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Autore: InuAra    26/05/2017    2 recensioni
ULTIMO CAPITOLO ONLINE!
Con due bellissime fanart di Spirit99 (CAP. 4 e 13)
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Cosa succede se il mondo di Ranma incontra il mondo di Shakespeare? Rischia di venirne fuori una storia fatta di amori, avventura, amicizia, gelosia, complotti. Tra fraintendimenti e colpi di scena, ne vedremo davvero delle belle!
DAL CAPITOLO 2
Ranma alzò lo sguardo verso il tetto. “Akane. Lo so che sei lì” “Tu sai sempre tutto, eh?” A Ranma si strinse il cuore. Ora che era lì, ora che l’aveva trovata, non sapeva cosa dirle. Soprattutto, non poteva dirle nulla di ciò che avrebbe voluto. “Beh, so come ti senti in questo momento” “No che non lo sai” “Si può sapere perchè non sei mai un po’ carina?” “Ranma?” “Mmm…”  “Sei ancora lì?” “Ma certo che sono qui, testona, dove pensi che vada?” Fece un balzo e le fu accanto, sul tetto. “Sei uno stupido. So benissimo che sei qui perchè te l’ha chiesto mio padre” “E invece la stupida sei tu”, si era voltato a guardarla, risentito e rosso in viso, “E’ vero, me l’ha chiesto, ma sono qui perchè lo voglio io! Volevo… vedere come stai…ecco…”
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akane Tendo, Ranma Saotome, Un po' tutti
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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(Per non appesantire troppo la lettura della pagina rimando il riassunto dei capitoli precedenti alla fine del capitolo ;-))
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So, either by thy picture or my love, 
Thyself away art resent still with me; 
For thou not farther than my thoughts canst move,
And I am still with them and they with thee. 
 
Con la tua immagine o con il mio amore,
tu, benché assente, mi sei ogni ora presente.
Perchè non puoi allontanarti oltre il confine dei miei pensieri;
ed io sono ogni ora con essi, ed essi con te.
 
Sonnet 47 - W. Shakespeare
 
 

 
 
I to the world am like a drop of water
That in the ocean seeks another drop,
Who, falling there to find his fellow forth,
Unseen, inquisitive, confounds himself.

 
Nel mondo io sono come una goccia d’acqua
che cerca un’altra goccia nell’oceano
e che vi si lascia cadere per trovar la sua compagna
e inavvertita e curiosa vi si perde.
 
The Comedy of Errors - W. Shakespeare
 
 

 
 
“Mi stai dicendo che l’hai incontrato?!”, Ukyo si staccò dall’abbraccio di Ryoga, strattonandolo leggermente verso di sé e sforzandosi di non urlare. “Hai… hai incontrato Ranma?!”
 
Era stato tutto troppo veloce.
 
Aveva visto tornare i soldati - erano tutti parecchio malmessi -, aveva cercato febbrilmente Ryoga tra gli altri – dove diavolo era finito?-, e poi l’aveva visto spuntare – oh grazie kami che me l’avete riportato - e arrancare da lontano verso di lei, una mano pigiata contro la spalla e un sorriso mesto. Era sangue quello?
“Niente di grave, piccola Ukyo”, una voce poco distante, un po’ affaticata, l’aveva raggiunta; aveva capito subito a chi apparteneva, anche senza voltarsi: un giovane secco secco, dall’occhio furbo e la barbetta ispida, che non mancava mai di chiederle una doppia razione, che lei gli dava sempre di buon grado. “Si riprenderà presto. E’ stata una giornata lunga per tutti, ma la pellaccia del nostro Hibiki è parecchio dura e il poco veleno di quel taglietto è già storia passata”
Ukyo aveva sussultato con orrore alla parola “veleno”. L’aveva guardato per un istante, grata, e non le era salita alle labbra altra risposta che un debole sorriso. Era passata oltre e aveva continuato a farsi strada verso di lui.
“Ryoga!”
Finalmente.
Gli si era fiondata al collo. Aveva affondato le dita tra i suoi capelli sudati. Le guance accaldate avevano preso a bagnarsi. Lui l’aveva stretta forte. E poi le aveva sussurrato all’orecchio quella notizia inaspettatta.
Le lacrime le si erano fermate negli occhi e il respiro in gola.
 
“…Hai… hai incontrato Ranma?!”
 
Scostandosi appena da lei, Ryoga la guardò colpevole, annuendo.
 
Poco lontano, il dottor Tofu stava cominciando a curare i feriti più gravi. La giornata doveva davvero essere stata lunga, sul campo.
 
Lei non riuscì a far altro che fissare Ryoga negli occhi, e lui ne approfittò per trascinarla lontano dalle urla dei compagni e dal sangue, per poterle raccontare ogni dettaglio del suo incontro con Ranma, in quel giorno di battaglia.
 
Quando Ryoga ebbe finito e sospirò, svuotato, Ukyo gli strinse una mano, senza smettere di scuotere la testa: “Ah, Ranma… Lo sapevo… lo sapevo che non potevi volerla morta! Brutto stupido, ma ti rendi conto di quante ce ne hai fatte passare?!”
Sospirava, e rideva, e ringhiava, sbuffando fuori tutte le tensioni aggrovigliate per troppo tempo dentro di lei. E tutte le lacrime.
Gliele avrebbe suonate di santa ragione quando fosse tornato da loro, ben intesi. Ma era felice di sapere che non era cambiato, di saperlo lo stesso Ranma di una volta, di saperlo alla ricerca di Akane.
Sentiva che tutto si sarebbe risolto, in un modo o nell’altro.
 
Ryoga sospirò ancora e a Ukyo la cosa non sfuggì.
 
“Non ho fatto in tempo a dirgli che Akane – se fosse… se fosse ancora viva…”
 
“Lo è”, lo bloccò Ukyo, ricacciando un singhiozzo e affrettandosi a correggerlo, “E’ viva. Te lo dico io…”
 
“Non ho fatto in tempo a dirgli”, continuò stancamente lui, “che è travestita da ragazzo… che… se vuole trovarla… deve cercare un ragazzo! …Non la nostra solita Akane”, la testa gli crollò sul petto, “Quell’idiota se ne è andato prima che potessi dirglielo”
 
Ukyo si asciugò bruscamente le lacrime. Gli si avvicinò e gli accarezzò una guancia.
 
“Credi davvero che questo basterebbe a fermarlo? Non credi che…”, osò un sorriso, “che riconoscerebbe ‘il suo maschiaccio’ in ogni modo?”
 
“Dici?”, Ryoga sollevò lo sguardo, speranzoso.
 
“Io ne sono sicura”, annuì lei, riuscendo infine a calmare il proprio respiro.
 
Senza dire niente lui le baciò le labbra ancora arrossate e bagnate di sale.
Quando si staccarono, si scoprirono un po’ più accaldati in viso e un po’ più leggeri in petto.
 
“E comunque…”, tossicchiò Ukyo, cambiando discorso e indicando la ferita sulla spalla di Ryoga, “è meglio che ti ci fai dare uno sguardo dal dottore...”
 
“Qualcuno mi cerca?”
 
“Dottor Tofu! Proprio lei… Non le sembra brutto questo taglio?”
 
Il dottore sorrise e Ryoga fece un cenno col capo, un po’ imbarazzato. “Caro ragazzo, è raro doverti medicare. Cos’è successo? Veleno, forse?”, aggiunse, esaminando meglio la ferita.
 
“Così pare”, rispose Ukyo per lui, la voce un po’ più apprensiva.
 
“Vediamo cosa possiamo fare…”
 
Il dottor Tofu non fece in tempo a rimuovere completamente il pezzo di stoffa di fortuna usato da Ryoga per fermare il sangue, che due mani bianche e sottili gli tesero una bacinella d’acqua fresca e alcune bende pulite.
Né Ryoga né Ukyo si erano accorti della fanciulla al seguito del dottore.
Il dottore stesso trasalì, inspiegabilmente colto di sorpresa.
 
“Grazie, signorina Hi-Hi-Hitomi…”
 
A Ukyo parve che lo sguardo del dottore si irrigidisse dietro gli occhiali tondi, e che la garza tremasse mentre le sue dita, nel prenderla, sfioravano quelle di lei.
 
Incuriosita, Ukyo spostò lo sguardo sulla nuova ragazza, i cui lunghi capelli ricadevano morbidamene su una spalla e il cui sorriso premuroso era la cosa più dolce che avesse mai visto. Aggrottò le sopracciglia. Per un attimo giurò di conoscere quel volto, le parve di ritrovare in quegli occhi grandi e liquidi un segreto nascosto.
Ma come il ricordo di un sogno che alla luce del risveglio cancella i contorni di un volto e li rende inafferrabili, anche per Ukyo quella sensazione scomparve al trillo del risolino della fanciulla che redarguiva con modestia il dottor Tofu: “Dottore, state attento o farete cadere la benda a terra”
 
Come fosse finita lì quella creatura benefica - così le sembrò, nell’aura del crepuscolo-, Ukyo non sapeva dirlo. Né sapeva che una volta all’accampamento al seguito di Soun Tendo, Kasumi si era subito proposta di aiutare i feriti e gli invalidi ed era così che i suoi occhi avevano incrociato per la prima volta quelli del dottor Tofu. Un uomo, il dottore, che Ukyo stessa conosceva da una vita e che era sempre stato pacato, affidabile, imperturbabile…
 
“Ahia, dottore! Così mi fate male… Non stringete troppo…”
 
“Oh, chiedo scusa, Ryoga, forse ho un po’ esagerato…”
 
Il dottore fece un piccolo inchino col capo, visibilmente in imbarazzo, e si affrettò ad allentare la fasciatura.
 
Ukyo espirò compiaciuta e lanciò un’occhiata a Ryoga, che non sembrò cogliere l’ironia della situazione. La ragazza ridacchiò tra sé e sé. Non aveva importanza.
 
Se ancora, nonostante tutto, con una guerra in corso poteva nascere un amore, allora c’era davvero speranza per tutti loro.
 
 
 
***
 
 
 
 
In una zona decisamente più appartata dell’accampamento, appoggiata a una staccionata, Nabiki inspirò la brezza del tardo pomeriggio.
Il cielo si era fatto terso e l’aria meno soffocante. Spinse il suo sguardo oltre le tende, oltre le sentinelle e i fuochi, fermandolo sui boschi verde cupo in lontananza.
Lo zio Genma era là, da qualche parte. Forse anche più vicino. Ne percepiva la presenza.
Sulle sue labbra si dipinse un sorrisetto fiero.
 
*Tranquillo, zio. Noi stiamo bene*
 
Erano lì da non più di qualche giorno.
Si strinse nelle spalle al ricordo di come Kasumi avesse avvicinato il dottore, un uomo tanto esperto nell’arte della vita quanto inesperto in quella del cuore.
Non che lei e la sorella partissero in grande vantaggio a quel proposito, ma se lei poteva contare su un certo buon grado di intuizione, Kasumi aveva la forza del proprio candore.
 
*Anche mia sorella sta bene, zio*, trattenne una risatina, *Aiuta il dottore e il dottore arrossisce. E io…* 
 
Si voltò a guardare la tenda di Soun-sama, senza saper spiegare né a se stessa né all’aria del tardo pomeriggio perché stare lì la facesse sentire così sicura.
Si era abituata all’accampamento e alla presenza di tanti uomini.
E si era abituata alla presenza rassicurante di Soun Tendo, al calore che quella tenda emanava. Un calore stranamente familiare.
 
Fu in quel momento che il principe mise piede in quella specie di piccolo cortile. Aveva gli occhi segnati e le labbra lievi sotto i baffi.
 
“Siete tornato”, gli andò incontro Nabiki a passo spedito, i boschi ormai lontani nella sua mente.
 
“E sono felice di rivederti, bambina”, annuì lui, guardandosi poi intorno con aria interrogativa.
 
Nabiki si affrettò a raggiungerlo: “E’ al campo a curare chi ne ha bisogno, ma prima di andare ha lasciato per voi una tazza di tè. Dovrebbe essere ancora caldo”
 
Da tempo Soun non era abituato a quelle premure e sentì qualcosa sciogliersi in petto.
Fece cenno a Nabiki di entrare con lui. Quella tenda spartana era come una nuova casa, per lei e Kasumi. Soun-sama aveva dato loro il permesso di entrare quando volessero, ed entrambe lo facevano ormai senza abbassare lo sguardo.
Nabiki si diresse subito verso il tavolino su cui erano stese diverse mappe.
 
L’uomo prese la tazza di tè. Era ancora caldo. “Dimmi cosa ne pensi, Misaki, mia cara”
 
Pochi giorni e si era abituato a dipendere da quegli occhietti vispi, da quello che sapevano vedere sulla carta.
 
Nabiki prese distrattamente un paio di biscotti di riso dal piattino accanto alla teiera e Soun sorrise di fronte a quell’innocente impertinenza.
Pochi giorni e si era abituato anche a quella.
Mentre li sbocconcellava, Nabiki scrutò una cartina, pensosa.
 
“Mmm… è proprio necessario che queste truppe stiano qui?”
 
Soun si sporse a vedere dove stava indicando il dito sottile della ragazza.
 
No, non lo era. Aveva pensato che fosse il modo migliore di impiegarle, ma…
 
“Perché se fosse per me”, continuò lei, “io le sposterei qui. E queste altre… qui. Vedete? Così i Cinesi si sentiranno il nostro fiato sul collo, senza contare che la loro visuale qui non sarebbe abbastanza ampia e si accorgerebbero solo all’ultimo dei nostri movimenti”
 
Soun la guardò stupito e lei mandò giù l’ultimo boccone.
 
“Hai proprio ragione, mia cara. Convoco immediatamente i generali per stabilire il cambio di strategia”
 
Si diresse verso l’uscita, più leggero di come era entrato.
 
Nabiki era tornata a osservare altre mappe, che raffiguravano i territori circostanti.
Conosceva bene quei torrenti, quelle piane, quelle montagne. Soprattutto quelle montagne... Le dita che scorrevano sulla carta si fermarono di colpo. Si sentì solleticare da un’idea, ancora informe nella sua testolina per essere afferrata, e tuttavia assai intrigante. Girò il capo sperando che lui fosse ancora lì, e i corti capelli le frustarono il viso, nel movimento. Soun era già uscito, probabilmente da qualche minuto, e lei tornò alla mappa con più calma, fermandola contro il tavolino con entrambe le mani, le braccia tese, e piegando il busto per avvicinarsi e studiarla meglio, con avidità.
E mentre lasciava che quell’idea prendesse forma nella sua mente, un ghigno scaltro le si scolpì sulle labbra.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
Accovacciato sul ramo di un alto faggio, Ranma riuscì a non muovere un muscolo, mentre col viso accaldato e le nocche bianche contro la corteccia tratteneva il respiro al passaggio di una truppa di soldati cinesi.
Dannazione, non volevano spostare quelle chiappe pesanti!
Gli parve di rivedere su quei volti i tratti di qualche vecchio compagno di traversata, quando l’esercito nemico era il solo mezzo per attraversare le acque che lo dividevano dalla terra di Akane, per andare in cerca di lei e riparare alle proprie colpe.
Si acquattò meglio tra le fronde, sforzandosi di non sbuffare.
I giorni in cui aveva creduto che Akane fosse morta erano sbiaditi nella sua mente, lontani e confusi nel dolore che aveva accompagnato allora ogni sua azione.
Ora sapeva che era viva.
Quel pessimista di Ryoga lo sperava… Lui ne era certo, e un solo pensiero lo muoveva: trovarla!
Vide quei soldati oltrepassare pigramente il tronco robusto del faggio, calpestandone le radici. Sembravano avvezzi ai quei luoghi, che erano caduti in loro potere ormai da giorni.
Ranma si morse il labbro. Il loro arrivo l’aveva costretto a fermarsi. Era sporco, sudato. Sonnecchiava una manciata di minuti alla volta e trovava a malapena il tempo per cibarsi, figurarsi trovare quello per lavarsi. Aveva perso il conto di quanti giorni erano passati dall’ultima volta che si era fatto un bagno. Non aveva sprecato un solo istante utile: aveva setacciato l’intero monte Inunaki, saltando di ramo in ramo senza sosta e aggirando le pattuglie sempre più numerose che incrociava sul suo cammino. Era incappato in qualche rudere, ma niente di più. Il grande monte era disabitato e così le boscaglie limitrofe. Aveva battuto i sentieri e aveva bussato a ogni porta delle case sulla via per Hakata, chiedendo di una ragazza dai capelli corti, ostinata e incosciente.
Per un attimo se la immaginò, nel mondo, a stupirsi di ogni cosa e a prodigarsi per chiunque. E le labbra gli si piegarono verso l’alto, divertite.
Poi si ricordò che Akane era lì fuori, sola e spaventata per colpa sua, credendo che lui non la amasse più, che la volesse morta.
Strinse il pugno e chiuse gli occhi, tentando di ritrovare una parvenza di calma.
Hakata, sì, la strada per Hakata…
Tutti i contadini che lungo la strada per Hakata gli avevano aperto le loro porte avevano finito ogni volta per scuotere la testa, e lui era passato oltre.
Su quel ramo, Ranma fremeva. Il sole avrebbe fatto presto a calare, e lui voleva ricominciare la corsa, perché lei era lì da qualche parte, se lo sentiva, e lui aveva fretta di raggiungerla.
Per passare il tempo nell’attesa che venissero inghiottiti dal fogliame, Ranma si chiese dove fosse il generale di quei soldati, il giovane dagli occhi chiari e il sorriso sincero, quel generale Shinnosuke che tutti ammiravano tanto. Forse non troppo lontano da lì, si rispose, forse nella sua tenda in procinto di pianificare la battaglia. Ma in fondo poco importava: nell’istante in cui i soldati scomparvero finalmente dalla sua vista, sparì anche quel pensiero dalla sua mente.
Tenne ancora per un po’ lo sguardo ancorato verso il sentiero che avevano preso e saltò giù dall’albero senza spostare un granello di polvere, per poi voltarsi nella direzione opposta.
*Pensa, Ranma, pensa*
Era chiaro che Akane non era riuscita a raggiungere Hakata… Forse era stata incalzata dall’avanzare dell’esercito cinese? Con molta probabilità aveva dovuto lasciare quei boschi.
Che le fosse successo qualcosa di peggio, Ranma non potè neanche permettersi di immaginarlo. Lo escluse a priori. Perché Akane era un maschiaccio forte e robusto. Perché Akane sapeva come difendersi. Perché lui non se lo sarebbe mai perdonato.
Spostò il peso da un piede all’altro, interrogandosi sul da farsi, irrequieto.  Non restava altro che prendere in considerazione i diversi piccoli villaggi schiacciati tra la montagna e la battaglia, gli stessi a cui non troppo tempo prima si era ritrovato a prestare soccorso un po’ alla rinfusa. Sì, Akane doveva essere lì, nascosta da qualche parte.
Voltò il capo di scatto e i suoi occhi blu cupo scrutarono la strada che avrebbe dovuto percorrere, oltre gli alberi, le rocce, i torrenti.
Con un gesto un po’ rozzo, Ranma si scostò i capelli corvini dalla fronte.
“Allora è deciso”, mormorò con un tono basso, quasi un sussurro.
Un ringhio.
Un soffio.
Ogni fibra del suo corpo e del suo spirito sembrò proiettarsi verso quella strada, i muscoli tesi, il respiro quieto, e per un attimo il tempo parve sospendersi.
 
Poi ricominciò a scorrere e così il sangue nelle sue vene.
Ranma iniziò a spingersi in avanti, un passo dopo l’altro, finendo per sfiorare appena il terreno, quasi volando, tanto correva veloce.
 
 
 
***
 
 
 
Assecondando la spinta dell’aria che gli lasciava i polmoni, Genma saltò giù dall’albero con un tonfo.
Le braccia gli pendevano pesanti ai lati del corpo, la testa troppo pigra per sollevarsi e guardare davanti a sé.
 
Cosa stava facendo?
 
Erano già passati due giorni - o forse più? - da quando era lì.
 
A dispetto dell’età e degli occhiali appesi al naso, la sua vista era ancora buona. Aveva passato parecchio tempo stretto ai rami più alti di quell’albero che troneggiava sugli altri del bosco, e aveva osservato ogni movimento a valle: i soldati giapponesi che avevano cambiato di colpo la loro strategia di attacco, quelli cinesi che si erano ritrovati ad arretrare quasi fino a cozzare contro il loro accampamento… E lontano, oltre i margini della battaglia, i suoi occhi avevano afferrato le sagome delle tende dell’esercito di Soun-sama e forse anche – chi poteva dire se fosse solo frutto della sua immaginazione?- le figure lontane, sottili e dritte delle sue bambine. Delle bambine di Soun... Delle bambine che lui, Genma Saotome, aveva cresciuto. E sì, amato.
 
Quanti giorni erano passati da quando era lì?
 
Vagava come un animale selvaggio sul limitare di un insediamento umano, incuriosito e inferocito, timoroso e sconsiderato. E non si risolveva a varcare il confine che lui stesso si era dato.
Era stato di parola. Le aveva seguite da lontano e aveva vegliato su di loro.
Era certo che si fossero fatte onore in quell’accampamento che apparteneva loro di diritto. Così come quelle terre che l’esercito stava difendendo. Che… loro padre stava difendendo… rischiando la vita ogni giorno.
 
E loro non lo sapevano.
 
“Non sapete neanche il vostro nome”, mormorò con voce rugginosa.
Si schiarì la gola tesa. Non parlava da giorni.
“Non ho avuto neanche il coraggio di dirvelo”
 
Non sapevano chi erano, eppure questo non aveva mai avuto importanza: erano sempre state fedeli a loro stesse.
 
Se fosse stato meno vigliacco si sarebbe ucciso in quell’istante.
Sorrise amaramente. Ma lui era vigliacco, lo era sempre stato. Nella vita cos’altro aveva fatto a parte mentire, rubare e darsela a gambe? Continuava a farlo, a dirla tutta. 
Si strappò gli occhiali, con un gesto rabbioso e con la mano libera si stropicciò il volto arrossato, grugnendo di esasperazione.
Sembrava lottare contro se stesso, contro un desiderio di riscatto che chissà quando gli si era acceso dentro. E come un fuoco, quel desiderio cresceva e lui tentava di soffocarlo, finendo per gonfiarlo sempre più.
 
Si rimise gli occhiali e misurò lo spazio intorno a lui a larghi passi, spostandosi da un piede all’altro con un nervosismo crescente.
Frenò di colpo.
Cosa diamine stava facendo? Lui era lì a tergiversare quando una guerra infuriava e rischiava di portare via un padre alle sue figlie ignare, una guerra come quella che gli aveva portato via il suo Ranma, tanti anni prima.
Deglutì e finalmente ebbe l’ardire di sollevare lo sguardo. La luna stava sorgendo timidamente nella luce del giorno che ormai scemava e i suoi occhi ardevano.
 
Avrebbe posto rimedio agli anni, alla codardìa, agli errori. C’era ancora tempo e breve era la distanza che lo separava dal suo intento.
 
“E’ deciso”, pronunciò mentre si avviava fuori dal bosco.
 
Avrebbe restituito le figlie al padre, fosse l’ultima cosa che avrebbe fatto.
 
E se Soun non lo avesse perdonato, beh, avrebbe sempre potuto darsi alla fuga.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
La luna illuminava a sprazzi l’interno della carrozza che scivolava rapida nella notte.
 
Kodachi Kuno non riusciva a impedire alle piccole labbra dipinte di piegarsi in un ghigno, gli occhi fissi sulla strada che scorreva sotto di lei e che la avvicinava al suo scopo.
Una giovane moglie atterrita e bisognosa di protezione non avrebbe destato sospetto. Non aveva certo bisogno di pretesti per introdursi all’accampamento.
 
Era arrivato per lei tempo di agire. In fondo se ne era rimasta buona buona a palazzo per tutto quel tempo.
Non che nel frattempo non avesse provveduto a intrattenersi. Il fatto era che si era annoiata a morte.
E così aveva messo mano a tutto ciò che aveva potuto: le carte, i beni, le terre e le genti che le abitavano. Come un contagio si era insinuata in ogni anfratto che aveva anche solo l’odore del potere, amministrando a suo piacimento e sfruttando fino allo stremo chi lavorava per Soun-sama.
Ma non le bastava più.
Era rimasta fredda e ragionevole troppo a lungo e ora si meritava di ottenere ciò per cui aveva aspettato tanto.
 
L’elsa di un pugnale brillò per un breve istante alla sua cintura.
 
Kodachi socchiuse gli occhi languidi e inspirò profondamente: doveva placare il proprio animo eccitato.
Nella precarietà dei tempi era normale che una donna andasse in giro armata, si ripetè.
Le avevano riferito che quel suo insulso sentimentale marito stava avendo la meglio sul campo. Non si era ancora fatto ammazzare, ma la notizia giocava comunque a suo favore. Con i Giapponesi in vantaggio, lei avrebbe avuto la strada spianata, e facile sarebbe stato per una povera vedova assumersi il comando di un popolo vincitore…
 
Ormai mancava meno di un’ora. Immaginò quell’uomo adorabile quanto stupido trotterellarle incontro al suo arrivo. Ma in attesa di quel momento aveva bisogno di liberare la mente.
Chiuse completamente gli occhi, reclinando il capo all’indietro, e col pollice delineò con cura i bordi dell’anello che portava all’anulare della stessa mano, stuzzicando col polpastrello il piccolo gancio nascosto, ma facendo attenzione a non forzarlo, o ne sarebbe uscita la polverina che conteneva. E allora… fine del divertimento!
 
Sentì la carrozza rallentare, poi delle voci lontane. Strinse il pugno e aprì di scatto gli occhi, ornandoli con sapienza di una immediata compostezza, per fare quindi capolino, mostrando la sua persona.
 
“K-Kodachi-sama!?”, bastò quello sguardo a convincere la sentinella di guardia. “Soldati! Fate passare la nostra signora!”
 
 
 
Quando il suo piedino toccò terra, Soun Tendo era già stato avvisato ed era lì ad aspettarla, insieme a uno stuolo di uomini e servitori che erano stati buttati giù dalle brande per ricevere con tutti gli onori la moglie del loro principe.
Tra loro, col capo chino in segno di rispetto, si trovavano casualmente anche Kasumi e Nabiki.
 
Kodachi represse il desiderio di un’entrata trionfale. Sarebbe arrivato il tempo anche per soddisfare tutti quei piccoli piaceri. Bastava aspettare ancora un po’. Zampettò invece come una cerbiatta impaurita tra le braccia del marito, coprendosi metà del viso con la manica del kimono.
 
“Mio adorato consorte! Finalmente ti ritrovo… Credevo di morire, tutta sola, con questa guerra a separarci!”
 
“Kodachi, mia cara, non ti aspettavo…”, la guardava incredulo, confuso.
 
Povero caro, davvero non si aspettava una sua visita…
 
“Hai… hai corso un grave pericolo… E’ stato ardito attraversare le terre per arrivare fin qui… Dovresti essere a palazzo, adesso, al sicuro, e non qui a rischiare la vita”
 
“Tesoro mio…”, sospirò lei appoggiandosi al braccio di lui e quasi collassando per la stanchezza, “…hai ragione, come sempre, ma avevo uno sciocco presentimento e mi premeva vederti. Sii buono, congeda tutte queste persone. Desidero soltanto stare con mio marito e sapere che è sano e salvo. Io e te, e nessun altro”, aggiunse con un rossore pudico.
 
La fronte di Soun si spianò e l’occhio gli si addolcì.
Con un cenno la piccola folla fu dispersa.
 
Ma con la coda dell’occhio a Kodachi non sfuggì l’esitazione di due piccole figure, prontamente rassicurate da uno sguardo eloquente del marito, carico di una inspiegabile confidenza.
 
Si fermò sul posto. “Caro, chi sono quelle due donne?”
 
Soun spostò lo sguardo nuovamente su di lei. “Due fanciulle che mi hanno salvato nei boschi”, spiegò non nascondendo un certo orgoglio, “e che io ho preso con me. Ti stupirai della loro bontà e della loro intelligenza, quando domani le conoscerai. Mi sono state di conforto in questi giorni di sofferenza”
 
Kodachi alzò un sopracciglio. Sbagliava o quelle impertinenti si erano fermate e la stavano fissando?! Qualcosa in loro le fece ribollire il sangue. Non si preoccupò di capire se fosse la loro sola presenza o la sfacciataggine con cui continuavano a sostenere il suo sguardo, a infastidirla tanto, se l’ironia degli occhi dell’una o la purezza di quelli dell’altra. La facevano sentire insicura e questo le era accaduto solo di fronte ad Akane Tendo, che non abbassava mai il mento quando la incrociava per i corridoi della grande casa.
Espirò lentamente.
Quella sciocca non poteva più nuocerle. E quelle due non erano certo Akane Tendo.
Rafforzò la presa sul braccio di Soun.
In fondo lei aveva un piano da portare a termine.
Con un gesto rapido e preciso del polso fece segno alle due pastorelle - perché di questo si trattava, di due inutili pastorelle senza alcun potere sul suo consorte – di sparire dalla sua vista.
E la frustrazione che lesse nei loro occhi mentre si allontanavano dal loro benefattore non fece altro che rimpolpare il piacere di trovarsi finalmente da sola con lui.
 
 
 
***
 
 
 
Tanti anni di allenamento in gioventù e di caccia nei boschi in età più matura avevano chiaramente dato i loro frutti, e Genma riuscì facilmente a intrufolarsi all’interno dell’accampamento evitando con cura una dopo l’altra tutte le sentinelle di guardia.
Scosse la testa, contrariato.
Era un bene che non lavorasse per l’esercito nemico. Possibile che il suo vecchio compagno di bevute fosse stato così poco previdente?
 
L’immagine inaspettata di lui e Soun, vent’anni più giovani, abbracciati nel tentativo di reggersi vicendevolmente in piedi dopo essersi scolati più di qualche bicchierino di sakè, gli annodò le budella e gli fece tremare le ginocchia mentre ancora se ne stava accovacciato in bilico su una palizzata.
Inspirò con decisione.
Era arrivato fin lì. Aveva cominciato camminando, un passo dopo l’altro, e senza accorgersene si era ritrovato a correre, per fermarsi solo davanti alla cinta di difesa del campo.
Non si sarebbe fatto fermare tanto facilmente. Sarebbe andato fino in fondo.
Serrò quell’immagine dentro di sè, silenziando il ricordo delle loro risa e il sapore dell’alcol, e balzò a terra come se fosse fatto d’aria. E come aria, si mosse felpato tra le tende disposte in fila, insinuandosi nel buio dell’accampamento, deciso a ogni costo a trovare l’uomo a cui aveva strappato le figlie.
 
 
*
 
 
“Rilasciati, tesoro mio”
 
La voce di Kodachi colò su di lui come olio profumato, mentre con una mano fredda e sottile gli accarezzava la fronte e le tempie.
Forse era una moglie troppo giovane per lui, che impegni più grandi avevano trattenuto impedendogli di dedicarle il tempo che si sarebbe meritata. Forse non poteva dividere con lei il fardello di quella guerra né il peso delle proprie preoccupazioni.
Certo non era la sua adorata prima moglie…
Eppure non potè non commuoversi quando l’occhio gli cadde sugli stivali accanto alla branda che lei gli aveva appena slacciato e sfilato. E non seppe ringraziarla se non assecondandone ogni premura.
 
“Riposa qui sulla branda, accanto a me”, la invitò esausto, mentre deglutiva il tè dalla tazza che lei gli stava portando alle labbra.
 
“Arrenditi, marito mio”
 
Una luce guizzò nelle pupille della moglie, in piedi accanto a lui. Ma forse era solo la fiamma della candela nel silenzio di quella notte.
 
“Arrenditi a me. Voglio solo che tu non senta più alcuna stanchezza né dolore. Come posso fartelo capire?”
 
Si chinò verso di lui e a contatto con quelle di lei l’uomo si accorse che le proprie labbra erano fredde e secche.
 
Riaprendo gli occhi, Soun la vide ancora abbassata su di lui, il viso poco distante dal suo. I lunghi capelli pendevano da un lato come una scia d’inchiostro e ricadevano sul suo petto, solleticandogli il collo. Gli occhi acquosi erano inchiodati ai suoi.
 
“Sembri senza forze…”
 
Era vero, si sentiva senza forze. Aveva combattuto tanto…
Annuì.
 
La testa si mosse appena, troppo pesante sul cuscino. Un sapore dolciastro gli impastò la bocca.
 
“Devi mangiare, marito mio. Se non ti sazi, come farai a lottare?”
 
Si staccò da lui per piegarsi sul tavolino ai piedi della branda; vi si trovava un vassoio con qualche boccone di carne speziata.
Soun la vide prenderne un pezzo con le mani e fece per mettersi a sedere per facilitarle quello che aveva interpretato come un gesto di grande intimità. Ma il corpo non seguì la sua volontà, come intorpidito.
La vide portare la carne alla bocca –dunque non era per lui?-, vide i dentini bianchi di lei affondarvi e succhiare.
 
“Gloria, potere… Per te sono solo parole, non è così, marito mio?”
 
La vide tamponarsi col dorso della mano il grasso della salsa agli angoli della bocca.
 
“Ma per me no. Gloria, potere: li desidero come desidero il sapore della carne sulla lingua. E non è certo stando ferma ad aspettare che posso… saziarmi”
 
Scandì quell’ultima parola.
 
“Koda-…”
 
La voce gli si bloccò in gola. Soun sentì i muscoli del collo serrarsi intorno alla laringe.
Non capiva.
Sapeva solo che il suo corpo era di colpo schiacciato contro la branda da un peso invisibile.
 
“Lasciati andare, tesoro mio. Abbandonati al veleno che scorre ormai nel tuo sangue”
 
Un brivido schizzò lungo la sua spina dorsale. Possibile che…?
 
“No, è inutile che sgrani gli occhi. Non è così che ho deciso di ucciderti, sciocchino! Sono una vera maestra delle pozioni, dovresti saperlo…”
 
La rivide, amorevole, nei giardini del palazzo, mentre sorrideva nel sole del tardo pomeriggio.
 
“La polverina che ti ho versato nel tè serve solo a sedare le tue membra… non sarà per questo che morirai…”
 
Rivide Akane, i suoi occhi feriti. Akane che aveva cercato di metterlo in guardia.
 
“Perciò non temere, resterai vigile e potrai ascoltare tutto quello che ho da dirti. Non c’è nessuna fretta. Sei solo, qui. Io e te, e nessun altro. Pensavi davvero che me ne sarei stata buona a guardare?”
 
Quella non era la donna che aveva creduto di sposare.
La realtà gli si sgretolò addosso col peso delle parole che Kodachi stava pronunciando.
 
“Ci siamo sposati per interesse, se non ricordo male. Beh, mio adorato, io ho il mio. E non importa se ho dovuto aspettare per trarne profitto”
 
Gli sembrò che il suo corpo si infuocasse e fosse trascinato sempre più giù, fino al centro della terra.
 
“Pare che il tuo esercito stia vincendo. E ho deciso che voglio giovarne”
 
*Akane, perdonami. Figlia mia, perdona questo tuo stolto padre*
 
“Purtroppo domani il sole sorgerà su un accampamento senza più il suo generale…”
 
*Ranma… Ragazzo mio, come ho potuto cacciarti via così?...*
 
“Disgraziatamente si scoprirà che durante la notte una spia cinese avrà trovato il modo di pugnalare Soun Tendo nel sonno… Un vero peccato, non trovi, tesoro?”
 
Avrebbe voluto piangere. Ma se anche il veleno non avesse bloccato i suoi occhi, aveva dimenticato da tempo come si faceva.
 
“Soun Tendo… Un signore così giusto, così accorto… Tanto accorto che non ha saputo distinguere chi fosse migliore per quella sciocca di sua figlia, se un ragazzo che era disposto per lei a gettarsi sotto le ruote di un carro o… mio fratello”
 
Si maledisse.
 
“Ahahaha! Mio fratello…! Tu ignori, vero, nella tua magnifica bontà, che Tatewaki a quest’ora avrà trovato la cara piccola Akane e le avrà torto il collo?”
 
Non seppe trovare la forza di sfuggire all’orrore di quelle parole, di divincolarsi dalla stretta di quello sguardo per rotolarsi giù dalla branda, fosse anche per ritrovarsi col volto nella polvere. Ma ci provò. Ci provò con tutto se stesso.
 
“Sì, maritino mio, sì, e non senza prima essersi divertito con lei”
 
La vide gongolare per i suoi sforzi vani.
 
“Lasciati dire che sei veramente una frana a comprendere le persone”
 
Si maledisse, si maledisse ancora. Pregò che Akane, la sua piccola Akane, sola, fuori nel mondo, avesse raggiunto Ranma prima di incontrare quel traditore di Kuno, su cui lui aveva riposto tanta fiducia. Pregò davvero, e per un istante volle credere che desiderandolo intensamente fosse finache possibile cambiare il corso degli eventi.
 
“Mio fratello è come me. Brama il potere. Ma poi che importa anche di lui…”
 
La vide innervosirsi.
 
“Quell’idiota di Tatewaki perde facilmente la testa e si sarebbe pure accontentato di conquistarsi lo spazio tra le gambe di quella sgualdrina. Se dovesse tornare, tanto peggio per lui… Ma adesso…”
 
La vide ricomporsi.
 
“… adesso, ci sei tu qui, non lui. E nemmeno quel traffichino di Happosai...”
 
Sentì lo sguardo di lei affilarsi sul suo corpo inerme.
 
“Nè quel… quel Ranma a cui ho dovuto a malincuore rinunciare…”
 
La vide leccarsi le labbra, gli occhi vacui per un istante. Capì di non essere stato per lei mai nulla più di un fantoccio di carta, di quelli che i bambini ritagliano con cura per poi accartocciare tra le dita per dispetto.
 
“…Io e te”
 
La vide mettere mano alla cintura.
 
“E questo pugnale”
 
Tentò di urlare, di gridare aiuto, ma non un suono uscì dalla sua gola.
 
“Lasciati andare, tesoro mio”
 
La testa gli girava al suono vellutato di quella voce.
 
“Voglio che tu veda la tua morte negli occhi e ascolti dalle sue labbra quanto sei stato stupido”
 
Gli era sembrata perfetta. La vide per quella che era.
 
“Un bel pugnale impregnato per bene di un veleno - questa volta sì - mortale”
 
Una strega.
 
“Anche se non riuscissi a spingerlo a fondo come vorrei, sarebbe sufficiente un piccolo taglio, sai? Come vedi, ho pensato proprio a tutto. E sarà veloce, non temere, non sono poi così sadica…”
 
La vide mentre sollevava lo stiletto con entrambe le mani.
 
Lui solo, in silenzio, sarebbe stato testimone della propria morte.
Non sarebbero state dette tutte quelle cose che si dicono in punto di morte. Non avrebbe combattuto e neppure tremato. Semplicemente, di lì a poco il suo cuore avrebbe smesso di battere.
 
Fu in quel momento che nel suo campo visivo entrò un braccio robusto.
Si serrò intorno al collo di Kodachi.
La strattonò.
Una seconda mano si strinse sui polsi che reggevano il pugnale.
 
Il volto di lei si sfigurò per la rabbia di non essersi accorta dell’intruso. Fece resistenza con la forza della frustrazione.
 
Fu tutto troppo veloce perché gli occhi di Soun potessero cogliere i movimenti di quella colluttazione strozzata, ma qualcosa doveva essere andato storto per la sua aguzzina, perché Kodachi si bloccò improvvisamente davanti a lui.
Con la bocca aperta in un urlo muto e gli occhi fuori dalle orbite la vide avvicinarsi al volto con una lentezza esasperante la mano sinistra, da cui scorreva un sottile rivolo di sangue.
 
Soun sentì il pugnale stramazzare a terra.
Vide la luce della candela tremolare cupa sul volto pallido di lei.
Poi non vide più niente. Gli occhi gli si chiusero, risparmiandogli lo spettacolo di quel corpo dilaniato da brevi istanti di rantoli e convulsioni.
 
Poi, il silenzio.
 
Quando riuscì a riaprirli, vide il corpo senza vita di Kodachi ripiegato su di lui. Provò pena per lei. Sembrava non avere peso. Ma forse era lui che non lo sentiva.
 
Le due forti braccia che l’avevano salvato rimossero il cadavere - si immaginò che dovesse essere ancora caldo-, e fu a quel punto che Soun vide l’uomo a cui doveva la vita.
 
Genma Saotome.
 
Avrebbe voluto pronunciare il suo nome, dare un colore, un suono alla sorpresa che gli aveva stretto le viscere nel giro di un istante.
 
Ma non riuscì a dire niente.
 
Potè soltanto riconoscere in quegli occhi induriti dagli anni una commozione a lui familiare, nel tremito del labbro inferiore la fragilità dell’amico di un tempo.
 
Poi Genma parlò, e quella voce lo riportò violentemente al passato. A quando non c’erano pensieri, ma solo grasse risate e sogni e progetti.
 
“Tendo… Soun… A-amico mio”
 
Una voce rude, rotta, calda.
 
“Perdonami”
 
L’amico di un tempo, di cui non aveva più notizie da anni, che aveva infine creduto morto, era lì, vivo, davanti a lui.
Perdonami… Perché quella parola dalle labbra dell’uomo che l’aveva appena salvato?
 
“Le tue figlie…”
 
Genma abbassò lo sguardo, incapace di continuare, e Soun avrebbe voluto afferrarlo per le spalle, domandargli cosa intendesse dire, intimarlo di andare avanti, ma non potè fare altro che aspettare, immobilizzato sulla branda.
 
“Le tue figlie, Kasumi e Nabiki… sono stato io… io a rapirle quella notte, quindici anni fa”
 
Il cuore gli urlò in petto.
 
Genma cominciò a piangere come un vitello scannato.
 
“Volevo vendetta… Il mio bambino… il mio unico figlio scomparve durante una di quelle dannate guerre… Fosti tu a dichiararla e io… io giurai che mi sarei vendicato. Non ne vado fiero, Soun. Per anni ho ingoiato ogni giorno la mia colpa. Per tutti questi anni in cui… in cui ho visto crescere le tue figlie, forti e belle”
 
Soun si sentì mancare, ma tenne gli occhi incollati su di lui.
 
“Un vigliacco, ecco quello che sono. Loro non sanno nulla. Ignorano di essere le tue figlie, non ho mai avuto il coraggio di dirglielo”
 
Ci fu un silenzio assordante nella tenda. E non perché Soun non riuscisse a parlare.
 
“Non potrò mai riavere mio figlio indietro. Ma tu sì. Sono cresciute bene, sai? Hanno preso da te. Sono oneste e forti. Ma tu questo lo sai già”
 
Il ronzìo nella sua testa aumentò. Si sforzò di ascoltare le parole che vennero dopo.
 
“Loro, sai, credono di chiamarsi… Hitomi e Misaki”
 
Se non lo fosse già stato, Soun si sarebbe paralizzato al suono di quella rivelazione, troppo grande per essere contenuta dalla sua mente, troppo assurda per essere compresa.
 
Paralizzate, lo erano anche Nabiki e Kasumi, appiattite dietro la tenda, mentre la prima con una mano copriva la bocca all’altra.
 
Stranite dall’arrivo della moglie del loro benefattore, non erano riuscite a prendere sonno. A Nabiki lo sguardo di quella donna non era piaciuto per niente e aveva convinto la sorella ad avvicinarsi al padiglione di Soun, per verificare che stesse bene. Ancora a diversi passi di distanza, avevano sentito le ultime parole di lei e nella smania della corsa verso l’entrata avevano intravisto precederle lo zio Genma. Pur disorientate, si erano accorte del breve tafferuglio e avevano presto compreso che quella donna, Kodachi, era rimasta uccisa e che per fortuna sia l’uno che l’altro erano sani e salvi. Ma poi lo zio aveva parlato e Nabiki aveva tirato a sé Kasumi, preferendo origliare quella che aveva intuito essere l’inizio di una ben strana conversazione.
 
Tutto. Avevano sentito tutto e la verità rombava nelle loro orecchie vorticosamente. Le… figlie di Soun Tendo?
 
“Non merito il tuo perdono, a dirla tutta”
 
La voce di Genma, grave, le raggiunse come un’eco lontana dopo quelli che sembravano essere stati cento anni di silenzio.
 
Al di là della tenda, Soun era appeso a quella voce.
Fu allora che Genma fece comparire davanti a lui una corta spada. Risoluto, gli tese l’elsa. “Uccidimi. E lava l’onta che pende sul mio capo”
In un impeto di orgoglio, l’amico gli stava chiedendo redenzione.
 
Forse fu la paura che Genma ci ripensasse e decidesse di volgere verso di sé la lama in un estremo tentativo di harakiri… Forse fu solo l’effetto del veleno che stava scemando…
Nell’istante in cui le due ragazze si gettarono dentro per fermare quello che fino a pochi attimi prima avevano creduto loro zio, Soun trovò l’insperata forza di buttarsi giù dalla branda e spazzare via con una manata pesante la spada che Genma stringeva in pugno.
 
Bloccate nell’ombra dell’uscio, senza più respiro in gola, Kasumi e Nabiki videro Soun aggrapparsi alle gambe dell’amico, appendersi all’orlo della casacca e stattonarlo in basso, verso di lui. Videro Genma cedere a quella richiesta, le sue ginocchia piegarsi molli, e lo videro crollare tra le braccia dell’altro in un pianto violento.
 
“Perdonami…!”, invocavano entrambi, soffocando quella parola l’uno tra le spalle dell’altro.
 
“Le… le mie figlie… le mie figlie…!”, continuava Soun con un sibilo spezzato e grato e sopraffatto da tanta improvvisa emozione. “Amico mio, tu… tu mi hai salvato la vita… e… e mi hai restituito quella delle mie figlie…!”
 
“Perdonami…”, lo interrompeva Genma, tra i singhiozzi, “Sono stato uno sciocco. Tutto quel dolore… fu troppo grande per me, e decisi… quanto fui stupido!... Decisi di addossarne a te la colpa, amico mio”
 
Soun scosse la testa nella stretta di quell’abbraccio: “La colpa fu mia se tante vite vennero spente in quelle guerre insensate di quindici anni fa. Fui io quello incapace di contenere tutta quella rabbia… la rabbia per la morte… la morte della mia amata moglie. E a pagarne le conseguenze furono tanti innocenti. Come il tuo bambino… Come… te. Lo capii troppo tardi e da allora vivo anch’io ogni giorno col peso di questa responsabilità”
 
Si compresero, in quell’abbraccio, si chiesero scusa, si ringraziarono e si perdonarono molte volte. Fino a che, senza più parole né lacrime, si sciolsero, e solo allora si accorsero di loro, che erano rimaste lì in piedi, a piangere anch’esse, in silenzio.
 
Genma si alzò di scatto. A dispetto dell’aria seria che tentò di assumere, tirò malamente su col naso.
Bastò il modo in cui lo guardarono perché lui capisse che avevano sentito ogni parola.
 
“Kasumi, Nabiki…”, soppesò quei nomi e loro trasalirono nel sentirsi chiamare così. “Vi presento vostro padre”
 
Kasumi tremava visibilmente e Nabiki si mordeva l’interno della guancia senza dire niente. Troppe erano le cose a cui le due sorelle non riuscivano a dare voce, ma nel vedere Soun Tendo ancora incredulo e felice tirarsi in piedi e fare qualche passo instabile verso di loro, non poterono non gettarglisi tra le braccia. Tutto sembrò improvvisamente avere un senso.
Piansero, tra quelle braccia, gli inondarono il petto di lacrime.
 
“Bambine… bambine mie…! Le mie figlie…!”
Non riusciva a dire altro e poco importava se semplici e scarne erano le sole parole capaci di descrivere tutta quella gioia.
 
Genma si allontanò senza fare rumore, il capo chino, il cuore pesante. Fuori dalla tenda, avvolto nel buio di quella notte, si voltò per guardare il padre stringere a sé le figlie. Le loro figure si stagliavano nella luce dell’interno, abbagliante in quel momento. Non volle intromettersi nell’intimità di quel ritrovo, né volle disturbare Soun mentre baciava la fronte di Kasumi, o Nabiki che pronunciava timidamente il suo primo “papà…”. Li vide sussurrarsi parole e ridere e abbracciarsi. Gli bruciarono gli occhi a quella vista e decise che era tempo di andarsene.
 
“Zio…!”
 
Fu lo strillo di Kasumi, così penoso, che lo bloccò sui suoi passi.
Entrambe le ragazze lo stavano guardando, con gli occhi stravolti.
 
“Io non sono mai stato…”
 
“Ha importanza?”, tagliò corto Nabiki, e la sua voce parve più fredda di un coltello.
 
Si avvicinò a lui, lentamente, e gli posò una mano sul volto abbassato. Genma alzò su di lei uno sguardo attonito e vide che la sua espressione si era ammorbidita.
 
“Sei stato quello che ci ha cresciute e che ci ha… ci ha voluto bene come un padre. Il passato…”
Si torturò un labbro. Non sapeva andare avanti.
 
Fu Kasumi a venire in suo soccorso, sfiorandole una spalla con tale leggerezza che Nabiki si sorprese di come fosse possibile allo stesso tempo trasmettere tanta forza.
 
“Il passato fa male, ma è passato”, proseguì la maggiore con semplicità, “e oggi…”, guardò con aria complice la sorella, e poi Soun dietro di loro, “…oggi ce lo hai restituito”
 
L’aria nei polmoni era troppa e la testa gli girava, la vista si appannava e lui si sentì un verme, perché le ragazze che aveva cresciuto avevano compreso e lo avevano perdonato, perché erano mille volte migliori di lui.
 
Si sentì un verme, ma seppe anche di aver fatto, almeno una volta nella sua vita, una cosa giusta e capì che tra quelle braccia sincere che lo stavano accogliendo e stringendo, avrebbe trovato il modo, un giorno, di perdonare se stesso.
 
 
 
 
***
***
 
 
 
 
Mi sta guardando?!
C’è la luna, e i suoi occhi brillano.
E lui se ne sta lì accovacciato come un corvo sul bordo della mia finestra e mi guarda.
Che impudente!
Mi guarda con quell’espressione da furbetto che si ritrova…
Un brivido mi ricorda che non la do a bere a nessuno, che mi fa piacere che se ne stia qui accovacciato come un corvo sul bordo della mia finestra a guardarmi.
Gli faccio segno di entrare, prima che lo scoprano!
E’ paonazzo. Fa tanto il gradasso ma è più imbarazzato di me.
Balbetta qualcosa. Sto per chiedergli di ripetere, quando un po’ goffamente annulla la distanza che ci separa. Quasi mi morde le labbra, nel buio e nell’impeto. E io infiammo – le sue labbra sono bollenti - e lui prende sicurezza e con quella sua voce un po’ ruvida mi dice parole che domani negherà di aver detto, ma intanto me le sussurra calde contro l’orecchio, e le parole si confondono con sospiri sempre più corti e strozzati.
 
Sempre più strozzati.
 
Mi accorgo che ha smesso di parlarmi e anche di baciarmi.
Apro gli occhi e lo vedo boccheggiare sconvolto, mentre si tiene la gola e barcolla all’indietro.
Ranma… No! Ranma!
 
 
“Akira!... Akira…”
 
La mano tiepida del generale Shinnosuke sulla sua fronte la riportò alla realtà, e Akane si puntellò con un gomito sulla branda rigida, mentre la testa le pulsava.
Gli ultimi istanti dell’incubo erano ancora impressi a fuoco nella sua mente.
 
 
Ranma!
La voce mi rimane bloccata in gola. Allungo un braccio per afferrarlo, ci separa solo un passo, ma quel passo sembra incolmabile.
(Svegliati, Akane, è solo un incubo! Un incubo!)
 
 
“Va tutto bene, ragazzo, va tutto bene… Respira…”
 
 
Sento una risata lontana, non so se di uomo o di donna, e tremo, e il brivido di poco fa è solo un lontano ricordo.
 
 
Si rese conto di avere le guance bagnate, il fiato corto.
 
 
Mi volto per capire da dove venga questa risata agghiacciante e subito sento un tonfo, mi rigiro, e Ranma non c’è più.
(Akane, svegliati! Non è reale…!)
 
 
Si prese la testa e strinse gli occhi, nel tentativo di scacciare quell’immagine.
 
 
Al suo posto una macchia di sangue rappreso.
 
 
Era reale, invece.
Ranma non c’era più.
Non l’avrebbe più guardata dal bordo della sua finestra, né stretta a sé in quel modo. Le era sembrato così vera la prima parte di quel sogno, che si era concessa di credere alla sua illusione.
 
“Che cosa…?”
 
“Urlavi, ragazzo… Urlavi con quanta voce avevi in corpo”
 
Si concentrò sugli occhi preoccupati del generale Shinnosuke, sulla linea tesa della sua mandibola.
Una debole luce filtrava nella tenda. L’alba non doveva essere lontana.
Era al sicuro, lì, in quella tenda.
Ricordò di essere Akira, il ragazzotto un po’ imbranato al servizio di quel giovane uomo, e non Akane.
 
 
Akane…
 
 
“Scusate, mio buon signore”, ridacchiò nervosamente, sistemandosi meglio la fascia che portava in fronte giorno e notte. “Solo un incubo…”
 
“Sono i nostri peggiori nemici, gli incubi, i più difficili da sconfiggere”
 
Quanto era rassicurante quella voce…
 
“Passerà… Il tempo è un grande alleato”
 
Shinnosuke. L’uomo in grado di prendersi a cuore il sonno tormentato dell’ultimo dei sottoposti con la stessa serietà di quanto non facesse con le sorti della battaglia.
 
La battaglia…
 
Un’idea malsana balenò nella mente di Akane, tendendole la mano, improvvisa e perfetta.
 
“Fatemi… Fatemi combattere al vostro fianco”
 
Il cuore cominciò a pomparle nuovamente calore nelle vene. E un’euforia infantile, pura.
 
“Cos…?”, il generale impallidì e parve perdere tutta la sua compostezza. “Mai!”
 
“Sono bravo a combattere! Vi prego…”, Akane sentì la propria voce stridere tra l’implorazione e il risentimento. “Ho bisogno di dare un volto al mio nemico o… o impazzirò!”
 
Furono le braccia di lui intorno alla sua schiena a tagliare il discorso di netto.
 
“Non lo permetterò”, la voce dell’uomo era appena un soffio contro i capelli di lei. “Sei solo un ragazzo, sei così giovane… Non permetterò che i tuoi occhi vedano tanto orrore. E…” Akane giurò di sentire quella voce incrinarsi appena. “Non… non perderò anche te, Akira”
 
Il cuore le affondò in petto a quella dichiarazione. Si aggrappò con una mano alla camicia di lui, all’altezza della schiena, e si arrese a quell’abbraccio.
 
Akane non disse più niente e lui parve calmarsi.
 
E tuttavia quell’idea le si era ormai insinuata nella mente come una plausibile via d’uscita alla miseria della sua condizione.
 
Non valutò l’impulsività né l’assurdità di quell’idea. Zittì ogni altra voce che aveva in testa.
 
Si disse solo che avrebbe trovato il modo, prima o poi, di andarsene da lì, dal proprio dolore, dai propri incubi.
 
E se ciò avesse implicato gettarsi nella mischia, tanto peggio.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Come la ragazza si voltò a guardarlo con gli occhietti pieni di paura, Ranma ritirò la mano.
 
Non era lei.
 
“Scusate”, mormorò colpevole con un breve inchino.
 
La giovane contadina dai capelli corti non fece in tempo a formulare una risposta che lui le aveva dato le spalle e aveva ricominciato a correre.
 
Maledizione! Maledizione! Questa volta le era sembrato di riconoscere Akane in quello yukata giallino. Vi aveva voluto vedere il portamento di lei, fiera anche mentre si allungava per cogliere un frutto. Che sciocco… Quella ragazza non aveva nulla di Akane, se non un taglio di capelli vagamente simile.
Possibile che la sua immaginazione facesse tali scherzi?
Non era la prima volta che fermava una donna che da lontano gli era sembrata Akane. Ormai aveva l’impressione di vederla ovunque, anche su quei volti dove era evidente che non ci fosse niente di lei.
Aveva perso il numero di quante l’avevano guardato dicendogli che no, non erano la ragazza che lui stava cercando; aveva perso il numero delle volte in cui lui aveva alzato le spalle, sicuro che di lì a poco avrebbe incrociato lo sguardo dell’unica che sì, sarebbe stata lei.
Ma quella sicurezza cominciava ad abbandonarlo.
 
In quel momento si aggirava a passo svelto all’interno di un villaggio semi-deserto, guardandosi attorno impaziente, indeciso se fermare qualcuno a cui fare la solita sfilza di domande.
Nell’aria afosa di mezzogiorno, pesanti nuvole si stavano raggruppando sopra la sua testa.
L’odore della battaglia era vicino, e i pochi passanti sfuggivano il suo sguardo.
 
Possibile che Akane non si trovasse in nessuno di quei villaggi? Era certo di trovarla nascosta nella povera casa di una qualche famiglia di contadini, e solo in quel momento l’eventualità che si trovasse invece prigioniera, che fosse caduta in mano al nemico lo colpì in pieno muso.
 
Ma poi un’altra assurda ipotesi sostituì prepotentemente la prima.
 
E se al contrario si fosse messa lei, in prima persona, a…?
 
“…A combattere! Ti dico che l’ha vista mio fratello! Una fanciulla bellissima che se ne stava tutta sola a combattere contro cento dei nostri uomini!”
 
“Cento dei nostri?!”
 
Ranma si bloccò sul posto e senza dare nell’occhio si avvicinò meglio per ascoltare la conversazione dei due uomini, che parlavano concitati contro il muro di una casupola appena scostata dalla strada principale.
 
“E che ci faceva lì tuo fratello?”, continuò il secondo uomo, un tipo dalla pelle giallastra e le guance infossate.
 
“Aveva smarrito alcuni capi di bestiame”, rispose l’altro, più basso e massiccio, “… e senza neanche accorgersene si è ritrovato circondato dalla battaglia”
 
“Che ne sia uscito illeso è un vero un miracolo…”
 
“Già... E’ riuscito a fuggire, per fortuna. Ma la grazia e la forza di quella donna… se le sogna ancora la notte”
 
I due uomini scoppiarono a ridere e considerarono chiuso il discorso.
Ranma si allontanò. Aveva sentito quanto bastava.
 
Il suo cuore batteva come un tamburo sul punto di spezzarsi.
 
Possible che la donna di cui parlavano fosse il suo maschiaccio? La sola idea lo infervorò e lo freddò in un sol colpo.
Si strofinò il volto e si stropicciò gli occhi segnati.
Possibile?!
Sì. Gli sembrò dannatamente possibile. E anche l’ultimo, estremo, disperato appiglio a cui aggrapparsi.
Come aveva fatto a immaginarsi Akane chiusa in una casa ad aspettare? Akane era fatta per stare all’aria aperta e combattere.
Rabbrividì al pensiero delle freccie, delle spade, della polvere da sparo.
E tuttavia non riuscì a impedirsi un sorrisetto fiducioso.
Akane che combatteva contro cento uomini. Riusciva a immaginarsela alla perfezione.
 
Non valutò l’incoerenza né l’assurdità di quello scenario. Zittì ogni altra voce che aveva in testa.
 
Si disse solo che avrebbe trovato il modo di raggiungerla e di riportarla in salvo, tra le sue braccia.
 
E se ciò avesse implicato gettarsi nella mischia, tanto meglio.
 
Senza altro pensiero da aggiungere, lasciandosi il villaggio alle spalle, ricominciò a correre, questa volta verso la battaglia.
 
“Ovunque tu sia, Akane. Ovunque tu sia: sto arrivando”
 
 
 
 
 
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Ciao a tutti!
 
Chiedo scusa per il ritardo epico con cui torno a questa storia… A mia discolpa posso dire che ultimamente ho purtroppo avuto qualche acciacco alla schiena che mi ha pressocchè impedito di stare seduta al computer, per cui scrivere è stato praticamente impossibile… La stesura risulta pertanto un po’ a singhiozzo, e me ne scuso.
E poi non scrivevo da tanto di quel tempo che mi è sembrato di aver dimenticato come si fa. ^_^’ Pertanto mi scuso in anticipo se il capitolo dovesse risultare un po’ frammentato e sconclusionato.
Nella mia testa l’arcata doveva coprire una fetta più ampia della trama, ma poi mi sono resa conto che c’erano diversi filoni che meritavano la giusta attenzione e il capitolo è diventato molto più lungo del previsto. Ho deciso pertanto di dividerlo e di pubblicare intanto questa parte, anche perché a giugno sarò fuori dall’Italia e sarà impossibile per me scrivere e tantomeno pubblicare. Mi rimetterò in moto a luglio (schiena permettendo) e spero, entro l’estate, di porre la parola FINE a questa splendida avventura. Perciò siate fiduciosi!
E grazie grazie grazie a quanti di voi mi stanno ancora seguendo! Le vostre recensioni sono fonte di grande gioia per me! E mi spronano sempre più a migliorare. Perciò, non siate timidi, fatemi sapere cosa ne pensate!
 
Un abbraccio,
 
InuAra
 
 
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Riassunto dei capitoli precedenti:
Medioevo giapponese - Akane, figlia di Soun-sama, signore delle terre dell'ovest, non è mai uscita dal palazzo, dove è cresciuta accanto a Ranma, un giovane orfano che lavora come paggio al servizio di Soun Tendo. A vegliare su di loro ci sono i due anziani consiglieri, Obaba e Happosai, e gli immancabili confidenti, Ryoga, amico, di Ranma, e Ukyo, ancella di Akane. Soun si risposa con una giovane nobildonna, Kodachi, e al fratello di lei, Kuno Tatewaki, promette in sposa la principessa Akane, che rifiuta categoricamente i suoi corteggiamenti. A poco a poco Ranma e Akane si accorgono di essere innamorati e, sfidando i problemi di classe, si dichiarano. Decidono quindi di sposarsi di nascosto e scappare in Cina, in attesa di tempi migliori, ma immediatamente dopo il matrimonio e la prima notte di nozze vengono scoperti e divisi. Ranma viene prima imprigionato e poi esiliato e Akane è tenuta sotto stretta sorveglianza, pur con un discreto raggio di azione. Partendo per la Cina, Ranma promette ad Akane che le scriverà spesso e che farà di tutto per ricongiungersi a lei. Tra una lettera e l’altra, passano i giorni. In Cina, Ranma viene accolto dalla signora Nodoka, una donna giapponese che gestisce una locanda, dove lavora come cameriera Shan Pu, che tenta invano di sedurre Ranma. Durante una festa, uno degli ospiti, un giovane guerriero di nome Mousse, provoca Ranma e lo istiga a scommettere sull’onore di Akane: sarà Mousse stesso a provare l’infedeltà della giovane principessa recandosi in Giappone e tentando di sedurla. Una volta a Palazzo Tendo, Mousse fallisce ogni tentativo di fronte alla fedeltà di Akane. Nottetempo si intrufola quindi, nascosto in un baule, nella sua stanza e le ruba un bracciale che Ranma le aveva donato prima dell’esilio, portandolo come prova dell'infedeltà della ragazza. Al ritorno di Mousse, complice un filtro di Shan Pu che ha il potere di farlo letteralmente "impazzire" di gelosia, Ranma crede alle bugie sulla fedeltà di Akane e scrive a Ryoga chiedendogli di ucciderla. Ranma poi sviene e rimane privo di sensi per circa una settimana. Nel frattempo scoppia la guerra tra Cina e Giappone. Prima Mousse e poi Shan Pu si arruolano e partono per il Giappone. Ryoga riceve la lettera di Ranma in cui gli viene chiesto di portare Akane fuori dal palazzo e ucciderla. Una volta fuori, Ryoga risparmia la ragazza, a cui non aveva pensato neanche per un istante di fare del male, e si ferisce a un braccio per macchiare un pezzo di stoffa dello yukata di Akane da mandare a Ranma come prova dell'uccisione. Akane si traveste da uomo con lo scopo di raggiungere gli amici Hiroshi e Daisuke presso il villaggio di Hakata e lì attendere tempi migliori. Non arriverà mai a destinazione, incappando nell'abitazione di un montanaro e delle due nipoti, che la accolgono con affetto, credendola un ragazzo. Si tratta però di Genma, vecchio amico del padre di Akane, il quale circa dodici anni prima, in seguito alla presunta perdita del figlio Ranma durante una delle guerre dichiarate da Soun, ha deciso di vendicarsi rapendo le sue due figlie maggiori ancora in fasce: Kasumi e Nabiki. Nel frattempo Ranma si sveglia e alla notizia della morte di Akane, affranto e pentito, prende la prima nave per il Giappone, dove spera di trovare la ragazza ancora viva. A palazzo Soun scopre che la figlia è fuggita e decide di dare la falsa notizia della sua morte. Kuno capisce che dietro la sua fuga ci sono Ryoga e Ukyo. Dopo averli minacciati si lancia all'inseguimento della ragazza, deciso a prenderla con le cattive e ad abusare di lei con indosso gli abiti di Ranma, per offenderla più crudelmente. Nei boschi troverà invece Nabiki e dopo una colluttazione rimane ucciso in un  incidente in cui viene decapitato. Nel frattempo Akane ingoia quella che crede essere una medicina e che altro non è che un veleno di Kodachi, per fortuna non mortale. Akane perde i sensi e appare, tuttavia, priva di vita. Genma, Nabiki e Kasumi piangono la sua morte e nel momento in cui stanno per seppellire il suo corpo e quello di Kuno sono costretti a fuggire per l'arrivo dei soldati. Nottetempo Akane si sveglia sul corpo senza testa di Kuno, e nel buio e nell'angoscia del momento pensa di trovarsi di fronte al corpo senza vita di Ranma, caduto in una terribile e ingegnosa trappola. Ormai sola, ancora in abiti maschili decide di seguire Shinnosuke, un giusto e onesto generale dell'esercito cinese. Arrivato in Giappone Ranma riceve la notizia ufficiale della morte di Akane e decide di gettarsi nella battaglia per trovare la morte che si merita. Incontra però casualmente Ryoga e viene a scoprire che Akane è viva. Decide quindi di iniziare la sua ricerca. Nel frattempo Genma, Nabiki e Kasumi salvano Soun da un agguato. Genma spinge quindi le due ragazze a chiedere protezione al nobile signore, e decide di seguirle da lontano.
 
 
  
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