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Autore: Beauty    26/05/2017    1 recensioni
La tranquilla cittadina di Heaven Barrow è stata sconvolta dall'omicidio di cinque studentesse, uccise con modalità che lasciano pensare all'opera di un serial killer. L'assassino è stato riconosciuto in Brandon Douthart, un ragazzo che ha sempre condotto una vita da recluso, tanto che nessuno o quasi sapeva della sua esistenza la notte in cui fu linciato dalla folla perché riconosciuto come il brutale omicida.
Un anno dopo, Calia Jefferson, liceale schiva e poco popolare, vede la scia di sangue ricominciare, quando altre ragazze incominciano a venire uccise. A tutto ciò, oltre alla diceria secondo cui Brandon Douthart non sarebbe realmente morto - o peggio, che sia tornato dall'oltretomba - si aggiunge l'opera di un altro assassino, che tormenta le sue vittime fino a spingerle a suicidarsi o a uccidersi a vicenda.
Mentre le persone intorno a lei si rivelano più ambigue di quel che credesse, e le morti inspiegabili continuano, Calia inizia a indagare per trovare il filo conduttore in quella catena di suicidi e omicidi - e a fare i conti con un passato inconfessabile che la vede strettamente collegata a Brandon Douthart e alla sua morte...
Genere: Drammatico, Suspence, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo I

 

Tamara Bentley

 

 
 
You have my heart, and we'll never be worlds apart
Maybe in magazines, but you'll still be my star
Baby, 'cause in the dark
You can't see shiny cars
And that's when you need me here
With you I'll always share
 
Because
When the sun shines we shine together
Told you'll be here forever
Said I'll always be your friend
Took an oath that I'm a stick it out till the end
Now that it's raining more than ever
Know that we still have each other
You can stand under my umbrella

 

 

 

Su Facebook e Twitter, in particolare sugli ufficiali gruppi scolastici dell'Heaven Barrow High School, aveva iniziato a circolare l'hashtag pernondimenticare.
Calia si era rifiutata di usarlo.
Il profilo Facebook di Tammie era in disuso da sette giorni, e sospettava che il signor Bentley non l'avesse ancora rimosso solo perché non era capace di usare i social network. In compenso, era stata creata una pagina Facebook avente foto profilo una candela accesa nel buio e come immagine di sfondo una fotografia presa dall'annuario scolastico della prima liceo. La pagina era intitolata R. I. P. Tammie Bentley.
Quando l'aveva vista, Calia era scoppiata a piangere di fronte allo schermo.
Sua madre l'aveva sgridata dicendo che non mostrava abbastanza dolore per la morte della sua cosiddetta migliore amica – Monica Jefferson aveva calcato la mano su quel cosiddetta come a rimarcare il concetto, come se lei ne avesse saputo mai qualcosa del rapporto che c'era fra lei e Tammie.
- Dovresti pubblicare fotografie di te e lei insieme, usare quell'hashtag...ho capito che hai saltato la scuola per due giorni, ma mi sembrano veramente troppo pochi. La signora Johnson, ieri dalla parrucchiera, mi ha detto che le sembri veramente troppo fredda e distaccata. Che figura mi fai fare con le mie amiche? Diranno tutti che ho una figlia anaffettiva. Sono andata dal dottor Winchester a farti prescrivere dei tranquillanti per dormire, te li ho messi sul comodino...
Calia aveva pensato che Monica doveva essere fuori di testa a darle una scatola intera di tranquillanti dopo quel che era successo. Come se non ci avesse neppure pensato, oppure che si fosse detta “ma figurati, sono sole le figlie degli altri che si suicidano, la mia non mi farebbe mai fare una figuraccia del genere”.
Calia aveva annuito e poi, quando sua madre era uscita, aveva preso la scatola di medicinali e ne aveva rovesciato l'intero contenuto nel WC.
- Signorina Jefferson? Calia!
Calia trasalì, e lasciò cadere la penna che teneva fra l'indice e il medio. La plastica ticchettò contro il pavimento dell'aula silenziosa, e il suono alle orecchie della ragazza ebbe l'intensità di un rombo di tuono.
Sbatté le palpebre più volte. Si era incantata a fissare il vuoto, chissà per quanto tempo. Una mano esile e sottile le accarezzò una spalla.
- Calia? Va tutto bene?
Calia alzò lo sguardo, incrociando gli occhi azzurri della professoressa Penley. L'insegnante di matematica la guardava con espressione sinceramente preoccupata. Non era una di quelle faccette false che sfoderavano Monica o quasi chiunque altro conoscesse, il che contribuiva a renderle la Penley simpatica.
Calia annuì, cercando di sembrare convinta.
- Hai bisogno di un bicchier d'acqua?- domandò la professoressa; Calia fu felice che non se ne fosse uscita con un come ti senti? o qualcosa non va?, come avevano fatto praticamente tutti i professori. Aveva faticato a trattenersi di fronte a quella domanda idiota.
Il lunedì seguente alla morte di Tammie – il giorno in cui Calia aveva rimesso piede all'Heaven Barrow High School – il signor Ruthven, il suo professore di letteratura inglese, l'aveva avvicinata mentre trascorreva la ricreazione seduta su una panca in giardino.
- Qualcosa non va, Calia?
E lei a quel punto non ne aveva potuto più.
- La mia migliore amica si è ammazzata impiccandosi alla doccia. Secondo lei questo può essere qualcosa che non va, professore?
In condizioni normali, Ruthven le avrebbe dato una nota di demerito e l'avrebbe spedita dal preside a calci in culo, ma di fronte a quella risposta si era limitato a sospirare e a proporle un appuntamento con il consulente scolastico.
- No, grazie - tornò al presente e si sforzò di rispondere cordialmente alla professoressa Penley. Lei non era l'ultima degli stronzi, a differenza di Ruthven; si meritava gentilezza e rispetto anche solo per i suoi tentativi di essere d'aiuto.
La professoressa Penley non insistette; le strinse dolcemente una spalla come a volerle comunicare conforto, poi si allontanò e riprese a passeggiare con la classe.
- Il preside Kincaid ha predisposto che oggi tutti gli studenti che hanno avuto contatti con Tamara Bentley si sottopongano a un colloquio con la consulente scolastica - proseguì il suo discorso da dove l'aveva interrotto; la prima ora del mercoledì mattina avevano matematica con la Penley, la quale rivestiva anche il ruolo di coordinatrice scolastica. Quel giorno, anziché entrare in classe e attaccare con la lezione su monomi e polinomi, l'insegnante aveva detto a tutti di riporre libri e quaderni e di starla a sentire.
Aveva cominciato a parlare di Tammie, aveva comunicato loro che lo Sceriffo di Heaven Barrow aveva aperto un fascicolo sulla sua morte e che era possibile – previo consenso dei genitori – che chiamasse qualcuno di loro per porre qualche domanda. Non dovevano spaventarsi, li aveva rassicurati, si trattava solo di domande di routine; e lei li invitava tutti a recarsi dalla consulente scolastica, dal preside, da qualsiasi insegnante o direttamente alla stazione di polizia, se per caso avessero avuto qualche informazione sulla morte di Tamara. Dopodiché, aveva dato il via a un lungo sermone sull'importanza di confidarsi con qualcuno se si aveva un problema, del cercare aiuto quando si era in difficoltà, aveva sciorinato una serie di numeri utili e raccomandato a tutti di prestare attenzione e qualora vedessero un compagno o un amico in difficoltà di correre subito a riferire il fatto a lei o a un altro insegnante.
La maggior parte degli studenti aveva giocato con il cellulare sottobanco per la maggior parte del discorso, o aveva chiacchierato sottovoce o speso il tempo a fare una battaglia di palline di plastica. Calia si era sforzata di stare attenta più per il rispetto che nutriva nei confronti della Penley che per altro, ma presto la sua mente aveva iniziato a migrare verso altri lidi.
- I colloqui cominceranno al termine di quest'ora, quindi siete tutti pregati di recarvi in corridoio nei pressi dello sportello d'ascolto e attendere il vostro turno. Chi non passerà oggi potrà usufruirne domani...- la Penley fulminò con un'occhiataccia Justin Asher, che in quel momento stava sghignazzando alla battuta del suo compagno di banco. Il ragazzo smise di ridere immediatamente, ma la ramanzina non arrivò. La professoressa chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie, poi tornò ad abbracciarli tutti con lo sguardo.
Calia ebbe l'impressione che si stesse rivolgendo più a lei che a chiunque altro.
- Ascoltate...so che quello che è accaduto vi ha scossi, e parecchio. Ma ciò che possiamo fare, adesso, è ricordare la nostra amica Tamara e fare in modo che la sua morte non sia stata vana. Dobbiamo evitare che succeda un'altra volta. Sono certa che tutti voi volevate bene a Tammie e che...
Calia sentì che non ce l'avrebbe fatta ulteriormente e scattò in piedi con tanto vigore che rischiò di ribaltare la sedia.
- Professoressa, posso andare in bagno?- pronunciò la domanda con voce stridula e più alta di ciò che avrebbe voluto. Quel suo scatto improvviso ebbe il potere di far girare tutta la classe nella sua direzione. La Penley ammutolì e rimase a fissarla, sbigottita.
Calia sperò che il suo volto avesse un'espressione neutra, priva di emozioni. Restò in piedi come un baccalà ad attendere la risposta per una manciata di secondi, prima che l'insegnante di matematica sbattesse le palpebre e mettesse a fuoco la questione.
- Ma...ma certo, Calia, certo. Vai pure.
La ragazza borbottò un grazie fra i denti e si diresse a passo sostenuto verso la porta. Uscì e la richiuse quasi sbattendola, e quando fu fuori corse lungo il corridoio deserto fino al bagno femminile, entrò in una latrina vuota e girò la chiave nella serratura della porticina.
Si appoggiò al legno e si mise le mani nel capelli. Un attimo dopo, stava singhiozzando e lasciando scorrere tutte le lacrime che aveva trattenuto sino a quel momento. Si sedette sulle piastrelle sporche e continuò a piangere. Si rese conto che quell'atto la faceva stare meglio. La sofferenza per la morte di Tammie non spariva – e non credeva l'avrebbe mai fatto –, ma piangere le dava un senso di liberazione.
Calia non era abituata a sciogliersi in lacrime. Tamara era tutto il contrario: le bastava pochissimo per commuoversi, un film drammatico, un biglietto d'auguri o la vista di un cane abbandonato. Lei, invece, aveva sempre faticato a cavare fuori anche la minima lacrima. Non che non si dispiacesse per le disgrazie proprie o altrui, o non provasse mai commozione, ma partecipava in modo silente. Più volte aveva anche provato a indurre il pianto, ma senza risultati.
Invece, dalla sera in cui Heather le aveva annunciato del suicidio di Tammie, ogni momento era buono per chiudersi in camera o in bagno e dare sfogo a tutta la sua sofferenza. E piangere le faceva bene.
Anche se non cancellava ciò che era accaduto...proprio come l'ultima volta.
Quand'è stata l'ultima volta che hai pianto? Un anno fa, certo.
Aveva appena iniziato a calmarsi quando sentì la porta del bagno aprirsi e richiudersi e lo scalpiccio di tacchi alti farsi strada lungo la fila dei lavandini. Decise che avrebbe aspettato che le intruse facessero i loro comodi e se ne andassero, prima di uscire dalla latrina.
E la decisione si rafforzò quando riconobbe la voce di una di esse.
- ...il fenomeno da baraccone ha cambiato metodo.
Chi aveva parlato era Sylvia LeBlanc, e a Calia bastò un secondo per indovinare a chi si stesse riferendo. Abbassò la tavoletta del WC e ci si sedette sopra, restando in ascolto.
- Che intendi dire?
- La Bentley aveva capelli biondi e occhi azzurri. Ti ricorda niente?
Stavolta Calia faticò a riconoscere la proprietaria della seconda voce, ma alla fine concluse che dovesse trattarsi di Keira Herring, capitano delle cheerleader dell'istituto. Ironia della sorte, pure lei bionda e munita di un paio di occhi azzurri come Tamara.
- Brrr! Non mi ci far pensare...se penso che anch'io...
- Ecco, fossi in te starei in guardia!
L'ultima voce che aveva parlato – appartenente a Jemima Sheppard, non perché Calia l'avesse riconosciuta ma perché dove c'erano Sylvia e Keira c'era anche lei – scoppiò in una risatina a cui si unì anche quella della LeBlanc. Keira non rise.
- Andate affanculo. Lo sapete il rischio che ho corso.
- Appunto. Meglio se ti chiudi in casa, ora che il mostro è tornato.
Calia drizzò le antenne. Sentì un brivido scorrerle lungo tutte le membra, ma non si sentiva impaurita.
- Sylvia! Ma che dici? Lo sai che è morto. E vorrei vedere, dopo come l'hanno conciato.
- Beh, cosa dice sempre padre O'Neill?
A giudicare dallo sbuffo che emise Sylvia, Keira doveva averle tirato una gomitata in un fianco.
- Cogliona! Fallo un'altra volta e ti spacco la faccia!
- Vaffanculo, finiscila di spaventarmi. E' morto, e non credo a quelle stronzate dei fantasmi.
- E poi la Bentley non è stata mica uccisa - stavolta era il turno di Jemima di parlare, su gentile benevolenza di Keira e Sylvia.- Si è impiccata alla doccia.
- Capitan Ovvio, lo sappiamo. Ma chi ti dice che si sia appesa da sola, là sopra?
- Dai, è chiaro. Se volessi ammazzare qualcuno, gli sparerei un colpo o gli darei una coltellata. Non inscenerei un suicidio.
- Tu non sei Brandon Douthart.
Calia sentì un tuffo al cuore non appena Sylvia LeBlanc pronunciò quel nome.
- Che cavolo, la vuoi piantare?!
- Avanti! E' passato un anno da che è morto. E la Bentley aveva capelli biondi e occhi azzurri, proprio come...
- Sì, ma Lou Anne e le altre le ha squartate, mica ha fatto finta che si fossero suicidate. E comunque, lo sai che è morto, piantala di...
- Ehi, rilassati, ti stavo prendendo per i fondelli.
- Piglia tua madre per i fondelli. I fantasmi non esistono. E poi, lo sappiamo tutte che la Bentley aveva un motivo più che valido per ammazzarsi...
- La merda di faccia pustolosa che si ritrovava? Fossi ridotta così, credo che m'impiccherei anch'io.
- Lo sai di cosa sto parlando, grassona.
La campanella suonò, ma le tre non accennarono a uscire. Calia si accorse con fastidio che le sue gambe si erano addormentate. Jemima sbuffò e dopodiché si udì uno scatto, come una scatoletta che si apriva.
- Questo rossetto non vale un accidenti - commentò Sylvia.- Dite che mi tocca andare dalla strizzacervelli?
- Certo che ti tocca. Potevi evitare di accompagnarti a simili scherzi della natura.
- Ehi, quello è il passato! Non voglio più essere collegata alla Bentley e a quell'altra sciroccata.
- Già, pure quella non sta messa bene. Era sbarellata di suo prima che scoppiasse tutto il casino, dopo quel che le è successo non mi stupirebbe se fosse andata fuori di testa del tutto.
Calia si alzò in piedi e zampettò fino alla porta per sentire meglio. Era calato un silenzio teso fra le tre, come se Keira avesse portato alla luce un argomento scabroso di cui nessuno voleva discutere. E probabilmente il paragone era azzeccato.
- Certo che...beh, insomma, certo che non c'è da stare molto tranquilli...- la voce di Jemima era tremante, incrinata.- Parlo della Jefferson. Voglio dire...chi uscirebbe da una cosa del genere con tutte le rotelle a posto? Non ha avuto nemmeno un po' di...come ha detto che si chiama la Cardenas? Quella cosa che ti viene dopo che hai subito un trauma...
- PTSD, ignorante.
- Quello. Insomma, io al posto suo credo che avrei avuto un esaurimento o qualcosa del genere. Invece, ve la ricordate lei? Niente, non ha fatto neanche una piega.
- Ma se non ha neanche pianto quando le hanno detto che la Bentley si era impiccata! E meno male che sembravano migliori amiche. Mi viene anche da pensare che...
Le tre ragazze trasalirono non appena la porta della latrina alle loro spalle si spalancò.
- Tu pensi, Keira? Deve costarti un grande sforzo, ti ammiro molto - Calia passò loro accanto e si diresse verso l'uscita.- E Brandon Douthart è morto, finitela con queste puttanate.
Fece sbattere la porta così forte che i rossetti e i lucidalabbra di Sylvia traballarono e caddero nel lavandino.
 
Non c'erano molte persone in fila di fronte al consultorio scolastico. Pochi alla Heaven Barrow's High School avevano avuto a che fare con Tamara, e ancora meno erano quelli che la conoscevano.
Calia individuò alcuni suoi compagni di classe, e pochi altri. Quando il suo sguardo e quello di Sylvia LeBlanc s'incrociarono, entrambe lo distolsero immediatamente.
Calia si era seduta sul proprio zaino abbandonato sul pavimento, scapole contro il muro e braccia conserte. L'insegnante di psicologia, la professoressa Cardenas, aveva distribuito ai ragazzi dei cartoncini su cui erano stampati dei numeri in grassetto nero, e lei era la numero dodici. Ci era voluta un'ora e mezza prima che venisse il suo turno, e per tutto il tempo Calia aveva cercato di non guardare nessuno in faccia, sebbene si sentisse gli occhi di tutti addosso.
In particolare, oltre a Sylvia, cercava di ignorare una ragazza accoccolata su una seggiola a due o tre metri di distanza da lei. Era una studentessa, alta e smilza, con i capelli color castano chiaro raccolti in una coda di cavallo, le guance spruzzate di lentiggini e gli occhi grandi e scuri, il nasino all'insù e le labbra sottili.
Indossava un cardigan marroncino su una gonna scozzese, collant bianchi e ballerine di vernice nera. Al polso portava un braccialetto di Hello Kitty che forse sarebbe stato meglio addosso a una bambina di quattro anni piuttosto che a una diciassettenne.
Non aveva smesso di lanciarle occhiate da che l'aveva individuata fra l'esigua folla di ragazzi, e Calia aveva deliberatamente ignorato qualsiasi tipo di messaggio stesse cercando di inviarle con lo sguardo.
Alla fine, la porta del consultorio si aprì e il numero undici scivolò fuori.
La ragazza si alzò ed entrò, chiudendo la porta.
Era stata poche volte dalla psicologa scolastica, e quasi tutte erano state concentrate nel periodo in cui quelle cinque poveracce dell'istituto erano state fatte a pezzi, e...dopo.
E ogni volta che ci entrava – o anche solo le capitava di pensarci – la prima cosa che le veniva in mente era come reagiva chiunque altro quando vedeva la fotografia di Calia ed Heather Jefferson in bella mostra sulla scrivania della strizzacervelli.
La donna in questione non alzò lo sguardo dagli appunti che stava consultando quando la sentì entrare. Calia pensò che probabilmente la Cardenas doveva averla avvisata che la prossima sarebbe stata lei. Lo studio era tranquillo, abbastanza spoglio fatta eccezione per la scrivania e la sedia della terapeuta e due poltroncine, più una pianta di fico in un angolo che a giudicare dalla cera doveva star morendo di sete. La scrivania era ingombra di qualsiasi cianfrusaglia, dal portatile aperto, al portapenne ricolmo, poi libri, fogli e penne e matite sparpagliate ogni dove. All'angolo destro vi erano due cornici: una ritraeva Calia ed Heather abbracciate e sorridenti durante la festa di compleanno di quest'ultima, e l'altra era il ritratto di Michael Jefferson il primo giorno di scuola.
Calia si sedette con noncuranza. La terapeuta non alzò lo sguardo.
- Grazie per avermi concesso il suo tempo, dottoressa. Ho un disperato bisogno di parlare con qualcuno - ghignò la ragazza, certa che la reazione non si sarebbe fatta attendere.
E così fu.
La psicologa ripose malamente gli appunti in un cassetto della scrivania e si tolse gli occhiali quadrati dal naso per guardarla meglio negli occhi.
- Perché non mi hai risposto al telefono?
- Non mi sembra un atteggiamento molto professionale, questo, dottoressa.
- Calia, non farmi ripetere la domanda. Avrò chiamato dieci volte al giorno per una settimana, e non so quanti messaggi in segreteria ti avrò lasciato!
- Avevo staccato il cellulare. Non ho trovato né le chiamate né i messaggi.
- E il fisso? Lo avete buttato nel cesso?
- Monica non l'ha più ricomprato, dice che è una seccatura. E sai che fine ha fatto quello vecchio.
- L'unica cosa che mi ha impedito di fare irruzione in casa tua è stata Heather che ha avuto la buona grazia di rispondere al cellulare e dirmi che stavi bene!
- Quello...e perché l'ultima volta Topher ti ha tirato una lampada. E Monica ha detto che non ti vuole vedere.
- Finiscila di divagare.
- E che cazzo, zia! La mia migliore amica si è suicidata, avrò il diritto di non rispondere a un fottuto telefono?!- sbottò Calia, alzandosi in piedi.
La dottoressa Dawson la guardò per una manciata di secondi, poi chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie con le punte delle dita. Calia si morse il labbro inferiore, capendo di essere parzialmente nel torto. Si risedette.
- Scusa. Avrei dovuto ascoltare almeno i messaggi, hai ragione.
- Non volevo sgridarti, è solo che...ero preoccupata. Dopo tutto quel che ti è successo un anno fa...
- Lo so, non preoccuparti. Hai ancora l'emicrania?
- Non siamo qui per parlare di questo - la dottoressa Dawson si sporse verso sua nipote e le prese una mano.- Calia, non posso farti da consulente, e lo sai...ma posso essere sempre tua zia. Se ti va di parlare...
La ragazza ritrasse piano la mano.
- Non me la sento, scusa. O meglio...non so cosa dire.
- Se hai bisogno di piangere, o di sfogarti...
- Non riporterà qui Tammie.
- Lo so, ma potrebbe esserti d'aiuto.
Calia rimase in silenzio. Si torse le dita in modo nervoso, guardandosi le mani. Le unghie erano mangiucchiate. Era un'abitudine che sua zia l'aveva aiutata a perdere quando aveva dodici anni, ma da un anno a quella parte aveva ripreso.
La dottoressa Dawson si accomodò meglio sulla sua sedia.
- Ascolta, tesoro...so che questi discorsi non ti piacciono, ma sarebbe opportuno che tu cominciassi a vedere un terapeuta. Non quell'incompetente da cui ti mandava tua madre, e non da me. Io non posso aiutarti. Ma qualcun altro, forse...
- Monica dice che il dottor Winchester va più bene. Gli ha chiesto di prescrivermi delle medicine, ma io le ho buttate.
La dottoressa Dawson sospirò.
- Parlerò io con tua madre. Conosco tanti bravi professionisti, di sicuro meglio del dottor Winchester.
- Monica non vuole vederti, te lo ricordi?
- E' mia sorella, so com'è fatta. Dimenticherà presto tutti i nostri rancori.
- Dobbiamo solo aspettare che Topher perda un'altra volta a poker.
La psicologa non rispose. Calia vide che guardava le fotografie sulla scrivania. Angela Dawson somigliava molto a sua sorella Monica Dawson Jefferson Jones, ma era molto più graziosa. Calia non era mai riuscita a capire se ciò fosse dovuto alla fortuna di zia Angela o al fatto che Monica si fosse rovinata a forza di Negroni e Tequila.
Avevano gli stessi capelli biondi e gli occhi scuri, gli stessi lineamenti, anche se quelli di Monica erano molto più duri di quelli di sua sorella minore. Zia Angela aveva quarantadue anni, Monica quarantasette ed era al settimo intervento di chirurgia plastica.
Calia pensava spesso che, da vecchia, sarebbe voluta essere bella come sua zia, e non gonfiata e implasticata come la madre. Anche se lei non assomigliava a nessuna delle due, fatta forse eccezione per gli occhi.
- Com'è la situazione a casa? La mamma?
- Al solito.
- Heather e Michael? Topher vi da ancora problemi?
- Al solito, te l'ho detto. Siamo qui per parlare di casa?
- Voglio solo sapere come ti senti. E...- la psicologa esitò.- Mi ero ripromessa di non dirti questa cosa, ma poi ripensandoci ho ritenuto che sarebbe stato meglio prepararti. E' possibile che presto o tardi lo sceriffo voglia interrogarti.
- Per sapere se so qualcosa sul motivo che ha portato Tammie a suicidarsi...
- E tu lo sai?
La campanella fuori dal consultorio trillò. Calia scattò in piedi, ma sua zia l'afferrò per un braccio.
- No, ehi, ehi, ferma, questa non è una lezione...! Ti ho fatto una domanda, Calia, e ci restano ancora venti minuti...
- Non mi va di farmi urlare dietro da quello stronzo di Ruthven. E comunque no, non lo so perché si è uccisa.
- Rimettiti seduta!- la dottoressa Dawson abbandonò la sua postazione dietro la scrivania e le andò incontro. La fece sedere di nuovo sulla poltroncina e si sedette a sua volta di fronte a lei.
Calia non lasciò trasparire emozioni. Si limitò a guardare sua zia senza dire nulla.
La dottoressa Dawson le accarezzò i capelli e gliene spostò una ciocca dietro a un orecchio.
- Calia, io sono preoccupata per te...soprattutto dopo quel che è successo l'anno scorso.
- Avevamo stabilito che non avremmo più parlato.
- Tu lo avevi stabilito. E quando mai ne abbiamo parlato? Neanche lo sceriffo è riuscito a cavarti fuori qualcosa.
- Tu avresti voglia di parlarne? E tornando a Tammie...
- L'hai sentita, quella sera?
- Sì. Vuoi sapere se mi è sembrata strana?
- Non scherzare. Hai...Calia, so che è dura, ma abbiamo bisogno...ho bisogno che tu mi dica se qualcosa ti è sembrato strano, se hai una vaga idea del motivo per cui Tamara abbia potuto...
- Non ce l'ho - dichiarò.- Scusa, zia, ma non me la sento di parlarne. Posso tornare in classe?
La dottoressa Dawson sembrò sul punto di bloccarla di nuovo, ma dopo una pausa annuì. Calia la salutò e fece per uscire, ma lei la richiamò di nuovo.
- Aspetta un momento - le disse.- La lezione con Ruthven è l'ultima di oggi?
- Sì, perché?
- Aspettami all'uscita. Ti riaccompagno a casa io.
Calia non si oppose ma nemmeno confermò. Uscì dal consultorio e si sentì immediatamente addosso lo sguardo della ragazza con il cardigan e la gonna scozzese. Questa la stava effettivamente fissando, come se stesse aspettando che lei uscisse.
Si alzò dalla seggiola e fece per andarle incontro. Calia l'ignorò e si allontanò il più in fretta possibile da lei, quasi mettendosi a correre, e raggiunse l'aula di letteratura inglese del professor Ruthven.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Mi rendo conto che questo capitolo è un po' – parecchio – noioso, e colgo l'occasione fin da subito per dirvi che i primi capitoli serviranno essenzialmente a introdurre i personaggi e a cominciare a spiegare il passato, ovvero gli omicidi di Brandon Douthart.
Dal prossimo capitolo, comunque, le cose si faranno più movimentate.
Dunque...ho iniziato a vedere 13 Reasons Why, vi ho avvisati come avevo promesso. Ho visto la prima puntata per intero, e sebbene non mi abbia entusiasmata (l'ho trovata un po' lenta) devo dire che sono curiosa di andare avanti.
Ringrazio Xxgeniaxx per aver aggiunto la storia alle preferite, Skadeglaedje per averla aggiunta alle preferite e per aver recensito, gaialor95 per averla aggiunta alle seguite e per aver recensito, e tutti i lettori silenziosi.
Grazie per aver letto fin qui e fatemi sapere cosa ne pensate di questo capitolo :).
Un bacio,
 
Beauty
  
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