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Autore: _Frame_    28/05/2017    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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127. Jugoslavia e Colpo di stato

 

 

28 marzo 1941, Mosca

 

Estonia accelerò la corsa, svoltò un angolo del corridoio appendendosi allo spigolo del muro per non finire ribaltato dalla forza centrifuga, incrociò i piedi e rimbalzò di due saltelli di lato facendo singhiozzare il pavimento sotto le suole. Ricominciò a correre. Si sfregò la manica della giacca sulla fronte, asciugò le piccole perline di sudore che gli tenevano la frangia incollata alla pelle, annaspò altri boccheggi che gli fecero vibrare le labbra sbiancate, e allentò il colletto della camicia sotto la giacca che aveva lasciato aperta. Guadagnò altre sorsate d’aria, la gola cominciò a bruciargli come i polmoni affaticati che gli schiacciavano le costole e come i piedi che volavano sopra il pavimento. Svoltò un’altra curva, corse davanti alle porte delle sale chiuse, e i raggi di sole che entravano dalle finestre gli illuminarono la via. Estonia intrecciò le dita ai capelli spettinati e li spinse lontano dagli occhi che luccicavano di panico. Il terrore che gli correva nel sangue appesantì il petto, e il cuore prese a battere ancora più forte. Le gambe brucianti accelerarono, come se stessero correndo sul fuoco, ed Estonia si sentì assalito da un’altra gelida ondata di terrore che gli contrasse il viso rosso di fatica in un’espressione di angoscia.

Non è possibile!

Arrivò in fondo al corridoio e svoltò a sinistra, rimbalzò di nuovo contro la parete dando una spallata al muro, e corse puntando la scalinata di marmo accanto alla porta dell’archivio. Strinse i denti, trattenne il fiato, e corse ancora più forte – le ciocche di capelli al vento e i polmoni che stavano andando in fiamme.

Non è possibile, non è possibile, non...

La porta dell’archivio si aprì, ne uscì un sottile raggio di luce rossiccia che fece da tappeto ai passi di Lituania. Lituania si girò a spegnere la luce e accostò l’anta dietro di sé, non si accorse del rumore di passi in avvicinamento.

Estonia sentì un tuffo al cuore che lo fece sussultare. Tirò su il braccio sopra la testa e lo sventolò. “Lituania!” gridò con voce arrochita dalla corsa.

Lituania richiuse la porta dell’archivio e balzò dalla sorpresa con la mano ancora attorno al pomello. Si girò, buttò lo sguardo verso Estonia che gli stava venendo incontro, e sollevò un sopracciglio. “Estonia? Cosa...”

“Lituania! È...” Estonia boccheggiò, abbassò il braccio e lo tese verso Lituania per evitare che andasse via. “È successo...”

Un primo barlume di paura lampeggiò anche nello sguardo di Lituania, lo fece irrigidire, il viso più teso. “Che cosa?”

Estonia saltellò di due falcate, si aggrappò alle spalle di Lituania, facendolo arretrare contro la porta dell’archivio, e si piegò in due per riprendere fiato. Si resse la milza, premendo sotto le costole, dove il dolore lo stava martellando, e i suoi respiri arrochiti gli fecero tremare la schiena e le ginocchia. Rivoletti di sudore gli rigarono le tempie e le guance. “Un,” annaspò, “un disa...” Deglutì a vuoto, strinse le mani tremanti sulle spalle di Lituania, barcollò di un passetto più vicino. “Belgrado...” Quel nome gli tornò a scaricare una morsa di paura che scese a ghiacciargli lo stomaco. Estonia tirò su lo sguardo coronato dai capelli spettinati, i suoi occhi cerchiati di terrore lanciarono uno sguardo implorante al viso di Lituania. Gli diede una piccola scossetta alle spalle. “Russia deve...” Le gambe tremarono di fatica e paura, una boccata di fiato gli rimase incastrata in gola. “Deve sapere di – Oh, Cielo, che...”

“A-aspetta.” Anche Lituania gli avvolse le spalle, lo aiutò a raddrizzare la schiena, chinò lo sguardo e incrociò i suoi occhi. “Calmati, respira.” Aspettò che Estonia facesse dei respiri profondi e che le sue mani ancora aggrappate alla sua giacca smettessero di tremare, e gli rivolse un’occhiata più seria. “Cos’è successo?”

Estonia tornò a raggelare. “Un disastro!” Staccò una mano dalla spalla di Lituania e la aprì sul viso, gettò lo sguardo a terra. “Una catastrofe!”

Lituania esitò. “Dove?”

“In Jugoslavia!” Estonia buttò il braccio alle sue spalle, aveva ancora il fiatone ad arrossargli le guance. “Un colpo di stato,” esclamò. “Ieri notte c’è stato un colpo di stato e ora Belgrado è occupata, hanno dato il voltafaccia ai tedeschi.”

Lituania sgranò le palpebre, e un’ansia grigia si impossessò del suo sguardo, gli impietrì l’espressione ancora incredula. “Un voltafaccia?” Un campanello di allarme gli squillò nella testa, gli trasmise un ramo di elettricità lungo la schiena che gli fece salire la pelle d’oca. “Ma non avevano firmato l’alleanza con il Tripartito solo...”

“Lo so,” ribatté Estonia, “ma hanno rovesciato il governo e ora si sono dichiarati dalla parte alleata.” Gli fece scivolare anche l’altra mano giù dalla spalla, si passò le dita fra i capelli, li tenne lontani dalla fronte, e rivolse lo sguardo tremante dietro di sé. “Equivale a una dichiarazione di guerra diretta all’Asse.”

“Ma...” Anche Lituania gli tolse le mani dalle spalle, il suo sguardo scivolò a terra, restrinse le estremità delle sopracciglia, e un ronzio di confusione sostituì l’iniziale scossa di paura. Un colpo di stato in Jugoslavia, Belgrado occupata, e proprio alla vigilia delle operazioni in Grecia. Ma come... “Non è possibile,” mormorò.

Estonia emise un mugugno spaventato in risposta, tenne la mano sul viso, si massaggiò il collo continuando a guardare dietro di sé, si portò una nocca fra le labbra e ne pizzicò la pelle. Il suo corpo fremeva ancora per la corsa che gli aveva indebolito le gambe e svuotato i polmoni.

Lituania risollevò lo sguardo e lavò via dagli occhi quella patina d’ansia che li aveva resi grigi e annebbiati. Tornarono lucidi. “E Germania?” Strinse i pugni. “Come ha reagito?”

Estonia scosse il capo. “Non lo so.” Tornò a passarsi la mano fra i capelli, si strofinò la nuca. “Non lo so, ma non può averla presa bene, soprattutto dopo che aveva tanto insistito per la firma di questo trattato.” Si sfilò la mano dal capo e rivolse il palmo al soffitto. “È un tradimento a tutti gli effetti, e Germania potrebbe anche decidere di ridurre Belgrado come...” Si morsicò il labbro, soffiò un sussulto fra i denti, ingoiò le parole in fondo allo stomaco.

Lituania impallidì leggermente, un brivido di ghiaccio gli morse il collo, un familiare e viscido sentimento di timore e disagio gli accapponò la pelle. I pugni si strinsero di più, un angolo delle labbra si torse leggermente, e gli occhi furono di nuovo attraversati da un lampo di angoscia.

Estonia si voltò di profilo e gettò subito lo sguardo a terra, continuò a strofinarsi la nuca con gesti più rapidi e nervosi. “D-di ridurla male,” si corresse.

Lituania sospirò, la sua espressione si rilassò ma non perse quella piega di indecisione che gli corrugava sempre la fronte quando ragionava. Si strofinò il braccio, un’impronta di disagio e sospetto gli era rimasta incollata alla pelle, fredda e appiccicosa. Gli accese una scintilla. Dobbiamo dirlo a Russia. Lituania raggiunse la mano di Estonia e gliela strinse delicatamente. “Vieni.” Lo fece correre dietro di lui, puntò le scale di marmo che portavano al piano di sopra. “Dobbiamo avvertire Russia.”

Estonia allungò un passo più ampio per stargli dietro, superò la pesantezza che si era accumulata nelle sue gambe dopo la corsa in corridoio, e rispose alla stretta di mano. “S-sì!”

Scalarono la gradinata, le loro mani giunte, i piedi scattanti che superavano due scalini alla volta, e lo sguardo di Estonia già bianco nell’immaginare di presentarsi davanti a Russia con brutte notizie. Lituania rimase a fiato sospeso durante tutta la corsa, la bocca resa amara da un cattivo presentimento che si era infilato fra le labbra, e il cuore gonfio di inquietudine. Portò la mano libera accanto alla tasca della giacca e sfiorò il piccolo rigonfiamento, cercò un conforto, e il piccolo oggetto che custodiva fra la stoffa emanò una vibrazione di vita.

 

.

 

Russia si voltò di profilo facendo dondolare i lembi della sciarpa attorno alle gambe, tenne le mani giunte dietro la schiena, e sorrise a entrambi. Il viso disteso e gli occhi addolciti da un sentimento di tenerezza che gli alleggeriva il cuore. “Ma io so già del colpo di stato.”

Lituania ed Estonia sgranarono gli occhi, spalancarono le bocche, entrambi sentirono il cuore cadergli nello stomaco. “Che cosa?” La loro esclamazione rimbalzò sulle pareti della camera.

Russia annuì, si strinse nelle spalle. “L’ho saputo proprio durante la notte,” disse, “sono stati gli jugoslavi ad avvisare il nostro governo.” Si tolse da dietro lo scrittoio, camminò a passo lento verso la fioca luce che entrava dalla finestra, si rimboccò la sciarpa attorno al collo, e mantenne sulle labbra quel mite e placido sorriso di soddisfazione. “È strano, e io che credevo che, dopo tutte quelle manifestazioni a favore di una propaganda alleata, non avrebbero mai voluto anche una nostra collaborazione.” Nei suoi occhi brillò una piccola scintilla di contentezza e compiacimento. “E invece sono stati proprio loro a propormela.”

Lituania ed Estonia si scambiarono un’occhiata preoccupata. Estonia si posò le punte delle dita sulla bocca, arricciò un angolo delle labbra e sollevò un sopracciglio, si rosicchiò le unghie, tornando a sentire quel fastidioso formicolio di nervosismo solleticargli i piedi e lo stomaco.

Lituania socchiuse la bocca. “E...” Tornò a rivolgersi a Russia, il tono cauto e leggermente tremante. “E lei ha accettato?” Ti prego, dimmi di no, lo implorò mentalmente. Non può aver fatto una cosa del genere a dispetto di Germania che...

“Certo che sì!” trillò Russia. “Se una nazione richiede espressamente un mio appoggio, perché dovrei rifiutarlo? Abbiamo solo di che guadagnarci.”

Lituania ed Estonia tornarono a guardarsi, le loro espressioni si corrugarono in smorfie di disagio, e Lituania emise un profondo sospiro di sconsolatezza tenendo le labbra chiuse.

Estonia si strofinò la nuca, inarcò un sopracciglio, e si rivolse a Russia. “Perché gli jugoslavi hanno richiesto una collaborazione con l’Unione Sovietica nonostante tutte quelle manifestazioni filo-inglesi?”

Russia si strinse nelle spalle senza dar cenno di preoccupazione. “Probabilmente si saranno accorti che gli Alleati non muoveranno comunque un dito per sostenere la loro rivolta e la politica del loro nuovo governo.” Sfilò accanto alla finestra continuando a guardare fuori. Il suo viso brillava di una luce lattea che dava alla curva del sorriso una sfumatura tenera e innocente. “Se Inghilterra ci avesse pensato prima, forse la Jugoslavia non avrebbe mai firmato il Tripartito, e ora non si ritroverebbe doppiamente nei guai nei confronti di Germania.”

Lituania spalancò gli occhi, aggrottò la fronte. Allora lo ha capito anche lui, considerò. Ma perché...

“Probabilmente gli jugoslavi stanno chiedendo un nostro appoggio perché temono la reazione dei tedeschi,” continuò Russia. Rivolse lo sguardo ai due, assottigliò le palpebre creando una leggera ombra attorno agli occhi, e l’aura attorno a lui rabbuiò. La sua voce suonò più soffice e tagliente allo stesso tempo, come una caduta di neve ghiacciata. “Ma l’Unione Sovietica non allontanerà mai nessuno dalla sua casa.”

Lituania sgranchì le dita che si erano informicolate, prese piccoli respiri regolari, rallentò il battito del cuore, e riordinò i pensieri che si stavano aggrovigliando in testa come una matassa di lana. “Signore,” tornò a farsi cauto, “che genere di trattato ha accettato di firmare, esattamente?”

Russia scosse il capo. “Nulla di impegnativo.” Posò una mano sullo scrittoio, le sue dita disegnarono leggeri segni concentrici. “È solo un trattato di protezione e di non aggressione. Lo firmeremo nei prossimi giorni, probabilmente con l’inizio di aprile. Io mi terrò lontano da questa rivolta, non interverrò al fianco di Germania nel caso volesse invadere o attaccare Belgrado. Tutto qui.” Si strinse nelle spalle, e il suo viso assunse una sfumatura più malinconica e scontenta. “Tuttavia, Germania rimane pur sempre un mio alleato, ed è per questo che non potrò sbilanciarmi difendendo gli jugoslavi da un suo ipotetico attacco. In ogni caso,” flesse il capo e rinnovò il sorriso, dolce e contento come quello di un bimbo che trova un amico nuovo, “se Belgrado dovesse uscirne viva da tutto questo, non sarò io a chiudere le braccia e a spingerla via da un’ipotetica entrata nell’Unione Sovietica.”

Lituania flesse le sopracciglia, lo sguardo rimase dubbioso, il brutto presentimento annodato nel petto gli trasmise un’altra scossa di amarezza fra le labbra. Avanzò di un passo prudente, mosso con la punta del piede. “Signore,” chinò leggermente la fronte, i capelli gli sfiorarono le guance, “mi perdoni, ma ha valutato il rischio di un simile trattato?” gli chiese. “Se il signor Germania sapesse che lei sta offrendo appoggio a un paese che gli ha appena dato il voltafaccia, potrebbe incrinare il vostro rapporto e perdere fiducia anche nei nostri confronti.”

Russia rivolse a Lituania un sorriso caldo e premuroso. Un raggio di sole gli disegnò il profilo del volto, gli toccò la luce degli occhi socchiusi donando al colore delle iridi violacee un riflesso cristallino: la calma ghiacciata del cielo siberiano. “Non ti devi preoccupare.” Gli passò una delicata carezza fra i capelli – Lituania si fece più rigido, strinse i pugni contenendo un tremore – e la sua mano scivolò percorrendo la curva della sua guancia. Gli occhi di Russia tornarono scuri e freddi, il suo sorriso da furbo perse tutta la sfumatura di innocenza che prima lo aveva intiepidito. “Germania ha più di un debito con me. È stato proprio lui che con le sue decisioni ha rischiato di incrinare il nostro rapporto, eppure io l’ho perdonato, per il bene della nostra alleanza.” Russia sfilò la carezza dalla guancia di Lituania – Lituania trasse un sospiro di sollievo senza farsi notare – e diede le spalle a entrambi. “È Germania che deve essere cauto nei nostri confronti, e non il contrario.” Si posò la mano sul petto. “Ora io ho semplicemente la possibilità di prendermi una piccola e innocua rivincita nei suoi confronti. Non c’è nulla di male in questo, no?”

Lituania deglutì e si strofinò la guancia, sciolse la sensazione di gelo che gli era rimasta incollata alla pelle. Una viscida sensazione di disagio rimase però ad avvolgergli il cuore, più fredda e sgradevole dell’impronta della mano di Russia sul suo viso. C’era ancora qualcosa che non lo convinceva.

 

.

 

Estonia si portò l’unghia dell’indice fra le labbra e la rosicchiò con gli incisivi, un fremito di nervosismo gli scese lungo la schiena e fece traballare le gambe che continuavano a spostare il peso da un piede all’altro. “Non ti convince, vero?”

Lituania scosse il capo, incrociò le braccia al petto. “No, per nulla.” Fece su e giù per il piccolo spazio di corridoio davanti alla porta di una delle sale del Cremlino, e rivolse il suo sguardo preoccupato in mezzo ai piedi. “Qui non si tratta di trarre vantaggio da un’alleanza fra la Jugoslavia e l’Unione Sovietica, questo è solo un dispetto di Russia nei confronti di Germania.”

Le guance di Estonia divennero ancora più pallide, un nodo di timore gli strinse la pancia. “Dici che Germania lo capirà?”

Lituania sospirò, tamburellò le dita sugli avambracci, e tornò a sollevare lo sguardo, lo rivolse alla fine del corridoio. “Mi auguro di no,” rispose. “Il loro rapporto ha già vacillato troppe volte, questa sarebbe la crepa finale che potrebbe portare a una rottura definitiva.”

“Quindi, in pratica,” intervenne Estonia, “Russia l’ha fatto solo per dimostrare a Germania che lui può avere quello che vuole in ogni momento?”

Lituania annuì. “Credo proprio di sì.” Levò il viso al soffitto, contro i riflessi dorati spanti da uno dei lampadari di scaglie di cristallo che si specchiava sulle pareti e sulle finestre. I suoi occhi divennero più cupi e intimoriti, ma anche più freddi. “Russia critica Germania e i suoi atteggiamenti, ma lui è il primo a non aver capito come funziona un’alleanza.”

Estonia emise un sospiro abbattuto. Si lasciò scivolare con la schiena alla parete, abbassò le palpebre rilassando le spalle, e si sfilò gli occhiali. Ripulì una lente con la manica della giacca e la sua espressione si piegò in una maschera di demoralizzazione. “E cosa ti aspetti da uno che crea il più vasto impero del mondo mettendo decine di nazioni in catene ai suoi piedi e dichiarandole parte di lui senza possibilità di libero arbitrio?” Si rinfilò gli occhiali.

Lituania annuì. “Già.” Aprì e chiuse le mani, sgranchendo di nuovo le dita, e si guardò il palmo, così sottile e fragile in confronto a quello di Russia. Si posò le punte delle dita sulla guancia, dove prima Russia lo aveva sfiorato, e tornò a sentire la sensazione fredda e pungente del suo tocco penetrargli la pelle. “Ma non possiamo fare altro che assecondarlo, purtroppo.” 

Vivaci e rapidi passi trotterellarono fra le pareti del corridoio, accompagnati da uno zampettare felpato che faceva da eco. Due ombre, una più alta dell’altra, svoltarono un angolo, si allungarono attraverso il pavimento, e si avvicinarono a Estonia e Lituania portandosi dietro la sagoma di Finlandia. Finlandia li notò entrambi, saltò di un passetto all’indietro dopo averli superati, e sventolò la mano sorridendo a tutti e due.

“Oh, salve, ragazzi, che fate qua da...” Lo sguardo cadde sulle loro facce grigie, sul capo chino di Estonia che si teneva poggiato alla parete con le spalle gobbe, e sugli occhi stanchi e sconsolati di Lituania. Finlandia sbatacchiò le palpebre, colto alla sprovvista. “Che...” Avvicinò le dita alla bocca, e un primo brivido di timore gli fece cadere il sorriso. “Che succede? Che facce.” Hanatamago raggiunse il padroncino, si fermò accanto ai suoi piedi, sedendosi sul pavimento, e scodinzolò con la lingua di fuori.

Estonia si sollevò dalla parete, si strinse nelle spalle e allargò le braccia. “Colpo di stato in Jugoslavia.” Rivolse il pollice alla parte di corridoio da dove erano arrivati, e quell’aura nera di disperazione e sconforto si addensò attorno a lui come un nuvolone di pioggia. “Il governo è in rivolta, Germania è sul piede di guerra, e Russia si sta mettendo dalla parte di Belgrado solo per fargli un dispetto.” Fece roteare lo sguardo e diede un colpetto alla montatura degli occhiali. “Tutto nella regola, direi.”

Finlandia si portò anche l’altra mano sul viso, spalancò gli occhi e sussultò. “Un colpo di stato?” esclamò. “Oh, no, è terribile.”

Estonia annuì. “Già.”

Finlandia gettò gli occhi al pavimento, sul suo riflesso opaco accanto a quello di Hanatamago. Sentì freddo, un’ombra più scura e pesante si addensò fra le pareti del corridoio, avvolgendolo. Un colpo di stato. In Jugoslavia. Fece scivolare una mano dalla guancia e la tenne accostata alle labbra, gli occhi larghi e intimoriti. Se Germania decidesse di intervenire, di marciare direttamente su Belgrado...

Si rosicchiò la punta di un dito.

Questo potrebbe rallentare le operazioni in Grecia. E rallentare le operazioni in Grecia significherebbe anche rimandare...

Una scossa di colpevolezza lo punse in fondo alla schiena. Finlandia abbassò la testa, tenendo la mano accostata alle labbra, e scivolò di un piccolo passetto all’indietro. Sentì le pareti del corridoio flettersi verso di lui, schiacciare il suo corpo e ingoiarlo nel buio, ingabbiarlo in un abbraccio soffocante che lo stritolava sotto la pesante e violenta morsa di Russia.

Rimandare il Barbarossa.

Lituania notò quel piccolo passo all’indietro, lo sguardo che Finlandia aveva abbassato di colpo, come un cane che vede il bastone in mano al padrone, e gli lanciò una brevissima, quasi impercettibile, occhiata di sospetto. La voce di Estonia riportò l’attenzione su di lui.

“Se Germania dovesse prendere provvedimenti drastici con la Jugoslavia,” disse, “anche nazioni come Bulgaria dovrebbero sentirsi in pericolo, dato che ormai è chiaro che Germania vorrà avere tutti i Balcani sotto il suo dominio.”

Finlandia tirò su il capo, mimò sguardo interrogativo. “Perché Bulgaria?” Anche Hanatamago flesse la testolina di lato.

“Perché anche lui aveva ricevuto l’ultimatum da parte di Germania,” rispose Estonia, “solo che...”

“Oh.” Finlandia rivolse l’indice a una delle finestre, il suo sguardo si distese e riacquistò una spolverata di colorito sulle guance. “Ma Bulgaria lo ha già firmato.”

Lituania ed Estonia tornarono a bocca aperta, irrigidirono, e attorno a loro piombò un silenzio di ghiaccio.

Finlandia si sentì schiacciato da quegli sguardi. Fece un altro passetto indietro e mostrò le mani a entrambi. “Il primo marzo,” specificò. “Lui ha... ha già firmato l’adesione al Tripartito. A Vienna.”

Lituania ed Estonia si guardarono, confusi, ed Estonia strabuzzò uno sguardo stupito. “Cosa? A Vienna?” Sbatté le palpebre, tenne un sopracciglio sollevato. “Davvero?”

Sul viso di Lituania comparve più paura che stupore. “Bulgaria è nel Tripartito?” Socchiuse le palpebre, voltò lo sguardo alla parete e i suoi occhi si persero.

“Uh, io...” Finlandia strinse le dita sul ventre, giochicchiò con le unghie, e piegò un tremolante sorriso di circostanza. Una vampata di sudori freddi gli aggredì la schiena. “Pensavo che lo sapeste.” Oh, no. Avrei dovuto tenerlo nascosto? Ma che senso avrebbe? Ormai è di dominio pubblico.

Estonia emise un sospiro rimuginante, scuotendo il capo, e si massaggiò il mento. “Russia lo saprà di sicuro, immagino,” disse. “Spero che lo sappia di già. A noi deve essere sfuggito, poi Russia ci tiene sempre alla larga da quello che non riguarda lui.” Scoccò un’occhiata a Lituania. “Vero, Lituania?”

Lituania continuava a guardare la parete con occhi vitrei, la fronte leggermente corrugata, una ciocca di capelli a tenergli lo sguardo più in ombra, e un’aria di smarrimento a galleggiargli attorno, a trasmettergli piccoli brividi che prudevano fra le mani.

Estonia chinò il capo, intercettò i suoi occhi assenti. “Lituania?”

Lituania saltò come punto da un ago. “Oh.” Rivolse un piccolo sorrisetto rassicurante a Estonia, ma in faccia era ancora pallido. “S-sì.” Annuì. “Vero.” Bulgaria è entrato nel Tripartito? continuò a chiedersi, e quel pensiero arrivò come una martellata alla tempia. È anche lui un membro ufficiale delle Potenze dell’Asse? Ma come può...

Tornò a voltarsi, si avvicinò a una delle finestre, vi posò la mano sopra spandendo una corona di condensa attorno alle dita, e i suoi occhi guardarono oltre il vetro, si affacciarono ai ricordi dei mesi passati.

Lituania si ritrovò di nuovo avvolto nella fredda atmosfera di quel pomeriggio di dicembre, a camminare alle spalle di Russia, stretto nella giacca pesante che non si era tolto nemmeno dopo essere entrato nel Palazzo d’Inverno, con addosso la sensazione di avere ancora i fiocchi di neve a imbiancargli i capelli e a pizzicargli le guance. Nelle sue orecchie rimbombò il grido di ammonimento che Bulgaria aveva lanciato nel corridoio, secco e rumoroso come un sasso che infrange una lastra di ghiaccio.

“Germania sta per invaderti!”

Lituania era stato il primo a girarsi di scatto, era stato il primo a fronteggiare l’espressione di panico e rabbia che bruciava negli occhi di Bulgaria.

“Germania sta disponendo le armate da Romania e anche da me. Sta usando il recupero di Italia come diversivo, ma in realtà il vero obiettivo sei tu.”

Lituania fece una leggera pressione con i polpastrelli sul vetro. Il cielo si oscurò, le nuvole si addensarono, si specchiarono nei suoi occhi grigi ancora persi nei ricordi. Di nuovo un formicolio di disagio gli trasmise quella fastidiosa tensione elettrica attraverso tutti i muscoli del corpo.

Solo un paio di mesi fa, Bulgaria corre qua da Russia a metterlo in guardia da Germania, a dirgli che stiamo tutti correndo il pericolo che possa attaccarci, e ora va ad allearsi con lui?  

Tornò davanti all’immagine di Russia che stringeva la mano attorno alla testa di Bulgaria, e che si chinava a sussurrargli all’orecchio parole che Lituania non aveva udito. Tornò davanti al viso di Bulgaria che sbiancava, ai suoi occhi che perdevano la scintilla di affronto con cui lo aveva fronteggiato per rimanere raggelati di terrore.

Che cosa gli sarà saltato in mente? si chiese Lituania. Che Germania abbia saputo della soffiata a Russia e che lo abbia minacciato? Forse ha minacciato Bulgaria di ucciderlo nel caso non si fosse alleato con lui. Ma in tal caso significherebbe che Bulgaria aveva ragione. Se la sua rivelazione non avesse fondamenti, allora nemmeno Germania avrebbe avuto modo di preoccuparsi, ma...

Lituania fece scivolare la mano dalla finestra, si strinse il mento e tamburellò il pollice sulla guancia. Scosse mentalmente il capo, un altro nodo di sospetto si allacciò attorno al cuore.

No, no, un attimo. Anche se tutto questo fosse vero, come avrebbe potuto sapere Germania di quella visita di Bulgaria qua da noi? Nessuno lo ha...

Una sagoma specchiata sul vetro si mosse increspando i riverberi di luce, compì un piccolo passetto verso Estonia, e catturò l’attenzione di Lituania. Il viso di Finlandia si riflesse sulla finestra e incontrò lo sguardo di Lituania. Lituania ruotò la coda dell’occhio squadrandolo da sopra la spalla, Finlandia intercettò quell’occhiata, le sue palpebre irrigidirono, disegnarono nuovamente quell’espressione colpevole che si era dipinta sul suo volto quando era arretrato di un passetto.

Lituania trattenne il fiato, un germe di sospetto gli bucò il petto, piantò una radice che cominciò a espandersi nella gabbia toracica, soffocandolo. Iniziò a pensare a qualcosa a cui non voleva pensare.

“Lituania?” La mano di Estonia gli toccò la spalla.

Lituania saltò. “E-eh? Cosa?” Si mise la mano sul petto, trasse un respiro dopo l’apnea, riguadagnò fiato, e la nebbia grigia attorno a lui si sciolse. “Scusa, ero sovrappensiero...”

Estonia sbatacchiò le palpebre, sciolse l’espressione di confusione, e indicò Finlandia con il pollice. “Vado ad aiutare Finlandia,” disse. “Lui e Lettonia stanno finendo di sistemare le carte per la riunione del tredici con Giappone. Ti spiace se ti lasciamo solo?”

Lituania si affrettò a scuotere la testa e sbandierò le mani per scacciare il problema. “Ah, no, no, non vi preoccupate.” Rivolse l’indice alla porta dell’archivio da cui era uscito quando aveva incrociato Estonia nel corridoio. “Ho comunque ancora delle faccende da finire in archivio.”

Estonia annuì, si allontanò assieme a Finlandia e sventolò un piccolo saluto. “Okay. Ci vediamo a cena.”

Lituania ricambiò il gesto. “Sì.”

Estonia e Finlandia si incamminarono, Hanatamago si alzò e zampettò ai piedi del padrone continuando a scodinzolare con la linguetta di fuori. Finlandia si girò un’ultima volta, incrociò lo sguardo con quello di Lituania, i suoi occhi si fecero più tristi, addolorati, macchiati da quell’ombra di esitazione che li teneva nascosti. Tornò a voltarsi, accelerò per stare al passo con Estonia, ed entrambi sparirono nel corridoio.

Lituania prese un profondo respiro, si strofinò il braccio, abbassò il viso, e finì schiacciato da una sensazione di malessere che gli diede la nausea.

Finlandia è l’unico che avrebbe potuto mettersi in contatto con Germania, lui ha più libertà rispetto a noi, e in più c’è sempre Svezia. Avrebbe potuto fargli lui da intermediario senza che noi ci accorgessimo di nulla.

Scosse il capo, strizzò gli occhi, e si diede un piccolo colpetto alla tempia.

Ma no, che sto dicendo? Mi rifiuto di credere che Finlandia sia coinvolto in qualche maniera. Non tradirebbe mai nessuno, nemmeno un nemico.

Però non riuscì a estrapolare quella spina di sospetto che ormai si era conficcata nel cuore. Lo pungeva a ogni respiro, a ogni palpito, scavando sempre più a fondo.

Eppure... questa sensazione...

Continuò a strofinarsi il braccio e la spalla, dove i brividi di freddo gli correvano sottopelle come una fila di formiche, e si morsicò il labbro inferiore.

Se qua dentro dovesse esserci una spia, di certo non potremmo essere noi tre, e nemmeno Bielorussia o Ucraina. Moldavia è solo un bambino, quindi...

Scosse di nuovo la testa e sospirò. Si spostò attraverso il corridoio e si strofinò la nuca, i capelli dondolarono sopra la spalla.

Ma Finlandia...

I suoi continui sorrisi rassicuranti, la sua voce allegra, quello sguardo sempre sincero e leale che però era costantemente velato da un’ombra che nemmeno Lituania era in grado di decifrare.

Nonostante sia sempre stato docile e tranquillo, avrà sicuramente del rancore nascosto nei confronti di Russia per quello che gli ha fatto durante la Guerra d’Inverno, ma dovrebbe avercelo anche nei confronti dei tedeschi. Sono colpevoli tanto quanto noi della sconfitta al Nord.

Gettò il capo in mezzo alle spalle, la mano ancora stretta dietro la nuca, e un violento sentimento di demoralizzazione gli gravò sul cuore.

Non so più a cosa pensare.

Lituania fece scivolare la mano dai capelli, lasciò ciondolare il braccio lungo il fianco, e la mano toccò il piccolo rigonfiamento nella tasca della sua giacca. Una scossetta – la stessa che aveva percepito quando Estonia era corso ad avvisarlo del colpo di stato in Jugoslavia – tornò a pungergli le dita. Lituania infilò la mano in tasca, raggiunse la piccola scatolina di legno che conteneva la piuma color oro che aveva raccolto dalla cenere sporca del sangue di Polonia, e la strinse. Si aggrappò all’unico calore che avrebbe voluto avere lì accanto a lui.

Cosa ci aspetterà da ora in poi?

 

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28 marzo 1941, Atene

 

“Un colpo di stato?” Inghilterra scaraventò il pugno sul tavolo, fece sobbalzare le gambe di legno, una pila di documenti vibrò, e un portapenne si ribaltò facendo rotolare due matite lungo la scrivania. Schiacciò le dita contro i palmi, le nocche sbiancarono, le vene salirono a pulsare sul rilievo della pelle, e digrignò i denti. In viso era nero, gli occhi furenti. “Stupidi, stupidi, stupidi, stupidi slavi!” Tirò su il pugno dal tavolo e spalancò le braccia, le dita si contrassero verso i palmi come artigli. “Che cosa gli è saltato in testa?” sbraitò. “Rivoltare il governo subito dopo aver firmato accordi con l’Asse e per di più affibbiare metà della responsabilità a noi,” si premette l’indice sul petto, “alla vigilia di una guerra dove già stiamo impiegando fin troppe risorse!”

Australia piegò il gomito sul bracciolo della poltroncina su cui teneva le gambe incrociate, flesse il capo e premette la tempia sulle nocche, sbatacchiò le palpebre mimando un’espressione sorpresa. “È tanto grave?” domandò. Le gambe di Nuova Zelanda gli dondolavano sulle spalle: il piccolo era seduto in cima allo schienale della poltroncina, i gomiti premuti fra i capelli di Australia e le mani a reggere un bicchiere di succo all’arancia che stava sorseggiando tutto contento.

Inghilterra si girò di scatto verso di loro tenendo le braccia spalancate. “Certo che lo è!” esclamò. “È a dir poco catastrofico!” Sbuffò e si strofinò i capelli, come per spegnersi il fuoco dalla testa. Marciò avanti e indietro lungo la camera, i suoi passi schioccarono pesanti, i pugni scesero e si strinsero contro i fianchi facendo scricchiolare le dita. “Noi non possiamo intervenire perché si sono tagliati fuori, e se i tedeschi ora condurranno delle operazioni di invasione su Belgrado, parte della responsabilità sarà nostra perché avremmo dovuto difenderli. Ma come diavolo possiamo difenderli?” Si diede un’altra strofinata alla nuca, si girò per continuare la sua marcia di rabbia, annodò le braccia al petto, picchiettò le dita, e si rosicchiò il labbro per inghiottire le imprecazioni in fondo allo stomaco, dove l’ira ribolliva come un calderone che trabocca schiuma sul fuoco.

Turchia si chinò flettendo una spalla verso Grecia, in piedi anche lui, e gli diede una piccola gomitata sul braccio. Si coprì il movimento della bocca per nascondere le sue parole e rivolse l’indice su Inghilterra. “La sta prendendo peggio lui di te.”

Anche sul mite e disteso volto di Grecia, però, comparve una minuscola scintilla di apprensione. Grecia raccolse il peso del gattino pezzato fra i gomiti incrociati sul petto, gli carezzò l’arco della schiena, gli strofinò le dita in mezzo alle orecchie, e il micio stiracchiò le zampette anteriori sulla sua spalla. Sospirò, lo sguardo si appannò, pensoso. “Un colpo di stato...” Strinse il gattino pezzato al petto, sollevò gli occhi al soffitto, e rimuginò. “Perché la Jugoslavia avrebbe dovuto fare una cosa del genere?”

Nuova Zelanda si sfilò l’orlo del bicchiere dalle labbra, dopo aver risucchiato le ultime gocce di succo d’arancia dal fondo, e si sfregò la manica sulla bocca. “Ma quindi noi che cosa dobbiamo fare, adesso?” Si chinò a porgere il bicchiere ad Australia e lui lo posò sul tavolino lì affianco. Nuova Zelanda si strinse nelle spalle e volse i palmi al soffitto. “Dobbiamo spostare i centri di comando e andare a...”

“No,” lo interruppe Inghilterra, brusco. Tagliò l’aria di netto con il dorso della mano. “Niente spostamenti, niente di niente.” Fece su e giù di altri tre passetti, si spremette la fronte fra le dita, si massaggiò le tempie e strizzò gli occhi. “Ora fatemi pensare,” bisbigliò fra i denti. Passò accanto alla scrivania su cui prima aveva sbattuto il pugno, e lo sguardo gli cadde sul portapenne che si era ribaltato accanto alle matite rovesciate. Un’idea gli fulminò la testa. “Una carta.” Passò dietro la scrivania, allungò una mano verso gli altri, aprì e strizzò le dita. “Svelti, svelti, datemi una carta.” Sgomberò la superficie del tavolo facendo scivolare in disparte due pile di documenti, agguantò una penna rotolata fra le matite, strinse il tappo fra i denti, lo staccò dalla stilografica, e sputò il cappuccio. “Grecia, tu vieni qua a darmi una mano.” Turchia intanto gli stese sotto gli occhi la cartina del Peloponneso che aveva raccolto da terra – era piovuta sul pavimento quando Inghilterra aveva spostato i fascicoli.

Grecia annuì e si avvicinò continuando a tenere il gattino pezzato fra le braccia. Nuova Zelanda saltò giù dalle spalle di Australia, e anche Australia scese dalla poltroncina, si fecero tutti attorno alla scrivania.

Inghilterra si passò una mano fra i capelli e riprese fiato per sbollire la rabbia. Pigiò un pugno sulla cartina, la lisciò fino agli angoli, inforcò la stilografica, la puntò sotto il confine bulgaro, e tracciò una spessa linea nera leggermente ricurva che andava da Xanthi a Dorjan. Disegnò la Linea Metaxas. “Dunque, nel piano iniziale avevamo stabilito che ci saremmo piazzati tutti e quattro – io, Grecia, Australia e Nuova Zelanda...” Spinse l’indice sopra la linea. “Nei forti della Linea Metaxas.”

Australia annuì e strinse i pugni davanti al petto. “Per prendere a calci i crucchi!”

Nuova Zelanda premette i palmi sulla scrivania e fece un piccolo saltello sul posto. “Per spingerli indietro ancora prima di farli avvicinare a noi!”

“Ecco,” precisò Inghilterra. “Ma ora è insorto un problema.” Sollevò la penna e si strofinò l’estremità superiore fra i capelli, corrugò lo sguardo in un’espressione contrariata. “Posso immaginare cosa passerà per la testa di Germania, e sono sicuro che, ora che troverà aperte anche le porte della Jugoslavia, vorrà scavarsi un secondo corridoio, magari passando per qui...” Tornò a posare la parte superiore della penna sulla mappa, toccò la scritta ‘JUGOSLAVIA’ poco più sopra del confine con la Grecia, la fece scivolare verso sud, e percorse la costa che dava sul Mar Ionio. “Lungo le coste della Dalmazia, proprio dove ora sono raccolte tutte le divisioni italiane.” Tamburellò due volte la penna e la puntò su Australia e Nuova Zelanda. “Ecco perché anche noi dobbiamo frammentarci.”

Grecia rispose prima di loro, aggrottò la fronte. “Frammentarci?” Il gattino pezzato si rotolò fra le sue braccia, si mise con il pancino all’insù, e agitò le zampette provando a scuotergli i capelli che ricadevano sulle spalle.

Inghilterra annuì. “Sì.” Spostò la penna su Grecia, lo guardò negli occhi. “Io e te rimarremo sulla Linea Metaxas, perché probabilmente è lì che Germania concentrerà le forze maggiori.”

Grecia irrigidì le braccia avvolte attorno al gattino, sentì il cuore appesantirsi e il viso farsi più scuro, gli occhi freddi. “Sarà presente fisicamente anche lui?” Non ci fu paura, solo tensione.

“Mi auguro di sì.” Inghilterra tornò con lo sguardo sulla mappa, ripercorse mentalmente il breve tragitto che andava dal confine bulgaro alla Linea Metaxas, si posò l’estremità della stilografica sul labbro inferiore. “E spero lo sia anche Prussia. Non lascio loro due,” puntò la penna su Australia e Nuova Zelanda, “ad affrontare i tedeschi da soli, sarebbe da pazzi.”

Australia scattò sul posto. “Ehi, un momento, perché lo sarebbe?”

“Perché non siete preparati a sufficienza.” Inghilterra rivolse a entrambi un’occhiata di sufficienza. “Un mese fa non sapevate nemmeno come camminare in mezzo alla neve.”

Australia nascose un broncio di imbarazzo.

“Quindi non saremo più sulla Linea Metaxas?” intervenne Nuova Zelanda.

Inghilterra scosse la testa. “No, voi vi metterete al comando del Gruppo W e vi piazzerete qui.” Posò la penna poco più sopra Edessa, a sud di Florina – la punta rivolta verso il basso, questa volta – e tracciò una linea nera che andava fino al Mar Egeo sfociando sotto Katerini. Sopra ci scrisse ‘W’. “Formerete una linea che attraverserà il Fiume Aliakmon e che farà da barriera anche per le armate tedesche che scenderanno – nel caso io e Grecia non riuscissimo ad arrestarli – dalla Linea Metaxas. Gli italiani ora sono stazionati sul Lago d’Ocrida.” Andò a ovest di Monastir, attraversò la Jugoslavia e toccò il piccolo lago in Albania. “E non possiamo permettere che si ricongiungano ai tedeschi.” Impugnò la penna, stese l’indice e lo mirò su Australia. “Sesta Divisione Australiana,” lo passò a Nuova Zelanda, “Seconda Divisione Neozelandese,” lo rivolse su se stesso, “e Prima Brigata Armata Britannica. Vi sto affidando tutte le forze dell’ANZAC e del Commonwealth.” Lanciò a entrambi uno sguardo d’intesa e aspettativa. “Pensate di farcela?”

Australia e Nuova Zelanda si rimpettirono sull’attenti, gli sguardi alti e gli occhi ardenti. “Signorsì!” Si batterono i gomiti. Nuova Zelanda saltellò allargando il sorriso. “A combattere assieme!”

Inghilterra li ignorò e si girò verso Grecia, la penna puntata alla sua spalla. “Noi due.”

Grecia seppe cosa dire anche senza farlo finire. “Dobbiamo suddividere le forze in Macedonia, immagino.”

“Sì.” Lo sguardo di Inghilterra tornò a scivolare sulla Linea Metaxas, picchiettò la punta sporca d’inchiostro nella Tracia, dove erano raggruppate le città di Echinos, Komotini, Nymféa e Xanthi. “Stabiliremo una sezione a est e una al centro,” si spostò più a sinistra, toccò ‘Rupel’, “frammenteremo le divisioni di fanteria in modo da non lasciare nemmeno un buco libero.” Incrociò gli occhi di Grecia. “Quanti forti ci sono sulla Metaxas?”

Grecia abbassò la zampetta del gattino che si era appesa alla sua spalla, gli posò la mano sul musetto per calmarlo. “Ventiquattro.”

“Bene.” Inghilterra contò sulle punte delle dita. “Settima, Quattordicesima, Diciottesima e Diciannovesima Divisione di Fanteria. Sfruttiamo le Brigate Evros e Nestos per una massiccia difesa nei forti della Linea Metaxas. Noi ci metteremo lì e bloccheremo i tedeschi prima che entrino a Salonicco.”

Lo sguardo di Grecia volò sulla cartina, nei suoi occhi bui ma calmi si specchiò il nome della città di porto che dava sul Golfo Termaico. “Non ho intenzione di permettergli di entrare a Salonicco.”

“Meglio così.” Inghilterra rimise il tappo alla penna, si allontanò da Grecia e tornò ad accostarsi ad Australia e Nuova Zelanda. Li prese per una manica ciascuno e li portò in disparte. “Voi due,” mormorò a voce più bassa.

“Uh?” Australia sollevò un sopracciglio. “Noi due che?”

“Prima di tutto si dice ‘noi due cosa’,” ribatté Inghilterra. “E secondo...” Strinse le dita sulle loro maniche, si girò a scoccare un’ultima occhiata a Grecia da sopra la spalla, e li fece chinare più vicino a lui tirandoli verso il basso. Calò ulteriormente il tono di voce. “Ascoltatemi attentamente.” Staccò la mano dalla manica di Nuova Zelanda e bacchettò entrambi con l’indice. “Non vi ho chiamati qua per rimandarvi indietro mezzi distrutti o per vedervi morire sotto i miei occhi.”

Australia e Nuova Zelanda trassero un sospiro di tenerezza che arrossì le guance a entrambi. “Ooh.” Luccicarono gli occhi a tutti e due. “Anche noi ti vogliamo bene,” disse Nuova Zelanda.

Inghilterra scosse il capo e schiacciò le mani sulle loro facce per cancellare quelle espressioni che facevano sciamare cuoricini attorno alle loro teste. “Piantatela.” Fece scivolare le dita quel poco per poterli guardare negli occhi con sguardo truce. “La mia priorità in quanto responsabile del Gruppo W è far vincere Grecia e limitare i danni,” tolse le mani dalle loro facce, tornò a puntargli l’indice contro, “ma la mia priorità in quanto individuo è salvaguardare voi che siete sotto la mia responsabilità, perciò statemi bene a sentire.”

Australia e Nuova Zelanda tornarono a viso serio, gli occhi attenti rivolti a quelli di Inghilterra.

Inghilterra tornò a prenderli per il bavero, avanzò di un passetto più vicino a loro, tirò Australia verso il basso e Nuova Zelanda verso l’alto per avere entrambi a una piuma dal naso e poter sussurrare. “Se le cose dovessero degenerare, se le forze tedesche si rivelassero ancora più forti e numerose del previsto,” le sue mani strinsero sulle loro giacche, “vi autorizzo alla ritirata.”

Australia strabuzzò gli occhi. “Una ritirata?” Un’espressione di delusione e amarezza gli strappò la luce dal viso. “Vorresti dire una fuga? Dovremmo darcela a gambe?”

“Ma noi non vogliamo scappare,” esclamò Nuova Zelanda. “Vogliamo combattere!”

“Zitti.” Inghilterra tornò a tirarli a sé. “Sono io a decidere. Quindi qualsiasi cosa succeda, e intendo qualsiasi...” Buttò un’ultima fugace occhiata alle sue spalle, squadrando il profilo di Grecia, e tornò sugli altri due. “Voi farete quello che dico io, intesi? Se io dico di ritirarvi voi vi ritirate, se io dico di evacuare il Peloponneso voi evacuate il Peloponneso, se io dico di scappare a nuoto voi vi buttate in mare e sbracciate fino alle coste di Creta, capito? Questa è una guerra, non una scampagnata nel bosco.”

Australia e Nuova Zelanda si rivolsero un’occhiata delusa. Sospirarono, ma sui loro volti comparve un’espressione di comprensione e accettazione. Lo capirono. “Sì,” risposero con voce trascinata ma meno lamentosa.

Inghilterra trasse un sospiro di sollievo, mollò le giacche di entrambi, lasciandoli andare, e si spolverò i palmi. “Comunque,” indicò la mappa, “vi ho messi in una posizione sicura, avete tutta la barriera del Gruppo W a proteggervi. Probabilmente sia Prussia che Germania agiranno sulla Linea Metaxas, e ci penseremo io e Grecia a bloccarli prima che arrivino da voi.”

Nuova Zelanda si strinse nelle spalle, gli mostrò i palmi. “Ma cosa succederà se dovessero sconfiggervi?” domandò. “Non dovremmo combattere assieme per evitare che a qualcuno di noi capiti qualcosa di brutto?”

Inghilterra fece roteare lo sguardo e indicò alle sue spalle con un breve cenno del capo. “Ora quello che rischia più di tutti è Grecia.” Strinse le braccia al petto, si passò una mano dietro il collo, massaggiò a fondo le vertebre che erano tornate a irrigidirsi, e stropicciò una smorfia di dolore. “Cercherò di fare tutto il possibile per salvarlo ma...” Sospirò, e non riuscì a nascondere la profonda ombra di rammarico. Non terminò la frase.

Australia annuì, di colpo più serio. “Non ti preoccupare.” Si batté la mano sul petto in un gesto di lealtà. “Combatteremo fino alla fine.”

Nuova Zelanda annuì con la stessa convinzione. “È per questo che ci avete chiamati, no?”

Inghilterra sentì il petto alleggerirsi, intiepidirsi di quel sentimento rincuorato che lo sciolse dalla preoccupazione e lo toccò con una carezza di fiducia. “Bravi.”

Alle loro spalle, Turchia scivolò di due passi verso Grecia, si mise dietro la sua spalla, sfiorandogli la schiena con il gomito, e posò lo sguardo sul gattino pezzato che giochicchiava con le dita del padrone. Si sentì pervaso da un tiepido e amaro sentimento di nostalgia. “E così state davvero per andare?”

Grecia annuì. “A quanto pare.” Sfilò le dita dalle zampette del gattino, e il micio protestò snudando i dentini. “Miau!” Grecia tornò a raccoglierlo fra i gomiti, lo fece acciambellare contro la spalla, passò morbide carezze lungo la sua pelliccia, dalle orecchie fino all’attaccatura della coda, e spostò gli occhi socchiusi su Turchia. “Tu che farai?”

Turchia sospirò e si strinse nelle spalle, infilò la mano sotto il cappuccio e si strofinò la nuca. “Io corro un rischio grosso.” Scosse il capo. “Se l’Asse riuscisse a mettere le mani anche su di te, allora io avrò ben poco scampo, dovrò capitolare.”

Grecia tornò a chinare il viso verso il gattino, gli massaggiò la pelliccia dietro il collo, e annuì con un gesto stanco. “Lo immaginavo.” Il gattino si arrampicò con le zampette anteriori sulla sua spalla, tese il muso e gli strofinò il nasino sulla guancia, facendo le fusa accanto al suo collo. Grecia gli passò un’altra carezza sulla testolina, gli sfregò il pollice dietro l’orecchia, incrociò i dolci occhi verdi del micio, e provò un doloroso tuffo al cuore che gli strinse il petto. Posò la fronte su quella soffice del gattino che profumava di fiori primaverili, di polline, del prato sul quale si era rotolato e che presto avrebbe potuto macchiarsi del sangue del suo padrone. “Se Germania dovesse,” Grecia scrollò le spalle come se non lo riguardasse, “farmi qualcosa...” Buttò un’occhiata distratta a Turchia. “Potremmo anche non rivederci per molto tempo.”

Turchia tenne strette le braccia al petto e ridacchiò a labbra chiuse, facendo sobbalzare il petto. “Non sperare che ti uccida, sai.” Si premette il pollice contro. “Io mi sono prenotato per farlo da almeno qualche centinaio di anni prima di lui.”

Grecia raccolse il gattino dalla spalla, gli fece staccare le unghiette che erano rimaste appese alla stoffa della giacca, e gli resse il corpicino davanti al petto. “Resta ad Atene.” Non capì nemmeno lui a chi stesse rivolgendo quelle parole. Si voltò, porse il micio fra le mani di Turchia. “Resta ad Atene e io tornerò comunque.” Si chinò a passargli un’ultima carezza sulla pelliccia ora avvolta dalle braccia di Turchia. Due ciocche di capelli gli scivolarono da dietro l’orecchio e gli toccarono gli occhi, nascondendo la triste luce di nostalgia che già li riempiva. “Vivo o morto, fra un po’ sarò di nuovo qui.”

Turchia sollevò il gattino da davanti il viso di Grecia, per guardarlo in faccia. “Ehi, ehi, cos’è tutto questo pessimismo?” Tenne il gattino accoccolato sul gomito e posò due dita sulla spalla di Grecia, martellandogliela. “Sei stato in grado di reggere una guerra fino a marzo, quando tutti davano per scontato che la vittoria sarebbe stata nelle mani degli italiani già a novembre. Hai fatto rimanere tutta l’Europa a bocca aperta, tedeschi compresi, tanto che si sono scomodati di alzare le chiappe da Berlino per occuparsi unicamente di te.” Gli rivolse un affilato ghigno d’intesa. “Come minimo, gli devi un bel bis, no?”

Un caldo e piacevole brivido di fiducia solleticò il cuore di Grecia, gli trasmise una spintarella di coraggio. Piegò un minuscolo e sottile sorriso a palpebre socchiuse, e gli occhi insonnoliti acquistarono una luce di vita. “E bis sia.”

 

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28 marzo 1941, Budapest

 

Bulgaria sbatté gli occhi rossi e gonfi di sonno, le ciglia si unirono, tornarono ad aprirsi, ma la sua faccia rimase una grigia maschera di stanchezza incorniciata dai ciuffi di capelli spettinati. Tentennò di un passo per stare dietro agli altri, barcollò di lato, colto da un capogiro di sonno, e si appese al braccio di Romania. Chiuse gli occhi, gli premette la guancia sulla spalla, soffiandogli il sottilissimo e debole fiato assopito sul collo, e si lasciò guidare da lui trascinandosi i piedi dietro. Romania si stropicciò una palpebra lucida con una nocca, sbatacchiò anche lui le palpebre cerchiate da profonde occhiaie nere, e sbadigliò facendo scintillare le punte acuminate dei canini. Continuò anche lui a camminare schiacciato dal peso della stanchezza e tirato verso il basso da quello di Bulgaria che aveva ripreso a ronfare in piedi, aggrappato alla sua spalla.

Ungheria si portò la mano davanti alla bocca e sbadigliò a sua volta. Si strofinò anche lei gli occhi, si grattò i capelli dietro l’orecchio, e il suo sguardo appannato scavò fra le ombre delle pareti del corridoio che stavano percorrendo tutti e cinque. “Un colpo di stato?” sbiascicò con voce impastata. Accelerò il passo, superò Romania e Bulgaria, e si portò accanto ad Austria, dietro Prussia. “Ma come può essere?” domandò. “Quando è successo? Come...”

“Questa notte,” rispose Prussia, secco, la voce aspra e senza la minima traccia di sonno a sbavarla. “Hanno occupato e isolato Belgrado a partire dalle due.” Si aggiustò l’ultimo bottone dell’uniforme che si era infilato di fretta, lisciò il bavero e spolverò una spallina. “Il governo è rovesciato e ormai la loro adesione al Tripartito è carta straccia, ci hanno praticamente dichiarato guerra.”

“E Inghilterra?” Ungheria accelerò ulteriormente il passo, superando Austria, e si portò accanto a Prussia. “Se fosse stato lui a dire loro di...”

“Impossibile,” tagliò corto Prussia. “Il disastro che adesso travolgerà l’Europa è qualcosa che nemmeno gli Alleati vorrebbero.” Restrinse le palpebre, gli occhi si accesero di rosso, schiacciò i pugni ai fianchi, e lo stesso bruciore che aveva provato quando era arrivata la notizia tornò a scaldargli il flusso del sangue. “Hanno fatto tutto da soli.”

Bulgaria tirò su la testa dalla spalla di Romania. “Uh.” Sbatté gli occhi, si guardò attorno con aria smarrita, senza nemmeno rendersi conto di star camminando appeso all’altro. “Chi?” Un altro capogiro di sonno gli fece salire le vertigini.

Romania gli aprì una mano sulla fronte, tenendolo lontano. “Buongiorno, eh.” Si appese al suo braccio, agganciandoselo al fianco per non farlo precipitare a terra, e anche lui saltellò di due falcate più ampie per raggiungere gli altri. “E noi cosa c’entriamo con tutto questo?”

Austria sbuffò, intervenne prima di dare opportunità a Prussia di rispondere. “Lo sapevo.” Scosse il capo, e la sua fronte si corrugò in un’espressione di sdegno. Si passò una mano fra i capelli, tenne fermi gli occhiali che stavano scivolando dal naso, e la nebbiolina di sonno che gli aleggiava attorno alla testa fu attraversata da una scossa di collera. “Sapevo che sarebbe successo un disastro simile, me lo sentivo ancora prima della firma del trattato. Avreste dovuto –”

“Nessuno poteva saperlo!” ruggì Prussia. Si girò di scatto facendo arretrare tutti di un passo – tranne Austria – e i pugni schiacciati ai fianchi tremarono di rabbia. Le nocche bianche, le vene gonfie e pulsanti, gli occhi di fuoco vivo. “Nessuno!” Il suo urlo rimbalzò fra le pareti del corridoio come una violenta martellata.

Ungheria nascose un lampo di spavento che le aveva fatto guizzare il cuore in gola e cercò lo sguardo di Austria che rimase impassibile. Romania e Bulgaria raggelarono, si squadrarono a vicenda, i battiti aumentarono facendoli impallidire di paura, e sentirono entrambi l’istinto di stringersi le mani per proteggersi.

Prussia inspirò a fondo e abbassò le palpebre per celare le fiammate che erano divampate negli occhi. Rilassò la tensione dei muscoli, sciolse i pugni, l’aura nera che si era aperta come un ventaglio di tenebra attorno a lui si dissolse, e lui tornò illuminato dalla fioca luce del corridoio. “Adesso è inutile spappolarci il cervello su quello che avremmo o non avremmo dovuto fare, o su quello che avremmo dovuto prevedere,” disse. “È troppo tardi per tutti.” Tornò a voltarsi dando la schiena a tutti, ma rimase fermo, la sua ombra larga e minacciosa a seppellirli. “Ora gli jugoslavi avranno quello che gli spetta.” La sua voce aspra e ancora graffiata dalla violenza delle parole di prima suonò più grave e cavernosa. “Le cose cambieranno anche per noi,” scosse il capo, una punta di odio si infilò nelle sue parole, “ma non saranno gli schiamazzi di uno staterello slavo in rivolta a fermarci e ad allontanarci dai nostri obiettivi.” Tagliò l’aria con un’occhiataccia, fulminò tutti e quattro, uno alla volta. “Qualcun altro con inutili osservazioni da fare?”

Romania e Bulgaria tornarono a stringersi le mani e guardarono entrambi in basso, in direzioni opposte, godendosi la sensazione formicolante del battito del cuore che tornava a rallentare. Austria ricambiò l’occhiataccia con Prussia, fronteggiandolo. Ungheria storse un angolo della bocca in un leggero broncio, ma stette zitta.

Prussia voltò il viso. “Muovetevi.” E ricominciò a marciare a passo rapido e pesante.

Austria indurì i tratti del volto, posò una mano sulla spalla di Ungheria, per confortarla, e camminò dietro a Prussia, lasciando gli altri indietro. “Prussia.” Gli si mise accanto e tenne la voce più bassa. “Dov’è Germania?” chiese. “Perché non è lui a dirci tutto questo?”

Prussia chinò la fronte. L’ombra sul suo viso spanta dalle ciocche di capelli donava agli occhi un taglio sottile, selvaggio, appuntito come una lama che già gocciola sangue. Continuò a camminare e non rispose. Non si voltò nemmeno.

Quello sguardo trasmise ad Austria un freddo brivido lungo la curva del collo, gli fece accapponare la pelle. “Prussia?” Un lieve tremolio gli attraversò la voce.

“Prussia, aspetta...” Anche Ungheria accelerò il passo e si portò accanto a loro. Si spostò i capelli spettinati dalla fronte, districò un nodo di ciocche che si era impigliato a una piastrina sulla giacca, e mimò uno sguardo più preoccupato. “In che modo per noi le cose cambieranno?”

Prussia sospirò, tenne le palpebre socchiuse, gli occhi divennero uno scuro filo di sangue fra le ciglia. “Abbiamo già riorganizzato tutto.” Buttò un’occhiata alle sue spalle per assicurarsi che Romania e Bulgaria stessero al passo, e proseguì a viso alto. “L’Operazione Marita avverrà comunque, apporteremo un paio di cambiamenti nello schieramento delle armate, ma nulla ci impedirà di sfondare in Grecia.”

Romania si diede un’ultima strofinata alla testa che ancora prudeva per essere stata strappata dal cuscino così bruscamente. “È per questo che ci hai svegliati?” Si aggrappò alla manica di Bulgaria per portarselo dietro, e trotterellò alle spalle di Prussia. “Partiamo subito?”

Bulgaria scattò, i suoi occhi sbarrati si accesero in una prima scossa di vita. “Cosa?” Storse una smorfia inorridita. “Partiamo adesso?”

“E se c’entrasse Grecia con la questione jugoslava?” propose Ungheria. “Se fosse stato lui a istigare Belgrado alla rivolta per prendere tempo?”

Austria scosse il capo. “No, impossibile.” Si mise a braccia conserte, corrugò un sopracciglio e rivolse lo sguardo al nulla. “Grecia è in pessimi rapporti con la Jugoslavia, non avrebbero mai interagito in questa maniera.”

Prussia sbuffò e levò gli occhi al soffitto. “Senza contare il fatto che sarebbe stato alquanto equivoco, non credi?” Si girò verso Ungheria senza smettere di camminare. “Cosa gli avrebbe detto per convincerli? ‘Sollevate un colpo di stato e fate da esca in modo da tenere i crucchi lontani da me e farvi disintegrare al posto mio’?”

Ungheria si strofinò un braccio e rivolse a terra lo sguardo attraversato da una ruga di imbarazzo. “G-già.”

Bulgaria gracchiò una risatina insonnolita. “Gneh-eh.” Piegò un sorrisetto e mormorò fra le labbra ancora appesantite dalla dormita. “Stupida.”

Ungheria lo fulminò, fece un salto all’indietro e gli tirò un calcio alla caviglia.

Bulgaria saltò. “Ahio!” Si appese alla gamba.

Romania si mise in mezzo ai due, strinse Bulgaria per la spalla, mise la mano libera sul braccio di Ungheria, per tenerla lontana, e ignorò il battibecco. “Disintegrare?” chiese, rivolto a Prussia. “Ma non vorrete mica...” Un pensiero grigio e doloroso gli trapassò la testa, gli fece impallidire le guance e sgranare gli occhi. “Prussia.” Mollò Bulgaria e gli corse affianco alla spalla. “Prussia, non vorrete...” I suoi occhi stanchi e bordati di nero, leggermente infossati nella pelle bianca e toccata dai capelli sfoltiti, vibrarono di terrore. “Non vorrete disintegrare Belgrado?” Le sue stesse parole gli annodarono lo stomaco in un conato di nausea.

Austria si limitò ad allontanare lo sguardo e non commentò, come se avesse già capito tutto. Bulgaria invece rizzò le orecchie, mollò la caviglia e anche lui si rimise al passo, zoppicando.

Prussia rimase impassibile. L’espressione distaccata, le spalle rigide, quello sguardo che avrebbe potuto trafiggere un blocco di marmo. “Ne avevamo già parlato la scorsa volta, o no?”

“M-ma...” A Romania si incastrarono le parole sulla lingua. “Non pensavo che alla fine avreste sul serio...”

“Abbiamo già inviato la Direttiva 25,” lo interruppe Prussia. “Questo implica uno spostamento di quattro settimane della Direttiva 21, dato che le invasioni ora diventano due e l’Operazione Castigo si unirà all’Operazione Marita.”

Austria inarcò le fini sopracciglia. “Spostamento del Piano Barbarossa a giugno, quindi?” Lanciò a Prussia un’occhiata polemica. “Questo significa che avremo meno tempo a disposizione per portarlo a termine prima che arrivi l’inverno.”

“Un momento, un momento,” Ungheria si mise fra i due, “volete sul serio invadere Belgrado?”

Prussia scosse il capo. “Non invaderla.” Attorno a lui si creò un’aura spettrale che già puzzava di sangue. “Distruggerla.”

Tutti raggelarono. Quella parola arrivò come una manata di neve gettata sulla faccia, ghiacciata e tagliente come un pugno di spilli.

Prussia sollevò un sopracciglio e squadrò Bulgaria con aria complice. “Varsavia Numero Due, o sbaglio?”

Bulgaria deglutì, un brivido gli corse fino ai pugni stretti suoi fianchi. E io che l’avevo buttata come una battuta.

“Ma che bisogno c’è di distruggerla?” protestò Ungheria. “Che bisogno c’è di radere al suolo un’intera nazione pur...”

“La vera domanda è,” la interruppe Austria, “come farete a invadere Belgrado? Se la maggior parte dei corpi d’armata verranno impiegati in Grecia e il resto dovrà rimanere di guardia in Romania, quali e quante potenze potrete permettervi di utilizzare?”

Prussia si strinse i fianchi, il suo volto perse l’ombra che gli aveva incupito gli occhi. “E secondo te perché ho chiamato qua anche voi due?”

Austria e Ungheria sobbalzarono all’unisono. “Cosa?” Austria rimase a labbra aperte, cominciò a realizzare davvero. Ungheria corse davanti a Prussia, gli strinse il braccio e lo fece fermare. “No, aspetta, fermo.” Trafisse Prussia con un’occhiata dura, la sua mano strinse. “Non è per questo che ho deciso di tornare a combattere, non per vedere l’ennesima nazione ridotta in cenere in nome di un ideale.”

Prussia tornò scuro in volto. “Questo non è un ideale,” la voce di nuovo grave e ruvida, “è la nostra natura, accettatelo.” Le tolse il braccio dalla presa, e ricominciò a camminare a passo più lento. Si lisciò la manica che lei aveva sgualcito. “Noi siamo nazioni,” scosse il capo, “non esseri umani. Non c’è spazio per la compassione, ma solo per la nostra sopravvivenza. Pensavo lo aveste capito anche voi, ormai.”

Ungheria rimase a bocca aperta, ferita da quelle parole che le avevano attraversato il cuore come una freccia. Austria le camminò vicino, le strinse delicatamente la mano sulla spalla per farla proseguire, e lei fece lo stesso, si aggrappò a lui per non sentirsi troppo smarrita.

Romania rallentò il passo, tornò accanto a Bulgaria e si sporse a mormorargli accanto all’orecchio. “Contento di aver firmato l’alleanza?”

Bulgaria strinse le labbra, contrasse la fronte, e annuì. “Sì, perché so che sono riuscito ad allungare le aspettative di vita della mia nazione di almeno un paio d’anni.” Scosse il capo. “E no, perché sto cominciando a capire che razza di nazioni mi stanno tenendo in vita.”

Romania annuì di rimando, capendolo, e non trovò nulla da aggiungere.

 

.

 

Prussia spalancò la mappa, la stese sul tavolo vuoto, vi premette sopra i palmi, e la lampadina appena accesa che pendeva sopra le loro teste splendette sul territorio del Peloponneso. Sollevò la fronte e squadrò una a una le quattro nazioni che si erano raccolte nella penombra attorno a lui. “Occhi e orecchie ben aperti.” Infilò una mano nella tasca della giacca ed estrasse una matita affilata. La punta di grafite brillò come diamante. “Perché non spiegherò due volte quello che sto per dire.”

Ungheria annuì – lo sguardo ancora un po’ scosso ma attento –, Austria abbassò gli occhi ed esaminò la cartina, Romania s’irrigidì in un goffo attenti ancora indebolito dal sonno che gli schiacciava le ossa, e anche lo sguardo di Bulgaria si fece più vigile. La lampadina sopra di loro emise un ronzio metallico simile a un trillo, e quella breve tensione di corrente attraversò la camera, si infilò nei loro corpi come un serpentello di elettricità.

Prussia rivolse la punta della matita al soffitto, come una bacchetta, e marciò avanti e indietro davanti al tavolino su cui aveva spiegato la mappa. “Prima del bel regalino da parte della Jugoslavia, il piano originale era questo.” Si fermò e batté l’estremità superiore su ‘SOFIA’, senza lasciare segni. “Prendere sempre Sofia come punto di partenza,” la matita scivolò lungo la carta, attraversò il confine bulgaro, si fermò sulla Linea Metaxas che era già stata tracciata con una matita rossa, “e sfondare con due direttrici lungo la Linea Metaxas. Una delle due direttrici avrebbe dovuto raggiungere Salonicco,” toccò la città sul golfo, “e da lì espandersi in linea retta lungo la penisola ed espugnare Atene. Ora però si è presentato il problema di invadere anche la Jugoslavia.” Staccò la matita e la batté sulla scritta ‘JUGOSLAVIA’. “Quindi sarà necessario anche l’intervento delle truppe austriache e ungheresi per rinforzare le nostre, e le linee d’attacco sono ovviamente aumentate.”

Ungheria annuì. Gli altri rimasero a guardare, gli occhi sempre più tesi e le orecchie attente fin quasi a pizzicare.

Prussia tornò in Bulgaria e indicò la capitale. Ne annunciò il nome. “Sofia.” Cerchiò la città e vi scrisse sopra ‘XI’ e ‘XIV’. “Undicesimo Corpo d’Armata e Quattordicesimo Corpo d’Armata Corazzato, presi entrambi dalla Dodicesima Armata. Questi punteranno Belgrado.” Fece correre la matita oltre il confine, verso ovest. “Marceranno lungo il territorio jugoslavo e passeranno prima per Nis. Contemporaneamente, dalla Romania,” batté la matita in Romania, cerchiò ‘Timisoara’, e vi scrisse sopra ‘XLI’, “partirà il Quarantunesimo Corpo d’Armata Corazzato, e anche questo si butterà su Belgrado.” Andò in Ungheria, scrisse ‘XLVI’. “Su Belgrado, poi, punterà anche il Quarantaseiesimo Corpo d’Armata Corazzato, che partirà invece dall’Ungheria.”

Ungheria sollevò la mano. “E questi li guideremo noi, allora?” Indicò gli altri due. “Io, Bulgaria e Romania?”

“No,” rispose Prussia. “Questi faranno il loro lavoro da soli, ma entreranno a Belgrado solo dopo che noi avremo finito il lavoro con gli Stuka.” Sventolò la matita verso i presenti e sollevò gli occhi. “I corpi d’armata entreranno a Belgrado solo e unicamente quando la città sarà definitivamente rasa al suolo, altrimenti anche le nostre divisioni finirebbero sterminate dagli attacchi dei bombardieri.”

Bulgaria si strofinò i capelli dietro l’orecchio, e un primo barlume di confusione gli passò attraverso gli occhi. “Ma allora noi dove saremo piazzati?”

“Giù in Grecia, ovvio,” rispose Prussia. “Ma i corpi d’armata che agiranno in Europa non sono finiti qui.” La matita si spostò e atterrò con la punta in Austria. Scrisse ‘LI’, ‘LII’ e ‘XLIX’. “Cinquantunesimo e Cinquantaduesimo, più Quarantanovesimo.” Di nuovo la matita saltò oltre il confine e penetrò in Jugoslavia, cerchiò le città-obiettivo. “Questi partiranno dall’Austria e punteranno Zagabria e Lubiana. Sarà un’azione meno massiccia rispetto a Belgrado, ma anche questi sono centri importanti che non possiamo lasciarci fuori dalle mani.”

Austria sollevò un sopracciglio. “Ma nemmeno io sarò lì a far partire i corpi d’armata, o sbaglio?”

“Esatto.” Prussia si posò una mano sul petto, sotto la croce di ferro. “Noi cinque più West saremo tutti in Grecia, ma schierati in direttrici differenti.” Sotto il riverbero della lampada a soffitto, anche nel suo viso comparvero i segni neri da deprivazione di sonno che gli cerchiavano gli occhi. Le iridi però erano lucide e ardenti come gemme di fuoco. “Partenza da Sofia. Tutti.” Tornò a picchiare la matita su Sofia, e Bulgaria trasalì inconsciamente. “Ci saranno due azioni principali,” continuò Prussia. “Una sfonderà direttamente sulla Linea Metaxas.” Passò ripetutamente il dorso della matita sulla linea rossa che proteggeva l’accesso a Salonicco. “Sarà come sulla Maginot in Francia la scorsa primavera, nulla di insuperabile, e le truppe sono già addestrate a effettuare operazioni d’assalto di questo genere all’interno dei forti nemici. L’altra azione, invece penetrerà in Grecia passando per la Jugoslavia, proprio perché ora possiamo permetterci di usare la nazione come vero e proprio corridoio d’entrata. Ma su questa ci arriviamo dopo.” Tornò a premere la matita su Sofia, e tracciò una linea che trapassava la parte più a est della Linea Metaxas. Sopra ci scrisse ‘XXX’. “Il Trentesimo Corpo d’Armata seguirà due direttrici.” Ne tracciò un’altra parallela, lì affianco, e le indicò entrambe. “Queste qui. Tutte e due agiranno a est della Linea Metaxas in direzione della Linea Nestos per poi occuparsi di prendere i greci dal lato est.”

Ungheria tornò ad annuire, Bulgaria posò gli occhi su Sofia, cerchiata e marchiata dai numeri dei corpi d’armata, e storse il naso in una smorfia contrariata.

Prussia scrisse un altro numero romano sotto Sofia. ‘XVIII’. “Diciottesimo Corpo d’Armata di Montagna.” Sollevò gli occhi e spostò la punta consumata della matita da Romania a Bulgaria. “Voi due più mio fratello guiderete questa unità d’assalto, sfonderete esattamente al centro della Metaxas,” tornò a posarla al centro della linea rossa, “attaccando ed espugnando i forti piazzati al confine, e spingendo di conseguenza i greci a una ritirata verso sud. E avrete un solo obiettivo finale.” Scavalcò la Linea Metaxas, si diresse a sud. “Ossia chiuderli in una sacca proprio su...”

Entrambi annuirono e indovinarono la risposta. “Salonicco,” risposero.

“Proprio lei.”

“Un momento.” Romania lo bloccò con un gesto della mano, guardò Prussia con occhio scettico. “Non ci sarai anche tu con noi?”

“Vuoi scherzare?” Prussia affilò un ghigno da sbruffone e puntellò Austria e Ungheria con il pollice. “Io devo badare ai miei consorti.”

Austria non si scomodò nemmeno a rispondergli. Ungheria strinse i pugni, piantò il broncio, aggrottò la fronte. “Sappiamo badare a noi stessi.”

“No, non è vero. Ora, fatemi finire il discorso.” Prussia spostò la matita e fece un cerchio di grafite anche attorno a Salonicco. Vi picchiettò due volte la punta sopra. “Da Salonicco, poi, scenderete.” Tracciò una linea che da Salonicco raggiungeva le Termopoli, tornò sul fianco ovest, su Monastir e Skoplje, e disegnò un’altra linea che raggiungeva anch’essa la stessa destinazione, dando vita alla forma di un imbuto. Dalle Termopili, un’unica linea più spessa nasceva dalla strozzatura dell’imbuto e proseguiva fino ad Atene. “Vi unirete al resto delle armate e raggiungeremo Atene assieme. Ma a quel punto penserà West a guidarvi.” Prussia staccò la matita dalla carta, stese l’indice e lo passò due volte sulla Linea Metaxas trapassata in tre punti differenti. “Voi impegnatevi solo a combattere come si deve e a fare tutto quello che vi ordinerà lui, chiaro?”

Romania e Bulgaria annuirono all’unisono. “Sì.” La voce di Bulgaria più moscia rispetto a quella di Romania.

“Ottimo.” Prussia si girò verso Austria e Ungheria, aspettò che entrambi gli rivolgessero lo sguardo, e puntò la matita prima su uno e poi sull’altro, gli occhi di colpo si fecero duri come pietre. “Noi tre.”

Ungheria trattenne il respiro, i lineamenti del volto ancora segnato dal sonno si indurirono, anche Austria irrigidì senza farlo notare.

La matita di Prussia tornò a calare su Sofia, la marchiò con ‘XL’. “Quarantesimo Corpo di Panzer, partenza da Sofia come tutti. Direttrice...” Prussia disegnò una linea che andava da Sofia a Monastir. Da Monastir, la linea proseguiva con quella che aveva già disegnato prima, e raggiungeva le Termopili dopo una brusca curva a est. “Skoplje e Monastir. Però attenti...” Picchiettò la matita su Skoplje. “Da qui, prima di proseguire, staccheremo una parte del corpo d’armata e ci dirigeremo verso il Lago d’Ocrida.” Fece un piccolo segno da Skoplje fino a Ocrida, affacciata su un laghetto grande quanto l’unghia del suo mignolo. “Qui, se Fritz vuole, ci saranno Italia e Romano ad aspettarci. Quindi effettueremo una congiunzione con le truppe italiane, e da lì, se tutto andrà come previsto, continueremo la discesa...” ripercorse la linea che aveva già tracciato e si fermò prima delle Termopili. ‘Vévi’. “Fino a Vévi, sopra Florina. Abbiamo il fondato sospetto che le truppe inglesi stazionino lì nei paraggi. Una volta sconfitti, torneremo anche noi a Salonicco, per poi continuare la discesa su Atene assieme a West, Romania e Bulgaria.”

Lo sguardo di Austria volò a nord, si posò sulle direttrici che partivano dalla sua nazione, da quella di Ungheria e da quella di Romania. Tutte puntavano Belgrado. Austria increspò le sopracciglia. “Ma come faremo con i corpi d’armata che invieremo in Jugoslavia dai nostri paesi?” Levò lo sguardo su Prussia. “Dovranno stare senza una guida?”

Prussia annuì. “Durante la partenza sì,” rispose, “non abbiamo scelta perché ora anche voi due ci servite in Grecia. Ma c’è anche da considerare questo.” Strinse il palmo attorno alla matita, la fece rimbalzare due volte, e compì un paio di passi avanti e indietro lungo il tavolino. “Mentre noi saremo partiti per le nostre direttrici, avremo già iniziato a bombardare Belgrado. Quando avremo raggiunto i primi obiettivi qui,” picchiò la Metaxas con la punta di matita, “qui,” Salonicco, “qui,” Monastir, “qui,” Skoplje, “e qui,” Lago d’Ocrida, “gli Stuka ormai avranno finito il lavoro.” Ungheria allontanò lo sguardo e strinse il labbro inferiore, rimase in silenzio. “E solo a quel punto i corpi d’armata potranno entrare a Belgrado e occupare la città distrutta,” continuò Prussia. “Ed è a quel punto che...” La lampadina che pendeva dal soffitto sfarfallò di nuovo, produsse quel sottile ronzio metallico. La luce traballante disegnò i contorni delle palpebre di Prussia, rese gli occhi di un rosso più acceso, sanguigno. “Che voi quattro, una volta espugnata Salonicco, tornerete in Jugoslavia.”

Tutti e quattro sgranarono gli sguardi, le labbra caddero aperte, le voci squillarono fra le pareti. “Che cosa?” Bulgaria spinse le mani sul tavolo, sgualcendo un angolo della cartina, e tese le spalle verso Prussia. Lo guardò con faccia sconcertata. “Dopo aver marciato attraverso tutto il Peloponneso e dopo esserci ammazzati di botte in combattimento, ci vorreste rispedire al punto di partenza come pacchi postali?”

“Ha ragione.” Anche Romania si fece avanti a muso duro. “Sfruttateci quanto volete, certo, erano questi i patti, ma anche noi abbiamo il diritto di essere trattati da...”

“Sarà un trasferimento temporaneo,” li rassicurò Prussia. Rivolse l’indice alla mappa schiacciata sotto i palmi di Bulgaria. “Io e mio fratello non possiamo permetterci di lasciare il campo di battaglia in Grecia, sarebbe folle, ma allo stesso tempo abbiamo bisogno di qualcuno che guidi l’entrata a Belgrado.” L’atmosfera nella camera tornò di colpo nera e pesante, puzzò di ferro, di polvere e di un’umidità che schiacciava il peso sul petto. Il riverbero della lampadina si annebbiò, circondò Prussia in un gelido alone di tenebra. “C’è di mezzo un colpo di stato, nulla a che vedere con quello che è successo in Polonia, e non c’è da scherzarci. Potremmo persino assistere alla scissione di una nazione, quindi dobbiamo tenere tutto sotto estremo controllo.” Abbassò gli occhi, toccò due città con l’indice. “Da Belgrado e da Zagabria dovrete inviare le truppe anche a Sarajevo, mi raccomando.” Toccò anche quella.

Austria sospirò, il volto rassegnato però non perse la piega di durezza che gli teneva aggrottate le punte delle sopracciglia. “Quanto dovremo stare a Belgrado?”

Anche l’espressione di Prussia si rilassò, e le iridi persero la sfumatura di ferocia. “Poco.” Posò gli occhi su Belgrado, vi fece strisciare l’indice sopra, come per cancellarla dalla mappa. “Solo il tempo di riorganizzare e coordinare i corpi d’armata. Una notte, probabilmente. Poi ci servirete per l’espugnazione di Atene e di Creta.”

Bulgaria sbuffò, lasciò ciondolare il capo in mezzo alle spalle. “Che cavolo.” Tirò indietro le mani e si passò le dita fra i capelli spettinati che avevano ancora la piega del cuscino.

Romania fece un passetto avanti, si sporse sotto la luce della lampadina, si alzò sulle punte dei piedi, e posò gli occhi su Sofia. “Quindi ora partiremo subito da Sofia?”

“Sì,” annuì Prussia. “Voi due, però, prima di partire aspetterete West.” Si massaggiò il collo, qualche vertebra scricchiolò facendogli arricciare un angolo della bocca. “Preparatevi, perché probabilmente sarà sulla Linea Metaxas che incontrerete la resistenza maggiore, ed è quasi sicuro che Grecia si trovi lì.” Fece roteare lo sguardo al soffitto, rivolse il pollice ad Austria e a Ungheria. “Avrei preferito esserci anch’io, ma qualcuno doveva badare a loro due.”

Austria e Ungheria si scambiarono una reciproca e compassionevole occhiata d’intesa.

Lo sguardo di Romania rimase toccato dal dubbio. “E Inghilterra?”

Prussia si strinse nelle spalle, camminò attorno al tavolo e toccò l’Albania. “Probabilmente sarà dalla nostra parte, sul lato albanese, a fare la guardia sul fronte italiano, perché il suo Quartier Generale è a Florina.” Aggrottò la fronte e strinse le braccia al petto. I pugni premuti fra gli incavi dei gomiti scricchiolarono, le unghie spinsero sulla carne dei palmi, e un groviglio di rabbia e risentimento gli bruciò nel petto. Pulsazioni di dolore batterono sulla tempia e sulla spalla, dove annidava ancora il fantasma del proiettile che Inghilterra gli aveva sparato nel muscolo. “E io ho un conto in sospeso con lui.”

Romania tornò a guardare la cartina, l’espressione poco convinta. “E se avessero chiamato anche qualcun altro?” Fece scivolare la mano in Albania, i suoi occhi tornarono a premere su Prussia. “Vuoi farmi credere che Grecia accetterà di affrontare una guerra solo assieme a Inghilterra contro...” Mosse le dita dell’altra mano sul fianco, e contò mentalmente. Io, Bulgaria, Germania, Prussia, Austria, Ungheria, Italia... “Contro sette di noi?”

“Otto,” lo corresse Ungheria. “Dimentichi Romano.”

“Oh, giusto.”

Prussia sbuffò e fece sventolare le mani. “Questi sono affari di Grecia. Abbiamo già abbastanza problemi nostri di cui occuparci, non possiamo anche metterci a rimuginare su quelli degli altri.”

“Già,” annuì Bulgaria. “Poi chi è che potrebbe raggiungerli?” Si strinse nelle spalle e gracchiò una risata acida. “America?”

Austria sollevò un sopracciglio. “America è neutrale.”

A Bulgaria cadde il sorrisetto, le labbra si capovolsero in una smorfia di raccapriccio. “Lo so che è neutrale.” Si sporse sul tavolo e lanciò un’occhiataccia ad Austria. “Facevo sarcasmo, Austria.” Strinse i denti. “Sar-cas-mo.”

Austria gli rispose squadrandolo con un’espressione altezzosa, il mento sollevato e le braccia incrociate.

Bulgaria tornò a mettersi in penombra e si strofinò la testa con gesti nervosi. “Dio, quest’alleanza sta già iniziando a esaurirmi.”

Prussia sospirò. “Dunque, detto questo...” Aprì un lembo della giacca tenendo la matita fra le dita, estrasse un taccuino, lo sfogliò di due pagine, e fece correre la punta di grafite fra le colonne di testo che elencavano la composizione dei corpi d’armata. “Voi due,” indirizzò il dito su Romania e Bulgaria, “cominciate già a prendere comando del Diciottesimo Corpo d’Armata. Quinta e Sesta Divisione di Montagna, Settantaduesima Divisione di Fanteria, Centoventicinquesima Fanteria di Rinforzo, e avrete anche una divisione motorizzata di Panzer: la Seconda.”

Bulgaria strabuzzò le palpebre e si strofinò un orecchio, convinto di aver sentito male. “Che cosa?” esclamò. “Ci fate anche guidare i Panzer?” Si portò le punte delle dita fra le labbra, rosicchiò le unghie, un barlume di panico si impossessò dei suoi occhi, una goccia di sudore gelido gli rigò la guancia. “Ma...”

Prussia continuò a dettare senza badare a lui. “Per il resto sarà tutta artiglieria di montagna, obici, cannoni anticarro, mortai e anche un battaglione di artiglieria antiaerea leggera. Ricordate tutto quello che vi ho fatto ripassare, no?”

Bulgaria tenne strette fra le labbra le unghie di indice e medio, storse un vago sorrisetto tremolante e allontanò gli occhi. “S-sì...” Suonò come una domanda.

Romania annuì deciso. “Sì. Certo.”

“Ottimo.” Prussia girò pagina e si voltò di profilo, fece ondeggiare la punta della matita. “Per i Panzer non vi preoccupate, avrete West a guidarvi. Ma lui probabilmente dovrà stare a comandare uno di quelli abilitati al cannoneggiamento e gli servirà qualcuno da mandare in prima linea. Voi due starete probabilmente su un Panzer I, uno di quelli piccoli. Stabilite chi di voi due si metterà al posto di pilota e chi invece userà la mitraglia, e poi seguite quello che vi dice mio fratello. Organizzate dei turni, però, perché probabilmente non avremo tempo di fermarci a dormire prima dell’arrivo in Grecia e dovrete farlo direttamente dentro i carri.”

Bulgaria si tolse le unghie dai denti e tese la mano verso di lui. “A-aspe...”

“Noi tre.” Prussia non gli diede retta e si rivolse ad Austria e a Ungheria.

Una fredda vampata di panico travolse Bulgaria, gli fece salire il cuore in gola, le guance tornarono a sbiancare, la mano tremolante salì e si strinse fra i capelli. Sibilò un guaito. “Non so come si guida un Panzer I.”

Romania scosse il capo e si posò una mano sulla fronte.

Prussia continuò il discorso agli altri due. “Noi guideremo il Quarantesimo Corpo di Panzer, e quindi il nostro compito sarà la spianata totale del terreno che attraverseremo.” Posò la matita sugli appunti. “Nona Divisione Panzer, Settantatreesima Divisione Fanteria, e un reggimento motorizzato. Noi avremo molti più carri, quindi ce la spasseremo alla grande.”

A Ungheria luccicarono gli occhi nonostante il buio della camera. “Ooh.” Strinse le mani davanti al petto e sorrise. “Io voglio usare il cannone.”

Austria esalò un sospiro di sconforto, scosse anche lui la testa come Romania e si resse la fronte. “Prussia.” Gli strinse un polso senza aspettare risposta e lo portò in disparte. Da dietro le lenti, i suoi occhi lo fronteggiarono con uno sguardo così duro e penetrante da non sembrare nemmeno il suo. “Perché Germania non è qui?” gli chiese a bassa voce. “Dovrebbe essere lui a spiegarci le direttrici.” Strinse leggermente le dita sul braccio di Prussia, il suo polso tremò. “Cosa sta succedendo realmente?”

Prussia mimò uno sguardo scostante. Sfilò il braccio da sotto la presa di Austria e tornò a riporre taccuino e matita nella giacca. “Meglio stargli alla larga per un po’, credimi.” Si lisciò le spalline, aggiustò il bavero attorno al collo. “Ora ha altri macelli di cui occuparsi.”

“E a te sta davvero bene così?” insistette Austria. “Rispondimi onestamente: tu avresti fatto lo stesso? Anche dopo che tu stesso hai visto Varsavia con i tuoi occhi...” Strinse i pugni, inspirò a fondo. “Accetteresti di tornare a provocare un disastro del genere?”

Prussia annuì. “Sì.” Strinse le mani sui fianchi e tornò a squadrare Austria con quell’espressione austera. “Perché è ora che l’Europa, anzi, che il mondo intero inizi a capire con chi è che ha a che fare.”

Austria scosse il capo, sconfortato e amareggiato. Si massaggiò le tempie. “Certe volte proprio non riesco a capirti.”

“Non mi sono mai aspettato che tu lo facessi. Prussia gli diede le spalle e si rivolse anche agli altri. “Cominciate a prepararvi,” disse, rivolto a tutti. “Sarà una traversata tosta, dormiremo molto poco e ci sarà molto da combattere, perciò risparmiate le energie.” Levò un pugno al cielo. “Si torna a ballare, Asse.” Si allontanò, un raggio di luce proiettato dalla lampadina gli batté sul petto, scintillò contro la croce di ferro. Un abbaglio brillante e affilato come un ghigno.

 

♦♦♦

 

28 marzo 1941, Berlino

 

Cerchi neri marchiavano la cartina geografica che ritraeva tutta l’area dei Balcani, racchiudevano le aree di partenza che avevano origine in Austria, Ungheria, Romania e Bulgaria. Segnalini rossi erano pinzati sulle città jugoslave su cui si riversavano frecce dello stesso colore. Lubiana, Zagabria, Sarajevo. Germania stese il braccio sopra la mappa, portò la sua ombra sopra il nome della città scritto con uno stampatello più grosso, abbassò la mano e puntò il segnalino rosso che reggeva fra le dita. Belgrado.

Germania tolse il braccio dalla mappa, fece un passo all’indietro e squadrò l’intero tavolo su cui spiccavano i segnalini rossi che trafiggevano anche il territorio greco e albanese. Spianò le direttrici con uno scuro sguardo di minaccia. “Accelerate i preparativi.” La voce fredda e dura come la luce racchiusa nei suoi occhi. “La direttiva per l’invasione dovrà essere pronta non oltre il trenta marzo.” Tese di nuovo la mano e volse due dita a indicare le basi di partenza. “Della formazione delle colonne corazzate se ne occuperà il Quattordicesimo Panzerkorps che, assieme all’Undicesimo Corpo di Fanteria, prenderà la direttiva per Nims partendo l’otto aprile.” Si spostò di un passo di lato, continuando a indicare. “Il Quarantunesimo partirà da Timisoara il dodici, e anch’esso si dirigerà a Belgrado. Contemporaneamente, la Seconda Armata partirà dall’Austria e dall’Ungheria, e si occuperà di spianare la difesa jugoslava nei nodi stradali. Gli jugoslavi dispongono di una pessima organizzazione logistica, e probabilmente imbastiranno una difesa molto dispersiva, quindi non sarà complicato abbatterla.”

Uno dei due ufficiali che occupavano la camera assieme a lui tolse le dita da un altro segnalino rosso che aveva puntato su Sofia, accanto alle altre pedine che rappresentavano i corpi d’armata, e annuì con convinzione. “Sissignore.”

Il secondo ufficiale camminò lungo il profilo del tavolo di comando, il suo sguardo forgiato dalla penombra si soffermò su Belgrado. “E per l’aviazione, signore?”

Anche gli occhi di Germania si posarono sulla capitale jugoslava. “Sarà il Quarto Fliegerkorps a bombardare Belgrado,” rispose. “Si comincerà il sei aprile, gli Stuka eseguiranno i raids a ondate di cinquanta aerei ciascuno, con un intervallo di pochi minuti ad attacco, e si protrarranno fino a tarda sera.” Posò due dita accanto al segnalino rosso che aveva pinzato nell’area di Belgrado su cui puntavano le tre frecce. “Gli obiettivi principali dell’attacco saranno la stazione ferroviaria, il palazzo reale, e il campo di aviazione Zemun.”

Una prima e singola ruga di esitazione incrinò lo sguardo di pietra del primo ufficiale. L’uomo sollevò gli occhi grigi sotto la luce della lampadina che donò alle iridi una sfumatura metallica, e li rivolse a Germania. “Ci saranno molte perdite civili, in questo modo, signore.”

Germania allargò la mano sulla mappa, le sue dita si contrassero, le punte spinsero sulla carta, l’ombra del suo braccio tagliò la mappa come una pennellata di buio, e tutta quell’aura nera lo avvolse come una nebbia. Rivolse lo sguardo all’uomo, e i suoi occhi divennero lame di ghiaccio nella tenebra.

“Mi sta forse questionando?”

L’ufficiale distaccò lo sguardo, indurì i muscoli delle braccia e del petto, contenne un soffio di fiato e soppresse quel brivido che gli si era appeso al collo come un artiglio piantato nella carne. “N-nossignore.”

Anche il secondo ufficiale si riparò nella penombra, lontano dalla minacciosa aura nera che aveva pervaso la camera.

Germania si voltò dandogli le spalle, si mosse di un passo, e la sua ombra si spalancò invadendo il tavolo. “Eseguite come vi ho ordinato, senza esitazione. E non arrestate i bombardamenti fino a che non sarò io a deciderlo.” Mosse altri lenti e scricchiolanti passi che risuonarono fra le pareti di pietra, e dentro di lui si scavò un profondo vuoto di rabbia, odio e crudeltà che gli inghiottì il cuore in una morsa di buio, la stessa che rifletteva il suo viso. “Belgrado...” Lampi cremisi brillarono nei suoi occhi, e Germania fu già in grado di percepire il calore del sangue che colava dalle sue mani. “Riceverà il castigo che merita.”

   
 
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