussurrò:

“ Si può sapere che cos’hai ?” Sorrise, impiegando tutto se stesso per ricevere almeno una risposta.

Elisabetta, a quel punto si voltò, guardandolo. I suoi occhi sembravano stanchi, e delicatamente lo baciò sulle labbra.

“ Scusami, è solo che …”

“ Solo che ?” Domandò il ragazzo.

 

“ Voglio rendere al più presto questo sogno una realtà concreta, non mi importa se per adesso non potremo permetterci una casa più grande, magari anche in un altro paese.”

Con forza ed insicurezza, quelle parole pronunciate da delle labbra ipnotiche, fecero sentire parte Sebastian del dramma nel cuore della sua ragazza. Si sentì allora colpevole di non averlo scoperto molto prima.

 

 

 

Entrambi lavorarono molto duramente da allora.

Liz, ormai lasciata l’università continuava a lavorare fino a sera, impiegando tutto il suo tempo libero in ricerca di un posto di lavoro e nello spedire curriculum.

Il suo fidanzato, da parte sua, cercava di guadagnare più soldi con gli straordinari, anche se questo comportava ridurre le ore di sonno o in compagnia di Liz durante la notte.

 

L’estate si concluse, e così anche l’anno.

Fu allora che, nel Febbraio del 1999, Elisabetta divenne traduttrice di manga.

La notizia li rese felici come non mai, e quando lei tornò dalla sua prima giornata lavorativa, il ragazzo le preparò una cena al lume di candela sul piccolo balcone.

 

Pareva un goffo tentativo di una serata romantica, ma entrambi non ne avevano bisogno: bastavano loro due, il cielo stellato e un po’ di musica di sottofondo.

Per la prima volta da quando si erano messi insieme fecero l’amore. Dapprima timidissimi, specialmente Sebastian, visto che non gli avevano mai dato nemmeno una carezza prima di fare conoscenza, al mattino dopo si risvegliarono con il sorriso sulle labbra.

Il sole filtrava dalla finestra ancora spalancata, le coperte bianche sul pavimento, ed i loro corpi nudi distesi, immobili. Solo le loro mani si intrecciavano, mentre l’uno guardava, arrossendo, l’altro.

 

 

 

Trascorse un altro anno, ed il ventunesimo secolo tanto atteso giunse.

Quell’inverno del 2000, Sebastian tornò a casa prima del previsto dal suo turno serale, trovando dunque la sua ragazza distesa sul divano.

 

La salutò chinandosi su di lei per baciarla, verificando dunque che fosse sveglia quanto anche lei ricambiò.

“ Finito prima ?” domandò Elisabetta sorpresa, alzandosi per avviarsi verso la cucina.

L’albino la notò, e sorridendo gentile sollevò una mano per fermarla, facendole intendere che avrebbe cucinato lui quella sera.

“ Sì, ultimamente ho un po’ di mal di schiena e non riesco a fare gli straordinari.” Le rispose allora lui, controllando cosa ci fosse nel frigorifero.

“ Sai che per me potresti anche smettere di rimanere oltre il tuo turno: non c’è né più bisogno.” La bruna si appoggiò alla sua schiena, baciandolo su di una guancia.

 

L’altro non rispose, fece un sorriso rapido e si mise all’opera con i fornelli ed una tonno acquistato il giorno prima.

“ Sai, ho sentito che alcuni miei colleghi si sposeranno. Non è che anche tu vorresti un matrimonio ?”

Non appena realizzò quella domanda a bruciapelo, Liz arrossì, voltandosi di scatto in direzione del suo fidanzato.

Lui cucinava tranquillamente, canticchiando tra sé e sé come era solito fare.

Le sorse allora un dubbio, cercando di calmarsi:

“ Tu… sai cos’è un matrimonio ?” Domandò incerta, rischiando di apparire come una stupida.

 

“ Uh ?” L’albino voltò appena la testa verso di lei, con un’espressione incuriosita, ma con ancora un sorriso sereno ed innocente.

“ Ah …” Sospirò la ragazza, aspettando che il batticuore finisse.

“ Bhe, devi sapere che quando due persone si sposano, lo fanno perché si amano tanto e… sono pronti per vivere sempre insieme.” Si sentiva abbastanza in imbarazzo a parlare di tutto ciò, nonostante non fosse con uno sconosciuto. Forse era proprio esprimere il significato di un qualcosa di così semplice quanto importante che la faceva sentire inadatta, l’unica persona che avrebbe potuto avere parola in merito.

 

“ Ah, come noi ?” Rise Sebastian, continuando a cucinare.

 

Quella piccola frase rimase impressa per molto tempo nella testa di Liz, nonostante lei avesse subito cambiato argomento dopo quella discussione.

- Non mi sento ancora pronta… ho paura.- Pensava tra le sue braccia mentre lui dormiva, stringendogli le mani ed accarezzandogli il volto.

- Per adesso no. Se ci amiamo davvero, riusciremo ad aspettare un altro po’.-

 

 

Da allora, seppur rimanendo nella loro città, iniziarono a dedicare più tempo per uscire di casa nel tempo libero e godersi le poche belle giornate invernali.

 

Con un montgomery ed una sciarpa, Elisabet correva tra le strade sotto il cielo nuvoloso, giocando come una bambina a farsi inseguire da Sebastian, il quale aveva sempre paura di scivolare sul cemento umido.

Respirare l’aria fredda e pungente, osservare le onde dirompenti e possenti del mare scuro, avvertire la solitudine ed il silenzio in luoghi visitabili solo in estate, come una spiaggia, era il loro passatempo.

Per alcuni sarebbe sembrato strano, ma insieme riuscivano a trovare quei paesaggi insoliti comunque molto belli.

 

La solitudine ed il freddo potevano trasformarsi in qualcosa di incantevole, proprio come avevano scoperto conoscendosi, e per questo non si sentivano estraniati dal mondo.

D’altronde, non avevano ancora nessun amico a cui confidare la loro vita di coppia.

In merito a questo, solo una volta Sebastian domandò ad Elisabetta dei suoi genitori. Lei, nonostante il tempo della loro relazione proseguisse senza che potessero accorgersene, non riuscì a rispondergli.

 

 

 

Giugno del 2001

 

L’afa serale preannunciava un’estate molto calda, a dispetto delle previsioni meteorologiche. Il cielo non velava con le sue nuvole le stelle splendenti, e la vita sembrava proseguire normalmente.

 

La porta dell’appartamento venne aperta, e dei passi entrarono nel buio della casa.

“ Ehm… Liz ?” Sebastian chiamò la sua fidanzata, accendendo la luce e togliendosi le scarpe.

Non ricevette subito risposta, ma nel momento in cui, con sguardo confuso avanzò di un passo, poté accorgersi di una musica proveniente dalla loro stanza da letto.

 

“ Sì ?” La voce della bruna lo accolse nel momento in cui aprì la porta, assieme ad un odore di candele profumate.

La trovò distesa su di un paio di coperte nere, mentre la camera era illuminata solo dalla luce di poche candele sul comodino, dove si trovavano anche le cornici delle loro fotografie.

Sebastian cadde in ginocchio sul letto, ridendo divertito.

 

“ C-Che cos’hai da ridere ?” Non comprendendo quella reazione, Elisabetta arrossì e si strinse nelle spalle.

Era coperta solo da una leggera maglia bianca, la quale lasciava intravedere oltre che la sua biancheria in pizzo nero, anche il corpo longilineo dalla carnagione rosata.

Imbronciò lo sguardo, preparandosi a sferrare un pugno sulla testa di quell’albino che continuava a ridere a crepapelle.

“ Ora ti ammazzo !”

 

“ No, aspetta !” Sentendo quelle parole il ragazzo si mise subito sull’attenti, soffocando la risata e proteggendo il capo tra le mani.

“ E allora si può sapere perché stavi ridendo ?” Liz si voltò indispettita e anche offesa, serrando le braccia al petto.

Segretamente aveva paura di aver sbagliato tutto, che tutti i preparativi per quella sera fossero stati vani.

Ormai lei ed il suo ragazzo, a causa del lavoro di entrambi, avevano sempre meno tempo ed energie per passare la notte insieme, per questo aveva programmato…

- Non è colpa mia se sembro ridicola così !- Divenne rossa come un peperone, ostinandosi ancor di più a nasconderlo dalla vista dell’altro.

 

Nonostante tutto Sebastian continuò a sorridere, sfilandosi la cravatta e sbottonandosi la camicia.

Dopodiché, rimasto a petto nudo, si sdraiò a pancia in su al fianco di lei, che continuava a non volerlo guardare in faccia.

 

“ Rido perché sono felice, Liz.”

Il silenzio aleggiò nella stanza, così come la luce arancione, tra le ombre delle fotografie fino alla finestra aperta, su, su nel cielo notturno.

“ Penso che non ci sia niente di più bello che vivere per questi momenti.” Sussurrò l’albino a fior di labbra, con il cuore che gli batteva all’impazzata.

 

Senza dire un’altra parola, Elisabetta si voltò di scatto, stendendosi su di lui.

Gli prese con dolcezza e forza il volto fra le mani, facendo scorrere le dita trai suoi capelli nivei.

“ Voglio vivere per sempre momenti come questi.” Mormorò con un sospiro carico di emozione, prima di poggiare le sue labbra su quelle di lui, lasciando che i loro corpi si stringessero sempre di più.

 

 

 

 

Passarono un paio di giorni da quella sera, ed una mattina Liz si risvegliò senza lui al proprio fianco nel letto.

Quando giunse in cucina trovò immediatamente una tazza di caffè con dei biscotti, assieme ad un piccolo pos-it giallo appiccicato sul tavolo.

- Sono andato in lavanderia.- Lesse mentre beveva.

Effettivamente quello era il giorno di lui per le commissioni mattutine. Il caldo non era cessato.

 

Quando addentò il terzo biscotto però, avvertì un sapore acido nella gola, il quale gli fece passare immediatamente l’appetito.

Toccandosi la pancia si sentì debole, come se una scarica di brividi l’avesse attraversata.

Stava accadendo qualcosa di strano, lo comprese.

 

 

Circa due ore dopo la porta dell’appartamento venne aperta, ed i due fidanzati entrarono in silenzio.

Lui aveva il volto pregno di sudore, mentre lei serrava le labbra, rimanendo in silenzio ed evitando la parola.

 

“ Adesso mi puoi dire cosa ti è successo? Mi hai fatto preoccupare, non pensavo di doverti prendere dalla clinica !” Sebastian era preoccupato dal silenzio della sua ragazza, nel mentre lei si sedeva su di una sedia.

Con un gesto della testa, lo invitò ad imitarla.

Entrambi allo stesso tavolo si presero le mani, e finalmente la bruna aprì la bocca. Le sue labbra si contrassero in un sorriso.

“ Sono incinta !” Esclamò con le guance rosse e gli occhi accesi da una brillante gioia.

 

Strinse forte le mani del ragazzo per qualche secondo, fino a quando non si accorse di non aver ricevuto risposta.

Proprio quanto fu sul punto di farsi delle domande, l’albino sorrise lievemente, con gli occhi spalancati.

“ Amore, sei felice ?” Insistette Liz, felice di aver la propria felicità condivisa.

 

Sebastian rimase in silenzio, come paralizzato, con quell’espressione inebetita.

Non appena l’altra lo sfiorò, i suoi occhi si ricoprirono di lacrime e le saltò addosso, abbracciandola fortissimo.

“ UOOOOH!! Sono troppo felice !” Urlò a squarciagola senza smettere di piangere, sembrando tuttavia un disperato in preda ad una crisi.

La bruna, sentendo quel cocciuto e strano ragazzo piangere come un bambino, si sentì inevitabilmente ancora meglio, e scoppiò a ridere, anch’ella commossa.

 

 

 

Il tempo iniziò a trascorrere in fretta, ed i mesi sparivano come i raggi di sole nelle prime giornate invernali.

L’umore di Liz, la quale era sempre stata una donna un po’ goffa e testarda, variava da momenti di gentilezza con il suo fidanzato, ad altri in cui il minimo contatto la trasformavano in una belva.

Le dava inevitabilmente fastidio che le guardasse la pancia, la quale con il passare delle stagioni si era gonfiata, e quando l’altro non voleva che continuasse a lavorare a casa nonostante la gravidanza.

Ovviamente, quando iniziava a risentire della nausea e dei dolori alla schiena, si sedeva sul divano fino ad addormentarsi per il fastidio di alzarsi in seguito.

 

Una sera Sebastian le stava massaggiando la schiena e le spalle, entrambi seduti sul letto.

Non potevano più mantenere la finestra aperta, avevano freddo.

Elisabetta sussultò sentendo la mano calda di lui posarsi sulla sua pelle, e mordendosi le labbra si voltò per baciarlo.

“ Come si chiamerà ?” Domandò a quel punto lei, soffermandosi a riflettere.

 

Sapeva che alle sue spalle il cuore dell’albino aveva iniziato a pulsare molto forte: gli succedeva sempre quando parlavano del loro figlio. Trovava questa sua sensibilità molto dolce, ma apprezzava gli sforzi che lui faceva per badare a lei.

Aveva paura che qualsiasi cosa potesse rovinare la sua gravidanza, ed il pensiero di avere con sé un qualcosa di così piccolo, fragile e prezioso, spesso la faceva chiudere in sé stessa per ripararsi dal mondo.

Non voleva uscire di casa, seppur sapesse quanto lavoro in più dovesse fare il suo fidanzato per sostenere la mantenere da solo.

 

“ Un nome italiano ?” Sussurrò lui, posando la testa nell’incavo del collo di Liz.

“ No. Quando nascerà voglio andare a vivere in Giappone.”

“Ah, sì ?”

“ Un amico di mio padre quando ero piccolo mi parlava della città in cui era nato, un sobborgo tranquillo e con tutte le convenienze. Si chiama Namimori.”

“ Quindi pensiamo ad un nome che possa farlo integrare meglio ?”

“ No, solo un nome che non lo faccia sentire lontano dal luogo in cui vivremo.”

A quel punto Sebastian si posò un indice sul mento, socchiudendo gli occhi. Lei lo imitò.

 

“ Sebastian !” Fece lui.

“ A parte che è il tuo nome, ma ti ho appena detto che voglio un nome giapponese. E poi se fosse una bambina ?”

“ Chouri-Neko, la principessa magica !”

“ Oh cielo …” Sbuffò la bruna, stringendo il pugno come faceva da sempre per minacciarlo.

“ Ehi, stavo scherzando.” Rise l’albino, tirandole un leggero pizzicotto sulla guancia.

“ In realtà sarebbe bello un nome che avesse a che fare con la libertà.” Rifletté infine.

 

“Uhm… vediamo… di belli potrebbero esserci Sora*, Hoshi*… oppure Tenshi*!” La donna sembrò parecchio entusiasta dell’ultimo nome, ed a giudicare dall’espressione che assunse, anche l’altro venne contagiato.

“ Mi piace! E magari se fosse maschio, perché non proprio Tengoku* ?!”

Entrambi risero.

“ Così potrebbero anche essere i gemelli Tengoku e Tenshi.”

 

Non vedevano l’ora di stringere tra le braccia loro figlio, che fosse maschio, femmina o due gemelli.

Volevano solo abbracciarlo e continuare a ridere come allora per sempre.

 

 

 

*Sora vuol dire Cielo.

*Hoshi vuol dire Stella.

*Tenshi vuol dire Angelo.

*Tengoku vuol dire Paradiso.

 

 

 

18 Marzo 2002. In un ospedale di Roma.

 

Dopo quattro anni di relazione, i coniugi Elisabetta e Sebastian rimasero abbracciati fino a tarda sera, quando il momento avvenne.

L’uomo entrò di corsa nella stanza, avendo già indossato il vestiario necessario per evitare malattie infettive dopo il parto.

 

Sapeva tutto: sapeva che fosse un maschio, che fosse sano e che fosse nato in totale sicurezza da parte della madre.

Fu allora che li vide.

 

Pensò che il paradiso, da qualche parte nel mondo esistesse, e lui lo aveva finalmente trovato.

C’era la donna alla quale aveva donato la propria vita, l’unica che lo aveva amato e che gli aveva dato la famiglia. Una famiglia negata sin dalla sua nascita, in quanto ad errore inumano, scartato dal suo stesso padre.

 

E c’era lui.

Sangue del suo sangue si dimenava tra le braccia di Elisabetta, così piccolo e fragile che dal momento in cui lo vide si fece una promessa:

 

- Io mi prenderò cura di lui sempre e per sempre, qualsiasi cosa succeda.-

 

Strinse sua moglie, stanca ma felice quanto lui, piangendo su quella creaturina che nel mentre aveva iniziato a stancarsi, finendo per addormentarsi tra le loro mani.

 

“ Stai bene ?” Le sussurrò quando portarono il bambino via, nel momento in cui anche lui si sarebbe dovuto allontanare dalla sala.

“ Mai stata meglio.” Rispose lei con voce rotta dall’emozione e dalla stanchezza, regalandogli uno dei più incantevoli sorrisi del mondo.

Era una dea.

 

 

 

Quando Tengoku entrò per la prima volta nell’appartamento, tutto l’occorrente era stato comprato: a partire da peluche e giocattoli fino ad un seggiolone.

Per un giorno Elisabetta fu troppo stanca per allattarlo, e dovettero imbevere un fiocco di cotone con il suo latte.

 

Il bambino era pieno di gioia e vita, ogni volta che lo accarezzavano o lo baciavano rideva e mulinava le mani. Quando iniziò a gattonare era sempre in movimento.

Cercava, vagava per l’appartamento con curiosità, ma non appena si spaventava anche solo per l’ombra sotto un divano, scoppiava a piangere e voleva essere preso in braccio.

E piangeva, piangeva e piangeva ancora, anche fino a notte fonda, fino a quando Sebastian ed Elisabetta lo lasciavano dormire tra di loro nel letto.

Puntualmente però, dopo qualche ora la sveglia che l’uomo si dimenticava di silenziare suonava, ed allora ricominciava a piangere.

 

Era sempre pieno di felicità, quando sentiva sua madre cantare emetteva degli urletti acuti e muoveva le mani verso di lei per farsi abbracciare. Gli piacevano molto le coccole e giocare, si spaventava quando veniva lasciato da solo anche per un attimo e si divertiva a rotolare sul divano, in quel caso terrorizzando i genitori con la paura che potesse cadere.

 

Era la quotidianità che Sebastian ed Elisabetta amavano, e che non avrebbero voluto cambiare per nulla al mondo.

 

Una sera, poco dopo che Tengoku avesse compiuto il suo primo anno, Liz aveva appena finito di tradurre un manga per lavoro sul tavolo da pranzo.

Stanca, si passò una mano trai capelli e finalmente si convinse di andare a dormire.

Quando però aprì la porta della camera da letto, rimase immobile.

 

Sebastian dormiva con i suoi lunghi capelli che gli ricadevano sul volto ancora giovane, mentre con un braccio teneva stretto a sé il figlio.

A Tengoku  stavano crescendo i primi capelli, dei curiosi ciuffi bruni attorno ad uno più folto, del colore della neve.

Ebbene, anche il bambino dormiva, con le sue paffute manine sulla faccia del padre, come se gli stesse accarezzando le palpebre abbassate.

 

Elisabetta rimase ancora ferma per qualche secondo, affascinata e allo stesso tempo commossa.

 

 

Non poteva sapere quanto quei momenti sarebbero stati irripetibili, in futuro.

 

 

Tutto ebbe inizio una sera in cui Sebastian era appena tornato da lavoro con Tengoku a cavalcioni sulle sue spalle.

Capitava spesso che i due genitori lo portassero con loro a lavoro, impegnati com’erano nel risparmiare i soldi per il trasferimento in Giappone.

 

L’uomo salutò come al solito la donna, la quale prese subito tra le braccia il piccolo bruno per dargli tanti baci.

“ Ti saluta tuo padre.” Disse intanto l’albino, legandosi i capelli per mettersi a cucinare.

 

Per un istante il cuore di Liz perse un battito, e rischiò di far scivolare il piccolo dalle sue mani.

“ Mio… padre ?” Cercò in tutti i modi di non apparire nervosa, ma quello era un eufemismo.

Sembrava terrorizzata.

“ Tutto bene ?” Sebastian, sentendo quella voce tremante si voltò, avvicinandosi a lei preoccupato.

“ Rispondimi !” Quando lei si alzò in piedi, urlando, Tengoku scoppiò a piangere e l’albino rimase paralizzato.

 

Gli occhi verdi di lei sembravano colmi di paura.

“ Aveva il tuo stesso cognome, mi ha detto di chiamarsi Emanuele Vongola… e poi ti ha lasciato i suoi saluti, e anche gli auguri siccome ha visto Tengoku.” L’uomo, restando sull’attenti per cogliere ogni tipo di informazione per comprendere lo stato d’animo dell’altro, si avvicinò lentamente al bambino.

Lo tirò a sé, iniziando ad accarezzargli la schiena cercando di tranquillizzarlo.

 

Elisabetta abbassò lo sguardo. Nessuna emozione traspariva dal suo volto di pietra.

“ Qual è il problema ? Per favore, dimmelo.” Con voce ferma ma decisa, l’uomo fece un passo in avanti, posando una mano sulla sua guancia.

 

Passarono interminabili secondi.

Improvvisamente la bruna sollevò lo sguardo, mostrando un’inimmaginabile sorriso a trentadue denti stampato in volto.

Sembrava serena, quasi raggiante, e non perse un secondo per lasciare un bacio rapido sulla fronte di lui.

“ Tranquillo, sono le mie cose.”

 

Non tornarono più su quel discorso: era palese che lei non volesse farlo, per questo, almeno per un po’ di tempo, l’uomo decise di non insistere.

Entrambi sorrisero, ed incominciando ad apparecchiare posizionarono Tengoku, parecchio affamato, nel suo seggiolino.

 

 

 

Quella notte Elisabetta spalancò gli occhi, sollevandosi dal materasso.

Il chiarore della luna scivolava attraverso le tende, illuminando la sagoma distesa di Sebastian, facendo quasi brillare quei capelli argentei.

Il bambino era ancora accoccolato al fianco di lui, ma avendo avuto problemi respiratori durante le prime fasi di vita, spesso nel sonno si agitava.

La donna sorrise, sistemandolo in maniera sicura per poi lasciargli un bacio sulla fronte.

 

- Sta davvero per svanire tutto questo ?-

Volse lo sguardo al cielo buio, illuminato da una luna piena come un gigantesco occhio sopra il mondo.

- Deve davvero succedere ?-

La luce si rifletteva sulle fotografie poste al fianco del letto, offuscandole e trasformandole in lampi di luci improvvisi nel buio.

 

- L’ho sempre saputo: sono piccola, piccola, minuscola… e loro sono più grandi della mia forza, della mia volontà.- Raccolse le ginocchia al petto, lasciando scorrere le unghie e le dita nei suoi capelli.

Nel buio e nel silenzio, si sentiva divorata da una malattia mortale, incapace di immaginare la luce del domani.

Era tutto troppo lontano, persino il giorno seguente, troppo per essere raggiunto.

 

- Che cos’è il giorno senza la luce ?- Di nuovo lo sguardo si posò sulla sua famiglia.

- Che cosa sarei io senza di loro ?-

 

Un rumore catturò la sua attenzione, e la porta della camera venne aperta con un cigolio.

 

 

Sebastian si svegliò di soprassalto, con ancora nella mente l’eco di un urlo.

Era abituato a fare sogni del genere, anche dopo aver iniziato una nuova vita continuava ad avere incubi riguardo gli esperimenti effettuati sul suo corpo, in un passato sempre troppo vicino a lui.

 

Sbatté nuovamente le palpebre.

Prima venne lo stupore, poi il dolore, a seguire la rabbia, ed infine la paura.

Non era un incubo.

 

 

Davanti a sé, sotto lo stipite della porta, Elisabetta era immobile. Una mano le serrava la bocca, proveniente da una sagoma nell’ombra che, attraverso la testa di lei, lo scrutava con occhi di ghiaccio.

La luce prodotta da un sigaro acceso era l’unica luce, eccetto quella della luna, appartenente però ad un’altra figura al di fuori della camera, ma comunque visibile.

 

Gli occhi della donna erano spalancati, tremanti. Era ovvio che avrebbe voluto esplodere in un pianto, solo per ripararsi nella sua paura, ma si limitava a guardare Sebastian.

Nemmeno un fiato.

 

“ Allora gli insegnamenti di quando eri piccola ti sono serviti? Fai bene a non urlare, se ci tieni alla tua vita.” Parlò l’uomo che fumava, con una voce rauca ed anziana, ma ugualmente forte.

La figura nell’ombra non sembrò comunque lasciare la presa dalla bocca di Elisabetta.

 

Per l’albino sembrava di star combattendo una lotta contro il tempo, mentre tutto il mondo correva più veloce e lui restava miglia indietro.

 

Cosa?

Quando?

Perché?

 

Alle sue spalle Tengoku aveva ricominciato a respirare rumorosamente, probabilmente tra poco si sarebbe svegliato in lacrime. Il suono costante della caldaia in bagno, le macchine in strada, la musica dalla discoteca ad un isolato di distanza.

Si sbagliava, il mondo era sempre alla stessa velocità.

Era lui troppo spaventato per correre.

 

Per prima cosa si alzò, sperando che non facendo rumore avrebbe sfruttato il buio per avvicinarsi. Non riusciva a stare fermo un secondo di più, come un prurito lungo tutto il corpo che lo scuoteva, in preda a brividi, scariche, fremiti.

 

Non appena mosse il primo passo fuori dal letto, aveva già assunto una guardia nonostante fosse in movimento.

Nelle frazioni di secondo precedenti aveva calcolato la distanza tra il suo avversario più vicino e quale sarebbe stato il modo più veloce per fermarlo.

 

In quel momento l’uomo con il sigaro estrasse una pistola e, nonostante ci fosse la parete adiacente alla porta ed i due corpi sull’entrata, riuscì a sparare esattamente tra gli ostacoli.

- È preparato. - Pensò Sebastian, senza riuscire a contenere il battito accelerato del suo cuore.

- Ma io lo sono di più !- Era adrenalina pura, si sentiva come benzina a contatto con il fuoco.

 

Più veloce della pallottola sferzò il cuscino che aveva afferrato alle sue spalle formando un arco davanti a sé. Quest’ultimo esplose in piume e stoffa, ma quando il secondo corrente terminò, il proiettile si era infranto sulla finestra dall’altro lato della stanza.

 

L’uomo in ombra spalancò le palpebre, sorpreso dal non vedere più l’albino.

Sembrava essere scomparso tra il banco ed il nero, immerso nella luce argentea della luna.

 

Se ne accorse solo un istante dopo, quando Sebastian era ormai a meno di un passo da Elisabetta.

 

La donna, nonostante la mano, sorrise e due lacrime le rigarono le guance.

- Amore mio… grazie.-

Sebastian allungò la mano verso di lei.

 

 

Un secondo sparo, a due secondi dal precedente, rimbombò nell’appartamento.

L’uomo con il sigaro rimase impassibile, nel silenzio.

 

Rosso.

Sangue rosso sui bianchi capelli dell’uomo nato per errore, l’esperimento fallito che aveva imparato a vivere come un umano.

Davanti al suo volto pietrificato nell’espressione di un attimo prima, un foro di proiettile penetrava l’addome di Elisabetta, sua futura moglie.

La donna sputò altro sangue, sentendo il suo stomaco ed i suoi polmoni inondarsi di fuoco bruciante.

 

Sebastian, come se fosse stato disattivo, perse l’equilibrio ed iniziò ad affondare verso il basso.

 

Mayday, mayday…

 

Altre pallottole stavolta colpirono il suo corpo, trapassandogli una spalla, una gamba ed un fianco.

Il tonfo, ed un lago di quel liquido rosso che aveva appena trasformato quella notte sotto la luna pallida in un inferno.

 

Schizzò sulle fotografie, macchiando le coperte.

Una goccia scarlatta raggiunse Tengoku, in procinto di svegliarsi, bagnando il ciuffo bianco a forma di foglia sui suoi capelli bruni.

Appena fu sveglio scoppiò a piangere, come se fosse cosciente di quanto fosse accaduto in quella stanza dove aveva trascorso appena un anno di vita.

Strillò, si dimenò, scosse la testa fino a sporcare di lacrime e saliva il materasso.

 

Questa volta nessuno lo cullò tra le braccia, accarezzandogli la schiena fino a farlo riaddormentare in attesa dell’alba.

Non c’era alba in quell’abisso di tenebra.

 

 

Sebastian raschiò con le unghie il pavimento, facendo forza sul braccio per rialzarsi. Ad ogni movimento uno spruzzo di sangue sgorgava dalle sue ferite.

Sollevò lo sguardo sopra di sé.

 

Fiamme nere danzavano macabre attorno ai suoi occhi. Aveva abbandonato il confine tra ciò per cui era nato e ciò che era diventato.

Sentiva solo il suo cuore battere.

Gli bastava, finché avrebbe sentito quel rumore scandito, rimbombante, sarebbe potuto impazzire al punto di continuare a vivere. Non poteva annegare, non poteva affondare, non poteva lasciare gli occhi smeraldo di lei.

 

 

E con uno sguardo ormai spento, ma pregno delle lacrime di prima, Elisabetta si accasciò a terra.

L’uomo si rese conto di aver perso tutto, persino la ragione per cui non si era lasciato morire, sommerso dal sangue, su quel pavimento.

 

Assieme alla luce nei suoi occhi, anche le Fiamme scomparvero.

 

“ Quando non cresci i figli sotto il bastone ed il guinzaglio, come le bestie, diventano pericolosi.”

L’uomo con il sigaro, scoppiando in una spregevole risata, avanzò di un passo.

Il suo stivale calpestò una mano candita, ormai priva di vita, della bruna.

“ Ma addirittura mettersi con uno dei più grandi rivali della Famiglia, un Estraneo… che vergogna.”

I capelli brizzolati ed il volto squadrato vennero esposti alla luce della luna, così come l’espressione di disgusto con la quale fissava il cadavere sotto di sé.

 

Il suo sguardo vagò fino a raggiungere la fonte di tutto quel rumore, ovvero un pianto incessante di rabbia e paura.

Gli occhi si accesero in un bagliore spregevole, così come un’oscurità provenente dalla sua stessa anima.

“ Ma che bella sorpresa, Liz… ” Commentò spalancando la bocca in un ghigno, muovendo così un altro passo verso il letto.

 

“ Se solo …”

Una morsa si strinse attorno alla caviglia di Emanuele Vongola, facendo scricchiolare l’osso.

L’uomo, allarmato abbassò la testa, incrociando uno sguardo ebbro d’odio e di rabbia.

“ Se solo provi anche solo a toccarlo, non mi darò pace fino a quando non vedrò il tuo corpo nelle fiamme !”

 

La mano di Sebastian tremava e le nocche sporgevano per quanto stesse tentando di stritolare la gamba dell’uomo. Ancora inondato del sangue della persona che lo aveva amato per prima, i suoi capelli nivei ora in parte erano colorati di cremisi.

Il suo corpo ferito iniziava ad emanare un’onda di Intento Omicida sottoforma di pura oscurità, la quale lentamente ne stava cancellando l’identità.

Aveva perso se stesso.

 

 

Un proiettile gli si conficcò nel collo, facendo sgorgare un altro fiotto di sangue davanti ai suoi occhi, ormai spenti.

Emanuele Vongola mosse la gamba, accorgendosi di non essere più sotto quella stretta.

Qualcosa però, curiosamente gli scivolò davanti al volto. Si toccò il viso: era madido di sudore.

Non pronunciò nemmeno una parola, semplicemente provò inutilmente a scacciarsi di dosso quel tremore costante.

 

“ Il tuo lavoro qui è finito, più tardi riceverai la tua paga.” Sussurrò a bassa voce all’uomo in penombra dietro di sé, il quale annuì in silenzio.

Le sue mani infine afferrarono il bambino che continuava a strillare nel buio, sollevandolo.

 

 

“ Tu… sei il pretesto perfetto per distruggere i Vongola !” Dado Emanuele Vongola, quella notte, mentre sollevava davanti al suo viso  un infante in lacrime, aveva dato inizio al domino di eventi che si sarebbero protratti per quattordici anni a seguire.

 

 

 

Un mese più tardi.

 

“ Decimo, ma è troppo strano per essere così semplice.”

Fuori dalla Magione dei Vongola imperversava una tempesta di lampi e pioggia, tormentando le cime degli alberi che circondavano la villa.

 

Hayato Gokudera, Decimo Guardiano della Tempesta, allora ventunenne, stava discutendo con il proprio Boss. Era un evento raro, senza dubbio, e gli altri Guardiani infatti lo stavano guardando sorpresi.

 

Davanti all’albino, Tsunayoshi Sawada fronteggiava il suo amico con uno sguardo di disappunto.

“ Gokudera, è un bambino! Mi spieghi cosa ci può essere di strano in un bambino ?” Mentre parlava, il giovane castano indicava sua moglie Kyoko, seduta al suo fianco, mentre accarezzava un bambino seduto sulle sue ginocchia.

Il piccolo Tengoku non aveva smesso di piangere dal momento in cui aveva messo piede nella Magione, ma per qualche strano motivo tra le braccia della donna dagli occhi color nocciola riusciva almeno a smettere di singhiozzare.

Semplicemente guardava tutti quei bizzarri individui nella sala intimorito, stringendosi forte alla veste di Kyoko, la quale vedendolo così impaurito cercava di farlo rilassare sussurrandogli qualcosa.

 

“ Penso che Tsuna abbia ragione.” Aprì bocca Takeshi Yamamoto, Guardiano della Pioggia, ricevendo così una penetrante occhiataccia da parte di Gokudera.

“ Non sono venuto qui per parlare di un moccioso …” in quell’istante da una delle sedie attorno al tavolo si alzò Hibari Kyoya, Guardiano della Nuvola. Senza proferire altre parole, sotto lo sguardo di tutti i presenti, uscì dalla sala.

 

“ Effettivamente …” una voce dal tono ironico e provocatorio, come una risata, si levò tra i Guardiani.

Chrome Dokuro, Guardiana della Nebbia, sollevò lo sguardo verso il marito Mukuro, accovacciato al suo fianco.

L’illusionista si passò una mano tra i capelli, sogghignando.

“ Siamo bene a conoscenza che Emanuele Vongola non sia proprio un uomo avvezzo a buone azioni. Kufufufu !”

“ Mukuro !” Tsunayoshi interruppe l’uomo sollevando il tono della voce.

“ Emanuele Vongola è stato un amico del Nono ed il Tutor di Reborn. Non ti permetto di parlare in questo modo.” Il giovane Boss ottenne come risposta dall’altro solo una risata più quieta.

 

“ Ma stiamo davvero discutendo se tenere o no un bambino? E teniamocelo, che ci costa !” Rudemente, Ryohei Sasagawa, Guardiano del Sole, sbraitò battendosi un pugno sulla coscia.

“ Tanto, dopo il figlio di Bianchi, i gemelli di Cavallone e la figlia di Xanxus stiamo praticamente diventando un asilo !” Scoppiando a ridere, il giovane pugile stava chiaramente pensando all’idea di avere figli anch’egli con sua moglie Hana.

 

“ Ma …” Un Lambo undicenne, Guardiano del Fulmine, alzò la propria mano per chiedere il permesso di parlare. Sembrava che la scuola media lo avesse reso più educato.

“ Chi lo crescerà ?”

Alla domanda del giovane, Kyoko si voltò verso il marito. Nei suoi grandi occhi profondi c’era il desiderio di crescere quel bambino, e di fatto lo abbracciò ancora più forte.

Tsuna esitò, ma prima che potesse dire qualsiasi cosa incrociò lo sguardo con quello di Tengoku.

 

Era così spaventato, solo e triste. Dado Emanuele Vongola gli aveva detto che in realtà fosse il figlio della sua primogenita, ma che sia lei che il padre erano morti per cause misteriose.

- Io e mia moglie non potremo avere figli… questo potrebbe essere un messaggio dal mondo per consentirmi, almeno per una volta, di fare la scelta giusta.-

Il giovane era diventato Boss dei Vongola da appena un anno, ma ne aveva già conosciuto i rischi: la macchina che un giorno lo stava scortando per un impegno lavorativo era stata assaltata da degli assassini, e per proteggere i suoi uomini era stato ferito su tutto il corpo.

Quando si era risvegliato gli avevano comunicato che per salvargli la vita gli avevano dovuto somministrare delle medici con un indesiderato effetto collaterale: la sterilizzazione.

 

- Per colpa mia Kyoko non potrà mai avere dei figli tutti suoi. Come lei, anche io in questo momento voglio salvare questo bambino.-

Pensando a tutto questo, il Decimo si accovacciò, ritrovandosi faccia a faccia con il bambino.

“ Ciao !” Sorrise nel modo più sereno che potesse, osservando come il piccolo si fosse ritratto dalla paura, abbracciandosi così a Kyoko.

 

“ Ahahahaha! Ha deciso di tenerlo con sé, evviva !” Esclamò Ryohei, scoppiando a ridere assieme a Yamamoto.

Gokudera sospirò profondamente con la fronte corrugata. Nonostante quella scena riempisse anche il suo cuore di felicità, non riusciva per niente a non essere preoccupato per il suo migliore amico, nonché Boss.

 

“ Sì… lo cresceremo noi… come una famiglia.” Sussurrò dolcemente Tsunayoshi, poggiando il suo dito indice sulla testa del bambino, più precisamente proprio sul ciuffetto di capelli albini.

Una Fiamma del Cielo illuminò il dito, riflettendosi negli occhi di Tengoku fino a che quest’ultimo, pochi secondi dopo, non cadde addormentato.

- Non posso farti dimenticare completamente il tuo passato, ma vorrei che almeno per un po’, tu vivessi con la certezza di avere una mamma ed un padre che ti amano. -

 

 

 

Qualche giorno più tardi.

Era ormai risaputo che Dado Emanuele Vongola, imparentato con i discendenti di Giotto Vongola, stesse per morire.

Misteriosamente però, l’anziano mafioso aveva richiamato al suo capezzale per gli ultimi addii non i suoi figli, tanto meno Tsunayoshi, bensì un misterioso e giovane scienziato.

 

“ È fatta… cinquant’anni …” mormorò a se stesso Emanuele Vongola. La voce era incredibilmente più rauca e debole.

Le sue condizioni fisiche erano peggiorate, adesso, scarno e privo di forze, poteva solo accasciarsi sul letto e guardare il soffitto con occhi spenti.

 

Al suo fianco un giovane ragazzo lo stava guardando. Avrà avuto poco più di diciassette anni, i suoi capelli erano verdi ed ondulati, simili ad una criniera che gli ricadeva sulle spalle.

Indossava un camicie bianco e degli occhiali rotondi appoggiati sul naso. Con la sua espressione impassibile, quasi seccata, ascoltava le parole del vecchio.

“ Sono stato il primo… a compiere un colpo di stato ai Vongola e a non essere stato scoperto.” Il Vongola, sghignazzando e tossendo, alludeva chiaramente a Daemon Spade e a Xanxus, i quali però erano stati scoperti e puniti anche dopo i danni causati alla Famiglia.

 

“ Non da solo, aggiungerei.” Rise il giovane con sarcasmo, incrociando le braccia al petto.

“ Sta tranquillo, Leeroy. Continuerai a ricevere la tua paga dai Vongola, puoi starne tranquillo.” L’anziano parlava senza un’espressione e mantenendo sempre lo stesso tono.

“ Con il tuo aiuto nel campo della genetica e le predizioni di quella sciamana, non ci vorrà molto prima che questa Famiglia si distrugga con le proprie mani.”

Rimanendo con un ghigno malvagio stampato sul volto, piombò in silenzio.

- Leeroy si è occupato di rendere sterile Tsunayoshi, in modo che sole le mie figlie maggiori avessero potuto dare la nascita ai più probabili successori al titolo di Boss.  E con le predizioni di Yuni ho potuto trovare l’uomo con il quale si sarebbe sposata mia figlia Lara, ed allo stesso tempo scoprire che Elisabetta fosse già diventata madre.-

 

Ricordava esattamente quel giorno.

La sciamana amica di Tsunayoshi e di Reborn aveva da poco avuto un’importante previsione, e per puro caso lui era stato il primo a chiederle quale fosse.

 

“ I pretendenti per divenire i futuri Boss… si uccideranno, provocando solo dolore, sofferenza e morte alla Famiglia.” Con quelle nefaste parole, la donna era scoppiata in lacrime, cadendo in ginocchio.

Così facendo non aveva potuto accorgersi del sorriso d’eccitazione e gioia di Emanuele Vongola sopra di lei.

“ Cosa intendi dire con pretendenti ?” Aveva domandato allora l’uomo, mascherando la sua malvagia euforia con una falsa preoccupazione.

 

“ Quando Tsunayoshi deciderà chi nominare il futuro Boss dei Vongola, un potenziale pretendente causerà la sua morte.”

 

L’uomo l’aveva pregata di non riferire a nessuno di quella profezia, promettendole che avrebbe fatto il possibile per evitarla quando sarebbe successa. Per sicurezza, aveva anche finto un falso attentato alla vita della donna per farla allontanare dai Vongola in una struttura più lontana e sicura.

Lo aveva fatto e basta. Per lui tutto era possibile, grazie al potere conferitogli dalla sua Famiglia.

 

 

“ Il tuo piano è quello di far scoppiare una guerra tra i sostenitori di Tengoku ed i sostenitori di Primula quando saranno cresciuti ?” Domandò Leroy , senza preoccuparsi di sembrare rispettoso o no.

“ Esatto.” Rispose il vecchio con un largo sorriso.

“ E perché lo hai voluto fare ?” Insistette curioso il verde.

 

“ Perché mi andava di farlo. Troppa noia, troppo buonismo e troppa pace.” Quell’unica risposta fu tutto ciò che Dado Emanuele Vongola riuscì a dire prima che i suoi occhi si spalancassero di colpo.

Il suo petto si abbassò, smettendo di respirare, ed un fiato vuoto fuoriuscì dalla bocca.

 

Lo scienziato grugnì, voltando le spalle al cadavere e fuoriuscendo dalla porta con nervosismo. Numerosi presenti in attesa nel corridoio cercarono di fermarlo per fargli delle domande, ma lui si divincolò come una serpe, strisciando via dalla Magione.

- Quell’uomo era un pazzo maniaco, le sue ultime parole potrebbero davvero essere vere. - Pensò con un sorriso amaro, per poi coprirsi la bocca con la sciarpa rossa che portava al collo.

- Si è drogato per anni delle pillole del ringiovanimento solo per cercare di procreare figli con la Fiamma del Cielo e la Fiamma dell’Ira. Ma in fondo non mi interessa più di tanto …-

 

Lasciandosi alle spalle l’edificio ed addentrandosi nel bosco, lo scienziato sorrise perfidamente sotto la sua sciarpa, stringendo il pugno davanti al proprio volto.

- In fondo, con i soldi che mi ha dato potrò completare il mio esercito. Good Lord, I’m so crazy !-

 

 

 

Italia. Anno 2003

 

“ Ti prego! N-non farlo, NON VOGLIO MORIRE !!”

 

All’interno di una stanza simile ad un ufficio, numerosi cadaveri di uomini erano stati massacrati, ed ora giacevano nel loro stesso sangue sul pavimento.

 

Camminando tra i corpi, due stivali neri ora macchiati di rosso raggiunsero la scrivania, dove un uomo sulla mezz’età stava cercando di arrampicarsi dandogli le spalle.

“ Farò tutto quello che vuoi, i-io ho… un figlio! Ti prego, io sono tutto quello che ha !”

 

“ Nero Fioretto !”

Un raggio di fiamme nere perforò il petto dell’uomo grasso, spezzandogli la possibilità di implorare ancora.

“ Anche loro erano tutto quello che avevo.”

 

Sebastian si rinfilò il guanto di seta nera, rimasto ormai in una stanza completamente silenziosa, nonché ricoperta di sangue sul pavimento e sulle pareti.

I suoi capelli, ancora lunghi come qualche mese prima, erano stati tinti di nero seppia, cancellando completamente il bianco naturale che portava sin dalla maledetta nascita.

Il suo volto sembrava aver ormai dimenticato come si sorridesse, ed i segni di numerose notti insonne erano presenti attorno ai suoi occhi di ghiaccio.

 

Dopo qualche secondo si voltò in direzione della porta spalancata, l’unico spiraglio di luce in quel buio.

“ Tu non sei l’assassino di mia moglie, vero ?”

A quella domanda, un’altra figura apparve sullo stipite dell’entrata. Era un uomo alto e muscoloso, dai lunghi capelli scarlatti folti e mossi. Il suo sguardo duro e freddo squadrava Sebastian con attenzione.

 

“ Quando mi hanno proposto l’incarico ho iniziato ad osservarti: ho capito subito che non fossi ciò che fingevi di essere.” Rispose Giustizia senza battere ciglio, continuando a non abbassare la guardia nonostante l’altro non mostrasse segni di ostilità.

“ Buon per te.” Sospirò Sebastian con secchezza, rinfilandosi anche l’altro guanto.

“ Altrimenti ti avrei rintracciato ed ucciso proprio come ho fatto con il vero sicario.” Terminò, rivelando una profonda sete di sangue nei suoi occhi cremisi, come in un abisso senza fondo.

 

“ Non pensare che la mia sia paura! Potrei farti fuori anche adesso, se lo volessi.” L’assassino chiamato Providence trovava snervante il modo dell’altro di sottovalutarlo, come se volesse mettere alla prova il suo talento nell’uccidere.

 

“ No. Solo i colpevoli dovranno pagare, non gli innocenti.”

In un battito di ciglia, la finestra nella stanza si era spalancata per colpa del forte vento.

Quando la tenda smise di ondeggiare anche solo per un secondo, l’uomo dai capelli corvini era scomparso.

 

L’eco delle sue parole rimasero impresse nella mente di Giustizia, il quale si ritrovò in un profondo silenzio colmo di domande e pensieri.

Pochi secondi dopo dovette scappare anche lui, avvertendo dei passi provenienti dall’altra parte della casa.

 

“ Boss !”

“ Jacob… figlio mio.”

“ Chi è stato Boss? CHI È STATO IL BASTARDO !!?”

 

 

 

Magione Vongola. Nove anni dopo.

 

Tsunayoshi Sawada, Decimo Boss dei Vongola, guardava dall’alto del suo ufficio il grande giardino ai piedi della villa.

Nel prato giocavano suo figlio Tengoku, Xian ed il figlio di Enma, Simon.

 

“ Vi chiedo questo favore perché so di potermi fidare di voi.” Mormorò con lo sguardo spento, come se stesse emanando l’ultimo respiro di vita.

 

Dino Cavallone, suo amico da ormai molti anni, provò un forte senso di amarezza nel vedere il sorridente ragazzo di un tempo in quelle condizioni.

“ Tsuna… faremo il possibile.” Sorrise il Cavallone, stringendo il proprio braccio attorno a sua figlia Veronica, anch’ella presente nella stanza. La ragazza dai capelli color del grano raccolti in una coda di cavallo aveva quindici anni  da poco compiuti.

 

“ Grazie… Dino. E grazie Veronica.” Il Boss dai capelli castani si sentì rincuorato, anche se in parte delle parole nefaste gli tornavano in mente, trascinandolo nella preoccupazione.

 

“ Quando deciderai chi nominare il futuro Boss dei Vongola, un potenziale pretendente causerà la sua morte.”

 

 

 

Giappone. Poco tempo dopo.

 

“ Uffa! Pensa te che cosa devo aver fatto per andare a vivere con questo moccioso irritante !”

“ Veronica !”

 

Era l’ennesima volta che Dino riprendeva la figlia, puntualmente sul punto di lamentarsi.

Effettivamente però, poteva comprenderla. Se in quel momento stavano raggiungendo in macchina la città di Namimori, non era di certo una sua scelta.

Sua figlia però non poteva certo crescere da sola in Italia senza un padre, così la decisione di portarla con sé era stata inevitabile.

Il comando della Famiglia Cavallone era stato affidato a Romario, fino a quando almeno  sua figlia non sarebbe diventata maggiorenne.

 

In quel momento Tengoku, seduto sul sedile posteriore, si rannicchiò dando le spalle alla ragazzina bionda, la quale si indispettì ancor di più.

“ Umh !

 

“ Veronica, ascoltami …” L’uomo si fece immediatamente serio, continuando però a guidare con lo sguardo fermo sulla strada.

“ Cosa vuoi essere da grande ?”

Quella domanda improvvisa causò nella giovane un dubbio, di fatto spalancò gli occhi senza sapere cosa rispondere.

Nella sua vita non era mai sorta quella sicurezza, il poter dire – Farò parte della Famiglia- , come invece ripeteva sempre suo fratello Donald. Eppure, in quel silenzio calato di colpo nella vettura, aveva quasi paura a rispondere.

Era cresciuta con i Vongola, senza interessarsi agli affari delle Famiglie o della posizione di chi vedesse in quell’ambito. Aveva sempre e solo voluto giocare con i suoi amici, figli delle persone con cui era cresciuto suo padre.

Si sentiva legata a qualcosa che non conosceva, ma aveva allo stesso tempo paura di prendere una strada che cancellasse quei legami. Cosa avrebbe dovuto fare in futuro? C’era una scelta migliore?

 

Invano sollevò lo sguardo verso il genitori, non ricevendo una risposta.

 

“ Spero che un giorno tu lo possa scoprire da te. Per il momento, sii una buona amica per Tengoku.” Il volto sorridente di Dino generò una strana sensazione di calore nel petto dei due ragazzini.

La città di Namimori si affacciò al loro orizzonte.

 

 

 

Mercoledì 26 Novembre 2016.

 

Reborn era da appena due giorni tornato a Namimori, anche se non fisicamente. A causa di un impegno aveva infatti inviato un mini-Reborn creato da Verde che potesse controllare attraverso la Fiamma del Sole.


Sedeva, aspettando l’alba, nella cucina di casa Sawada, esattamente la stessa abitazione dove vent’anni prima aveva osservato pazientemente la crescita di Tsuna e dei suoi amici.

La sua mente però, dopo tutto quel tempo, era annebbiata da pensieri confusi.

 

- Ten-baka ha reagito in un modo che non aspettavo al Proiettile del Coraggio di Morire, svenendo poco dopo gli allenamenti di ieri mattina.-

Sollevò lo sguardo, oscurato dall’ala del fedora, sulle fotografie a pochi metri sopra di sé.

Immagini di eventi legati alla crescita di Tengoku e Veronica in quella città riempivano la mensola, consentendo di ricostruire parte dei cinque anni in quella casa con una semplice occhiata.

- Che sia vero? Che il Proiettile abbia danneggiato il blocco nella memoria del ragazzo di cui Tsuna mi aveva parlato ?-

 

L’assassino, ignaro della vera natura di Tengoku e della scelta di Tsunayoshi di adottarlo, decise che avrebbe ugualmente aiutato il ragazzino a scegliere quale strada proseguire in futuro.

 

 

 

Febbraio 2017. Russia.

 

“ Finalmente! Finalmente nessuno crederà che io sia pazzo !”

Un ragazzino dai capelli folti e rossi, tremava stringendo i pugni, appoggiato con la schiena alla parete della stazione di servizio lungo l’autostrada.

La neve cadeva senza fine, dando candore al cielo scuro notturno e alle nuvole grigie.

 

Per poco gli occhiali del ragazzo non gli caddero, nel mentre cercava di sistemarseli nervosamente sul naso, essendo però impacciato dai pesanti vestiti invernali e dal tremore alle mani.

“ Non perdiamo il filo del discorso, per favore.”

La voce di un adulto proveniva dalle spalle del ragazzo, più precisamente dalla finestra conducibile al bagno della stazione. La loro conversazione era appena udibile, e la presenza del rosso si confondeva tra la miriade di fiocchi di neve.

 

“ S-Sì, mi scusi! Dicevamo Tengoku, no?! Sarà subito fatto ciò che mi ha chiesto.” Balbettò lui, cercando di darsi un ritegno nonostante la palese agitazione, la quale stava facendo allargare un sorriso di gioia sulla sua faccia.

“ Grazie, Luchas. Sei davvero fondamentale per questo mio piano.” Rispose con voce pacata, come un sospiro di sollievo, l’uomo.

 

“ Mi scusi la domanda, ma… ora che ci penso, come mai non può portare via Tengoku con sé da solo ?” Sarà stato il nervosismo, ma al ragazzino scappò questa domanda, in un tono completamente diverso da quello usato prima.

Non appena se ne rese conto il suo cuore perse un battito per lo spavento, ed iniziò a biascicare una serie di scuse. Dalla sua voce trapelava sincera paura.

 

Oltre la parete, Sebastian abbassò il volto, respirando una nuvoletta d’aria calda.

L’espressione, nascosta dall’ombra, avrebbe potuto rivelare una certa esitazione e timore: entrambe emozioni che non poteva mostrare in pubblico, ma solo nell’intimità della sua mente travagliata ed in preda ad incubi.

 

 

Marzo 2017

 

“ Mio Signore, il piano di prelevare il Tengoku Sawada risulta essere fallito. Sembra che presto il decimo boss dei Vongola lo riporterà in Italia accompagnato dai suoi Guardiani.”

 

Mangiandosi nervosamente le unghie senza un attimo di tregua, Sebastian ascoltava Platino parlargli dall’altro capo del telefono.

Cercò di respirare in modo meno affannoso, con il sudore freddo che gli colava lungo la fronte ed i capelli corvini.

- Ci sarà un modo… prima o poi. Figlio mio, non smetterò di cercarti !-

 

Aprile 2017

 

“ Scusaci, padre …”

La voce di Drake Schlmit venne interrotta dalla linea, nel mentre la cornetta di un vecchio telefono veniva riposta.

 

“ Parti per Namimori: devi accertarti che i prigionieri di Livello S non uccidano Tengoku o i suoi amici.”

Sebastian, ultimata la chiamata da una stanza buia all’interno delle sue basi, rivolse una rapida occhiata verso il suo vice.

Platino raddrizzò la schiena, dando segno con i suoi giovani occhi di aver compreso l’ordine.

 

“ Non devono torcere loro nemmeno un capello.” Ripeté l’uomo nel mentre si allentava il nodo della cravatta. Sorrise tra i baffi, cercando però di non farlo notare: non era mai stato pratico a saperla allacciare, nonostante tutte le volte che Elisabetta avesse tentato inutilmente di insegnarglielo.

 

“ È sicuro che Drake lo abbia scambiato per suo padre ?” Domandò Platino un momento prima di lasciare il proprio Boss, il quale tornò rapidamente serio.

 

“ Peter Heysel Schlmit vuole soltanto proteggere suo figlio e sua figlia da ciò che potrebbe pensare la gente nella loro terra natia, per questo non li chiamerebbe mai per farli tornare a casa.” Rispose semplicemente il corvino.

- Perdonami Tengoku, ma ho bisogno di testare la fedeltà delle persone che ti accompagneranno da me, presto o tardi.-

 

 

 

Presente: 28 Aprile 2017.

 

Nel mausoleo dove giaceva la bara di Elisabetta Vongola, dove la luce di quattro candele danzava nel buio e nel freddo, i frammenti di una memoria cercavano di ricostruirsi alla cieca.

 

“ Tu… sei sempre stato vicino a me ?” Tengoku non stava più piangendo, ma ugualmente con la voce rotta dai singhiozzi fece sussultare il padre, rinsavendolo da un sonno di ricordi.

“ Sì. E quando non potevo farlo, inviavo persone di cui nessuno avrebbe sospettato per assicurarmi che tu stessi bene.”

 

Il ragazzino spalancò gli occhi ancora lucidi, rabbrividendo in silenzio.

Davanti a quella reazione, Sebastian abbassò lo sguardo, proseguendo mentre cercava di alleggerire il proprio tono di voce.

“ Shigeru Orus, Giorgia De Luca o Raxas, non sono mai esistiti. Erano solo informatori pagati per sorvegliarti fino a quando non saresti rimasto in Giappone.”

Durante il suo discorso, l’uomo riuscì ad avvertire una strana espressione nel volto del figlio.

Accertandosi con una seconda occhiata, lo vide sorridere sereno, con le lacrime che avevano ripreso a colare lungo le sue guance rosse.

 

“ Menomale …” Balbettò il bruno nel pianto, non vergognandosi di asciugare le lacrime.

“ Per un attimo ho pensato… ho dubitato che tutti i miei amici fossero stati un’illusione !”

Cadde in ginocchio davanti allo sguardo esterrefatto di Sebastian, il quale era stato colto di sorpresa da quel carattere imprevedibile, lunatico e spesso troppo emotivo.

 

 

In quel momento si rivide quindici anni più giovane, con davanti a sé il viso di una splendida donna bruna che gli sorrideva.

 

 

 

 

 

 

 

 

Angolo Autore: 

Welcome back!

Er… è altamente probabile che questo capitolo possa annoiarvi, starvi davvero sulle scatole e diventare una fonte di linciaggio nei miei confronti, visto che ho dovuto impiegare un mese per scriverlo.

Lo ammetto, scrivendolo mi sono reso conto di tutti questi rischi, ma ho continuato senza  fermarmi solo perché stava piacendo a me. La prima parte almeno, i collegamenti con la prima saga avrei potuto renderli meglio.

So sorry quindi se non vi piacerà, spero di rimediare.

 

Poi, preamboli a parte…

Per le persone a cui questo capitolo sarà piaciuto, un po’ di chicche ^^.

L’ispirazione principale (non essendo io un padre, lol) è stata dall’opera cinematografica del regista Mamoru Hosoda “Wolf Children”.

Ve lo consiglio ASSOLUTAMENTE, non solo perché reputo Hosoda il mio regista giapponese preferito, ma ovviamente perché Wolf Children è un capolavoro apparentemente irreale (come la storia tra Sebastian ed Elisabetta), ma allo stesso tempo vicino ai sentimenti umani.

Spero anche di non aver tralasciato altri buchi di trama per quanto riguarda la storia di Tengoku, e che ovviamente tutto sia chiaro.

 

A riguardo di questo, nell’ultimo capitolo di questa fanfiction farò degli accorgimenti speciali.

Peace, dal prossimo capitolo si ritorna alle botte, oltre che ovviamente ai sentimentalismi pessimi che solo io riesco a descrivere.

 

Alla prossima!

P.S: Il titolo è un riferimento alla poesia di Quinto Orazio Flacco, "O vergine cogli l'attimo che fugge". Lascio a voi la possibile interpretazione del significato.

 

 

Omake Numero 7: Your favorite manga is Overrated.

 

Seduta accanto a suo figlio Tengoku, allora con appena un anno di vita, Elisabetta aveva appena riposto sul letto una pila di manga.

Sorridendo al figlio, che ricambiò non sapendo cosa stesse succedendo, iniziò a fare tante facce buffe per attirare la sua attenzione.

“ Allora, Ten-kun… adesso ti insegno una cosa.”

Con aria serena e allegra, la donna divise in due pile gli albi, mostrandoli al bambino.

Sulla pila a destra erano presenti manga come Le Bizzarre Avventure di Jojo, Soul Eater, Battle Royale, History of the Strongest Disciple Kenichi, Capitan Harlock e La Legge di Ueki.

Sulla pila a sinistra invece, si potevano trovare Sword Art Online, Fairy Tail, Shingeki no Kyojin e Naruto Shippuden.

 

 

Dopodiché Liz, battendo le mani e continuando a sorridere, guardò fisso negli occhi Tengoku.

“ Ora ti farò distinguere i capolavori dalle me-…”

Prima ancora che riuscisse a finire la frase, Sebastian entrò in camera da letto sfondando la porta. Con il fiatone, l’uomo urlò rivolto verso il cielo.

“ Master, che cosa fai ! Ma lo sai quanta gente verrebbe ad ucciderti se lo facessi davvero ??”

 

In un’altra dimensione, lontana dagli avvenimenti di Story of a Family.

“ Ma a me che cazzo me ne frega a me !”

 

   
 
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