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Autore: Ayr    26/05/2017    3 recensioni
"Ivory, a quanto pare sei riuscito a distinguerti per abilità, coraggio ed un pizzico di fortuna in mezzo a quella turba di guerrieri grandi il doppio di te, e sei anche riuscito a prevalere su di loro. Ciò significa che sei il migliore tra questi e che sei colui che è destinato a compiere la missione» il tono della sovrana si era fatto improvvisamente grave e serio, facendo preoccupare l'elfo, «Ciò che sto per chiederti è molto pericoloso e potrebbe anche essere considerato tradimento, se prima di questo non ne fosse già stato compiuto un altro: mia sorella, dopo l'ultima visita, mi ha sottratto una cosa a me molto cara, nella speranza che non mi accorgessi della sua assenza... Si tratta di uno specchio"
Quando Ivory sentì quelle parole uscire dalle labbra della Regina Rossa, pensò ad uno scherzo di cattivo gusto: come poteva uno specchio essere oggetto di una tale contesa?
Ma nulla è come sembra, e anche lo specchio non è una semplice superficie riflettente, bensì un oggetto pericoloso e affascinante, che ammalia e promette di realizzare i più profondi desideri di un uomo...a caro prezzo
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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VI

La Fortezza Nera spiccava prepotentemente sul paesaggio circostante, bianco e uniforme, e le sue torri di pietra svettavano alte fino al cielo, sfidando le vette aguzze che l’accerchiavano. 
Brand tirò un sospirò di sollievo, fino all’ultimo aveva temuto che la bussola si fosse sbagliata e sarebbero stati condannati a vagare per quelle montagne fino a quando la morte non li avesse presi, Ivory per primo. 
Le ferite erano peggiorate, nonostante le costanti cure di Branbury: lo sforzo della marcia non aveva permesso che si rimarginassero del tutto e l’erborista temeva che potessero essersi infettate, Ivory era accasciato contro di lui, caldo, prostrato dalla febbre che l’aveva colto una settimana dopo l’uccisione della belva. La pelliccia di leopardo lo avvolgeva e lo proteggeva dal freddo, un trofeo meritato per quello scontro, ma Barnd si domandò se fosse stato davvero l’elfo ad uscirne vincitore. 
«Siamo quasi arrivati» fece forza all’altro, trascinandolo verso la roccaforte, «Resisti!» 
Arrancarono nella neve che gli arrivava a metà coscia e più volte il giovane soccombette al peso dell’altro sprofondando nel manto soffice. 
Quando ormai pareva aver perso ogni speranza, Brand riuscì a toccare le fredde pareti dei muri della fortezza e si abbandonò contro di esse, iniziò a visitare Ivory per riprendere fiato e si accorse che la febbre si era alzata, l’elfo era scosso da tremiti convulsi e biascicava parole senza senso, galleggiante in un limbo sospeso tra lucidità e delirio. Era stata una follia pretendere che continuasse a camminare, ma sarebbe stato ancora più folle se si fossero fermati nel mezzo delle montagne, senza nessun riparo sicuro e un punto di riferimento a cui aggrapparsi. Volkyria era la loro ancora di salvezza per non affogare in quel mare di neve e roccia, che pian piano li aveva consunti, costringendoli a procedere senza sapere esattamente in che direzione stessero andando. Brand si era affidato completamente alla bussola e l’aveva consultata quasi febbrilmente, con il terrore di rimanere intrappolato tra quelle guglie. La prima volta che gli si era spenta in mano si era disperato: aveva iniziato a piangere e aveva stretto convulsamente la bussola tra le dita, aveva iniziato a scuoterla, ad aprirla e a richiuderla più volte, l’aveva esaminata in ogni dettaglio, alla ricerca di qualcosa che permettesse di farla funzionare di nuovo, temette di averla rotta e un sentimento irrazionale e indicibile si impossessò di lui, un misto tra frustrazione, impotenza, rassegnazione, rabbia, stanchezza e disperazione, tutto quello che aveva accumulato in quei giorni si era condensato in un delirio allucinato che l’aveva portato sull’orlo di un crollo emotivo. Aveva afferrato i pochi barlumi di lucidità che gli rimanevano, si era aggrappato ad essi e si era trascinato fuori dallo sconforto distruttivo in cui era caduto. Aveva chiesto ad Ivory cosa fare e questi aveva iniziato a parlare di sangue e di una boccetta di materiale ematico della regina, nascosto da qualche parte. Brand fu sicuro che stesse vaneggiando, ma quando trovò la fiala di cui parlava nei recessi dello zaino, si domandò che razza di macabro incantesimo contemplasse l’uso di sangue per far funzionare una bussola. Lasciò scivolare qualche goccia sul quadrante grigio e l’immagine precisa e dettagliata della regione si modellò sotto i suoi occhi, lasciandolo senza parole: non aveva mai visto qualcosa del genere. 
Rincuorato aveva ripreso la marcia, trascinandosi il corpo sfatto e spettrale dell’altro, più volte aveva temuto che potesse spirargli tra le braccia e aveva cercato in tutti i modi di contrastare la morte che accarezzava e vezzeggiava Ivory, gettando la propria ombra sul suo viso. 
Le torri erano state sbriciolate dal tempo e dall’incuria, frammenti alti cinque volte Brand erano disseminati attorno alla piana; anche le basi non erano state risparmiate: la roccia si era sgretolata per il gelo aprendo dei varchi nella corazza di pietra. Brand ne trovò uno, e caricandosi Ivory sulle spalle, penetrò nella fortezza: lo accolsero stanze vuote e tetre, buie e pregne di umidità, ma quantomeno il gelo sconcertante dell’esterno era stato stroncato dalle spesse pareti di granito. 
Adagiò Ivory sul pavimento polveroso e iniziò a controllare le ferite: con suo sommo sollievo nessuna si era infettata, sebbene stessero impiegando più tempo per guarire; lo avvolse in coperte e pellicce, privandosene per tenere lui al caldo. 
Mentre sistemava l’ultima pelliccia sentì qualcosa afferrargli il polso: era una mano di Ivory resa scheletrica dalla fatica e dalla malattia, sotto la pelle impalpabile si riusciva a intuire il reticolo di vene, simili a fili d’oro intessuti nel pallore innaturale. 
«Avevi ragione» mormorò, ogni parola che gli costava uno sforzo enorme. Ma stava per morire, sentiva il canto seducente della nera signora chiamarlo a sé e sentiva il bisogno di dire quelle parole e ringraziare Brand per tutto quello che aveva fatto per lui, prima che fosse troppo tardi. 
«Avevi ragione» ripeté, «Per troppi anni ho giocato con la morte e l’ho sfidata e adesso si è ripresa la sua rivincita. Dopo avermi messo alla prova con il leopardo, ecco che mi fa crepare nel modo più assurdo e indegno per un guerriero…» 
«Sta zitto !» gli intimò l’altro facendogli ingollare un preparato amarissimo per far abbassare la febbre. 
«Grazie» biascicò Ivory, «grazie per essere venuto con me. Avevi ragione anche su questo punto: una volta che sarò morto, avrai la possibilità di concludere la missione al posto mio!» 
«Smettila di dire stronzate!» sbottò l’altro, «Non morirai, non se sarò io a curarti, e quando sarai guarito, sarai costretto ad ammettere che avevo ragione anche sul fatto che avere un erborista sia utile e indispensabile.» 
Ivory strinse la mano i Brand, «Da quando sei diventato così ottuso?» domandò. 
«E da quando tu sei diventato così melodrammatico?» lo rimbeccò l’altro, «Le tue ferite non si sono infettate e basteranno un po’ di caldo e di riposo per rimetterti in sesto. Sei un guerriero! Il tuo corpo è abituato a privazioni ben maggiori, è stato indebolito dall’attacco della belva e adesso sta lottando per tornare forte come prima. Mi dispiace deluderti, ma non morirai.» 
Brandbury aveva ragione: nel giro di un paio di settimane Ivory si era perfettamente rimesso, la febbre era scomparsa e le ferite avevano avuto il tempo di cicatrizzarsi, per gli elfi i tempi di guarigione erano più rapidi e in un mese gli sfregi che deturpavano il petto e la spalla del guerriero si erano ridotti a sottili segni biancastri. 
Trascorse un’altra settimana di convalescenza, in cui Ivory era irrequieto e desideroso di partire: misurava con ampie falcate il perimetro della stanza, simile ad un animale in gabbia, e scalpitava e fremeva per tornare tra la neve e gli speroni rocciosi.  
Fu quasi con gioia e rinnovato entusiasmo che ripresero la marcia. Le tappe erano diventate meno forzate, per evitare che ci fossero ricadute, ed entrambi avevano i sensi all’erta per cogliere qualsiasi suono diverso dal fischio del vento e qualsiasi movimento che non fosse la danza lenta e leggiadra della neve. 
Fortunatamente, non fecero altri incontri spiacevoli e in una trentina di giorni, secondo i calcoli molto approssimativi di Brand, continuamente scompaginati dalle tempeste di neve e dalle nuvole basse che coprivano il sole, raggiunsero un varco che si apriva tra le punte acuminate e sfrangiate dei Ciclopi e lasciava trapelare il bacio tiepido del sole: erano riusciti a raggiungere l’altro lato della Porta.  
Abbandonarono l’incubo dei Ciclopi, ritrovandosi su un promontorio roccioso che si allungava sul Regno di Damevar. 
La loro delusione fu grande e si sentirono sbeffeggiati dal destino: un’altra distesa infinita di neve e ghiaccio li accolse, punteggiata qua e là da quelli che dovevano essere villaggi, ma per la maggior parte disabitata. Il colore dominante era il bianco, che si confondeva con quello del cielo, rendendo l’orizzonte indistinto e uniforme. Altre montagne e altre gole movimentavano la distesa, rendendola una grottesca prosecuzione dei Danaver, anche se meno minacciosa e aguzza.  
Se si fosse riusciti a non perdersi in quel dedalo di roccia, ci avrebbe pensato il regno di Damevar con la sua uniformità e il suo biancore opprimenti a portare chiunque su ciglio della follia. Fortunatamente erano ancora in possesso della bussola, e avevano sangue abbastanza per essere guidati in quel delirio candido, impedendogli di perdere la direzione e il senno.  
Un nastro fiordaliso che risaltava come una cintura azzurro sull’abito di una giovane donna, attraversava il mare bianco e immobile, spezzando la monotonia, e gemmava in lacrime color zaffiro, dove s’apriva in laghi dalle placide acque cristalline: si trattava dell’Amias, la loro destinazione. 
Nei pressi dell’omonima Gola, sarebbe dovuto sorgere il Palazzo della Regina Bianca, un minuscolo puntino blu elettrico che nuotava nell’inverosimile vastità di rilievi e depressioni della mappa luminescente. 
Quell’immensità li scoraggiava e li deprimeva, sentivano la mancanza della primavera sempiterna di Actardion, dei suoi frutteti, dei suoi campi biondi, delle fattorie e dei villaggi di legno e pietra, del sole caldo e accecante, che poco aveva a che fare con quest’ombra pallida e malata che a malapena riusciva a diradare le nebbie che ammantavano il fiume, e si domandarono quando avrebbero potuto ritornarvi. 
Avevano impiegato circa quattro mesi solo per raggiungere Damevar, e un altro mese di marcia li separava da Ebana, il Palazzo di Ghiaccio, residenza della Regina Bianca. 
La prospettiva non era delle migliori e lo scenario non migliorava di certo la situazione: era un paesaggio inquietante e opprimente, bianco e immoto; se Ivory avesse dovuto dare un volto all’oltretomba, non avrebbe esitato ad associarla ad esso.

 

 

   
 
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