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Autore: Adeia Di Elferas    28/05/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Sul Chilone l'aria di primavera soffiava forte come quella di una tempesta. Le urla dei soldati in rotta rimbombava come un tuono, mentre i fratelli Vitelli incitavano i loro uomini a continuare l'inseguimento.

Virginio Orsini, estraendo la punta della lancia dal corpo di un nemico, sollevò lo sguardo verso il fiume e vide con sollievo che i soldati della Lega stavano battendo in ritirata in modo scomposto, guadando a fatica il Chilone, che rumoreggiava indifferente, trascinandone via uno di quando in quando.

Camillo Vitelli rimontò in sella, andando al galoppo verso l'Orsini: “Una bella vittoria.” gli disse, con un sorriso che illuminava il suo lungo volto.

Il fratello Paolo stava ancora seguendo l'azione dei loro soldati, anche se ormai aveva abbandonato l'idea di annientare del tutto il nemico, accontentandosi di aver indotto gli avversari alla resa.

Virginio si levò l'elmo e se lo mise sotto al braccio. Osservò ciò che restava della battaglia. Non avevano subito troppe perdite, almeno a una valutazione superficiale. Nemmeno avevano ucciso molti nemici, perché quelli si erano dati alla fuga troppo presto, ma era chiaro che quell'azione fosse stata una grande vittoria.

“Mi è piaciuta la vostra tecnica...” disse Virginio, quando Camillo recuperò un cavallo anche per lui e lo invogliò a tornare assieme verso i padiglioni, dicendo che Paolo si sarebbe occupato per entrambi dei postumi dello scontro.

“Di certo ha spaventato quei maledetti aragonesi.” convenne il Vitelli, quando furono già in vista dell'accampamento.

Virginio sollevò un sopracciglio, sinceramente ammirato dalle idee innovative dell'altro, benché l'uso così ampio delle armi da fuoco lo facesse sentire fuori posto.

Camillo e Paolo avevano dato vita a una battaglia come l'Orsini mai ne aveva viste. Avevano armato con bocche da fuoco la cavalleria pesante. L'attacco era cominciato con la carica a mezza velocità della prima fila e dopo aver scaricato il potere delle armi moderne contro il nemico, questa era rientrata nelle retrovie, lasciando il posto alla seconda, che aveva sparato e poi si era a sua volta aperta e spostata dietro, permettendo alla prima fila, che nel frattempo era riuscita a ricaricare, di colpire il nemico con una nuova serie di detonazioni.

“Voi però – constatò Camillo, smontando di sella e accettando una borraccia d'acqua da uno degli scudieri – restate ancora attaccato alle lance e alla spade, ho visto.”

Virginio prese a sua volta da bere e, dopo essersi bagnato la bocca e sciacquato il volto impiastrato, convenne: “Ormai io sono troppo vecchio per discostarmi dalla guerra che ho imparato a fare fin da ragazzo. Inoltre, senza i miei metodi antichi, la vostra retroguardia e le ali sarebbero rimaste molto scoperte.” soggiunse, indicando con l'indice la spada che portava al fianco, coperta di sangue fin sull'elsa.

Mentre i due discutevano ancora delle innovazioni militari che si stavano aprendo in quegli anni, arrivò nel padiglione anche Paolo Vitelli.

I corti capelli neri erano incollati alla fronte, fradici di sudore, e sul lungo naso affilato si poteva vedere il segno di un filo di lama che doveva averlo sfiorato, non uccidendolo solo per un soffio.

“Da bere.” ordinò l'uomo, mettendo fretta allo scudiero con un gesto veloce della mano.

Il ragazzo gli passò una borraccia e l'uomo diede un sorso, ma lo sputò subito in terra: “Vino, non acqua!”

Lo scudiero rimediò subito all'errore, e, non appena riuscì a dissetarsi come desiderava, Paolo Vitelli si parò davanti al fratello e, battendo le mani ancora guantate di ferro contro le rondelle alte dell'armatura di Camillo, esclamò: “Cavalleria pesante con l'archibugio al posto della spada. Un attacco veloce e a ripetizione. L'alternanza delle linee. Tu sei un genio, fratello mio.”

Virginio guardò i due Vitelli mentre si complimentavano a vicenda per la vittoria campale e si rese conto che tutti avrebbero visto quell'impresa sul Chilone come un vanto vitellesco, e non della famiglia Orsini.

Poco contava. Se anche Camillo e Paolo Vitelli avevano appena inventato una nuova tattica militare, Virginio poteva vantarsi di un traguardo assai più importante: sopravvivere, e da vincente, alla veneranda età di sessantadue anni, a una battaglia combattuta con regole a lui del tutto estranee.

 

“Ho finito il libro che mi avete prestato l'altro giorno.” disse Caterina, arrivando alle spalle di Giovanni, che stava uscendo dalla rocca per andare per botteghe in cerca di qualcosa da inviare alla cognata, che nella sua ultima lettera gli aveva confessato di essere curiosa di vedere che genere di manufatti tipici si producessero a Forlì.

Il Popolano si fermò subito e si lasciò raggiungere dalla Contessa, anch'ella, a quel che pareva, diretta verso il centro cittadino: “Di già?” le chiese, stupito.

La Tigre, che quel giorno indossava un abito leggero che portava i segni di più di un rattoppo, evitò lo sguardo curioso del fiorentino e minimizzò, giustificando la sua rapidità dicendo: “Di notte dormo poco.”

Giovanni parlò prima di ragionare: “Me ne sono accorto.”

“Che intendete?” Caterina si accigliò e, mentre imboccavano la via che portava alla piazza su cui si affacciava il palazzo dei Riario, rallentò il passo.

L'ambasciatore si rese conto di aver aperto la bocca a sproposito, tuttavia ormai l'aveva fatto e scusarsi e basta sarebbe stato forse ancora peggio: “Siete stata voi ad assegnarmi un alloggio accanto alle vostre stanze.” fece notare.

La donna indicò un vicolo: “Sono arrivata.” annunciò, fermandosi: “E comunque, se io fossi un uomo, non mi giudichereste. Immagino che anche voi a volte cerchiate compagnia, eppure nessuno si sognerebbe di dirvi che state infrangendo chissà quale legge morale o divina.”

Giovanni accolse il tono bellicoso della Contessa per quello che era, ovvero un tentativo di difesa.

Perciò decise di rispondere con calma, esprimendo i suoi esatti pensieri: “Io non vi giudico e non credo che stiate infrangendo nessuna legge particolare. Siete una donna potente, una donna che a soli ventun anni ha avuto la forza e il coraggio di tenere sotto il tiro dei suoi cannoni il Vaticano.”

La Tigre sollevò le iridi verdi verso il fiorentino. Si era sorpresa nel sentirlo citare quell'episodio proprio in quel momento. Inoltre, quel piccolo dettaglio le aveva fatto capire quanto il Popolano dovesse essersi documentato su di lei, prima di arrivare a Forlì. In molti si ricordavano della sua impresa a Castel Sant'Angelo, era vero, ma a pochi sarebbe venuto in mente di sfruttare quella memoria in una conversazione del genere. Era come se Giovanni sapesse esattamente dove pungerla.

“Voi potete permettervi di fare assolutamente ciò che volete, su questo non ho dubbi.” stava proseguendo l'uomo: “Ho solo notato un certo traffico attorno alle vostre stanze. Non c'è nulla di male, a parer mio. Anche se...”

“Anche se?” chiese Caterina, irritata dalla reticenza del fiorentino, che si era messo a fissare con i suoi occhietti chiari il vicolo verso cui si era detta diretta.

“Anche se non mi sembra che questo genere di passatempi vi renda felice.” concluse il Popolano, alzando le spalle.

“Non sta a voi sapere cosa mi rende felice.” ribatté la donna, mentre passavnoa loro accanto dei bambini di strada intenti a rincorrere una gallina forse scappata da un banco del mercato.

“Avete ragione, non sta a me.” fece eco Giovanni, che tutto avrebbe voluto, tranne interrompere il discorso dopo quel brusco scambio di battute.

Per quanto si sentisse sempre sul filo dell'errore, quando parlava con la Tigre, stare vicino a lei era come bere un vino fortissimo e inebriante, ma altrettanto buono. Era difficile smettere.

“Quando vorrete – riprese Caterina, addolcendo appena lo sguardo, come se nemmeno lei volesse chiudere la discussione in quel modo secco – parleremo del libro del vostro caro Boccaccio.”

Il Popolano fece un mezzo inchino e, mentre la Contessa ne osservava le movenze eleganti, frutto di una vita passata tra i raffinati salotti medicei e le insidiose sale fiorentine del potere, l'uomo asserì: “Sempre a disposizione.”

Quando furono sul punto di dividersi, Caterina aggiunse, dando voce a un pensiero che l'aveva accompagnata mentre terminava, la sera prima, la lettura del Decameron: “Trovo sorprendente che un uomo come voi apprezzi quel genere di libro.”

“Se mi vorrete conoscere meglio, vi assicuro che saprò sorprendervi ancora di più.” si buttò Giovanni, esibendosi in uno dei suoi migliori sorrisi.

Come spesso, suo malgrado, le capitava quando il fiorentino se ne usciva con certe frasi che denunciavano con prepotenza la sua arrogante toscanità, la Tigre si trovò sul punto di scoppiare a ridere.

Era qualcosa di strano e inspiegabile, quello che l'ambasciatore di Firenze le trasmetteva con la sua semplice presenza. Quando c'era lui, era come se tutto diventasse all'improvviso più leggero.

“Staremo a vedere.” concluse la Contessa, sforzandosi di non sorridere troppo: “Passate una buona giornata.”

Giovanni fece un profondo inchino e Caterina si convinse ad andare per la sua strada, diretta alla barberia di Bernardi per sentire le ultime novità, prima di andare alla riunione del Consiglio.

 

Isabella d'Este era coricata nel suo letto, costretta al riposo dal parere del medico di corte, che le aveva ripetuto allo sfinimento quanto fosse importante, a quel punto, non fare troppi sforzi.

Il sospetto di essere di nuovo in stato interessante era ormai da settimane una certezza conclamata, ma qualche segnale di pericolo aveva iniziato a gettare ombre scure su quella nuova attesa.

La Marchesa di Mantova avrebbe voluto sopra ogni cosa avere vicino il marito Francesco e non sopportava l'idea di saperlo nelle Puglie a rischiare la vita in una guerra da cui probabilmente avrebbero ricavato solo scocciature.

Maggio si apriva sul Marchesato come una corolla matura, ma Isabella non si stava godendo nulla di quella primavera senza precedenti. Si dedicava unicamente agli affari di Stato e cercava pure di farlo senza sottoporre il proprio corpo a un eccessivo dispendio di energie.

Con un po' di fortuna, il bambino, che sarebbe nato in luglio con ogni probabilità, sarebbe stato finalmente un maschio e dunque era di vitale importanza tenerlo in vita e in salute fino al giorno della nascita.

Mettendo da parte una delle tante lettere inutili di una sua amica – amica solo di facciata, dato che nemmeno l'aveva mai incontrata di persona – moglie di un alto funzionario veneziano, Isabella prese un altro messaggio ancora da aprire dalla pigna di missive che si era messa accanto, sul lato del letto di norma occupato da Francesco.

Si trattava di un rapporto del messo mantovano a Roma. Istintivamente, l'Este provò un lieve fastidio nel leggere la provenienza della lettera. Non le erano piaciute affatto le parole vaghe che suo marito le aveva scritto, quando era stato alla corte del papa.

All'inizio la Marchesa aveva creduto che si fosse trattenuto nei commenti solo per paura di essere intercettato, ma quando poi anche i messaggi partiti dopo aver lasciato il Vaticano si erano dimostrati del medesimo tenore, Isabella aveva sentito uno spiacevole brivido lungo la schiena.

Più d'ogni altra cosa, era stato il rapido e apparentemente innocuo inciso sulla figlia del papa, Lucrecia Borja, a lasciarla indispettita. Non ci aveva però più pensato, fino a quando le parole scritte dall'oratore mantovano non glielo riportarono alla mente.

Nel descrivere i movimenti della corte di Alessandro VI, infatti, Giancarlo Scalona aveva preso proprio la giovane moglie di Giovanni Sforza come fulcro del discorso. Sembrava quasi che Lucrecia fosse una stella attorno al quale l'intera curia si era trovata a ruotare senza riuscire a togliersi dal suo spettro luminoso.

L'ambasciatore, poi, si diceva anche perplesso per la partenza del signore di Pesaro, aggiungendo personali dubbi sulla natura reale dei rapporti all'interno della famiglia Borja.

In particolare, Scalona si dimostrava incline a credere che la bellissima Lucrecia fosse tutt'altro che una moglie ideale, ma che anzi il marito se ne fosse andato per non dover più fare da tacito spettatore di immondi e abominevoli vizi, che avrebbero coinvolto non solo il papa, ma anche il Cardinale Cesare Borja.

'Il signore di Pesaro – aveva concluso lo Scalona – forse ha in casa ciò che altri non pensano.'

Isabella ripiegò la missiva, dopo aver letto anche gli ossequi finali e si domandò quanto di vero ci fosse in quelle parole.

Forse suo marito Francesco era stato così reticente sulla figlia del papa proprio perché aveva anch'egli intuito qualcosa del genere? Era stato il pudore a frenarlo? La paura di essere scoperto e punito in qualche modo? Oppure era come ella aveva pensato all'inizio? Poteva essere che Francesco si fosse lasciato sedurre da una ragazzina, anzi, non una ragazzina qualunque, ma bensì la figlia di Sua Santità, mettendo così a rischio perfino il suo Stato?

La Marchesa sospirò e si passò pensierosa una mano sulla pancia, che si era fatta già molto evidente. Quale che fosse la realtà, per il momento Isabella non la voleva sapere.

 

Ludovico Sforza fece scricchiolare la schiena, mentre si rinfilava il camicione bianco: “Ormai sono un rottame.” sospirò: “Sono pieno di dolori e guarda qui... Basta un po' di umidità che mi metto a far più rumore di un ferrovecchio.”

Lucrezia Crivelli, che si era già rivestita e si stava appuntando gli spilloni nei capelli, lo guardò riflesso nello specchio e disse, con la sua voce calda e un po' roca: “Non sei un ferrovecchio. E comunque anche io, con questa umidità, mi sento tutta arrugginita.”

Il Moro sorrise, finendo di legarsi i lacci del colletto. Se avesse fatto quel genere di discorsi con sua moglie, Beatrice sarebbe di certo andata su tutte le furie, accusandolo di essere noioso e vecchio. In parte avrebbe anche avuto ragione. Lei era ancora una donna giovanissima, nel pieno delle forze e della vita. Ludovico, invece, avrebbe compiuto quarantaquattro anno in agosto e cominciava a sentire gli acciacchi dell'età.

Amava ancora moltissimo Beatrice, tanto quanto l'aveva amata nei primi mesi del loro matrimonio, ma, a volte, cercava la comprensione di qualcuno che stesse passando come lui il rito dell'invecchiare e sua moglie ancora non poteva capirlo. La loro differenza d'età non era mai stata un vero problema, ma da quando il Moro aveva iniziato a non sentirsi più vigoroso come un ragazzo, la compagnia di una donna come Lucrezia – matura, eppure ancora bellissima – era un ottimo modo per ritrovare un momento di serenità.

La Crivelli sospirò e si voltò verso il Duca di Milano, per controllare se fosse pronto per andarsene.

L'uomo ricambiò lo sguardo della donna e si mise in piedi, afferrando il giacchetto leggero che aveva appeso all'inginocchiatoio accanto al letto. Lucrezia era raggiante e, anche se pure lei avrebbe compiuto quarantaquattro anni in estate, il suo volto pareva quello di una ragazza, mentre fissava Ludovico a quel modo.

“Fatti dare un po' di olio per le giunture.” suggerì il Duca, appoggiando la grossa mano sulla schiena di Lucrezia, lasciata nuda dall'ampia scollatura posteriore dell'abito: “Il medico me ne ha dato un po', la settimana scorsa, e i miei reumatismi erano quasi spariti.”

“E perché non l'hai messo più, allora?” ribatté divertita la dama di compagnia della Duchessa, scostandosi appena al tocco del Moro, per non rischiare di riaccendere la passione, finendo per far tardi alla vestizione di Beatrice per la cena.

“Perché a mia moglie dà fastidio pensare che io sia vecchio.” rispose con una risata Ludovico e, dopo aver lasciato un rapido bacio sulla guancia tiepida della Crivelli, uscì dalla stanza fischiettando tra sé una musica allegra che gli ricordava gli anni della giovinezza.

 

Caterina si stava massaggiando la fronte, mentre alcuni dei presenti al Consiglio si accapigliavano senza sosta. Le sue disposizioni contro la formazione dei latifondi stava creando non pochi problemi, ma continuava a credere di aver fatto la cosa giusta.

In più, la riunione era partita male, con alcuni Consiglieri che si erano lamentati del fatto che il Consiglio si teneva in un palazzo in via di demolizione.

“Siamo nell'ala rimasta illesa – aveva fatto notare con affettata pazienza la Tigre – ma se avete troppa paura di essere colpiti alla testa da un calcinaccio, potete sempre dimettervi dalla vostra carica e lasciare i vostri posti a uomini più temerari di voi.”

Così la riunione era cominciata senza altri indugi, e si era fatta fin dai primi momenti a dir poco incandescente.

La mente della Contessa, però, continuava a rincorrere altre cose, sfuggendo ogni volta dalla diatriba presente.

Ripensava al libro che l'ambasciatore di Firenze le aveva fatto leggere, poi le tornava in mente Ottaviano, che ancora stava rinchiuso nella sua stanza, poi pensava ai faentini, che avevano reagito con freddezza al suo tentativo di prendere tempo per evitare di mandare Bianca da Astorre, e poi si ricordava di sua madre, che stava ancora a Imola dove diceva di voler restare fino alla nascita del nipote.

Appena sembrava riuscire a concentrarsi, nella sua testa si riaffollavano altri pensieri, incoerenti tra loro, che andavano dalla strana passeggiata fatta con il Medici alla rocca e poi in città, fino alla consapevolezza che al massimo entro un mese sua sorella avrebbe partorito il figlio di Tommaso, passando per i dubbi che non la lasciavano mai circa la posizione del papa nei suoi confronti, dato che il silenzio del pontefice sapeva dire molto più di una sua invettiva pubblica.

Dopodiché si focalizzava su Bernardino e sulla sua somiglianza straziante con il padre, rivedeva allora il corpo disfatto del marito, poi riappariva il viso del fiorentino, la trama di alcuni dei racconti del libro che le aveva prestato, gli uomini, di cui non ricordava nemmeno il viso, che aveva portato in camera nelle lunghe notte di solitudine, gli Orsi che minacciavano di morte i suoi figli, suo padre il Duca che cadeva morto con la gola squarciata da parte a parte, Ottaviano che la fissava dichiarandosi colpevole senza bisogno di dire mezza parola, la prima notte passata con Giacomo e poi Ludovico Marcobelli che era morto sotto i suoi colpi sordi...

“Basta!” sbottò a un certo punto la Contessa, battendo i pugni sul tavolo.

I contendenti tacquero all'istante e la donna esclamò: “La legge non si discute e se ci sono problemi di natura economica vedremo di venirvi incontro abbassando le tasse! La legge, però, non la si cambia! Io non speculerò sulle vostre disgrazie, ma solo a patto che voi non lo facciate con le mie!”

Dopo un momento di silenzio, uno dei proprietari terrieri che fino a un attimo prima aveva ringhiato e ululato come un animale impazzito, si fece piccolo piccolo e domandò, con un filo atterrito di voce: “E come potremmo mai, noi, speculare sulle vostre disgrazie?”

“Inducendomi a prendere decisioni scorrette solo per farvi stare zitti, per esempio.” buttò lì Caterina, che si era accorta di aver parlato un po' a sproposito, senza dar troppo peso alle parole che le uscivano di bocca e mescolando i suoi pensieri privati con quelli pubblici: “Quale disgrazia più grande di avere sudditi che starnazzano come oche selvatiche in sala di Consiglio?”

Qualcuno tra i suoi sostenitori maggiori rise a quella domanda retorica, mentre gli altri apparvero molto mortificati.

Mentre la Contessa stava per ordinare che si passasse al prossimo punto all'ordine del giorno, l'Oliva fece capolino dalla porta e le si avvicinò, per dirle qualcosa all'orecchio.

La Tigre ascoltò assorta fino alla fine e poi, dopo un solo attimo di esitazione, dichiarò: “Luffo Numai farà le mie veci per il resto della riunione. Devo assentarmi.” e lasciò la sala assieme all'Oliva.

“Che volete dire che Simon Fiorini ha infranto il bando sui terreni?” chiese Caterina, appena a qualche metro dalla porta.

“Esattamente quel che ho detto.” annuì l'ex ambasciatore milanese: “Era già un grosso proprietario, eppure aveva soldi bastanti per espandersi ancora e a Bertinoro ha comprato quasi tutti i terreni che appartenevano a uomini morti in guerra e a contadini anziani che non sapevano più far fruttare la terra e ha superato le quote permesse per legge.”

La Contessa si premette le dita sugli occhi. Era così stanca di dover fare da cane da guardia a tutto e a tutti. Se solo avesse avuto qualcuno di cui fidarsi ciecamente e con cui condividere realmente il fardello del potere...

“Mandate sessata uomini a casa sua prima di domattina – decise in fretta – che lo portino qui. Se non dovessero trovarlo, che saccheggino casa sua e che venga poi messo un mandato sulla sua testa.”

L'Oliva fece un profondo inchino e, quando la sua signora fu sul punto di ringraziarlo e congedarsi, dovette aggiungere: “C'è altro.”

“Ovvero?” chiese Caterina, per nulla rincuorata dal tono dolente del suo collaboratore.

“Ecco, è appena arrivato il nuovo oratore da Milano. Voleva parlare solo con il Conte Ottaviano, ma gli è stato detto dal castellano Feo che il Conte era indisposto.” spiegò Oliva: “Quindi gli è stato proposto di parlare con voi, ma ha rifiutato in modo categorico, dicendo che non intendeva discutere con una donna di cose di Stato e ha chiesto del vostro cancelliere.”

La Tigre sbuffò: “Misogino. Ha paura di una sottana?”

L'Oliva strinse le labbra, come a darla tacitamente ragione, ma aggiunse anche: “Ha preteso un alloggio alla rocca, per aver il medesimo trattamento riservato all'oratore di Firenze, così ha detto.”

“Adesso dov'è?” chiese la Contessa, sulle spine.

Tutto avrebbe sopportato, tranne un'ennesima spia di suo zio proprio in casa propria.

“Alla rocca. Sta sistemando le sue cose in una delle camere da poco restaurate.” rispose l'Oliva.

Caterina scosse la testa e andò a passo di marcia fino a Ravaldino. Si fece dire dal castellano dove fosse di preciso l'oratore milanese e vi si recò subito.

Trovò l'uomo intento a disfare, con l'aiuto di due servi, il baule dei vestiti. Senza permettergli di dire anche solo mezza parola, la donna afferrò dalle mani di uno dei giovani gli abiti dell'ambasciatore e li buttò fuori dalla porta.

“Ma che..! Chi siete? Che diamine..? Come vi permettete! Io riferirò al Duca e..!” l'oratore milanese era sconvolto, ma Caterina non fece una piega.

Come le aveva giustamente ricordato proprio quel giorno Giovanni Medici, lei era la stessa donna che a soli ventun anni aveva tenuto sotto scacco il Vaticano, terrorizzando tanto la curia da riuscire perfino a ritardare i lavori del Conclave. Poteva forse un misero ambasciatore di Milano metterle paura con qualche misera minaccia lasciata a metà?

“Il mio cancelliere si è sbagliato – disse la Tigre, con tanta decisione che i servi si stavano già affrettando a rimettere tutto nei bauli – non ci sono stanze libere in questa rocca. Andrete ad alloggiare in città, come avevo predisposto.”

“Ma l'ambasciatore di Firenze...” provò a dire, debolmente, il milanese.

“Non vi deve interessare dell'ambasciatore di Firenze.” controbatté la Contessa, aiutando i servi a far fagotto: “E in futuro, se vi servirà qualcosa, vi invito a chiedere a me e non a chi fa comodo a voi. Qui comando io.”

Il milanese non riuscì ad aggiungere altro e, sotto la guida di Mongardini – richiamato all'istante dal castellano – lasciò Ravaldino per raggiungere il palazzotto in centro città scelto proprio per dare alloggio agli oratori stranieri.

 

Dopo cena, Ludovico e Beatrice si ritirarono subito nella loro camera. La Duchessa chiese alla cameriera che di norma la preparava per la notte di lasciarli e quando rimase sola con il marito, si sedette alla scrivania e lo fissò.

Il Moro temeva di essere ripreso per qualche mancanza, anzi, probabilmente per essersi intrattenuto con la Crivelli. Anche se sua moglie l'aveva preso in giro per la sua abitudine di incontrare l'amante a casa di Sanseverino, Ludovico sapeva che tradire Beatrice sotto al tetto del palazzo di Porta Giovia era di certo una colpa più grande.

Invece, quando la donna parlò, affrontò un argomento che stupì il marito: “I milanesi ti odiano.”

“Come?” chiese il Duca, accigliandosi, le mani giunte sulla pancia che con la sua prominenza tirava un po' i bottoncini della giacchetta di raso.

“Se tu andassi in giro per Milano come faceva tua nonna e come a volte faccio io, sapresti che i milanesi ti detestano.” insistette Beatrice, affranta: “Hai arricchito la corte, ti sei circondato di uomini come Leonardo, ma la città ti sente distante. Ti vedono solo come un despota che continua ad alzare le tasse.”

Ludovico stava per ribattere, ma la moglie proseguì, ancor più mesta: “Inneggiano al Duchino. Sai chi è? Francesco. Il figlio di tuo nipote. Anche se è solo un bambino e sta rinchiuso in una torre a Pavia, i tuoi sudditi lo preferiscono a te.”

Il Moro si sedette pesantemente sul letto, sconvolto dalla rivelazione. Le sue spie, i suoi consiglieri, nemmeno il suo cancelliere Calco, nessuno gli aveva detto quello che sobbolliva nei calderoni di Milano.

“E tu che hai pianto per la morte della bambina...” soffiò Beatrice, battendo le piccole mani l'una con l'altra, come se avesse detto una cosa assurda.

Il Duca ricordò la sua reazione quando aveva saputo che la figlia più piccole dell'Aragona era morta di stenti. Era stato normale, per lui, lasciare il salone e mettersi a piangere. Si sentiva in colpa. Sarebbe bastato così poco per salvarla... Era pur sempre figlia di suo nipote. In quella bambina scorreva il sangue degli Sforza. Come poteva Beatrice non capirlo?

“Dovresti farli uccidere tutti, finché sei in tempo.” disse l'Este, sporgendo in fuori le labbra, le guanciotte piene che si gonfiavano irritate, prima di concludere: “Finché Isabella e anche solo uno dei suoi figli saranno in vita, noi saremo in pericolo.”

Ludovico si grattò la nuca, in difficoltà. Era una cosa che non voleva fare e che non avrebbe fatto.

“Ci penserò.” provò a dire e tanto bastò a Beatrice per ritrovare l'accenno di un sorriso.

La giovane si alzò e si andò a mettere accanto al marito. Prese una delle grandi mani dell'uomo nelle sue, che in confronto erano minuscole, e appoggiò la testa alla sua spalla.

Dopo un solo istante, però, si ritrasse, scostandosi con decisione: “Sei stato con quella?”

Il Moro schiuse le labbra, ma prima che potesse scagionarsi con qualche scusa plausibile, Beatrice inveì: “Non provare a negarlo. Hai ancora addosso il suo tanfo.”

Combattuto se confessare – tanto sapeva che la moglie era certa delle sue accuse e che nulla l'avrebbe fatta ricredere – o continuare nella sua recita da sepolcro imbiancato, Ludovico optò per una terza scelta.

Ignorando le iniziali ritrosie di Beatrice, che gli ribadiva quanto schifo le facesse pensare che suo marito avesse appena sedotto una donna di basso rango e per giunta vecchia come la Crivelli, Ludovico la strinse a sé, iniziando a baciarla con furia e, dopo pochi minuti, la moglie smise di opporre resistenza, cedendo come sempre al fascino prepotente ed egoista del Duca di Milano.

 
   
 
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