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Autore: Inyoureyes    28/05/2017    2 recensioni
SPOILER 4x13
Cosa sarebbe successo se Clarke avesse lasciato una lettera a Bellamy prima di partire?
Dal testo:
Osservò la terra ancora per qualche istante, dopodiché abbasso la mano all’altezza delle tasche dei pantaloni ed estrasse la lettera. Lo sguardo era poggiato su quest’ultima. Desiderava leggerla, eppure ne era terrorizzato ed attratto al tempo stesso. Un semplice foglio di carta non gli era mai sembrato tanto difficile da leggerle.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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 Caro Bellamy,







 
 
 Percorse il lungo corridoio in acciaio in pochi istanti, la suola consumata delle sue scarpe echeggiava in quel mesto silenzio in cui si era rifugiato. Ampie e decise falcate. Teneva la postura ben eretta ed i pugni stretti all’altezza della vita. L’andatura perfetta e la camminata decisa erano tutto ciò che gli era rimasto della sua vecchia vita, della vita sull’arca.
Rallentò il passo non appena vide l’ampia porta in acciaio alla sua destra, inserì la chiave all’interno di quella fessura ormai divenuta fin troppo difettosa e con un paio di tentativi riuscì ad accedere a quella stanza tanto anonima. Non si perse ad osservarla, non aveva nulla che potesse differenziarla dalle altre. Chiuse la porta con forza senza curarsi che facesse rumore ed avanzò all’interno di quel piccolo spazio tutt’altro che accogliente. Si accostò alla parete e raggiunse quel che era divenuto il suo attaccapanni, un sottile chiodo nero attaccato al muro. Si tolse la giacca e la ripose con cautela. La giornata era trascorsa lentamente, com’era accaduto nelle due settimane precedenti, e sebbene ognuno di loro avesse trovato un impiego per ammazzare il tempo, lui non era riuscito a trovarlo appagante come in realtà avrebbe dovuto essere. Si sedette sul letto disfatto dal mattino precedente ed osservò il piccolo indumento appeso al muro. Era il bene più caro che gli fosse rimasto, non era mai stato un tipo sentimentale e mai lo sarebbe stato, ma quell’oggetto logoro e strappato era intriso di ricordi e memorie che non avrebbe mai dimenticato. Ricordava ancora il giorno in cui si era impossessato di quella giacca. Quel tessuto aveva ornato ed avvolto il suo corpo affinché commettesse uno dei peccati capitali, lì sull’arca. Il giorno in cui avrebbe dovuto uccidere Jaha e raggiungere Octavia sulla navicella.


Octavia.


Chiuse gli occhi e se la poté ritrovare di fronte. Riuscì a vedere i lineamenti dolci e delicati della sorella, le sue iridi chiare e cristalline contornate da quel fuoco ardente che risiedeva all’interno della sua anima ed i capelli neri e lisci come la seta. Una lacrima gli scese copiosa lungo la guancia. Mia sorella, mia responsabilità. Non era mai stato così, era sempre stata più sveglia e forte di quanto tutti gli altri credevano fosse. Di quanto lui si ostinasse a credere. Octavia aveva vissuto per tutta la vita sotto un pannello di cemento, ed era sempre stato convinto che non fosse impazzita per l’amore e la cura che le aveva riservato durante tutti quegli anni, ma lì, sulla terra. Si era finalmente convinto del contrario, non era l’amore che l’aveva spinta ad andare avanti, ma la sua voglia di vivere. E c’erano voluti Lincoln, Indra ed anche l’apocalisse per farglielo capire. Ed ora erano divisi, dallo spazio e dalla terra. Il suo rimpianto sarebbe sempre stato quello di non essere riuscito neanche a dirle addio. Non sapeva se avesse ricevuto il suo ultimo messaggio, se pensasse che fosse morto nello spazio o peggio, delle volte si chiedeva se qualcosa fosse andato storto e le radiazioni l’avessero raggiunta.


“Bellamy?”


La voce di Raven gli giunse limpida e chiara, il tono della sua voce era calmo e insolitamente rilassato, sentì la porta bussare un paio di volte e immaginò fosse l’ora di cena. L’immagine di Octavia svanì all’istante ed una stretta gli avvolse in pieno lo stomaco, quasi come se pensare alla sorella fosse qualcosa di intimo, privato. Qualcosa che dovesse riservare unicamente a sé stesso. Distolse lo sguardo dalla giacca e si asciugò bruscamente la lacrima con il palmo della mano. Raggiunse la porta velocemente. Non voleva che Raven si preoccupasse, era conscio di come lo guardasse ultimamente, come tutti gli altri, del resto. Era stato picchiato a sangue più di una volta in passato, ma quel dolore fisico non era nulla a confronto della pietà che leggeva in quelle iridi scure. Non appena aprì la porta, se la ritrovò di fronte. I capelli stretti in una coda ben alta, il viso stanco che tradiva il tono della sua voce ed il tutore che le teneva la gamba

.
“E’ ora di cena.”  Gli disse semplicemente.

Si limitò ad annuirle ed insieme cominciarono a percorrere quel lungo corridoio che separava le cabine dalla sala da pranzo. Era diventata una routine ormai. Nelle ultime due settimane Raven era divenuta colei che lo avvertiva della cena. Insieme percorrevano il corridoio che li separava dalla sala da pranzo e non si dicevano nulla. Andava bene così, ad entrambi. Era un silenzio carico di significati, un silenzio necessario ad entrambi. Quando erano riuniti intorno a quel tavolo, era come se fosse d’obbligo tenere una conversazione, e in quel breve istante potevano liberarsi delle maschere e smettere di fingere che tutto andasse bene e che quella vita avesse preso il posto di quella passata. Quella sera al contrario, Raven si rivelò essere più taciturna del solito, teneva lo sguardo fisso davanti a sé, camminava lentamente tirando il tutore come suo solito, ma nel suo sguardo assente sembrava leggervi qualcos’altro, quasi volesse aggiungere qualcosa ed interrompere quella tradizione che si era creata tra di loro.

“Ho trovato una cosa, oggi.”

Bellamy si voltò non appena la ragazza si fermò, i riccioli scuri gli caddero sugli occhi ma non si curò di cacciarli ai lati. Avrebbe dovuto tagliarli quei capelli, l’aveva programmato, ma alla fine aveva sempre rimandato. Si guardò intorno, per assicurarsi che non ci fosse nessuno ad ascoltarli e soltanto quando sentì le voci dei ragazzi provenire dalla sala di fianco si curò della questione.

“Ci sono dei problemi nella sala macchine?”

Raven scosse la testa, un flebile sorriso le comparve sulle labbra all’idea che il ragazzo fosse preoccupato che qualcosa andasse storto, era parte integrante del suo carattere. Parte integrante di Bellamy Blake.
Tirò fuori dalla tasca un foglio in parte stropicciato e glielo porse delicatamente. Aveva gli occhi inumiditi e si chiese cosa potesse contenere quel piccolo involucro per piegare una volontà e una forza d’animo come quella di Raven.

“Era nella tua tuta.” Aggiunse la ragazza. “Non devi averci fatto caso quando l’hai tolta.”

Bellamy afferrò quel foglio ripiegato con calma. Si domandò come ci fosse finito e come potesse non essersi accorto della sua presenza durante il decollo. Ma non gli venne in mente nulla.

“Non l’ho letta.”

Raven gli poggiò una mano sulla spalla e si allontanò, gli mormorò qualcosa sulla cena ma non se ne curò. Prese quel piccolo involucro e si poggiò con la schiena alla parete per leggerne il nome firmato sopra.
 
 
Clarke.
 
 
 
***

 
“Caro, Bellamy.”


Lesse quella riga un paio di volte. Riconobbe immediatamente la calligrafia elegante ed ordinata di Clarke. Non c’erano dubbi che non fosse di nessun altri che lei. Era tornato nella sua cabina senza curarsi della cena e si era promesso di leggerla in privato, senza nessuno che fosse nelle vicinanze. Ancora una volta aveva il bisogno di ritagliarsi dei momenti suoi, senza Raven o Monty, o chiunque altro che potesse mostrare un briciolo di compassione nei suoi confronti. Solo sé stesso e i suoi rimpianti. Non era riuscito a leggere nient’altro ad eccezione di quella riga in quell’abbondante mezz’ora. Il dolore che gli si irradiava nel petto era troppo vivido e gli impediva di pensare lucidamente. Tipico del suo carattere. Il cuore che prevale sulla mente.


Bellamy, tu hai un grande cuore.


Strinse il pugno con forza, con tutta la forza che possedeva in corpo, sentiva le unghie conficcarsi nella carne, fino a sanguinare. Ma non gli importava, avrebbe patito qualsiasi dolore fisico pur di impedire alla sua mente di prendersi ulteriormente gioco di lui.


Le persone ti seguono, si lasciano ispirare, grazie a questo.


Chiuse gli occhi e poté sentire il palmo caldo di Clarke posarsi sul suo petto. Sentiva le sue dita delicate poggiarsi all’altezza del cuore, di quel cuore che batteva all’impazzata per via di quel semplice contatto. Era lì con lui, entrambi erano rinchiusi in quella stanza.


L’unico modo per sopravvivere è se usi anche questa.


Sentì il tocco di Clarke sulla tempia, voleva usasse anche la testa, il cervello.
Ma come avrebbe potuto? Era lei la sua mente, la parte razionale del suo essere. Erano in grado di bilanciarsi l’un con l’altro quei due. Due facce plasmate nella stessa medaglia. Ed ora, era solo. Solo in quella stanza dalle pareti bianche. Non gli era rimasto nient’altro che il ricordo di lei, ed una lettera sbiadita.
Un impeto d’ira gli avvolse il corpo. Scaraventò la lampada e il mobiletto su cui erano poggiati i libri sul pavimento, gettò le carte strappate contro la parete e si gettò contro l’armadio affinché questi si rompesse. Era arrabbiato, con sé stesso per essere ancora in vita. Con sua madre per aver permesso ad Octavia di vivere sotto un pannello di cemento, con la terra per averlo reso un mostro e con la vita che gli era sempre sembrata dannatamente ingiusta nei suoi confronti. Ma soprattutto, era arrabbiato con Clarke per essere morta. Solamente quando diede un pugno allo specchio e sentì il sangue accarezzargli le nocche fu in grado di fermarsi e tornare a respirare regolarmente.
 
***
 
 
“Finito.” Gli fece Raven, avvolgendo la ferita madida di sangue con una garza fresca e pulita. Gliela strinse in un laccio stretto e improvvisato. Dopodiché si poggiò contro la parete del bagno con le braccia incrociate tra di loro ed il sopracciglio sollevato.

“C’è qualcosa che Raven Reyes non è in grado di fare?” Le domandò Bellamy, stringendo di poco le dita della mano martoriata. Il tono scherzoso con cui aveva pronunciato quelle parole non poteva sembrarle più distante da quella figura ombrosa e distante che aveva soccorso pochi minuti prima.

“Dovresti leggerla.” Gli asserì lei, con quello sguardo deciso e le sopracciglia ancora contratte. “La lettera, intendo.”

La ragazza poggiò la testa contro la parete. Non era mai stato il suo campo, la medicina. Tantomeno lo erano stati i sentimenti. Con Finn era sempre stato tutto abbastanza semplice, si erano sempre considerati l’uno il libro aperto dell’altra. E non si era mai trovava a dover affrontare situazioni del genere. Non era solita a condividere il dolore, tantomeno a comprendere quello degli altri, ed era conscia che fosse lo stesso per Bellamy. Erano simili quei due. Entrambi evitavano di esprimere i propri sentimenti per evitare che i loro cari si preoccupassero. “Manca anche a me, Bellamy.”

Raven lo vide scurirsi in viso, distogliere lo sguardo e posarlo contro la parete opposta al letto. Era conscia di cosa stesse facendo. Stava pensando a lei. A Clarke.
Fu allora che si accorse che la conversazione era appena conclusa. Che nessuno dei due avrebbe proteso parola e che il silenzio avrebbe regnato sovrano da lì in avanti.
Lì, poggiata su quella parete impolverata si rese conto di essere riuscita a trasmettergli qualcosa. Di essere riuscita a convincerlo. E poté finalmente lasciarlo solo con i suoi pensieri.


 
***
 


Bellamy, ho bisogno di te.


Lì, in piedi d’innanzi all’oblò si ritrovò a pensare a come si fosse sentito quando l’aveva lasciato. Osservò le striature cremisi della terra ed accarezzò con il pollice l’incisione sulla bottiglia che aveva trovato al loro arrivo sulla navicella. Non ne aveva bevuto neanche un sorso, voleva fosse sobrio e che fosse in grado di reggere il dolore da sé, senza interventi altrui o aiuti concreti.
Gli venne in mente il giorno in cui si era trovato a gridarle contro. Voleva disperatamente che tornasse, quando l’aveva perduta, la prima volta, si era sentito il mondo crollare addosso. Avrebbero dovuto sopportare il dolore insieme, e lei se ne era andata. E quando l’aveva trovata, legata ed imbavagliata alla colonna, la rabbia e il dolore erano svaniti tutti in una volta, lasciando posto ad una gioia ed un istinto di protezione che aveva provato solo per Octavia. Quando era accaduto la seconda volta, quando l’aveva vista abbandonare il suo popolo, lui, per restare a Polis, non vi era stata gioia, né protezione. Solo rabbia e sconforto. Aveva lasciato che il cuore prevalesse sulla ragione, aveva trasformato Arkadia in un campo di guerra ed una mina pronta ad esplodere. Solo perché lei se n’era andata.
 


E non c’è molto tempo.


 
L’Aveva ammanettata al tavolo per non lasciarla fuggire, al tempo gli era sembrata una cosa intelligente, la sola alternativa per salvaguardare la sua persona ed evitare che i terrestri l’attaccassero e le rivelassero la loro vera natura, ed ora si chiedeva come avesse potuto compiere un gesto tanto stupido ed impulsivo. Un gesto che si ripeteva fosse il risultato delle influenze di Pike, ma che in realtà riservava paure e timori ben più nascosti. La paura di perderla ancora.
 
Osservò la terra ancora per qualche istante, dopodiché abbasso la mano all’altezza delle tasche dei pantaloni ed estrasse la lettera. Lo sguardo era poggiato su quest’ultima. Desiderava leggerla, eppure ne era terrorizzato ed attratto al tempo stesso. Un semplice foglio di carta non gli era mai sembrato tanto difficile da leggerle.
 
 
 
 
Caro Bellamy,
 
Se stai leggendo questa lettera, vuol dire che qualcosa è andato terribilmente storto. Forse non sono riuscita a tornare in tempo o forse ci sono stati problemi con la radio. Ma sul come e del perché io non sia tornata non è importante quanto quello che voglio dirti.
Ero intenzionata a morire quel giorno, porre fine a tutto ciò che avevo causato e dire addio a mia madre, lì nel bunker. Volevo che il dolore si fermasse, che svanisse e che potessi tornare ad essere una persona senza il peso dell’umanità sulle spalle. Non sarei mai stata in grado di porre fine ai miei tormenti con la presenza vigile di mia madre, e quella missione era la mia unica possibilità di redenzione.
Raven si meritava qualcuno che andasse in suo soccorso, ed ero certa che quel qualcuno fossi tu. Perché è parte del tuo essere, aiutare gli altri. Il tuo grande cuore ti rende ciò che sei. Ma questo te l’ho già detto.
Pensavo di aver superato il limite quando ho chiuso quella porta ed ho impedito ad Octavia e Kane di entrare ma questo non è vero. È stato, quando ti ho puntato una pistola contro.
Mi dispiace Bellamy, mi dispiace averti causato un dolore tanto grande, di essere stata egoista nei tuoi confronti più di una volta ed aver lasciato che le mie scelte mettessero in pericolo le vite degli altri. Ma non potevo fare altrimenti, dovevo sapere che eri al sicuro.
Volevo che l’ondata mortale mi portasse via con sé questa mattina, prima di partire. E poi, questo pomeriggio mi hai dato qualcosa che credevo aver perduto tempo fa. Mi hai dato la sicurezza di cui avevo bisogno. Mi hai restituito la voglia di vivere che la terra mi aveva poco a poco portato via. E te ne sarò sempre grata. È proprio vero che non c’è mente che tenga senza il proprio cuore.  
Bellamy, non ho la presunzione di dirti che la mia morte ti ha portato nient’altro che ulteriore dolore, ma se così fosse, voglio che tu sappia che hai fatto ciò che era giusto, che non c’era nient’altro da fare e che era necessario ciò che avete fatto. Voglio che tu viva la tua vita come è giusto che debba essere e che il passato non sia altro che tale. Voglio che tu rimanga la grande persona che sei, e per quanto il dolore sia forte, tieni sempre a mente che ciò che abbiamo fatto per sopravvivere non definisce chi siamo.
 
May we meet again,
 
 
 
Clarke
 
 
 
 
Bellamy girò il foglio con frenesia. Senza rendersene conto il desiderio che Clarka avesse lasciato qualche altro messaggio nascosto assalì il suo corpo. Non poteva essere finita. Non voleva fosse finita.
Rilesse il messaggio un paio di volte, fin quando la consapevolezza che tutto fosse giunto al termine lo avvolse tra le proprie braccia. Un moto d’adrenalina gli percorse il corpo. Poggiò una mano sulla fronte per asciugare la fronte imperlata di sudore e spostò i ricci scuri al lato del capo. Sollevò il braccio ed appoggiò il palmo della mano libera sul pannello dell’oblò per sorreggere il peso del proprio corpo, divenuto improvvisamente troppo pesante per le gambe. La consapevolezza che Clarke fosse morta lo investì come un uragano. Una lacrima ribelle gli accarezzò la guancia fino a depositarsi sul pavimento, strinse le dita della mano con forza, fin quando le nocche non gli divennero biancastre.
 
 
 
 
 
Abbiamo bisogno l’uno dell’altra, Bellamy.
 
 
 
 
 
 
 
E allora dove sei, Clarke?
 
 
 
 
 
 
***
 
 
Bellamy afferrò finalmente la bottiglia. La osservò per qualche minuto, prima di tornare ad osservare quell’involucro rossastro che oramai era divenuto la terra. Solo sei mesi prima, erano giunti su quel pianeta ed avevano reclamato ed ottenuto ciò che non gli era mai stato concesso, la libertà necessaria affinché potesse esserci un nuovo inizio. Ed ora, si trovava nuovamente ad osservarla da lontano, era diventato nuovamente lo spettatore di quella massa informe e a tratti imperfetta.
 
“Ci ha salvati di nuovo.” 
 
Ancora una volta, Raven era riuscita a distrarlo e ad interrompere il rumore dei suoi pensieri.
La osservò per qualche istante, senza curarsi del suo sguardo stanco ed assente dovuto allo sforzo a cui si era sottoposto poche ore prima e tentò, seppur fallendo miserabilmente, a dar sfogo a ciò che l’aveva tormentato durante quelle settimane.
 
“Pensi che potremo farcela senza di lei?”
 
Senza di lei.
 
Era riuscita a comprendere la fonte dei suoi tormenti.
 
A comprendere quanto la sua assenza lo influenzasse.
 
“Se non lo facciamo, lei sarà morta invano.”
 
Le parole gli vennero fuori senza controllo. Egli stesso si sorprese della semplicità con cui le aveva pronunciate. Quasi come se il dolore causato dalla sua morte, gli avesse fornito un innaturale ed insolita empatia. Il ricordo di lei, nella sua mente, era più vivido che mai, eppure al di fuori sarebbe sembrato tutto il contrario.
 
“E non lascerò che accada.”
 
Volse lo sguardo verso l’esile figura al suo fianco e vide nel volto della ragazza la stessa tristezza e lo stesso dolore che si era imposto di riservare solo alla sua persona ed un moto di speranza si levò negli angoli più remoti del suo cuore. La consapevolezza che la memoria di Clarke sarebbe continuata a vivere imperterrita e che avrebbe potuto condividerla con qualcuno che non fosse sé stesso, di tanto in tanto.
 
“Sei con me?” Le domandò semplicemente.
 
“Sempre.”
 
 
 
Non era certo di cosa il futuro riservasse per loro quattro, ed aveva cinque anni per farlo. Per il momento, avrebbe pensato al presente. A loro otto. Si sarebbe concesso un drink in compagnia di Raven e più tardi avrebbe raggiunto Muphy ed Emori per occuparsi delle alghe, perché era ciò che Clarke desiderava, che continuasse a vivere la sua vita, e che non vivesse di soli rimpianti, e non avrebbe mancato alle sue ultime volontà. E poi, forse, una volta tornati sulla terra, avrebbe raggiunto il punto su cui in passato era eretto l’albero sul quale si erano poggiati, sfiniti, dopo aver ucciso Dax, e l’avrebbe ringraziata per ciò che gli aveva fatto. Per aver creduto in lui quando nessuno era disposto a farlo e per avergli insegnato che delle volte il cuore non basta e che è necessario compiere delle scelte per salvaguardare chi si ama. Fino ad allora, l’avrebbe ricordata come la prima volta che l’aveva sfidata. Con i capelli biondi e lunghi che le ricadevano al di sotto delle spalle, e la tenacia di chi non tollera di sottostare ai ribelli. E quando il dolore l’avrebbe accompagnato nei suoi giorni più bui, avrebbe ripensato a quando i fatti erano stati più importanti delle parole, dell’imminente ondata mortale, ed erano rimasti solo loro due. Due anime pronte a sorreggersi. Due compagni pronti a proteggersi. Con le braccia strette intorno ai propri busti e le dita di Clarke incastrate tra di loro per permettere ai loro corpi di sostenersi, di amarsi.


E allora, solo allora, avrebbe potuto dar pace ai suoi tormenti.
   
 
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